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Fabio Belli Presidenti

Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Francois Omam-Biyik, il salto del calcio africano oltre la propria storia

di Fabio BELLI

Il Mondiale del 1990 è stato un evento indimenticabile per gli appassionati di calcio. Un football all’epoca pieno zeppo di campioni, Maradona nell’Argentina, Roberto Baggio nell’Italia, l’Olanda di Van Basten e Gullit, i tedeschi, il Brasile dell’astro nascente Romario… insomma, un’epoca d’oro che andava a chiudere un decennio pieno di fantasia e di colori come gli anni ’80. E proprio al Pibe de Oro, in qualità di calciatore più forte del mondo e di campione iridato in carica, toccò aprire le danze del mondiale italiano nella partita inaugurale disputata al Meazza di Milano contro il Camerun.

Il calcio africano iniziava appena ad uscire dall’aspetto “pittoresco” che ne aveva contraddistinto la sua permanenza nelle competizioni internazionali dei precedenti vent’anni. Il Camerun era alla seconda partecipazione ai Mondiali e nel 1982 fece tremare gli azzurri poi Campioni del Mondo, uscendo imbattuto dal girone eliminatorio di Vigo dopo un 1-1 da batticuore contro l’Italia. Ma le prime vere squadre-sensazione del continente africano ai Mondiali furono l’Algeria nel 1982, trascinata dal “tacco di Allah” Madjer ed estromessa da un vero “biscotto” tra Austria e Germania ed il Marocco nel 1986, esaltato dai numeri degli estrosi Timoumi e Bouderbala nonché prima squadra del Continente Nero capace di superare il primo turno in un Campionato del Mondo. Il Camerun, sempre guidato in campo dall’ormai trentottenne Roger Milla, sembrava dunque la vittima sacrificale contro l’Argentina di Dieguito e Caniggia poi destinata ad arrivare di nuovo all‘atto finale della competizione.

Eppure proprio da quella partita gli sportivi di tutto il mondo inizieranno ad amare e sostenere i “Leoni Indomabili“, una generazione di calciatori che trovò le sue espressioni più talentuose nel portiere Tomas N’Kono, forgiato da anni passati nella Liga spagnola, e dallo stesso Milla, uno dei più forti attaccanti africani di tutti i tempi. Ma saranno anche tutti gli altri elementi in rosa a farsi conoscere e a conquistare le folle. A partire da quella di San Siro assolutamente incredula, dopo il fischio d’inizio, nel vedere Maradona e compagni stentare di fronte alla straripante forza atletica e alle accelerazioni devastanti del Camerun. Il tifo si schiera ben presto a favore dei “leoni indomabili”, ma la legge del più forte e del pronostico sembra compiersi inesorabilmente quando André Kana-Biyik si fa espellere lasciando il Camerun in inferiorità numerica.

Ma è a questo punto che si compie uno di quei miracoli che rendono unico il calcio: Makanaky scodella un pallone in area sul quale Francois Omam-Biyik si avventa saltando oltre le umane possibilità, come sembra evidente agli spettatori che in tutto il mondo seguono l’evento. Il portiere Pumpido, sorpreso quando ormai pensava che l’avversario non sarebbe mai arrivato all’impatto sul pallone, si lascia beffare ed il pallone si insacca in rete. E’ il gol che cambia il calcio internazionale e che apre una nuova frontiera nella quale il Camerun diverrà la prima squadra africana a piazzarsi tra le prime otto del mondo e che, soprattutto, rende la Coppa del Mondo un evento di massa anche in Africa. Nella capitale del Camerun, Yaoundè, il delirio provocato dal gol di Omam-Biyik proseguirà tutta la notte visto che i Leoni Indomabili, nonostante la chiusura del match in nove contro undici, portano a casa la vittoria contro i campioni del mondo in carica.

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Calciatori Fabio Belli

Francesco Dell’Anno, una carriera vissuta con le scarpe slacciate

di Fabio BELLI

Quando nell’autunno del 1984 Juan Carlos Lorenzo fu chiamato al capezzale di una Lazio ormai in disarmo, il sergente di ferro argentino si scontrò subito con un calcio che non frequentava più da oltre 25 anni e che era cambiato enormemente, facendo diventare anacronistici i suoi metodi. Ma un vecchio lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio e passando in rassegna quella rosa così male assortita, tra un giudizio impietoso e l’altro, le uniche parole positive le riservò ad un giovane della Primavera aggregato al gruppo con altri Under 18. “Quel ragazzino è l’unico che può fare il calciatore in prospettiva, qui.” E visto come andò a finire quella stagione, si può dire che Lorenzo fece centro al primo colpo.

