Storia della più famosa dinastia italiana di giacchette nere, di padre in figlio.
I Lo Bello, Concetto e Rosario, sono i protagonisti di una storia vera incastonata nell’epoca più romantica del calcio italiano. Classe 1924 il primo, classe 1945 il secondo, padre e figlio con fischietto in bocca e un gesticolare perentorio.
Siracusani doc, allievi di una Sicilia illustre. Concetto, trasformato in autentica istituzione del nostro pallone, riscriverà di fatto il manuale dell’arbitro fermo e inappuntabile. Un Collina ante litteram precursore, vedi l’intervento alla Domenica Sportiva per ammettere un proprio errore di valutazione, temuto dai più sul rettangolo verde. La bellezza di 328 gare dirette in Serie A, oltre a una novantina di incontri in ambito internazionale tra club e selezioni nazionali. Dagli albori a cavallo tra anni ’50 e ’60 del secolo scorso fino all’ultimo ballo nel 1974, con la finale di Coppa Uefa tra Tottenham e Feyenoord.
Concetto indossa con stile inarrivabile i panni del direttore di contese senza timori reverenziali. E’ lui ad arbitrare duefinalissime di Coppa dei Campioni (Manchester United-Benfica del 1968 e Feyenoord-Celtic del 1970), un atto conclusivo della Coppa Intercontinentale tra Real Madrid e Peñarol, oltra alle finali di Coppa delle Fiere 1965-1966 e Coppa delle Coppe 1966-1967. Sul pluridecorato Curriculum pure match clou in Serie A come Bologna-Inter (spareggio scudetto stagione 1963-1964) o Cagliari-Juventus nel 1969-1970 che manderà in visibilio il popolo sardo con la vittoria del titolo di Riva e compagni. Sarà poi, nella vita al di fuori del calcio, figura politica e dirigente sportivo. Il 20 febbraio 1972, in diretta tv, fa una cosa del tutto imprevedibile all’epoca e anche oggi ammettendo l’errore nel rigore non concesso in Milan-Juventus per fallo di Morini su Bigon.
Eccoci a Rosario. Di padre in figlio si direbbe. Sì, frase questa che calza a pennello. L’altro Lo Bello magari non può vantare le vette toccate dall’adorato padre, ma resta uno dei fischietti più in voga degli anni ’80. In uno stivale pallonaro impreziosito da fuoriclasse del calibro di Maradona, Van Basten, Platini, Falcao e Rummenigge, Rosario si distingue e fa pure discutere. Basti pensare all’infuocato Verona-Milan al Bentegodi del 22 aprile 1990. Espulsi Sacchi, Van Basten, Rijkaard e Costacurta tra i rossoneri. Diavolo in furia. Hellas esultante per 2-1 e scudetto che finisce sul petto del Napoli. Sul taccuino da annotare trefinali di Coppa Italia e una miriade di big match di campionato (derby della Capitale, derby di Torino, Juventus-Roma, Inter-Napoli, Juventus-Milan e Napoli-Milan). Internazionale dal 1983, funge da guardalinee (arbitro Bergamo) nella finalissima degli Europei 1984 tra Francia e Portogallo.
L’incredibile stagione del Boemo nell'”altra” Puglia, 10 anni dopo la fine di Zemanlandia a Foggia
“Fore de capu” con il Lecce di Zeman. “Mambo salentino“, hit estiva firmata Amoroso-Boomdabash, riporta cuore e mente dei tifosi giallorossi a quella folle stagione 2004-2005 vissuta con il condottiero boemo al timone della truppa salentina.
E non poteva che riproporsi dalla PugliaZemanlandia, dopo l’epopea di Foggia, in tutto il suo fantasmagorico splendore. Libertà di agire al comando di un gruppo già forgiato al gioco spiccatamente offensivo da Delio Rossi nelle annate precedenti. Il mister di Praga torna quindi ad insegnare pallone come solo lui sa fare e, onestamente, come non avveniva da qualche tempo. Il 4-3-3 non è sindacabile e, fin dal principio della preparazione estiva, lo spogliatoio segue le direttive senza esitazioni. La partenza è degna del miglior Schumacher alla guida della Ferrari. Pari 2-2 a Bergamo all’esordio, roboante 4-1 in casa ai danni del Brescia alla seconda, altro 2-2 all’Olimpico con la Roma e successo 3-1 sul Cagliari al Via del Mare. A Verona contro il Chievo il primo tonfo, per poi ripartire di slancio con le vittorie su Palermo e Messina (entusiasmante l’1-4 sui peloritani), oltre all’ottimo punto strappato al cospetto dell’Inter.
Zemanlandia, si sa, è croce e delizia. In una stagione dai due volti, strepitoso girone di andata e seconda parte fisiologicamente più difficoltosa, spiccano in negativo le 73 reti subite (peggior retroguardia del torneo) e alcune batoste patite nell’arco del campionato. Dal rovinoso poker per mano della Fiorentina al Franchi, ai due netti scivoloni con la Sampdoria (1-4 in casa e 3-0 al Ferraris) passando per i 5-2 di San Siro col Milan e al Delle Alpi con la Juventus. Sole e tempesta, appunto. Lampi di fuochi d’artificio però illuminano il primo maggio 2005 con i salentini che annichiliscono 5-3 la malcapitata Lazio con i timbri di Dalla Bona, Vucinic (doppietta) e Diamoutene. Al culmine del campionato sarà undicesimo posto e salvezza più che tranquilla con lo scettro di secondo miglior attacco dietro la Juventus con la bellezza di 67 gol messi a segno. E in Coppa Italia? Montagne russe, che domande! I giallorossi infatti salutano la kermesse tricolore agli ottavi di finale. Nel doppio confronto contro l’Udinese di Luciano Spalletti, Ledesma e compagni capitolano tra le mura amiche 4-5 (con tanto di incredibile rigore parato dall’attaccante Di Michele a Vucinic all’ultimo minuto) ed espugnano inutilmente il Friuli per 3-4.
In quella indelebile annata singoli talenti brillano nel firmamento calcistico italiano. Cassetti sfreccia sul settore destro, l’uruguagio Giacomazzi dipinge trame esemplari tra mediana e trequarti, in avanti il tandem Vucinic-Bojinov fa impallidire le retroguardie avversarie. Il Luna Park del boemo è tornato al centro del villaggio ma l’avventura durò un solo anno, con la foschia di Calciopoli che portò Zeman ad abbandonare la panchina prima della fine dell’ultimo 3-3 col Parma. Come per il Foggia, i successivi ritorni in panchina non ripristinarono l’antica magia.
L’incredibile storia dei Bruno’s Magpies di Gibilterra, al secondo turno preliminare di Conference League
Dopo tre edizioni, le perplessità che molti hanno avuto sull’istituzione della Conference League sono state in parte smentite, in parte confermate. Una terza competizione Europea si è dimostrata un’ottima idea sul piano della partecipazione popolare, basti vedere la risposta di pubblico avuta negli stadi di Nazioni che col tempo erano finite tagliate fuori dal grande giro della Champions e dell’Europa League. Sul piano qualitativo, è stato invece inevitabile trovarsi di fronte a una competizione di terzo livello, come l’ultima finale tra Olympiakos e Fiorentina ha confermato sul piano del livello del gioco.
