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Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Maestrelli e Chinaglia: “Quo vadis, Giorgio?”

di Fabio BELLI

Il calcio è in grado di far nascere legami speciali all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2011 la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia alle orecchie più distratte sarà parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù si era fatto conquistare dal sogno americano.

lazioPuò risultare però più impressionante il fatto che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale riposerà accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore, Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame tra padre e figlio: chi conosce bene il background di quella Lazio sa quanto fosse speciale e a tratti incredibile quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota ma, all’inizio della loro storia umana e professionale, i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.

Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore che, già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante che, dopo la retrocessione del 1971, meditava di lasciare la Lazio sopratutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E, come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto tra i due, nelle prime settimane permeato di scetticismo. Una storia legata ad un limone.

Nel 1971, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesisvizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo e, alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio sentiva scottare la sua fronte. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.

“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta la visione di Maestrelli, quasi utopistica per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, prese forma per la prima volta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera un po’ discutibile a livello manageriale (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia che fu lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.

Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).

Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai gemelli figli dell’allenatore che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dello stadio Olimpico. Potenza del calcio o, per chi vuole crederci, di mezzo limone.

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Calciatori Fabio Belli

Abe Van Den Ban: i baffi più esagerati della storia del calcio

di Fabio BELLI

Le figurine dei calciatori per i bambini restano il feticcio per eccellenza per tutti coloro che in tenera età si sono avvicinati alla magia del football. In Italia da oltre mezzo secolo la Panini di Modena rappresenta il totem attorno al quale tanti piccoli appassionati hanno vissuto campionati paralleli fatti di scambi e sogni, e inevitabilmente nell’immaginario collettivo certi personaggi sono entrati più degli altri, magari per una nota nel look più stravagante, soprattutto dalla seconda metà degli anni settanta in poi, quando l’immagine dei calciatori ha iniziato a divenire col tempo sempre meno impersonale.

vandebanxs51Quella delle figurine è un’abitudine estesa non soltanto al territorio italiano e, in quasi tutti i paesi europei, le stelle del calcio venivano immortalate e poi scambiate per finire negli album sulle pagine delle rispettive squadre. E mentre in Italia Pizzaballa diventava la figurina rara per eccellenza, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta in Olanda un personaggio stuzzicava la fantasia dei ragazzini dei Paesi Bassi. Si trattava di Abe Van Den Ban, centrocampista di grande grinta ma modesto spessore, capace però di diventare, per la lunga militanza nel club, una leggenda dell’Haarlemsche Football Club, meglio conosciuto semplicemente come Haarlem dalla città di appartenenza. Van Den Ban aveva una particolarità incredibile nel suo ritratto: due lunghissimi baffi stile anni venti, assolutamente anacronistici anche per i tardi ’70, in cui pure barba, baffi e capelli lunghi avevano cominciato a diventare d’ordinanza anche tra i calciatori.

Il look di Van Den Ban non aveva nulla a che vedere con il retaggio della contestazione giovanile sessantottina, con i volti volutamente trasandati di Gigi Meroni, Paul Breitner o tanti altri. Il modello di Abe poteva essere al limite l’investigatore Hercule Poirot, ma neppure il personaggio nato dalla fantasia di Agata Christie, pur provvisto di lunghi mustacchi, si sarebbe spinto a tanto. I baffi di Van Den ban erano oversize e lo sono stati per tutta la durata della sua carriera, consumatasi dopo un’ottantina di presenze tra del fila del FC Amsterdam (con tanto in incrocio in Coppa UEFA contro l’Inter) nell’Haarlem, formazione nella quale arrivò a collezionare quasi 150 presenze in Eredivisie. All’alba degli anni ’80, il ritiro che coincise con l’età d’oro del club, della quale fece parte come allenatore delle giovanili.