Il “ragazzino” si chiamava Francesco Dell’Anno, detto Ciccio, 17 anni anni appena compiuti in quel 1984 a tinte decisamente orwelliane per la Lazio. Non poté far nulla per evitare il naufragio biancoceleste che portò all’ultima retrocessione in ordine di tempo per il più antico sodalizio calcistico capitolino. Ma i lampi di pura classe che dispensò, a partire dall’esordio assoluto nella sfida vinta contro la Cremonese, riempirono di speranza i tifosi che pure si ostinavano a riempire l’Olimpico in quell’annata così sofferta. Quando all’ultima giornata di campionato, a discesa in cadetteria già consumata, con un gioco di gambe finta e controfinta mise a sedere addirittura Le Roi, Michel Platini, i supportes laziali pensarono che da quella rovinosa caduta stava pur nascendo una stella.

Ma fu il carattere a tradire il giovane Dell’Anno, come troppo spesso accade alle promesse prive di una guida salda dentro e fuori dal campo. Quando in quella stessa stagione un compagno di squadra più anziano lo sgridò pesantemente perché si presentò al campo di allenamento di Tor di Quinto in fuoriserie, un altro provò a prendere le difese del ragazzo che in fondo, con i suoi soldi, poteva fare quello che voleva. Il punto era un altro però, spiegò il più severo dei due: a 17 anni e senza patente non si può proprio guidare l’automobile, altro che fuoriserie! Ragazze, vita notturna, divertimenti vari fecero il resto, e della classe cristallina di Dell’Anno rimasero solo dei lampi abbaglianti e molto occasionali in Serie B tra Arezzo, Taranto e Udine.

Proprio con la maglia dell’Udinese però riconquistò la massima serie e, nella stagione 1992/93, a suon di prodezze regalò ai friulani una salvezza che mancava da 7 anni, dopo le due retrocessioni del 1987 e del 1990. Numeri di classe sopraffina per un calciatore che ormai, a quasi 26 anni, era additato come inaffidabile e quasi perduto. La sorpresa arrivò con l’offerta dell’Inter che, nell’anno dell’epocale passaggio di consegne tra Ernesto Pellegrini e Massimo Moratti, decise di puntare anche sul talento ribelle di Dell’Anno per costruire una squadra in grado di divertire i tifosi. E, pur con i suoi fisiologici alti e bassi, i colpi di genio di Ciccio deliziano San Siro, con l’Inter che, come a volersi mantenere in linea con la sua schizofrenia calcistica, nella stagione successiva trionfò in Europa in Coppa UEFA ma arrivò per la prima volta a sfiorare la Serie B in campionato. Gli ultimi scampoli importanti di carriera Dell’Anno li ha vissuti a Ravenna, in B, dove c’è chi giura di averlo visto giocare con le scarpe slacciate. Salutò la Romagna dopo aver collezionato il suo massimo bottino di gol con una sola squadra, 23, prima di chiudere la carriera alla Ternana.

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Calciatori Fabio Belli

Paul Breitner: il Maoista con il Libretto Rosso in una mano ed un dopobarba nell’altra

di Fabio BELLI

I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.

Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.

Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.

Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.

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Calciatori Fabio Belli

Germano: l’amore proibito del nuovo Garrincha nell’Italia degli anni Sessanta

di Fabio BELLI

Estate del 1962: il boom economico in Italia sta iniziando a scaldare i motori, nel Paese si respira un’aria più fresca, nuova, forse anche un po’ ingenua. A neanche venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il paese non è ancora molto più ricco, ma ha ripreso a sperare e, soprattutto, a sognare. Il calcio è un importantissimo veicolo di divertimento e aggregazione ma, nell’era della vertiginosa crescita industriale, sono le grandi del Nord a comandare. La Nazionale agli ultimi Mondiali in Cile ha subito lo scandaloso arbitraggio dell’inglese Aston contro i padroni di casa. Una vergogna, ma nel calcio in cui gli echi della comunicazione, soprattutto da oltreoceano, arrivano ancora distorti, sono cose che capitano anche con una certa frequenza.

germano1La stella indiscussa di Cile 1962 doveva essere Pelè ma gli infortuni non hanno permesso alla Perla Nera di essere protagonista. Al suo posto, il Brasile ha celebrato Amarildo per la conquista del suo secondo titolo mondiale. Ma il fascino dei calciatori esotici, pieni di talento ed estro, diversi da quelli che in Italia praticano il catenaccio sistematico, comincia a farsi largo tra i tifosi e in un campionato come la Serie A che comincia a potersi permettere l’ingaggio di calciatori esteri. Così il primo club a cavalcare la suggestione del Brasile di Pelè è il Milan del patron Rizzoli, che porta in Italia Josè Germano de Sales, sgusciante ala piena di guizzi e dribbling tanto da essere paragonato a Manè Garrincha. Allora appena ventenne, Germano faceva parte dei preselezionati per Cile ’62, ma alla fine non ha partecipato alla spedizione.