Per gli amanti di un certo tipo di calcio però, la Conference è già stata nell’ultimo triennio una vera e propria fucina di storia davvero particolari. L’anno scorso il KI Klaksvik è stata la prima squadra delle Far Oer a disputare una fase a gironi di una competizione UEFA e questa estate stanno arrivando risultati sorprendenti dalle squadre di San Marino: La Fiorita ha ottenuto contro i bielorussi dell’Isloch la prima vittoria europea della sua storia e affronterà nel secondo turno preliminare i turchi del Basaksehir, che hanno giocato recentemente la Champions League. La Virtus Acquaviva, dopo la storica sfida di Champions contro la Steaua Bucarest (ora FCSB) ha fermato sul pari gli estoni del Flora Tallinn e potrebbe puntare a uno storico accesso al terzo turno. Ma la storia più particolare di questa estate di Conference League arriva senza ombra di dubbio da Gibilterra.
Storia che parte da un pub chiamato “Da Bruno“, con Gibilterra che abbonda inevitabilmente di questo tipo di esercizi essendo discendente della cultura anglosassone. Pub che viene rilevato da un ragazzo di nome Louis: il “Bruno” del locale era probabilmente il vecchio esercente, resta di fatto che ora non c’è più. Al pub di Bruno però vengono a bere e a guardare calcio molti ragazzi, tanto che Louis si vanta del fatto che il locale sarebbe “l’unico posto che vale la pena visitare a Gibilterra“. Quantomeno per trovare un po’ di vita.
Un pub è il luogo ideale per socializzare e Louis fa amicizia con Mick, ragazzo inglese tifosissimo del Newcastle che si vanta dei suoi trascorsi da allenatore. Come accade in molti altri bar, pub o anche ristoranti del mondo, si decide di organizzare una squadra di calcio: per iscriverla ai campionati di Gibilterra bastano 500 sterline, il nome lo sceglie Mick ed è un omaggio alla sua squadra del cuore: nascono così i Bruno’s Magpies.
Louis Perry, proprietario del pub Bruno’s, diventa presidente del neonato club, mentre Mick Embleton, come detto, è l’allenatore. Nelle prime due stagioni i Bruno’s Magpies iniziano a distinguersi come la squadra degli expats inglesi a Gibilterra, mentre gli altri club hanno in maggioranza giocatori di origine spagnola tra le loro fila. Chi gioca con i Magpies ha birra a volontà come ingaggio, niente di più. Il ruolo di Mick è decisivo per organizzare una realtà del tutto amatoriale, poi nel 2016 il salto di qualità con l’ingaggio di David Wilson, allenatore dei Lions Gibraltar che giocano nella massima serie locale, che gli amici del pub di Bruno raggiungono per la prima volta nel 2019.
In pratica i Bruno’s Magpies sono la microrealtà di una microrealtà: a Gibilterra il campionato dal 2008 viene vinto invariabilmente dalla squadra più prestigiosa, il Lincoln Red Imps (che nel 2016 fece la storia battendo nel secondo turno preliminare di Champions League il Celtic Glasgow con un gol di Lee Casciaro) con qualche sporadica interruzione da parte dell’Europa FC. Queste due squadre sono le uniche ad affacciarsi nelle competizioni continentali ma l’istituzione della Conference League apre una porta in più nella quale i Magpies si inseriscono nel 2022 grazie al quarto posto in campionato e al primo trofeo della loro storia, la Rock Cup di Gibilterra vinta nel 2023 ai rigori proprio contro il Lincoln.
I Bruno’s Magpies chiudono al terzo posto il campionato 2023/24 e si ripresentano ai nastri di partenza della Conference League: qui arriva l’appuntamento con la storia. Nell’unico impianto omologato di Gibilterra, il Victoria’s Stadium, i Magpies (che per le competizioni europee su indicazione dell’UEFA omettono il nome del locale) hanno battuto 2-0 gli irlandesi del Derry City. Altra squadra dalla storia notevole visto che si tratta dell’unico club nordirlandese a giocare nel campionato della Repubblica d’Irlanda: la città della “Bloody Sunday” e di altri racconti purtroppo drammatici.
I marcatori sono stati il gallese Ash Taylor e il messicano Francisco Zuniga ma il gol della storia l’ha segnato nel match di ritorno del 18 luglio scorso Evan De Haro, nativo di Gibilterra e capace nei supplementari di insaccare il 2-1 decisivo, su tiro che, da distanza siderale, il numero 7 Juan Jesus aveva mandato a sbattere sulla traversa. E così per la prima volta una squadra di un pub, che fa riferimento a un locale di mescita e ristorazione, ha fatto strada in una competizione UEFA.
Non è la prima volta invece che Gibilterra avanza nelle Coppe: il Lincoln Red Imps in Champions perse 3-0 il ritorno contro il Celtic dopo la storica vittoria sopra citata, ma resta la prima squadra del luogo ad aver partecipato ad una fase a gironi, nella Conference League 2022/23, la prima edizione. Difficile che i Bruno’s Magpies riescano ad eguagliare questa impresa visto che nel secondo turno preliminare dovranno affrontare il Copenaghen: un regalo meraviglioso per i ragazzi del pub di Gibilterra, considerando che solo nel febbraio scorso il “Parken” è stato teatro della sfida degli ottavi di finale di Champions League tra i danesi e il Manchester City di Guardiola. Una passerella straordinaria da festeggiare al ritorno con qualche pinta di birra in più.
La storia del primo trasferimento milionario del calcio italiano, che portò per la prima volta una trattativa calcistica ad assumere tutti i contorni dello show business
105 milioni di lire per infiammare un popolo. Achille Lauro tanti ne sborsa nella calda estate del 1952 per portare a Napoli Hasse Jeppson. Una trattativa dai contorni cinematografici condita da aneddoti e leggende metropolitane tramandate nei decenni. Si è parlato di una valigia piena di banconote consegnate da ‘O Comandante al patron dell’Atalanta Turani nelle segrete stanze di un albergo in via Veneto a Roma, o precedentemente della medesima cifra scritta dall’armatore su un tovagliolo, dinanzi ad una tavola imbandita, per convincere il numero uno dei bergamaschi a cedere alle lusinghe partenopee.
A Lauro serviva un’operazione tecnico-mediatica strabiliante per consolidare la compagine azzurra nei piani nobili del calcio italiano e, soprattutto, per mettere in ghiaccio un potere politico sul territorio campano e meridionale corroborato da percentuali bulgare registrate nei vari appuntamenti elettorali. Achille, d’altronde, era pure un sagace editore e non poteva certo ignorare la rilevanza dei messaggi letti dalla popolazione su carta.
Jeppson era la punta che mancava al Napoli dell’epoca. Svedese di nascita, 1 metro e 80 di altezza, corre e segna in patria con la casacca del Djurgården (58 reti in 51 apparizioni). Atterra poi in Inghilterra, per motivi di studio e lavoro, dove viene ingaggiato dal Charlton Athletic. Tocca la doppia cifra di gol in sole 8 gare disputate, con la ciliegina di una pregevole tripletta all’Arsenal, e viene segnalato agli osservatori dell’Atalanta che non ci pensano su due volte assicurandosi le prestazioni di Hasse per la stagione ’51-’52. Il centravanti scandinavo è una macchina da guerra anche in Serie A dove trafigge i portieri avversari 27 volte in 22 presenze. A questo punto i tempi sono maturi all’ombra del Vesuvio.
E’ il momento. Achille fa carte false, smuove acque, ragiona, disegna mentalmente le mosse da compiere, infine agisce. Jeppson firma per un valore monstre paragonabile al bilancio del Banco di Napoli. Da qui la celebre frase ancora oggi scolpita nel mare e nel cielo del capoluogo campano. Lo svedese rimane a Napoli fino al 1956 tra alti e bassi, accese discussioni con Presidente e allenatori (in particolare non facile il rapporto con Monzeglio), mondanità e un rapporto di viscerale affetto intrecciato con il popolo partenopeo. Nel caratteristico e mai dimenticato stadio del Vomero “Arturo Collana” la tifoseria esulta e impreca nel giro di pochi istanti. Il folclore si mescola con i bollenti spiriti tipici della passione calcistica. “Uanema ‘e Jeppson” e “Mannaggia ‘a Jeppson!” sono affermazioni che spiegano meglio di ogni altra cosa il contesto misto tra teatro e sport di quel tempo.