All’Harleem Van Den Ban aveva, anche per il suo carattere gioviale ed istrionico, un grandissimo ascendente e così rimase ad allenare i ragazzi di quello che all’epoca era un fiorente settore giovanile. E così nel 1982 il club arrivò fino alla ribalta europea del secondo turno di Coppa UEFA disputato contro lo Spartak Mosca, mentre Van Den Ban iniziava a curare la crescita calcistica di alcuni talenti cristallini del calcio olandese. Uno di essi, Ruud Gullit, era destinato a raggiungere i vertici massimi del calcio mondiale. Già conquistato dalla pettinatura afro con le caratteristiche treccine, Gullit si ritrovò a farsi crescere anche un paio di baffi, forse in contrasto con la sua capigliatura, ma in omaggio al suo maestro Van Den Ban, che ancora oggi è un’icona di stile in Olanda. Sono state prodotte maglie con la sua effige, è stato protagonista di “un venerdì coi baffi“, campagna che esortava gli uomini ad esibire i baffi come segnale di consapevolezza riguardo il cancro alla prostata ed ha allenato una squadra di blogger che portavano nello stemma sulla maglia la sua faccia baffuta. Che resiste nel tempo, con qualche ciuffo grigio in più.

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Calciatori Fabio Belli

Il calciatore ed il poeta: l’amicizia tra Ezio Vendrame e Piero Ciampi

di Fabio BELLI

Il poeta e il calciatore, il poeta è il calciatore. Cambiando l’ordine degli… accenti, il risultato non cambia. Non cambia se ci riferiamo alla storia personale di Ezio Vendrame, il “George Best” del Tagliamento, magnifico talento sprecato del calcio dei primi anni ’70 (ne abbiamo già parlato qui) e a quella della sua amicizia con un cantautore, Piero Ciampi, simbolo dell’amore per l’arte e la decadenza. Nessuna sottovalutazione di sé, solo la consapevolezza che, al di là del pallone e della musica, i due erano uniti dall’idea che ci fosse qualcosa di più importante, quel “farabutto esistere” nel quale consumarsi, da anteporre a qualsiasi convenzione sociale.

Vendrame_chitarraL’incontro con Piero Ciampi cambierà Vendrame a tal punto da iniziarlo alla poesia: uno scrittore nato sui campi di gioco, quasi un “unicum” nel panorama dei calciatori di tutto il mondo, tra i quali il massimo della produzione letteraria si ferma nella stragrande maggioranza dei casi a biografie scritte per interposta persona. Dedito all’alcol Ciampi e alle donne Vendrame, due passioni che ne hanno consumato, probabilmente, i rispettivi talenti. Ma la loro amicizia, fino alla morte del cantautore livornese, ha sempre resistito alle bizze del loro genio e della loro conseguente sregolatezza. Vendrame aveva un tale rispetto di Ciampi che, quando l’amico una volta venne allo stadio Appiani di Padova per vedere una sua partita, lui fermò il pallone con le mani ed decise di interrompere d’imperio la partita per rendergli il giusto tributo. Perché, come spiegò in un’intervista: “Il gioco del calcio diventa una cosa volgarissima di fronte ad un poeta come Piero.”

A Vendrame le convenzioni legate al mondo del calcio bigotto, conservatore, ipocrita non sono mai andate giù. E la poesia diventava una via di fuga dalla realtà: non è un caso che una volta lui, originario di Casarsa della Delizia in Friuli, scelse come location per farsi intervistare la tomba di Pier Paolo Pasolini, seppellito in quella che era la terra natia della madre, definendolo “il mio compaesano più vivo“. L’amicizia con Ciampi fu l’approdo finale per questa esigenza di andare oltre la realtà precotta del mondo del calcio, anche se a volte esigeva un prezzo molto alto, col poeta/cantautore ormai alla deriva. “Certe sere”, raccontava Vendrame su Ciampi, “si doveva andarlo cercare, perché magari era qualche giorno che non tornava. Lo cercavamo nei luoghi più assurdi, tra le vie sperdute, o in chissà quali posti: poi te lo trovavi seduto su di un marciapiede che beveva dell’alcol denaturato, circondato dai topi”. Ma era in quei frangenti che l’artista livornese dava il meglio di sé e sapeva insegnare tutto sulla vita, l’amore e la morte, come spiegò il fantasista del Vicenza: “La definizione che mi diede Piero Ciampi sull’amore è capire la sofferenza di chi ti sta vicino. Talmente grande che ho quasi paura a dire di amare qualcuno. Di solito siamo egoisti quando amiamo”.