Da Germano i tifosi del Milan si aspettano grandi cose e soprattutto volano con la fantasia immaginando giochi di prestigio palla al piede, dribbling a ripetizione su un fazzoletto di campo, gol pescati direttamente dal cilindro di un mago. Quello che non sanno è che, soprattutto all’epoca, l’adattamento di un calciatore brasiliano in una realtà estremamente ordinata, grigia e fredda come quella milanese è molto complicato. Ed iniziano a sentir parlare di un termine misterioso, “saudade“, che significa più di nostalgia: è voglia di respirare un’aria diversa da quella delle ciminiere milanesi, è voglia di sentirsi circondati da tutt’altro rispetto a quella che è la realtà che diventa una prigione dalle sbarre di malinconia dalla quale si può solo evadere.

Germano comincia bene, gioca e segna in Coppa dei Campioni contro l’Union Luxembourg e in campionato contro il Venezia. Ma il suo stile svagato e la svogliatezza negli allenamenti non piacciono al Paròn Nereo Rocco che in quella stagione porterà per la prima volta la Coppa dei Campioni in Italia. Il suo Milan, a caccia dell’obiettivo più grande, dev’essere una macchina perfettamente oliata e Germano a novembre viene spedito al Genoa dove colleziona presenze ad intermittenza (solo dodici in campionato), qualche intemperanza e la frattura della mandibola, riportata in un incidente stradale una volta tornato a Milano a fine stagione.

Nel capoluogo lombardo l’aspirante Garrincha resterà altri due anni senza scendere mai più in campo fino al 1965, quando tornerà in Brasile al Palmeiras. Troppo, per una frattura della mandibola. Si scoprirà in seguito che i problemi di Germano a Milano erano puramente extracalcistici: il giocatore infatti iniziò una relazione clandestina con la figlia del potente Conte Agusta, l’industriale delle motociclette. La ragazza, per giunta allora minorenne, riempirà le cronache dei rotocalchi rosa per la sua fuga in Belgio, nel 1967, proprio per raggiungere Germano, che nel frattempo si era accasato allo Standard Liegi. Nascerà anche una figlia, Lulù. Troppo tutto insieme, per l’allora bigotta moralità italiana: e se di lì a poco i giocatori di colore conquisteranno grandi vette sportive (Jair nell’Inter, Nenè nel Cagliari), l’avvento di Germano ebbe l’effetto dirompente di un terremoto nel calcio italiano, che scoprì gloria, pazzie e miserie dei protagonisti del “futbol bailado”.

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Calciatori Fabio Belli

Nicola Berti e il tramonto della Milano da Bere

di Fabio BELLI

A guardarlo adesso, imbolsito e con lo sguardo sin troppo rilassato, viene quasi da non credere che sia stato una delle più astute e guizzanti mezze ali (una volta si diceva mediano di spinta, diciamo che oggi sarebbe un De Rossi un pizzico più offensivo) degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Eppure Nicola Berti ai tempi da giocatore ad un innato estro abbinava una cattiveria agonistica ed una concentrazione che gli hanno permesso di calcare i campi più prestigiosi del mondo, senza sosta, con tanto di due Mondiali disputati in maglia azzurra.

Nicola Berti che per anni è stato uno dei simboli dell'”ultimo scudetto dell’Inter”, quello del 1989 con Trapattoni in panchina, prima che 17 anni dopo Calciopoli cambiasse gerarchie del calcio italiano che parevano scolpite ormai nel marmo. Nicola Berti che si beve non tutta la difesa ma tutto il Bayern Monaco, nella sua interezza, in una memorabile notte di Coppa UEFA. Ed, essendo lui un contro-cliché, in quell’occasione non saranno le bizze del suo talento a sprecare il lavoro di squadra bensì sarà la squadra intera nel match di ritorno a sprecare le sue prodezze. Nicola Berti che ama la birra e la notte con le luci di una Milano da Bere anni ’80 che andavano via via spegnendosi e di cui lui era forse uno degli ultimi esempi concreti. Un calciatore però che riesce ad andare d’accordo in Nazionale anche con Sacchi, simbolo di un Milan odiatissimo in maglia nerazzurra e di un calcio totalmente diverso da quello giocato in quegli anni con l’Inter e con la nazionale di Vicini.

In un’intervista, di quei mondiali del 1994 immerso nell’integralismo sacchiano del 4-4-2, raccontò: “Si giocava negli Stati Uniti dove del calcio non fregava niente a nessuno. Oltretutto, si doveva scendere in campo in orari assurdi per le tv europee, con un caldo incredibile. Dopo ogni primo tempo c’erano 7-8 giocatori che chiedevano di non tornare in campo: pazzesco. Io giocavo fuori ruolo, sulla fascia, ma non me ne importava nulla: l’importante era esserci e mi sono divertito lo stesso.