Ottimo quarto posto comunque il primo anno con 14 gol messi a segno. Quinta piazza nel secondo con altri 20 centri a referto. Sesta posizione nel 1954-1955 con un rendimento meno roboante (10 marcature realizzate). Nell’ultima annata in azzurro, quella ’55-’56 Jeppson condivide il reparto offensivo con il talento brasiliano Luis Vinicio, appena arrivato dal Botafogo. ‘O Lione si scatena siglando 16 gol, mentre Hasse esulta in 8 circostanze. La squadra però, guidata in panchina prima da Monzeglio e poi da Amadei, archivia un difficile campionato al quattordicesimo posto. Un gruppo, impreziosito da due pedine di livello come Bruno “Petisso” Pesaola e Vitali, più che discreto ma evidentemente ancora non in grado di spiccare il volo.
La carriera agonistica dell’attaccante svedese dura solo un’altra stagione, 1956-1957, con la maglia del Torino. In granata torna ad assaporare la doppia cifra di reti strappando sovente standing ovation da parte del pubblico. Senza dimenticare ovviamente le valide prove con i colori della propria Nazionale (12 gol complessivi) e la partecipazione al Mondiale del 1950 chiuso al terzo gradino del podio.
Virtus-FCSB apre una nuova era per le squadre del Titano nelle Coppe Europee
Martedì 9 luglio la nuovissima e discussa Champions League, che culminerà con la fase a “campionato” considerata da molti un vero e proprio surrogato della Superlega, aprirà i battenti. Si giocheranno le gare del primo turno preliminare, un programma in cui spicca un appuntamento impossibile da non notare per gli appassionati di un certo tipo di calcio di “nicchia”.
Il cambio di formula infatti ha portato alla cancellazione di quel “preliminare del preliminare” che portava i club campioni nazionali degli ultimi quattro paesi del ranking UEFA a contendersi l’unico posto disponibile per il primo preliminare vero e proprio. Un ragionamento arzigogolato ma chi conosce la situazione sa di cosa stiamo parlando. Sul fondo del ranking, inevitabilmente, c’erano le squadre di San Marino che nella loro storia dunque hanno formalmente disputato sempre una sorta di anticamera della Champions, vivendo come un appuntamento prestigioso gli scontri con squadre nordirlandesi o armene.
Da quest’anno però, come detto, la musica cambia: tutte le squadre partono dall’inizio senza preamboli, nel lungo cammino verso la fase “a campionato” che l’anno scorso (quando si rincorrevano ancora ai gironi) ha portato ad esempio alla ribalta le imprese del KI Klaksvik, capace di eliminare club svedesi e ungheresi per poi accedere alla fine alla fase a gironi di Conference League, traguardo straordinario per un minuscolo club delle Far Oer.
Difficile pensare che per i campioni di San Marino possa succedere lo stesso, ma il sorteggio del primo turno preliminare della Champions League 2024/25 ha regalato comunque una grande soddisfazione agli appassionati del Titano. A Serravalle scenderà infatti in campo, martedì prossimi, l’FCSB, al secolo la Steaua Bucarest a sua volta colpita da un rocambolesco cambio di denominazione negli ultimi anni. Il 31 marzo 2017 il tribunale supremo della Romania ha accolto un ricorso del Ministero della Difesa, obbligando la società a rinunciare anche alla denominazione Steaua (riavocata all’esercito): la società ha cambiato dunque ufficialmente nome in Fotbal Club FCSB, continuando però ad utilizzare informalmente il nome di Steaua Bucarest (avallata in tal senso da UEFA e federcalcio rumena).
Al San Marino Stadium arriverà dunque per una partita ufficiale contro un club locale, per la prima volta nella storia, una squadra Campione d’Europa, con la Steaua che vinse lo storico titolo del 1986 a Siviglia contro il Barcellona grazie alle parate a ripetizione di Helmut Duckadam nella crudele lotteria dei calci di rigore. Ad affrontare la Steaua/FCSB, in maniera altrettanto suggestiva, sarà la Virtus del Castello di Acquaviva, reduce dalla conquista del suo primo Scudetto in assoluto a San Marino.
L’FCSB ha conquistato nella stagione appena trascorsa il suo ventisettesimotitolo di Romania e sembra voler compiere qualche passo verso il suo blasone perduto, considerando che dal 2018 non fa strada nelle Coppe Europee oltre le fasi preliminari (sedicesimi di Europa League persi contro la Lazio). Il punto però è che mai un avversario di tale blasone è sceso in campo a San Marino per un’impresa europea e il fatto che a vivere questo appuntamento sarà un’esordiente assoluta in Champions rende il tutto ancor più suggestivo.
Un’altra curiosità è legata alla presenza di Federico Piovaccari tra le fila della Virtus: il club sammarinese si è rinforzata con il bomber classe 1984, che a 40 anni si rimette in gioco sul palcoscenico della Champions League che ha già calcato proprio con la maglia della Steaua Bucarest, nella stagione 2013/14 che fu l’ultima per il club romeno con la storica denominazione. La Steaua raggiunse partendo dai preliminari la fase a gironi della massima competizione europea e Piovaccari giocò 12 partite segnando anche 4 gol. Ora ci riproverà giocando contro l’FCSB da avversario, con l’appuntamento di martedì 9 luglio 2024 alle ore 21.00 al San Marino Stadium che si preannuncia come la più importante sfida di club mai disputata da un club del Titano.
La storia che stiamo per raccontare finisce e comincia con un colpo di pistola: fuori da un campo da calcio e dentro una realtà difficile che undici uomini guidati da un allenatore di calcio speciale, un professore, avevano portato a un passo dal tetto del mondo. Con la conferma che le imprese eccezionali vengono compiute da persone in grado di piegare qualunque tipo di avversità.
Caldas non è una città. È uno dei 32 dipartimenti che formano la Colombia, nazione che va pazza per il fútbol alla stregua di tutte le realtà sudamericane. Gente semplice, di montagna, per la quale il calcio può rappresentare un riscatto sociale, per qualcuno l’unico in un tessuto sociale dove disoccupazione e violenza per le strade sono piaghe sempre aperte. Il capoluogo di Caldas è Manizales, poco meno di 400 mila abitanti e tante difficoltà da affrontare, su tutte una sismicità terribile, che ha portato però la cittadina di montagna, a oltre 2000 metri sul mare, a diventare un avamposto dell’edilizia antisismica. Realtà difficile e logisticamente penalizzata, Manizales vive per l’orgoglio legato alla squadra di calcio locale: l’Once Caldas, che rappresenta con il nome del dipartimento tutto il territorio e che vive della gloria degli anni Cinquanta, quando l’Once Deportivo e il Deportes Caldas unirono le loro forze: da quell’esperienza il club ha ereditato il primo titolo nazionale che appare nella sua bacheca.