Ancora parole di Vendrame: “A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi sconvolse“. Si conobbero a Roma, nel ristorante di Marcello Micci, e litigarono furiosamente la notte prima della sua scomparsa. Ciampi morì nel gennaio del 1980, assistito da un altro cantautore che era però anche medico, Mimmo Locasciulli. Lo uccise un cancro alla gola, “dopo essersi preparato per tutta la vita a una morte per cirrosi epatica”, dissero. E appena prima di morire, come raccontato da Vendrame in uno dei suoi libri, era andato a casa sua in cerca di rifugio. Ma cominciò a bere, a sbraitare, con i suoi deliri non fece chiudere occhio per tutta la notte al calciatore che sbottò, cacciandolo via, insultandolo, dicendo che non aveva rispetto per gli amici. Ciampi non poté far altro che rispondere con una frase lapidaria, innocente e spiazzante al tempo stesso: “Ma Ezio, io sono un poeta!“.

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Rayo Vallecano, i Matagigantes

di Fabio BELLI

Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanti sono i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del football è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid ma, alle spalle delle merengues, il cammino dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa. Tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di decine e decine di titoli nazionali e internazionali conquistati dalle due formazioni, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.

Schermata 03-2456374 alle 19.08.39Il Rayo Vallecano è la terza squadra di Madrid per risultati, ma probabilmente la prima per determinazione e forza di volontà. Il soprannome dei giocatori del Rayo da sempre è “Matagigantes“, ammazzagrandi, coniato nell’anno della prima promozione nella Liga, stagione 1977/78. I giganti del calcio spagnolo cominciarono infatti a fare i conti con quella squadra che, con una maglia che si dice sia un omaggio a quella del River Plate ed il segno distintivo di un’ape disegnata sul petto (a volte anche grandissima, come negli anni ’80), con un budget mostruosamente inferiore a quello delle big, riusciva spesso ad ottenere risultati sbalorditivi. Come negli anni ’90, quando la squadra che vantava gioielli come Toni Polster e Hugo Sanchez, ex leggenda del Santiago Bernabeu, si divertiva ad impallinare Barcellona e Real Madrid. Storiche sono le vittorie casalinghe contro il Real, 2-0 nel 1992/93 e di misura il 19 febbraio del 1997, 1-0, fino al successo nell’ultimo scontro finora disputato in campionato contro le merengues, sempre per 1-0 nel 2019. Ancor di più lo fu però la prima vittoria di sempre al Bernabeu, stagione 1995/96, 2-1 per il Rayo, con gol decisivo rimasto nella storia del brasiliano Guilherme. Il Camp Nou venne invece espugnato per la prima ed ultima volta alla terzultima giornata del campionato 1999/00, il migliore della storia del Rayo con la qualificazione in Coppa UEFA, 2-0 e blaugrana ammutoliti.

Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è poi risollevato tornando a giocare nella Liga, per poi retrocedere di nuovo in “Segunda” nella scorsa stagione. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madrepadrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi siano stati costretti nella loro carriera farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.

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I New York Cosmos: ascesa e caduta per un… videogioco

di Fabio BELLI

Once in a lifetime” è uno splendido libro, purtroppo disponibile solo in inglese, che racconta nel migliore dei modi l’ascesa e la caduta di un esperimento unico al mondo: il tentativo da parte degli Stati Uniti di dominare la scena del calcio mondiale attraverso un club che ha vissuto a mille all’ora nella sua breve storia: i New York Cosmos. “Once in a lifetime” è anche il motto e lo stile di vita di una società che ha fatto giocare insieme Pelè, Beckenbauer e Chinaglia e chi era lì è pronto a giurare che fra i tre il leader della squadra fosse il terzo.