Non si impuntava per una posizione in campo, Berti, l’importante era divertirsi e lui la vita l’ha sempre presa con una certa filosofia, senza perdere la testa neanche quando l’Inter di Pellegrini andò a pescarlo nel 1988 nella Fiorentina. Era già una stella dell’Under 21 grazie ad una sua tripletta storica rifilata al Portogallo. Fu subito scudetto, sembrava un’era pronta ad iniziare, l’Inter dei tedeschi subito dopo il Milan degli olandesi ed invece la sua era la Milano da bere che appunto si stava spegnendo. L’altra, invece, quella del Berlusconismo che stava appena nascendo. Ed anche di giocatori come Berti iniziavano ad uscirne fuori sempre meno.

Perso lo scatto dei bei tempi non ci ha messo molto a tagliare la corda: a 31 anni si è tolto lo sfizio di una stagione al Tottenham, in Premier League, poi dieci anni ai Caraibi a godersi la vita prima di tornare in Italia per fare il punto sul nostro calcio e sull’Inter, sempre senza peli sulla lingua. Ma a sentire lui l’importante è sempre divertirsi e, più che il calcio, ora sono i viaggi la sua vera passione: “Il posto più bello che ho visto? Ne dico due: lo Yemen e il Kazakhstan. Al largo dello Yemen c’è un’isoletta, si chiama Socotra. È bella almeno come quelle dei Caraibi. Nessuno mi impedirà mai di viaggiare, continuerò a farlo e sempre di più.” Tanto la Milano dei suoi anni d’oro non c’è più da un pezzo.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Julio Velasco: il filosofo tra volley e calcio

di Alessandro IACOBELLI

Salvare la pelle nell’Argentina degli anni settanta non era cosa scontata. Julio Velasco ne ha viste e passate tante. Parenti e amici spariti nel terribile vortice della dittatura targata Videla e soci. La filosofia il suo primo amore. Nato a La Plata, il giovane Julio studia con impegno e consapevolezza. Diventa anche assistente dei professori, ma ben presto le mani perverse del potere fascista lo costringono a cambiare lido. L’adesione ai dettami del comunismo locale non lo rendono simpatico ai piani alti.

Viaggia quindi alla volta di Buenos Aires. Dai libri al parquet. La passione per il volley prende senso e forma. Da giocatore nelle formazioni minori alla panchina ci vuole un attimo. Il Ferrocarril Oeste è solo la prima fermata di un viaggio destinato all’eternità. L’alba degli anni ottanta prepara la svolta professionale per il trainer di La Plata. La federazione argentina gli offre lo scettro di allenatore in seconda della Nazionale maggiore. Un terzo posto ai mondiali e, nel 1983, lo stivale della pallavolo accoglie la sua professionalità. La prima chiamata in Serie A2, alla corte della Latte Tre Valli Varesine.

Passano due anni e si scatena l’epopea trionfale della Panini Modena. In Emilia Velasco trova l’ambiente ideale per insegnare e, solo dopo, allenare. Educare un gioiellino alle primissime armi come Lorenzo Bernardi, colonna precoce di un’orchestra perfetta, è la scommessa più stimolante. Lucchetta, Vullo e tanti altri. Quattro scudetti consecutivi, poker anche in Coppa Italia e un successo in Coppa delle Coppe. Un Curriculum da mille e una notte. Nel 1989 la Nazionale italiana vuole affacciarsi al nuovo decennio puntando forte al tetto dell’universo sotto rete. Il capolavoro diventa subito una dolce realtà. Due ori in quattro edizioni dei campionati del mondo, con tre vittorie in salsa europea e cinque acuti in World League.

Velasco non si ferma. Da coach a dirigente nel calcio il passo è naturale e tutto da scoprire. Nel 1998 la Lazio del patron Cragnotti cerca figure di spicco per rinnovare l’organigramma societario. Il ruolo di manager stuzzica la mente del filosofo che, senza troppe esitazioni, firma il contratto con il sodalizio biancoceleste. Da Roma a Milano. Velasco passa successivamente all’Inter, per una breve esperienza in nerazzurro.
Il romanzo sportivo di Velasco continua con un’operazione nostalgia in piena regola. La pallavolo è il grembo materno da riscoprire. Passaporto in tasca e valigia in mano. Dalla Repubblica Ceca alla Spagna, passando per Iran e Argentina. Sei giri molto intensi.

Rievocare i fasti del passato. Questo l’auspicio del maestro Julio. Il grande ritorno a Modena, la scorsa estate, non è un caso. L’ennesima sfida per il tecnico di La Plata.

“La cultura degli alibi” il dogma semplice ma colmo di profondità. Giustificare un errore o una sconfitta dando la colpa a fattori esterni alla propria responsabilità. Julio Velasco si è sempre opposto con fermezza a questa discutibile abitudine. I fatti gli hanno dato ampiamente ragione.

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Calciatori Fabio Belli

Gordon Banks e la parata su Pelé: la più bella di sempre

di Fabio BELLI

Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.

Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibile parata di tutti i tempi.Venne effettuata da Gordon Banks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.

Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di miglior portiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.

Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.

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Calciatori Fabio Belli

Kalusha Bwalya: da Italia-Zambia 0-4 al disastro aereo scampato

di Fabio Belli

Era una tiepida mattina di fine Settembre 1988. L’attenzione era monopolizzata dalle Olimpiadi a Seul, le prime in Asia da quelle di Tokyo 1964. Il calcio era pur sempre un palliativo smorzato nel trionfo degli “altri sport” ed in fondo in una Olimpiade è giusto che sia così. Ma allora, come avvenne anche in occasione di Sidney 2000, la Serie A per lasciare libero il palcoscenico ai Giochi avrebbe aperto i battenti solo ad Ottobre. E poi il calcio alla mattina all’epoca aveva un non so che di esotico. Una stuzzicante stravaganza che avrebbe vissuto l’apice molti anni dopo in occasione dei Mondiali nippocoreani del 2002.

Un salto troppo in avanti: dicevamo del 1988 e di quella mattina di Settembre in cui, appena svegli, il fuso orario proponeva una sfida tra l’Italia “Olimpica” allenata da Dino Zoff, selezione tirata su appositamente per i Giochi quando ancora non era stata messa a punto la formula Under 23+fuori quota, e lo sconosciutissimo Zambia. Non che il torneo Olimpico non fosse solito proporre sfide inusuali. Guatemala ed Iraq erano gli altri avversari del girone per una selezione azzurra di tutto rispetto nella quale figuravano tra gli altri Tacconi, Tassotti, Ferrara, Virdis, Carnevale, De Agostini. Il calcio del Continente Nero, dalla sua, ai Mondiali aveva lanciato già i primi segnali di crescita.  Ad esempio l’Algeria di Madjer a Spagna ’82 ed il Marocco degli estrosi Timoumi e Bouderbala a Messico ’86, quando il vento del Magreb tirava forte. L’Africa Nera fece bella figura nel 1982 con il Camerun di N’Kono e Milla. Ma lo Zambia poteva al massimo far venire in mente lo Zaire 1974 che ne buscava 9 dalla Jugoslavia e non riusciva a tenere i giocatori fermi in barriera al momento di battere le punizioni.

Nessuno sapeva nulla dei “proiettili di rame” né tantomeno che questo fosse proprio il soprannome dei giocatori della nazionale dello Zambia. Eppure quella mattina accadde qualcosa di incredibile. I calciatori azzurri fermi, boccheggianti nel caldo umido coreano: quelli africani veri proiettili con un cognome che più degli altri si insinuò nella mente dei tifosi italiani. “L’Italia ha perso 4-0, Bwalya ha segnato quattro gol!” era il tam-tam impazzito tra chi aveva seguito la disfatta attraverso la sempre più familiare voce di Bruno Pizzul e chi invece si era disinteressato ad un match il cui esito pareva più che scontato.

Eppure era tutto vero, tranne un particolare: il mattatore di quella partita, Kalusha Bwalya, di gol ne aveva realizzati “solo” tre. L’altro è diviso tra le fonti dell’epoca fra un omonimo, Johnson Bwalya, ed il difensore italiano Pellegrini che deviò il tiro (allora per vedersi assegnata un’autorete bastava trovarsi in traiettoria). Eppure Kalusha Bwalya non era esattamente un carneade: giocava già in Europa nel Cercle Bruges e divenne poi una stella del PSV Eindhoven, club con il quale realizzò sessantuno reti nell’arco di sei stagioni. Inoltre, quella partita gli salvò presumibilmente la vita visto che Bwalya nel 1993 non partecipò al tragico volo della Nazionale, della quale era capitano ormai da anni, che si schiantò al largo del Gabon. Tutti persero la vita, tranne appunto i due Bwalya, Kalusha e Johnson, che giocavano in Europa e che senza quei gol contro l’Italia non avrebbero forse ottenuto quei contratti nel Vecchio Continente.

Anni dopo da Presidente Federale e con la palma di miglior calciatore zambiano di tutti i tempi cucita addosso (nel 2004 da allenatore della Nazionale, a 41 anni, entrò in campo in un match contro la Liberia e segnò il gol decisivo su punizione a 1′ dalla fine) ha visto lo Zambia vincere la finale di Coppa d’Africa proprio in Gabon: scherzi infiniti del destino, miracoli di cui il calcio è sempre generoso.