Difficile competere con le grandi storiche del calcio colombiano, ma alla fine degli anni Novanta qualcosa inizia a cambiare: nel 1998 l’Once Caldas sfiora il titolo Nazionale, perduto contro il Deportivo Calì, e fa il suo esordio in Copa Libertadores, la Champions League sudamericana. Manca qualcosa e come spesso accade, non solo nel calcio, il profetanon si trova in patria, anche se sulla sua provenienza c’è una prima clamorosa coincidenza per la nostra storia. A Medellín, 210 chilometri da Manizales ma a cinque ore di strada visto il tortuoso sentiero di montagna che separa le due città, il prestigioso Atletico Nacional (se lo ricordano bene i tifosi del Milan: erano loro gli avversari a Tokyo quando René Higuita fu bucato da una punizione di Chicco Evani che portò i rossoneri di Sacchi sul tetto del mondo) ha un allenatorediverso in panchina. Classe 1967, arriva in prima squadra dopo una lunga trafila nelle giovanili. Si chiama Luis Fernando Montoya e ha due particolarità: avrebbe potuto diventare un calciatore di talento, ma ha preferito continuare gli studi per aiutare economicamente la famiglia. Questo gli è valso l’acquisizione di modi gentili e colti che l’hanno subito portato ad avere un soprannome, El Profesor, divenuto rapidamente El Profe per brevità. La seconda è che il Profesor è nativo del distretto di Antioquia, quello che ha Medellín come capoluogo, ma incredibilmente viene da una città che si chiama… Caldas. Segno del destino?
Lo avrà pensato probabilmente anche lui quando l’Once lo chiama per tentare quella scalata al titolo mai riuscita al club «unificato» di Manizales. El Profe è fresco del secondo posto nel campionato colombiano con una squadra che comprendeva Milton Patiño, Juan Carlos Ramírez, Freddy Totono Grisales, Iván Champeta Velásquez, Faustino Asprilla: stelle della Nazionale, mentre l’Once è provincia pura del calcio della Cordigliera: la gente mastica e sputa tabacco e guarda inizialmente con diffidenza l’uomo di Caldas che viene da fuori Caldas.
Nessuno pensa che Montoya possa diventare il miglior allenatore del Paese: nel 2003 El Profesor chiama a raccolta Juan Carlos Henao, Samuel Vanegas, Elkin Soto, Arnulfo Valentierra, Sergio Galván Rey, Dayro Moreno: una generazione nuova che non ha nulla a che fare con la Colombia di Francisco Maturana, che a Italia ’90 e USA ’94 partì addirittura col sogno di conquistare il titolo mondiale. Gente nuova, idee nuove e le strade di Manizales sono in festa per la conquista del secondo titolo nazionale della storia del club. Il calcio di Montoya ha principiprecisi: chi governa lo spazio in campo governa la partita, e quindi al talento dei funamboli sudamericani deve aggiungersi una feroce applicazione all’europea. Fantasia e sacrificio nel fútbol possono andare a braccetto, una terza via che da quelle parti forse non avevano mai provato: conosce i classici della letteratura ma divora le partite del Milan di Sacchi e del Barcellona di Cruijff, i giocatori con lui possono parlare e si convincono di essere in grado di fare qualsiasi cosa.
Basterebbe il titolo nazionale a Manizales, ma Montoya ha un’idea folle: la Libertadores, che ne dite della Libertadores? I dirigenti del club si limitano a dargli del pazzo, ma dentro di loro pensano di avere a che fare con un eretico: è già stato sacrilego disarcionare per una stagione le grandi del calcio colombiano, figurarsi fare lo sgambetto a brasiliani e argentini in campo internazionale. El Profe se la ride sotto i baffi: certo, servirebbe un sorteggio un po’ fortunato per far prendere le misure ai suoi ragazzi fuori dalla Colombia, abituarsi ai viaggi, capire la competizione. Sì, il girone è agevole. Si comincia a fare sul serio agli ottavi di finale, ma l’Once Caldas è troppo forte anche per gli ecuadoriani del Barcelona di Guayaquil.
Ai quarti la prima grande impresa: fuori il Santos di Robinho, Diego ed Elano con un leggendario gol su punizione di Valentierra al Palogrande, il catino da 40 mila posti dell’Once Caldas. I gol di Herly Alcázar e Jorge Agudelo fanno fuori il San Paolo in semifinale: doppio scalpo brasiliano per arrivare a quella che sembra una montagna troppo alta da scalare. Il Boca Juniors di Carlos Bianchi, che ha ripreso a vincere dopo la surreale parentesi alla Roma, è campione del Sud America e del mondo in carica: ai rigori ha battuto il Milan di Ancelotti. Montoya parla ai suoi con la pazienza del Professore: “Gli argentini sanno tutto di questa competizione, di queste partite, noi niente. Possiamo fare il nostro gioco e farci fregare alla prima distrazione, oppure possiamo annullarci a vicenda e provare a vincerla, questa coppa“. 0-0 alla Bombonera, 1-1 nel match di ritorno, il 1 luglio 2004 al Palogrande: a Manizales tutti col fiato sospeso per i calci di rigore. L’Once ne segna due su quattro, il Boca nessuno, con Bianchi che non porta neanche i suoi a ritirare la medaglia d’argento: il vecchio squalo non può tollerare che i nervi dal dischetto siano saltati ai suoi e non ai pivelli. Manizales esplode di gioia, l’Once Caldas è la seconda squadra colombianacampione del Sud America nella storia, El Profesor ha compiuto un’impresa incredibile.
Il 2 luglio 2004 gli inservienti stanno ancora spazzando, a mattino inoltrato, le tribune del Palogrande. Squilla il telefono negli uffici, la telefonata arriva da Bogotà, il piano della federazione è chiaro: l’Once Caldas deve mettere a disposizione Montoya per la Nazionale colombiana. Un passo inevitabile per un allenatore che ha portato una cittadina di provincia e di montagna a diventare campione continentale. Montoya però chiede tempo: c’è ancora un obiettivo da raggiungere. Dall’altra parte del mondo si è consumato infatti un altro successo a sorpresa: il Porto di un giovane, irriverente allenatore, José Mourinho, è passato davanti al Manchester United di Ferguson, alla Juve di Capello, al Real Madrid dei Galacticos e ha vinto la Champions League. Le due sorprese il 12 dicembre 2004 si affrontano a Yokohama per la Coppa Intercontinentale e il titolo di campione del mondo per club. Mourinho nel frattempo sulla panchina del Porto non c’è più, avendo ceduto alle lusinghe della Premier League e del Chelsea. El Profesor è invece al suo posto, come sempre. La partita è a scacchi e si va di nuovo ai rigori, ma stavolta (quasi) tutti segnano. L’Once Caldas sbaglia con JonathanFabbro, che vede schiantarsi sul palo le speranze di un’intera nazione: mai una squadra colombiana era arrivata così vicina al titolo mondiale. L’Once Caldas viene accolto al ritorno a Manizales con un tripudio, ma tutta la Colombia si è innamorata di El Blanco, come viene soprannominata la squadra. Il ciclo però sembra destinato a finire, con Montoya corteggiato da tutto il Sud America ma in procinto di accettare la guida della Nazionale.
Abbiamo però detto che questa storia finisce e comincia, contemporaneamente, con un colpo di pistola. Il 22 dicembre 2004 El Profesor si appresta a passare il Natale in famiglia, appena tornato dalla finale di Yokohama. Attende sotto casa la moglie Adriana Herrera che ha prelevato denaro da un bancomat, prima di andare a cena, ma si accorge che degli uomini accelerano il passo dietro di lei, per aggredirla e rapinarla: Montoya interviene e un proiettile lo colpisce alla colonna vertebrale. La Colombia passa il Natale del 2004 sotto choc: il suo miglior allenatore è in fin di vita e i chirurghi lo operano per ore per salvargli la vita. Ci riescono, anche se la prognosi è terribile: El Profesor resta tetraplegico, immobilizzato in un letto, gambe e braccia sono fuori uso per sempre. Gli aggressori vengono individuati e quasi piagnucolano davanti alla polizia dopo aver scoperto chi è la loro vittima: una scena surreale che non li risparmierà da una durissima condanna.