American Soccer - NASL - SoccerBowl '77 - New York Cosmos v Seattle SoundersPer carità, nulla da ridire su Long John, che era un signor centravanti, più giovane degli illustrissimi colleghi al momento dello sbarco negli USA e sicuramente dotato di una personalità straripante. Il particolare è però illuminante sulle dinamiche che portarono pian piano a sgretolarsi un club che all’epoca poteva contare su milioni e milioni di dollari per diventare grande. I Cosmos avevano arruolato delle star per divertire il pubblico, ma il calcio lo fanno i calciatori e l’essenza tutta particolare di uno sport come il “soccer” non poteva andare d’accordo con le esigenze dello show business a Stelle e Strisce.

Il colosso finanziario dietro i New York Cosmos era la Warner Communications: Steve Ross prese in carico in prima persona il compito di rendere i Cosmos la più prestigiosa squadra del mondo. Tra gli anni ’70 e ’80 i newyorkers vinsero cinque titoli della North American Soccer League (NASL) e, quando nel 1977 conquistarono il titolo contro i Seattle Sounders schierando contemporaneamente in campo Pelè, Carlos Alberto, Chinaglia e Beckenbauer, erano all’apice della fama. Ma l’alba degli anni ’80 fece suonare la sveglia, dimostrando come fossero i soldi a mandare avanti il pallone e non il pallone a produrre i soldi come Ross aveva promesso ai “capoccioni” della Warner all’inizio dell’avventura.

In pochi sanno infatti che la dorata bolla di sapone dei Cosmos scoppiò a causa di un… videogioco. La Warner Communications infatti deteneva tra le sue aziende anche l’Atari, con il mercato dei videogames che dal 1980 in poi era considerato una frontiera del futuro. Ma nel 1983 una prima grande crisi investì il mercato videoludico. Allora produrre un videogioco costava quasi come un film e la Warner prese una “legnata” memorabile con la conversione del film “Tron” in videogame. Le perdite economiche furono ingenti e, di conseguenza, vennero dismessi gli asset non strategici del gruppo come la stessa Atari e la Global Soccer, ovvero la società che controllava i Cosmos. I quali, senza l’appoggio della Warner, nel giro di tre anni chiusero i battenti e la NASL con loro.

Fra i tentativi di lanciare il calcio negli Stati Uniti il più riuscito è probabilmente l’ultimo: la MLS è ormai una lega organizzata a dovere, rispetta i tempi e le modalità alle quali lo sport americano è abituato ed è il giusto mix tra vecchie glorie, talenti emergenti ed idoli del posto in grado di appassionare il pubblico senza scadere a livello tecnico. Ma il fascino della NASL sarà forse irripetibile, visto che, oltre all’impatto di vedere tanti calciatori leggendari giocare tutti assieme, è stato l’unico vero tentativo di traslare il sogno americano nel mondo del calcio, con tutte le sue contraddizioni e il suo sfarzo accecante. Ed anche se i Cosmos ora sono rinati e forse presto parteciperanno alla MLS, si sa già in partenza che probabilmente non sarà mai la stessa cosa rispetto alla squadra di Pelè e Chinaglia, perché certe cose riescono solo “once in a lifetime“.