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Calciatori Fabio Belli

Luciano Re Cecconi, un centrocampista del futuro incatenato nel passato

di Fabio Belli

Il 18 gennaio del 1977 Luciano Re Cecconi, una delle anime dello scudetto laziale del 1974, restava ucciso al culmine di un tragico scherzo. I racconti di quel tardo pomeriggio romano nella gioielleria Tabocchini si sono susseguiti senza che emergessero mai aspetti in grado di chiudere una volta per tutte la vicenda. La versione ufficiale parlano di uno scherzo al gioielliere sicuramente inopportuno visto che ci si trovava all’apice degli anni di piombo, ma assolutamente innocente nella sua dinamica. Una rapina simulata con due dita che facevano sporgere il bavero della giacca, come i bambini. E un solo colpo di pistola, fatale, dalla mira incredibilmente precisa per un gioielliere che già aveva subito altre (vere) rapine, ma non aveva certo l’attitudine di un giustiziere della notte.

Re Cecconi con Giorgio Chinaglia
Re Cecconi con Giorgio Chinaglia

Destino. E per quanto Re Cecconi era benvoluto non solo dai suoi cari, ma da tutto l’ambiente biancoceleste e del calcio nazionale, la perdita umana risulta ancora incalcolabile. Ma la vicenda anche dal punto calcistico nasconde una morale amarissima: il nome di Re Cecconi viene indissolubilmente, inevitabilmente legato alla grottesca vicenda della sua morte, quando il giocatore in sé avrebbe meritato ben altra considerazione nell’immaginario collettivo. Re Cecconi rappresentava infatti il prototipo del centrocampista moderno, una delle creature più belle della macchina costruita da Tommaso Maestrelli, scomparso per ironia macabra di quel destino cinico e beffardo che ha avvolto quella squadra, poco più di un mese prima dell’angelo biondo.

All’epoca, la Lazio del 1974 visse il suo massimo splendore di pari passo con l’apogeo dell’esplosione del calcio atletico olandese e tedesco. La finale di Monaco ’74 assunse agli occhi di tutti i contorni di una svolta epocale, nel passaggio tecnico-tattico da quelli che erano stati i contenuti del Mondiale messicano di quattro anni prima. In molti trovarono analogie tra la Lazio e quell’Olanda, ma il modello vincente che si impose in quel periodo, proprio per le vittorie conseguite sul campo, fu quello teutonico. Il Bayern Monaco tre volte campione d’Europa si contrapponeva all’altra grande del periodo, il Borussia Monchengladbach. Che a centrocampo schierava una sorta di fotocopia di Re Cecconi, Gunter Netzer: stessi capelli biondi, stessa fisionomia, stesse movenze.

Gunter Netzer
Gunter Netzer

O meglio, quasi: il dinamismo di Re Cecconi, Netzer non lo ha mai avuto. Piedi più “nobili” sì, e questo ne compensava alcune carenze nella corsa. Tanto che il tedesco, pur soffrendo in Nazionale la rivalità con i colossi del Bayern, arrivò alla maglia del Real Madrid. In Italia “Cecconetzer”, come fu ribatezzato da alcuni, restava il fulcro di una Lazio che si giovava delle sue particolarità, uomo ovunque del centrocampo capace di siglare anche gol eroici come quello contro il Milan che fece esplodere l’Olimpico all’ultimo minuto, negli anni d’oro dell’epoea di Maestrelli. In quell’inizio di 1977 la Nazionale azzurra era in piena rifondazione, pronta a vivere una rinascita che dai Mondiali argentini sarebbe culminata nel titolo del 1982. Nonostante essere fuori dal circuito delle grandi squadre del Nord avesse sempre penalizzato Re Cecconi, difficile pensare che nella rifondazione di Bearzot non ci sarebbe stato spazio per “Cecconetzer”. L’orologio della sorte si fermò però per sempre su quel maledetto 18 gennaio del 1977, e l’immagine di Re Cecconi finì incatenata a quell’assurdo, tragico scherzo, mettendo in secondo piano le straordinarie qualità del calciatore, addirittura epocali a livello tattico.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Totò Di Natale, ovvero: dei treni da prendere e di quelli da lasciar passare

di Enrico D’Amelio

Il quartiere 219 di Pomigliano d’Arco è un luogo che opprime gli adulti e fa sognare i bambini. Padri impegnati dalla mattina alla sera a lavorare in uno dei poli industriali più famosi del Mezzogiorno, e figli che corrono dietro a un pallone nella speranza di un futuro lontano da umiliazioni e incertezze, da stenti e rassegnazione. Come per i fiori che sbocciano in primavera, però, anche il talento degli uomini, per formarsi ed emergere, ha bisogno del suo habitat naturale. Se alla Napoli di fine anni ’80 si sostituisce la tranquilla provincia toscana, un ragazzo cresciuto sotto il mito di Maradona può sbocciare ugualmente, ma probabilmente più in là nel tempo. Perché la luce del fiore che sembrava prodigio può essersi temporaneamente offuscata. In quel quartiere nasce Antonio Di Natale. Lì inizia a giocare a calcio, lì comincia la sua storia.