La Colombia piange, ma l’eccezionalità di Montoya sta di nuovo per emergere in maniera incredibile. Il corpo è stato offeso ma la mente è sempre quella, il dolore della riabilitazione viene superato con una tenacia senza pari. El Profesor ha raccontato di quei giorni: “Ho dovuto dare l’esempio a mio figlio che, anche se stavo attraversando un momento difficile, non potevo arrendermi. Ho passato momenti molto complicati e questo mi ha rafforzato mentalmente. Penso di essere stato preparato in anticipo a ciò che stava arrivando“. La preparazione è l’insegnamento di vita che Montoya non mancava di dare ai suoi giocatori, forgiato dagli anni di studio e di lavoro con ragazzini del settore giovanile strappati alla strada: «Siamo capaci di superare tutto se ci mettiamo in testa di farlo».
Adriana è una figura centrale nella ripresa del Profesor. Montoya la conosce da quando era bambino, ma si sono fidanzati solo a ventisei anni: da allora non si sono più lasciati, con Adriana che l’ha seguito sui campi di tutto il mondo. Una storia d’amore meravigliosa. Non può di certo abbandonarlo nella sua sfida più difficile, così come il figlio José Fernando, che nel 2004 ha solo tre anni. A tutt’oggi El Profesor lavora dalle quattro alle cinque ore al giorno con il fisioterapista. “La cosa più importante è la perseveranza, perseverare affinché un giorno io possa muovere le braccia per abbracciare di nuovo mio figlio, sarebbe più bello di qualunque coppa alzata al cielo“.
A quello di El Profesor si è aggiunto un altro soprannome per Montoya, campeón de la vida: il suo recupero è stato giudicato miracoloso dai medici tanto quanto la conquista della Libertadores da parte dell’Once Caldas. Pep Guardiola, Jürgen Klopp, José Mourinho, Diego Simeone, Marcelo Bielsa e Hans-Dieter Flick sono i suoi allenatori preferiti, quelli con cui continua a relazionarsi e a lavorare. Ha ricevuto il premio come migliorallenatore del Sud America, un riconoscimento ottenuto solo da altri tre tecnici colombiani nella storia: Francisco Maturana (1993), Hernán Darío Gómez (1996) e Reinaldo Rueda (2016). Anche dalla sedia a rotelle, l’occhio sul calcio e sulla vita del Profesor è quello di sempre. Nella sua ultima intervista ha raccontato: «Mi è sempre piaciuto il buon calcio, all’Once Caldas non avevo grande ricchezza tecnica e ho dovuto adattarmi». Un’attitudine che probabilmente lo ha salvato: vincere oltre ogni pronostico. E al mondo in difficoltà, nel 2020, ha ricordato la sua ricetta per i tempi difficili: “La pandemia è come una partita di calcio, la chiave sta nell’impegno che si mette e nella responsabilità verso se stessi e verso chi ci circonda. Prendiamoci cura di noi stessi, sempre“.
I 10 stadi più grandi del mondo: andiamo a scoprirli! Torniamo ad occuparci di stadi, nei capitoli precedenti abbiamo passato in rassegna le caratteristiche particolari di impianti nazionali e internazionali, stavolta ci dedicheremo agli stadi dalla capienza ufficiale più ampia. Da sottolineare che abbiamo tenuto in considerazione solo le strutture in cui si disputano ufficialmente partite di calcio, lasciando da parte impianti che sarebbero entrati in classifica ma che sono dedicati esclusivamente ad altri sport che pure vantano grande seguito, come il cricket o il football americano. Ecco dunque la classifica dei 10 stadi più grandi del mondo.
Tra i 10 stadi più grandi del mondo troveremo alcuni templi in cui si sono disputate finali di Coppa del mondo, come il Soccer City di Johannesburg e il leggendario Azteca di Città del Messico. Senza dimenticare il Camp Nou, vero e proprio monumento a cielo aperto di Barcellona. Ma non vanno dimenticate anche strutture che rappresentano la voglia di crescita del nuovo mondo calcistico, come gli stadi ad Alessandria d’Egitto oppure quello a Giacarta, che hanno visto già disputare finali di competizioni internazionali in attesa di veder crescere le nazionali locali per arrivare ai massimi livelli del football.
I 10 stadi più grandi del mondo riservano però anche sorprese soprattutto in quello che sarà il podio di questa speciale classifica, che riserverà le posizioni più alte a Nazioni che non fanno propriamente parte dell’aristocrazia calcistica mondiale ma che hanno ben chiaro il concetto di “stadio polifunzionale” che ha portato a veri e propri pienoni da guinness dei primati. Non ti resta dunque che scoprire quale sarà lo stadio più grande del mondo?
10) Borg El Arab, Alessandria d’Egitto
Da tempo l’Egitto aspira a ospitare i Mondiali di calcio e questo impianto, diventato il più grande di tutta la nazione e il secondo più grande d’Africa con i suoi 86.000 spettatori di capienza, è stato approntato per i Mondiali Under 20 del 2009, realizzato per alternare anche le partite della Nazionale egiziana con la Capitale Il Cairo. lo stadio è stato progettato e costruito interamente dal Corpo degli Ingegneri delle forze armate egiziane.
9) Gelora Bung Karno Stadium, Giacarta
Dal 1962 a oggi l’impianto in Indonesia è stato più volte rimodernato fino a farlo diventare, con i suoi attuali 88.083 spettatori di capienza, il più grande stadio del Sud-Est asiatico. Il Persija Jakarta è la squadra locale che sfrutta l’impianto oltre naturalmente alla Nazionale di calcio dell’Indonesia, oltre agli eventi internazionali ospitati localmente come la Coppa d’Asia (da ricordare la storica finale del 2007 in cui l’Iraq a sorpresa riuscì a vincere contro l’Arabia Saudita). Il nome si ispira al primo presidente dell’indonesia, Sukarno.
8) Wembley Stadium, Londra
Un colpo al cuore non vedere più il vecchio Wembley, quello della finale del 1966 e delle foto che, anno dopo anno, vedevano la Regina Elisabetta consegnare la FA Cup nelle mani del capitano vincitore della Coppa d’Inghilterra. Il flash più recedente dei tempi moderni resta l’Italia che trionfa nell’impianto completamente rinnovato, in occasione degli Europei del 2021. Il simbolo dello stadio, che una volta erano le leggendarie twin towers, è ora l’aerodinamico arco d’acciaio che sovrasta la North Stand, con la capienza ufficialmente fissata a 90.000 spettatori.
7) Rose Bowl, Pasadena
Un nome che ai tifosi italiani fa subito venire in mente, purtroppo, il rigore di Roberto Baggio contro il Brasile e in generale l’amaro epilogo dei Mondiali del 1994, terminati a un passo dal sogno con la sconfitta in finale dagli undici metri per gli azzurri. Il Rose Bowl era il fiore all’occhiello dell’organizzazione americana del Mondiale, che tornerà ad ospitare partite della Coppa del Mondo nell’edizione United 2026 che coinvolgerà tutto il Nordamerica. 92.542 spettatori per uno stadio che in patria è riconosciuto ufficialmente con lo status di monumento storico e che è stato costruito nel 1922, vivendo innumerevoli ristrutturazioni che l’hanno reso uno degli impianti più moderni del pianeta.
6) FNB Stadium, Johannesburg
La sede della finale Mondiale del 2010 tra Spagna e Olanda. Il nome ufficiale richiama allo sponsor, appunto la First National Bank, anche se informalmente viene chiamato Soccer City e soprattutto “La Pentolaccia”, traduzione del termine The Calabash che indica una pentola usata nella cucina tipica africana. Casa delle partite interne dei Kaizer Chiefs, club di culto nel mondo del calcio e anche della Nazionale di Rugby che vanta un seguito enorme in Sudafrica, la capienza ufficiale è fissata a 94.736 spettatori.