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Calciatori Fabio Belli

Paolo Sollier: calci, sputi e colpi di testa

di Fabio BELLI

“Alla fine il sessantotto nel calcio è stata solo una questione di look“. Questa frase di Paolo Sollier dice di lui molto di più di quanto serve, ma non solo. Dice tutto anche di come il mondo nel calcio a volte sia impermeabile, ai limiti dell’ottusità, rispetto alla società reale che lo circonda. E forse è proprio questa la grande forza di un gioco capace di unire tutti al di là di differenze sociali, culturali, economiche e politiche. A Sollier però, centrocampista dai buoni polmoni ma dalla tecnica non eccelsa, questo ambiente ha finito con lo stare sempre stretto, anche quando con la maglia del Perugia, negli anni ’70 e nel pieno della contestazione giovanile, si era ritrovato a calcare i campi della massima serie.

url-1Un mondo di “calci, sputi e colpi di testa” quello del pallone, tanto da indurre Sollier ad intitolare così la sua biografia, ormai introvabile e capace di diventare un “cult” della letteratura sportiva. Il fatto è che in un ambiente sostanzialmente convenzionale e conservatore come quello del football, Sollier si è ritagliato una nicchia unica nell’immaginario collettivo per essere stato forse il primo calciatore apertamente di estrema sinistra. E per estrema si intende proprio legata a quegli ambienti che negli anni ’70 si riferivano a quell’ala extraparlamentare, a sinistra anche del PCI, che ballava sulla sottile linea rossa tra la rivoluzione culturale invocata dai sessantottini e la lotta armata poi sfociata nelle tragiche vicende delle BR.

Durante un Lazio-Perugia nel 1976 la tifoseria biancoceleste, tradizionalmente schierata a destra nella sua frangia Ultras, spiegò un eloquente striscione “Sollier Boia“. Il centrocampista piemontese nativo di Chiomonte, d’altronde, non faceva nulla per nascondere le sue idee, anzi le ostentava salutando a pugno chiuso prima di una partita. “Lo facevo per salutare i compagni e gli amici presenti in tribuna quando giocavo nei dilettanti con la Cossatese,” spiegò una volta, “non vedo perché una volta arrivato in Serie A avrei dovuto smettere.” In “Calci, sputi e colpi di testa”, uscito proprio nel 1976, Sollier mise a nudo questi aspetti quando era ancora un calciatore e fu questo a destare scalpore, molto più di quanto avrebbe fatto una biografia dopo il ritiro.

C’è da dire che con i laziali aveva cominciato lui: una stagione prima del famoso striscione, un giornalista lo stuzzicò sulle simpatie destrorse dei tifosi biancocelesti. Lui rispose un po’ generalizzando e un po’ provocando, come amava fare: “Vorrà dire che battere la squadra di Mussolini sarà ancora più bello.” Nel libro racconta poi la tensione del momento, prima del fischio d’inizio all’Olimpico: “Non è corretto parlare dei tifosi della Lazio. E’ meglio parlare dei fascisti della Lazio. Quando giocai contro la squadra biancoceleste entrai nello stadio e mostrai il pugno riuscendo ad attirare la loro attenzione. Mi insultarono in maniera rabbiosa.”

In realtà la carriera di Sollier in Serie A resta molto modesta, con solo una ventina di presenze all’attivo. Più assidua la frequentazione sui campi della cadetteria ma ad interessare erano i suoi racconti di militanza in Avanguardia Operaia, lui, calciatore professionista, che all’epoca il massimo della trasgressione sul rettangolo verde erano stati Gigi Meroni e la sua gallina al guinzaglio. Ora Sollier allena, tra i dilettanti dell’Oleggio, nel settore giovanile e l’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale degli scrittori. Settantenne brizzolato, gli è rimasta la curiosità per i temi sociali ma ora si definisce “non ideologico“: i tempi cambiano per tutti.

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Calciatori Fabio Belli

Paul Breitner: il Maoista con il Libretto Rosso in una mano ed un dopobarba nell’altra

di Fabio BELLI

I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.

Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.

Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.

Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.

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Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Fabio Belli Nazionali

Le mille suggestioni del derby del fiume Congo

di Fabio Belli

La Coppa d’Africa regala sempre suggestioni importanti, spesso capaci di creare incroci che non hanno nulla da invidiare a quelli che, ad esempio, hanno fatto la storia dei Mondiali.