Notato dal talent-scout Lorenzo D’Amato alla Scuola Calcio San Nicola a Castello di Cisterna, lascia la terra d’origine nel 1990, a soli 13 anni, per trasferirsi ad Empoli. Dal gioco al professionismo, con la storia che diventa viaggio. Il treno della vita, che si dice passi una sola volta, viene preso, anche se non a cuor leggero. A 500 km da casa iniziano le nostalgie e le profonde crisi interiori, figlie della lontananza da papà Salvatore e mamma Giovanna, ma soprattutto dai quattro fratelli (il più piccolo chiamato affettuosamente ‘Masaniello’) e dalla sorella Anna. Nonostante la classe superiore a quella dei coetanei, Totò vorrebbe mollar tutto e fare ritorno a casa, per vivere una vita forse più difficile, ma certamente più normale, almeno per un adolescente. Viene convinto dal ‘fratello maggiore’ Vincenzo Montella (uno dei partenopei trasferitisi in Toscana, come Nicola Caccia e Francesco Lodi) a stringere i denti e ad andare avanti. Così succede che il viaggio prosegue, anche se con qualche sosta di rito, come tutti quelli da compiere nel nostro paese. Nessun esordio precoce in Serie A, ma due anni a fare esperienza tra la provincia di Bologna (Iperzola) e Viareggio, prima del ritorno a Empoli nel 1999, ad ormai 22 anni. Tre stagioni in Serie B, con la prima annata in doppia cifra (16 gol nel 2001/02) che coincide con la promozione nella massima serie. Il debutto nel grande calcio arriva a 25 anni. Un po’ tardi per chi poteva già essere su altri palcoscenici, ma a fare la differenza a certi livelli non sono solo i mezzi tecnici, ma quelli interiori. Una vita da atleta irreprensibile e il matrimonio con Ilenia, oltre ad una fisiologica maturazione anagrafica, consentono una conferma anche nella categoria maggiore, con 13 marcature e l’esordio nella Nazionale allenata da Giovanni Trapattoni, in un’amichevole contro la Turchia.

A 27 anni il treno riparte e porta ancor più lontano, questa volta nel luogo della maturità e della definitiva consacrazione: Udine. Nulla di più agli antipodi per uno nato nell’hinterland napoletano, ma un posto forse freddo e discreto nel modo giusto per non far implodere un fiore dal cuore troppo caldo. La prima parentesi, con Luciano Spalletti in panchina, è memorabile a livello di squadra, con la qualificazione ai preliminari di Champions League (prima volta per la società bianconera), ma meno per quel che riguarda l’impatto personale, costellato da 7 segnature in 33 presenze. Diventano 8 i gol nella stagione successiva, fino a una doppia cifra raggiunta con stabilità per tre campionati consecutivi (11, 17 e 12). I compagni di squadra cambiano, come nella politica della famiglia Pozzo, ma Totò diventa sempre più un punto di riferimento, tanto che arrivano la maglia numero 10 e la fascia di Capitano. E’ nel 2009/10, a 32 anni, quando un calciatore ha già dato il meglio del suo repertorio, che il fiore sboccia del tutto, con 29 gol in 35 presenze, e le prime attenzioni dei club più importanti del nostro calcio (Juventus e Milan su tutti) a metterne in dubbio il futuro in Friuli. Un’altra scelta da fare, a distanza di quasi 20 anni, questa volta a livello professionale: essere una Bandiera della società friulana, o giocarsi le proprie carte in un top club, con una carriera sicuramente più breve, e anche più marginale? Un attento esame interiore spinge verso la scelta meno ambiziosa, ma probabilmente più saggia, se guardata a posteriori. Il Capitano diventa il giocatore più prolifico di sempre in maglia bianconera, oltre che quello con più gettoni di presenza in tutte le competizioni. Non più Zico, dunque, protagonista di due fugaci stagioni a Udine nella metà degli anni ’80, ma Di Natale al primo posto nell’immaginario collettivo friulano, con il recente sorpasso su Roberto Baggio nella classifica dei cannonieri di tutti i tempi della Serie A.

Il viaggio parallelo, quello con la maglia azzurra, è fatto di alcune soddisfazioni, ma non perdona i troppi ritardi accumulati. Più tranquillo e a proprio agio nelle gare di qualificazione, che non nella pressione del Grande Evento. Non convocato per il Mondiale del 2006, dove invece si laurea Campione del Mondo il compagno di squadra Vincenzo Iaquinta, e protagonista di una Nazionale scarica dal trionfo precedente, con le magre figure agli Europei del 2008 e al Mondiale in Sudafrica del 2010. Il vuoto lasciato dagli addii di Totti e Del Piero non viene colmato, un po’ per un carattere non allenato ai grandissimi palcoscenici, un po’ per un movimento calcistico che ha oramai perso la generazione migliore. Nel primo biennio di Prandelli, però, passa l’ennesimo treno da prendere al volo, con l’orgoglio ferito italiano che tenta il canto del cigno agli Europei del 2012 in Ucraina. Un gol a Casillas nella prima gara del girone ai pluricampioni spagnoli dà l’illusione di un finale diverso, con un trofeo finalmente da poter conquistare. Sempre contro gli iberici, però, arriva la delusione della medaglia d’argento con un sonoro 4-0 in finale, e l’ultima presenza con la seconda maglia più amata di sempre.