5) Azadi Stadium, Tehran
Costruito all’inizio degli anni ’70 per i giochi asiatici, oltre a essere casa di uno dei derby calcistici più infuocati del mondo, quello tra l’Esteghlal e il Persepolis, l’Azadi ha ospitato alcuni match leggendari della nazionale iraniana, con 120.000 tifosi stipati all’interno per sospingere la nazionale persiana alla qualificazione a Francia ’98 nello spareggio contro l’Australia. Attualmente la capienza è fissata a 95.225 posti, capienza ridotta dopo i gravi incidenti dovuti a un cedimento strutturale nel 2005, in un match tra l’Iran e il Giappone.
4) Azteca, Città del Messico
Un’altra leggenda del calcio mondiale, dagli oltre 100.000 spettatori degli anni ’70 si è arrivati agli attuali 98.500, in un impianto che ha ospitato due finali dei Mondiali, oltre alla leggendaria semifinale del 1970 tra Italia e Germania Ovest che ha portato ad apporre una targa con su scritto: qui si è giocata la partita del secolo. Tempio della Nazionale messicana, è comunque la casa di due club di Città del Messico, il Cruz Azul e l’America.
3) Camp Nou, Barcellona
Un vero e proprio tempio del calcio mondiale, 99.354 spettatori di capienza per l’impianto che ha scritto la leggenda del Barcellona, numero che si riduce un po’ per le misure di sicurezza durante le partite delle competizioni UEFA. I 100.000 del Camp Nou hanno assistito a partite leggendarie non solo della squadra locale, considerando che l’impianto ha ospitato 2 finali di Coppa dei Campioni e match degli Europei del 1964, dei Mondiali del 1982 e delle Olimpiadi del 1992. Ad eccezione di una tribuna è uno dei pochi impianti scoperti di questa stazza, approfittando della scarsità di precipitazioni nella città catalana.
2) Cricket Ground, Melbourne
100 032 spettatori per il più capiente stadio dell’Emisfero Sud, in Australia. Impianto multifunzionale, viene utilizzato com suggerisce il nome per il cricket che è sport di enorme popolarità locale ma l’Australia vi ha disputato anche diverse partite di qualificazione ai Mondiali, anche se spesso i “socceroos” preferiscono impianti più piccoli per giovarsi meglio della spinta del tifo. Negli anni ’70 e ’80 il Cricket Ground ha ospitato anche eventi con circa 130.000 spettatori, come le finali del campionato di football australiano, per poi vedere ridotta la capienza dopo le moderne ristrutturazioni.
1) Rungrado May Day Stadium, Pyongyang
Lo stadio più grande in assoluto si trova in Corea del Nord. Prende il nome da Rungra Island, dove sorge a Pyongyang, capitale dello stato dove il regime locale, ancora ai tempi di Kim Il Sung, il 1 maggio del 1980 ha voluto inaugurare un mastodontico impianto che ancora oggi può ospitare ben 150.000 spettatori. Tutto esaurito che di solito si ottiene durante feste nazionali o parate militari, più bassa l’affluenza per le partite della Nazionale della Corea del Nord, che utilizza l’impianto per i match più importanti. Il perimetro esterno è costituito da 16 grandi arcate, che fanno assomigliare la struttura a un fiore di magnolia e la capienza è stata confermata con il suo ingresso nel Guinness World of Record.
Correva l’estate 1980, quando la Lazio fu ingiustamente ed inopinatamente sbattuta in Serie B dalla CAF, nell’ambito del primo processo sportivo sul calcioscommesse. Inopinatamente, perché in primo grado la società biancazzurra era stata prosciolta dalle accuse della Procura Federale. Ingiustamente, perché a livello sportivo non fu riscontrato alcun coinvolgimento diretto del Presidente Umberto Lenzini e/o di altri dirigenti societari ed a livello penale nel successivo processo risultarono tutti assolti con formula piena.
Fu un duro colpo per la prima squadra della capitale. Retrocessa sotto la scure della giustizia sportiva, con tutto il suo bagaglio di nobiltà. A soltanto sei anni di distanza dalla conquista del titolo di Campione d’Italia e con l’aggravante della squalifica dei gioielli di famiglia, Giordano e Manfredonia, su cui tutto l’ambiente contava per rinverdire in fretta i fasti del recente passato.
L’ambiente rimase totalmente sotto shock, soltanto chi visse quei momenti sa quel che provarono i veri laziali. La società non si perse d’animo, tuttavia, il Sor Umberto passò la mano al fratello Aldo ed intorno ad Alberto Bigon fu costruita una squadra in grado di risalire subito in Serie A. Nel 1980/81 la Lazio disputò un grande campionato, ma l’immediata promozione s’infranse alla penultima giornata su un maledettissimo palo centrato da Stefano Chiodi su rigore, al suo primo errore dal dischetto, in un Lazio-Vicenza che lasciò l’Olimpico letteralmente basito. Ma al peggio, si sa, non c’è mai fine.
Nella stagione successiva la Lazio si presentò ai nastri di partenza con rinnovate ambizioni di massima serie. Sotto la guida tecnica di Ilario Castagner, confermato nonostante la delusione della stagione precedente, e capitanata da un grande Vincenzo D’Amico, rientrato alla base dopo un anno di prestito al Torino, La Lazio cominciò il suo secondo anno di purgatorio cadetto in maniera abbastanza convincente e positiva. Cali di concentrazione, prestazioni indicibili ed uno spogliatoio perennemente in contrasto, però, allontanarono ben presto i biancazzurri dai sogni di gloria.
Fu così che pur partita con propositi ambiziosi, la Lazio si ritrovò suo malgrado invischiata nelle zone basse della classifica ed a dover lottare addirittura per non retrocedere. Tutto questo senza che società, squadra e tifoseria quasi se ne accorgessero. Noblesse oblige. Tutto l’universo biancazzurro visse quei momenti senza la giusta contezza e la dovuta consapevolezza. La mente era rivolta in parte al passato, alla sconcertante retrocessione subita “a tavolino” due anni prima ed alla cocente mancata promozione della stagione precedente. In parte al futuro, perché il campionato in corso frustrò ben presto ogni ambizione di Serie A e allora tutti cominciarono già a pensare alla rivalsa da prendersi l’anno successivo. Eppure c’era una competizione in corso e la classifica si faceva sempre più preoccupante. Per destare l’ambiente serviva una forte scossa, poi arrivata con l’esonero del pur bravo Castagner e l’affidamento della prima squadra a Roberto Clagluna, che frattanto stava ottenendo ottimi risultati con le giovanili.
Alla penultima giornata la situazione però si fece incredibilmente drammatica. Allo Stadio Olimpico si presentò il Varese, in piena lotta per la promozione. Mentre la Lazio, reduce da tre sconfitte consecutive, avrebbe dovuto assolutamente far propri match e punti per lasciarsi alle spalle la zona retrocessione. Dopo neanche un quarto d’ora, tuttavia, i varesotti si ritrovarono in vantaggio per 2-0. Per i biancazzurri d’improvviso il baratro della Serie C sembrò inevitabile. Fu a quel punto che un immenso Vincenzo D’Amico prese per mano la squadra, cominciò a lottare come un leone per la “sua” Lazio e da vera bandiera la condusse prima al pareggio e poi alla vittoria finale scacciaincubi.
Era il 6 giugno 1982. Quando oramai tutti sembravano rassegnati al peggio, salì in cattedra proprio lui, Vincenzo D’Amico, il Golden Boy della Banda ’74, che segnò una tripletta fenomenale, ribaltò una partita che sembrava segnata, assicurò la matematica salvezza alla Lazio e le consentì di gettare le basi per risorgere dalle ceneri in cui l’ingrato destino l’aveva gettata.