Così come nel 1974 due mondi si tesero idealmente la mano nella sfida tra Germania Est e Ovest, nell’edizione 2015 del trofeo in Guinea Equatoriale le due anime del fiume Congo si sono ritrovate di fronte. La Repubblica del Congo (capitale Brazzaville) contro la Repubblica Democratica del Congo (capitale Kinshasa), che una volta si chiamava Zaire. E che proprio in quel Mondiale, Monaco ’74, ha partecipato come prima squadra dell’Africa Nera a essere presente in una rassegna iridata, con le pressioni del regime che fecero saltare i nervi a Mwepu Ilunga che spazzò via la palla ancor prima che il Brasile, con lo specialista Rivelino, potesse battere un calcio di punizione.

L’Africa è un gioiello bellissimo vista dall’alto sorvolando il fiume Congo, che divide due Nazioni che si portano dietro però tutti i problemi, le contraddizioni e le sofferenze del Continente Nero. La divisione è puramente coloniale: francesi da una parte, belgi dall’altra, ma un filo sottile continua a unire le due popolazioni, tanto che prima dello scontro in Guinea Claude Le Roy, allenatore del Congo “Brazzaville”, si era detto comunque felice che il Congo, in un modo o nell’altro, in semifinale ci sarebbe stato.

La partita è stata folle e imprevedibile come solo in Coppa d’Africa può avvenire: Repubblica del Congo, sfavorita alla vigilia, avanti di due reti in apertura di ripresa dopo un primo tempo chiuso sullo zero a zero. Quindi si scatena la Repubblica Democratica del velocissimo Yannick Bolasie e del bomber Mbokani e, in meno di mezz’ora, il risultato passa sul 2-4. Quanto basta per assistere all’incredibile esultanza di Muteba Kidiaba, il portiere del Mazembe, l’unica squadra africana che abbia mai giocato una finale del Mondiale per Club (nel 2010, contro l’Inter). Kidiaba si siede e inizia a saltellare trascinandosi sul sedere, come se avesse il… didietro a molla.

Se non lo si vede, non ci si può credere: una partita comunque giocata a mille all’ora, con l’allegria tattica che potenzia la prestanza fisica di giocatori che nel calcio che conta arrivano a militare nella Serie B inglese, al Terek Grozny in Russia o al massimo alla Dinamo Kiev, come il centravanti della Repubblica Democratica, Dieumerci Mbokani. Proprio così, in francese Mbokani si chiama “grazie a Dio”. Inoltre il talento più cristallino della squadra, Kebano, numero dieci classe ’92 cresciuto nel Paris Saint Germain e passato tra le fila del Charleroi in Belgio, di nome di battesimo si chiama Neeskens. Chiaro omaggio all’asso dell’Olanda degli anni ’70, di cui Neeskens Kebano ricalca in parte le movenze. Mille storie in una insomma, come solo l’Africa sa riservare col suo calcio folle e in parte ancora spensierato.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Jurgen Sparwasser: 45 anni fa il gol che abbatté il Muro per una notte

di Fabio BELLI

In Germania Est, in pieni anni ’70, lo sport era sfoggio atletico di olimpismo. I calciatori erano prevalentemente scarti di altri sport, non molto considerati dall’opinione pubblica ma soprattutto dai vertici della DDR, interessati a propagandare la forza della Germania Orientale tramite l’atletica, la ginnastica, il nuoto. Quando le due Germanie il 22 giugno 1974 si trovarono così di fronte nella gara che assegnava la vetta nella prima fase a gironi dei Mondiali del ’74, la partita assumeva contorni socio-politici storici, ma dal punto di vista sportivo nessuno si aspettava grandi cose dalla formazione dell’Est che peraltro aveva già fatto la storia nelle due precedenti partite entrando tra le prime otto del mondo per la prima volta nella propria storia.