Ci troviamo probabilmente di fronte alla storia della più grande impresa compiuta da un portiere in una finale di Champions League, allora ancora Coppa dei Campioni. Nessun estremo difensore nella storia è mai riuscito a parare tutti i tiri dal dischetto in una finale conclusa ai calci di rigore: a fare 4 su 4 fu una vera icona del calcio dell’Est, di cui si persero quasi completamente le tracce dopo la notte da eroe vissuta a Siviglia, il 7 maggio 1986. Stiamo parlando di Helmuth Duckadam: tra psicologia e leggenda.
Helmut Duckadam fu lo storico portiere della Steaua Bucarest degli anni 80, la prima squadra dell’Est Europa che riuscì a vincere il più ambito trofeo calcistico continentale, la Coppa dei Campioni. La Steaua 1986 fu l’orgoglio della Romania di Ceausescu, che riuscì in un’impresa che nel calcio dell’Est non fu mai completata né dai maestri sovietici, nonostante la Dinamo Kiev del Colonnello Lobanovski dettasse legge in quegli anni, e che fu raggiunta solo 5 anni dopo dai brasiliani d’Europa, gli jugoslavi, con la Stella Rossa del 1991.
Duckadam arriva all’appuntamento della notte più importante della sua carriera da perfetto sconosciuto del calcio europeo: della Steaua si conoscono la classe di Belodedici, la forza di un attaccante come Lacatus e poco altro. Nato in Transilvania, Duckadam sembra un personaggio del castello del conte Dracula: alto, imponente e baffuto, abbia alla prestanza fisica un’agilità non comunque alla sua stazza. Esplode calcisticamente nell’UT Arad, poi come tutti i calciatori migliori del Paese finisce alla Steaua, gestita direttamente dai figli di Ceausescu. In Nazionale è chiuso da Silviu Lung, storico portiere dell’Universitatea Craiova, ma in quegli anni tutti pensano che sia Duckadam il migliore.
La Steaua si trova a disputare il 7 maggio 1986 una delle finali di Coppa dei Campioni più strane della storia. Si gioca a Siviglia contro il Barcellona che si gioca in una notte mezzo secolo di complessi rispetto al Real Madrid. I catalani hanno raggiunto la finale vincendo una tiratissima sfida ai rigori contro il Goteborg e sono strafavoriti contro i rumeni. L’allenatore inglese del Barca, Terry Venables, fiuta la trappola: con tanti catalani in campo e uno stadio esaurito con 69700 spettatori del Barcellona e 300 romeni, le gambe tremano ma il tecnico viene tradito proprio dai suoi pretoriani fatti arrivare dall’esterno per vincere in europa: sono impalpabili lo scozzese Steve Archibald ma soprattutto il tedesco Bernd Schuster, fuoriclasse dal carattere difficile che non giocò mai un Mondiale per le liti con i compagni di squadra della Germania Ovest. Al momento della sua sostituzione a 5′ dal novantesimo, Schuster uscì dal campo, andò dritto negli spogliatoi a farsi una doccia, chiamò un taxi e si vide i rigori in televisione a casa sua.
In quanto a stranezze, la Steaua non fu da meno e la finale del 1986 fu la prima che vide un allenatore, Emerich Jenei, mandare in campo il suo vice, Angel Iordanescu. Ufficilalemtne in rosa e futuro CT della Nazionale romena, Iordanescu non giocava da due anni e studiava da allenatore al fianco di Jenei. Ma la sua classe aiutò a spaventare definitivamente il Barcellona. Si andò ai rigori, e qui Duckadam divenne il protagonista assoluto.
I primi quattro tentativi vanno tutti male: Urruti, il portiere basco del Barcellona, è un noto pararigori e neutralizza i primi tentativi di Majearu e Boloni. Dall’altra parte però, Duckadam fa lo stesso contro il capitano Alexanco e Pedraza. “Il primo rigore è sempre il più difficile,” spiegò anni dopo Duckadam raccontando la sua impresa. “Parato quello, ho giocato con il cervello degli avversari: sapevo che Pedraza avrebbe pensato che avrei cambiato angolo, perché Urruti l’aveva fatto e ne aveva parati 2 su 2, così mi sono ributtato a destra”. Il terzo rigore dello Steaua lo tira Lacatus, di potenza, senza pensare, e il pallone finalmente entra. Poi tocca all’eroe della semifinale col Goteborg, Pichi Alonso, e Duckadam si ributta a destra, sicuro che l’avversario avrebbe pensato che stavolta avrebbe cambiato. Quasi blocca il pallone, poi Balint mette dentro il 2-0 e su Marcos Alonso (padre dell’attuale giocatore del Chelsea, ex Fiorentina), Duckadam si sente ormai onnipotente. Basta una lieve finta a destra, stavolta Alonso tira a sinistra ma il portiere ha tutto il tempo di cambiare e di firmare una delle più grandi sorprese della storia del calcio europeo.
La Steaua è campione d’Europa per Duckadam sembra l’inizio di una carriera internazionale luminosa, anche se la Romania non sarà tra le Nazionali che andrà in Messico per i Mondiali del 1986. Nel giro di pochi mesi, nessuno saprà invece più che fine avrà fatto Duckadam: nasce una leggenda inquietante, Valentin Ceausescu gli avrebbe fatto spezzare le mani per non aver consegnato un’automobile ricevuta in regalo da uno sponsor per l’impresa compiuta a Siviglia. Una punizione atroce, che l’avrebbe costretto a ritirarsi, ma smentita dallo stesso Duckadam, ricomparso quasi trent’anni dopo la finale del 1986 come ambasciatore UEFA, in un’intervista:
“In caso di vittoria della Coppa dei Campioni ci era stato promesso un grande premio dall’esercito, ma quando fummo ricevuti da Ceausescu l’accoglienza fu fredda. Il regime era già in crisi e il calcio non avrebbe aiutato certo la propaganda. Ma non è assolutamente vero che venni aggredito o che vennero a rompermi le braccia: proprio perché il dissenso politico in Romania era ormai grande, si sarebbe venuto facilmente a sapere. L’unico tiro mancino che ci fece il regime fu di rimangiarsi il premio per la vittoria, consegnandoci solo delle auto usate, alcune assemblate addirittura da componenti militari dismessi. Smisi di giocare perché pochi mesi dopo la finale in una partita finii all’ospedale a causa di un dolore lancinante al braccio, di origine sconosciuta. Gli esami evidenziarono un aneurisma arterioso periferico, una rara forma di trombosi. Non persi il braccio per miracolo, provai a tornare a giocare a casa all’Arad, ma non potevo più fare il professionista.” E così nella notte di Siviglia il tempo della vita da calciatore di Duckadam si fermò per sempre.
“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.
Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.
A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.
Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.
Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.
La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.
Educare nel calcio. Oggi sembra una favola utopistica. Una volta, invece, questa affermazione corrispondeva ad una naturale consuetudine. La figura di Luciano Tessari incarna al meglio tale concetto. Educatore prima di ogni altra cosa. Simbolo capace di intrecciare un rapporto fraterno e costruttivo con i propri giocatori. Nella veste di fedele assistente di Nils Liedholm scriverà pagine gloriose tra Milan e Roma.