La corsa al primo posto sembrava di esclusivo appannaggio della Germania Occidentale: piena zeppa di campioni, passando da Beckenbauer a Gerd Muller e arrivando fino al dualismo tra Overath e Netzer, non poteva farsi sfuggire il primato del girone per regalarlo ai cugini dell’Est. Giocando in casa poi! La partita si svolgeva al Volksparkstadion di Amburgo, e la tensione cominciò a montare giorni prima del faccia a faccia. Vennero concessi 8.500 biglietti per i tifosi provenienti dall’Est, i quali solo per il giorno della partita, e strettamente per il tempo necessario al viaggio, poterono usufruire di un visto turistico per oltrepassare il muro di Berlino, marcati stretti e schedati dai VoPos che controllavano l’afflusso in entrata e in uscita. Si diceva addirittura che la Banda Baader-Meinhof, il più temuto gruppo terroristico tedesco in assoluto, fosse pronta ad imbottire lo stadio di tritolo per approfittare dell’enorme visibilità che l’evento avrebbe avuto a livello mondiale.

Fortunatamente nulla di tutto questo accadde ed anzi la partita risultò essere una delle più interessanti del Mondiale. Ci furono occasioni da gol da una parte e dall’altra, Kreische per la Germania Est e Grabowski per la Germania Ovest fallirono nel primo tempo comodissime opportunità. Gli occidentali di Helmut Schoen, col peso del pronostico, non solo in merito alla partita ma con l’intero Mondiale ed il ruolo di padroni di casa sulle spalle, non riuscirono ad esprimere al meglio il loro potenziale. Si arrivò a 13′ dalla fine col punteggio ancora in parità e la sensazione che un eventuale 0-0 finale avrebbe salvato capra e cavoli, permettendo alla RFT di chiudere in testa e alla DDR di fare bella figura smorzando così ogni tipo di eventuale tensione.

Arrivò però il minuto 78, quando dalle retrovie Kurbjuweit fece partire un lungo lancio sul quale la difesa della Germania Ovest si trovò impreparata: il centravanti Jurgen Sparwasser, stella del Magdeburgo vincitore di una Coppa delle Coppe ai danni del Milan, addomesticò la sfera di testa e, dopo averla lasciata rimbalzare, si liberò di Vogts scagliando il pallone alle spalle di un impietrito Maier. La Germania Est si prese così partita e primo posto, e per la prima volta il regime della DDR celebrò l’impresa con toni trionfalistici. Si parlò di premi grandiosi per gli eroi di Amburgo guidati dal CT Georg Buschner, che in realtà ricevettero una gratifica di soli 2500 marchi, già pattuita alla vigilia del Mondiale in caso di passaggio del turno. E se la Germania Ovest si consolò della prima sconfitta nell’unico vero derby mai disputato in un Mondiale proprio con la conquista del titolo iridato, gli alti papaveri della DDR, circa un decennio dopo, incassarono la beffa della fuga di Sparwasser verso l’Ovest: proprio lui, l’eroe di una generazione che anticipò ancora una volta i tempi, prima che il muro si sbriciolasse per sempre.

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Allenatori Fabio Belli

Solo Brian Clough costruì Roma in un giorno

di Fabio BELLI

Rome wasn’t build in a day” è un detto molto popolare oltremanica. Quando lo riferirono a Brian Clough in merito alla pazienza necessaria per costruire un progetto vincente, lui aggiunse a modo suo: “E’ vero, Roma non fu costruita in un giorno: è anche vero però che nessuno mi chiese di prendere parte al progetto.” Perché altrimenti…

Il 20 settembre del 2004, dieci anni fa, “Cloughie” lasciava questo mondo, cedendo alla sofferenza fisica che doveva subire in seguito all’abuso di alcol, che lo costrinse anche ad un trapianto di fegato. Un vizio, quello della bottiglia, che era peggiorato in vecchiaia, in un mondo che cambiava troppo velocemente, e nel quale stentava a riconoscersi, proprio lui che per primo fra tutti aveva intuito certi mutamenti del calcio: l’importanza dei media, e quella dei soldi, due demoni che lui sfruttò a suo favore, per portare la provincia al potere.