Nato a San Martino Buon Albergo nel settembre del 1928, compie una carriera da portiere più che soddisfacente. Verona, Roma, Fiorentina e Palermo le tappe principali. Dotato di un Fisico scultoreo e roccioso indossa i guantoni fino al 1958 quando, a 31 anni, opta per il ritiro dall’agonismo. Il calcio, però, rimane nella quotidianità di Luciano. Inizia così il percorso da allenatore all’alba degli anni sessanta. Per tre stagioni accetta e traghetta con lodevoli risultati le formazioni giovanili del Milan. Nel 1964-1965 giunge il trionfo nel torneo Primavera. Di lì a poco si aprirà la proficua e profonda collaborazione con mister Nils Liedholm. Al fianco del barone svedese sarà prima il coach dei portieri dal ’65 al ’67 per poi allestire la sceneggiatura dell’epopea romanista negli anni ottanta.
Cortese, sobrio, mai sopra le righe. Tessari trova subito l’amalgama giusta con i suoi allievi. Da tecnico titolare, in realtà, la sua carriera non esplode mai definitivamente. Verrà chiamato soprattutto in situazioni di emergenza, come nel caso della Roma nel ’71 in luogo di Helenio Herrera (quando operava nelle compagini del vivaio capitolino) e del Latina dopo altre due stagioni (in sostituzione di Rosa). Nella complessa esperienza in terra pontina, però, trova spazio un rampante Alessandro “Spillo” Altobelli con 7 reti in 28 gettoni.
Le comprovate doti umane vengono alla luce successivamente al timone delle rappresentative giovanili dell’Almas Roma e del Comitato Regionale Lazio. Questo curriculum permette a Tessari di stimolare ancora le attenzioni di Liedholm che lo richiama per un posto da allenatore in seconda di nuovo al Milan. Il tandem in panchina lavora con sagacia portando in serbo il decimo scudetto della storia rossonera, quello della stella. Gianni Rivera, ormai veterano, è l’emblema di quella squadra.
Il Nord al comando del calcio italiano. Le corazzate del Centro-Sud sembrano in netto e colpevole ritardo. Al fine di smentire queste malelingue il Presidente della Roma Dino Viola chiede espressamente a Tessari di porre in essere un’opera di convincimento rivolta allo stesso Liedholm. Le nozze sportive si celebrano nell’estate del 1979. Cinque lunghe annate piene di emozioni. Splendido lo scudetto del 1983 con il maestro Falcao ad orchestrare una formazione davvero eccezionale. Capitan Di Bartolomei, Pietro Vierchowod, Sebino Nela, Carlo Ancelotti, il bomber Pruzzo ed altri strepitosi interpreti. Uniti, coesi e allevati da due padri professionali come Nils e Luciano. La bacheca si riempie anche con quattro successi in Coppa Italia. Unica sconfitta che, ancora oggi, brucia nel cuore e nelle vene dei giallorossi è quella patita nella finale di Coppa Campioni nel 1984 giocata proprio nel teatro dello stadio Olimpico. Il legame tra capo e vice ormai è indissolubile. Il Milan di Giussy Farina, ai titoli di coda come patron, richiama al vecchio amore il mister svedese. Tessari segue il maestro con profonda e sincera devozione. Tre apprezzabili stagioni, anche se con una rosa in tono minore rispetto al passato ed al fantasmagorico futuro targato Berlusconi.
Tessari non è stato un semplice assistant coach. Note a tutti le sue minuziose relazioni sui talenti scovati in giro per l’Italia e per l’Europa. Basti pensare ai profili stilati su Carlo Ancelotti (ai tempi del Parma) e sul brasiliano Falcao (recapitate puntualmente a Liedholm).
Luciano Tessari: il fedele scudiero. Una vita per il calcio con la testa sempre alta e una bontà d’animo esemplare.
Beniamino Vignola: il nuovo “abatino”. Così Gianni Brera etichettò il furetto in maglia bianconera. Il talento mancino, senza nulla togliere all’immensità dell’irraggiungibile cronista, è stato anche altro.
Correva l’anno 1959. Il 12 giugno Beniamino nasce a Verona. Se fosse venuto alla luce a Rio de Janeiro o Buenos Aires, magari con un nome più afrodisiaco, probabilmente avrebbe conseguito maggior gloria. Mingherlino, debole muscolarmente e poco tosto nei contrasti. Ecco, chissà quante volte il buon Ben ha dovuto ascoltare questa cantilena.
La passione, però, distrugge ogni muro. Lui allora aguzza l’ingegno. Sforna tecnica e fantasia. Il piede sinistro non necessita di potenziamento. I filmati disponibili sul web testimoniano la virtuosità di questo folletto dalle misure non certo colossali. 1,72 cm distribuiti in 64 kg. Un po’ come Maradona per intenderci.
I consumistici anni ’80 sono alle porte ed il giovane Vignola si lascia notare ripetutamente nel settore giovanile del Verona. Nelle due annate con la prima squadra scaligera confeziona oltre 40 gettoni conditi da un paio di reti. Beniamino vuole sfondare nel gotha del pallone italiano. In quel fantasmagorico periodo il calcio dello stivale non ha eguali il tutto il pianeta. Da Nord a Sud si può sognare senza limiti.In Campania, oltre il Napoli, c’è un altro popolo che amoreggia con quella misteriosa sfera. Stiamo parlando della gente irpina. Il frizzante veneto sposa il progetto dell’Avellino. Il Presidente Fausto Maria Sara adora la sua creatura che però, l’anno successivo, passerà nelle mani di Antonio Sibilia. La riapertura delle frontiere spedisce all’ombra del “Partenio” la punta brasiliana Juary. Il balletto intorno alla bandierina, per festeggiare un goal, diventa un vero e proprio cult. Il resto del gruppo è assolutamente rispettabile. I giovani Tacconi, Beruatto e Carnevale viaggiano a mille. Senza dimenticare capitan Di Somma, Pellegrino Valente, Salvatore Campilongo e Guido Ugolotti.
Vignola, in tale complesso, è la ciliegina sulla torta. Segna e fa segnare. Commuove il caloroso pubblico biancoverde domenica dopo domenica.La zona del mister Luis Vinicio è un’orchestra intonatissima. In tre stagioni 88 presenze e 16 marcature. Per l’Avellino si materializza in sequenza un decimo, un ottavo ed un nono posto. Passano in rassegna diversi allenatori. Dal già citato Vinicio a Tobia, passando per Marchioro e Veneranda.
Nel 1983 i tempi sono ormai maturi per sbarcare il lunario. Beniamino non può far altro che accettare le lusinghe della Juventus. Nelle prime due annate con la Vecchia Signora il furetto cresce con ottima costanza alle spalle del genio assoluto chiamato Michel Platini. Di tanto in tanto viene gettato nella mischia, dove risponde con invidiabili prestazioni. Mette a referto 52 apparizioni accompagnate da 6 reti. Numeri più che soddisfacenti, considerando anche le complessità tattiche del calcio d’epoca. Il 16 maggio 1984 a Basilea, nella Finale di Coppa delle Coppe, scrive la sua pagina più emozionante. Un suo splendido diagonale mancino fulmina il guardiano del Porto per il momentaneo vantaggio. Gli avversari pareggiano i conti ma, nel corso della ripresa, di nuovo Vignola lancia al bacio Boniek che insacca per il definitivo raddoppio. Nella medesima primavera contribuisce da assoluto protagonista anche allo scudetto bianconero. Deliziosa pure la successiva annata, con l’accoppiata Coppa Campioni (nella tragica notte dell’Heysel) e Supercoppa europea.
Nel momento in cui la carriera poteva esplodere, paradossalmente, Vignola entra in un limbo senza acuti. Torna al primo amore Verona per una sola corsa sulla giostra gialloblu (19 caps e 2 goal). Tra il 1986 ed il 1988 brilla poco nella seconda esperienza juventina. Appende gli scarpini al chiodo nel 1992, dopo aver rappresentato i colori di Empoli e Mantova (in Serie C2).
Beniamino Vignola: il furetto di scorta. Una favola, in fondo, a lieto fine.