Clough e Peter Taylor riuscirono nell’impresa di far vincere al Nottingham Forest più Coppe dei Campioni che scudetti nella sua storia. Non a caso, la biografia del tecnico, chiamata “Walking on water“, si riferiva proprio alla sua capacità di “fabbricare” miracoli, e di ripetere un’esperienza come quella di Derby, che sembrava unica nel suo genere, a Nottingham. Anzi, più che ripeterla completarla, perché al Derby County di Clough mancò la gloria europea, sogno infranto in una semifinale contro la Juventus che, inevitabilmente, segnò la fine dell’idillio col presidente di quella che era stata la sua creatura.

Nonostante a Nottingham la Coppa dei Campioni divenne quasi un’abitudine, il rimpianto più grande della carriera di Brian Clough, almeno stando a quanto disse lui stesso, resta aver lasciato il Derby County. Taylor non lo avrebbe mai fatto: fu la crepa che portò i due a non parlarsi mai più dopo l’ennesimo litigio a Nottingham, quando la gloria, più che i quattrini, non riuscì più a tenere insieme la coppia di tecnici meglio assortita della storia d’Inghilterra.

L’ambizione e l’abilità mediatica di Clough, oltre all’estrema lucidità tattica e alla capacità manageriale, si sposavano perfettamente con le straordinarie qualità di talent scout di Taylor, che trovava sempre nella realtà quei giocatori che l’altro aveva immaginato nella sua mente per fare grandi piccole squadre di provincia. Così arrivarono i fedelissimi come McGovern e O’Hare che seguirono Brian anche a Leeds e a Nottingham, così arrivò l’intuizione di portare Archie Gemmill e soprattutto Trevor Francis al City Ground. Francis è stato l’esempio evidente di come Clough operasse per plasmare le sue creature: spingere i bilanci di club fuori dall’aristocrazia del calcio al limite, al massimo delle loro potenzialità. L’azzardo di investire un milione di sterline, record per l’epoca, su un giocatore che, per le regole di allora, avrebbe potuto scendere in campo solo nell’eventuale finalissima di Coppa dei Campioni. Che il Nottingham giocò, e vinse, con un gol di…? Esatto, neanche a dirlo.

Se Dio avesse voluto che giocassimo per aria, avrebbe messo dell’erba lassù“, è un’altra sua famosissima citazione, emblema della sua predilezione per il gioco palla a terra, quasi un’eresia nel calcio inglese degli anni ’70. Segno che oltre che per quanto riguarda soldi e dichiarazioni a stampa e televisioni, Clough aveva capito in che direzione stava andando il calcio prima di molti altri. Dopo il divorzio da Taylor, l’alba degli anni novanta ne fiaccò lo spirito con una triplice delusione, quasi consecutiva. L’approdo mancato sulla panchina del Galles, lui che era convinto di poter portare la nazionale di Mark Hughes a Ian Rush a Italia ’90; la tragedia di Hillsborough, che spezzò il suo cuore di proletario di Middlesbrough, abituato alle folle oceaniche che vivevano il calcio come un rito in armonia, estranee alla follia degli hooligans; infine, la delusione della finale di FA Cup, l’unico trofeo che gli è sempre sfuggito, perduta contro il Tottenham nel giorno dell’infortunio di Paul Gascoigne.

Guidare una nazionale è il massimo obiettivo per un allenatore“, aveva detto più volte, convinto che il suo anticonformismo, dai e dai, insisti e insisti, non gli avrebbe precluso la panchina dell’Inghilterra. Non arrivò nemmeno quella gallese, e la storia praticamente finì lì. Finché ha potuto, è rimasto a parlare alla radio e alla televisione, con quel tono di chi la sapeva lunga, e la sapeva davvero, non solo a chiacchiere: Brian Clough, se voleva, Roma te la tirava su con una giornata di duro lavoro e un doppio whisky a cose fatte.