L’ultima parte della storia è tutta da scrivere, e quella del viaggio ancora da percorrere. Un inizio, un tragitto, una fine. Tanta strada battuta, per ritornare, come spesso capita ad ogni ‘Eroe’, al punto di partenza. Forse proprio lì, al 219 di Pomigliano d’Arco, ad osservare altri bambini che giocano, vincono e perdono, ancora nel mito immortale di Diego. Oppure, più probabilmente, nella quiete friulana. Nella speranza che i ragazzi di quella terra abbiano acquisito un esempio da raggiungere e un idolo da emulare. Non con la maglia di Juventus, Milan o Inter, ma, finalmente, con quella dell’Udinese. Questa sarà la definitiva consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Sui treni presi al momento giusto, e su quelli che è stato saggio lasciar passare.

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Fabio Belli Nazionali Stadi

Malta – Germania Ovest 0-0, un sogno in pozzolana datato 1979

di Fabio Belli

L’enciclopedia Treccani riporta: “Pozzolana: Materiale piroclastico incoerente, emesso dal vulcano nella fase esplosiva e come tale costituito principalmente da piccolissimi granuli vetrosi, più o meno porosi, a cui si accompagnano piccoli cristalli di minerali diversi.” Parliamo di un materiale magico soprattutto per chi, anni fa, prima dell’avvento delle superfici sintetiche e del calcio onnipresente in televisione, faceva il pieno di partite nei campetti di periferia, o comunque nelle serie minori che non potevano permettersi un campo in erba naturale e la relativa manutenzione.

Il campetto in terra, classico e spesso contornato di tribune in legno, dove si respirava passione per un calcio non raffinatissimo tecnicamente, ma sicuramente vissuto col massimo trasporto. Abbiamo sottolineato l’avvento dell’erba sintetica, ma ancora oggi il campo in terra non è certo una rarità. Allora come ora, sarebbe quasi impensabile vedere i campioni del calcio internazionale misurarsi con una superficie del genere, se non per qualche sporadico evento di beneficenza.

E invece, nell’inverno del 1979, qualcosa di incredibile, agli occhi di chi il calcio lo segue oggi, accadde. Una partita passata già di per sé alla storia per il suo risultato: la piccola Malta ospita i colossi della Germania Ovest, nelle qualificazioni all’Europeo italiano del 1980. Una squadra che si appresta ad essere grandissima, che proprio in quell’edizione si laureerà campione d’Europa, e che nel 1982, nel 1986 e nel 1990 raggiungerà la finale dei Mondiali, vincendo nell’ultima occasione. In quella squadra è già titolare fisso Karl Heinz Rummenigge, che diventerà uno dei più forti attaccanti del calcio tedesco di sempre. Un mix tra vecchio e nuovo, con Sepp Maier in porta e il “bello” e talentuoso Hansi Muller in attacco.

Malta invece rappresenta l’estrema periferia del calcio, quando i microstati come Far Oer, Andorra e San Marino ancora non fanno parte dell’élite europea, e alle qualificazioni per la rassegna continentale sono maltesi, ciprioti e persino finlandesi a portare sulle spalle la nomea di squadra-materasso. Molto più di ora in cui ogni tanto arrivano punti in classifica e sconfitte più che onorevoli, come ad esempio quella che la nazionale maltese ha rimediato pochi giorni fa contro l’Italia di Antonio Conte.

Risultato consegnato alla storia, dicevamo, perché Malta riesce a bloccare sullo zero a zero i fortissimi tedeschi occidentali, e quello che accade sul campo di Gzira il 25 febbraio del 1979, resta nel mito del calcio maltese. Già, sul campo di Gzira: i fans di Malta ci perdoneranno se per una volta ci concentreremo non su cosa avvenne, ma su dove avvenne. Il pareggio in sé fu una sorpresa abbastanza clamorosa, detto del divario fra le due squadre, ma il cammino della Germania Ovest verso l’Italia era segnato in positivo, e quello non fu che un piccolo rallentamento nella vittoria del girone di qualificazione.

Lo zero a zero maturò però in uno stadio dove non c’era l’erba, particolare più unico che raro per una partita internazionale anche per quei tempi. E le foto che si possono ritrovare sono un fantastico anacronismo: i primi prototipi del calcio miliardario, i tedeschi occidentali che, con lo sbarco dell’Adidas e della Coca Cola nella FIFA a piedi uniti proprio a partire da Monaco ’74, hanno iniziato a girare il mondo guadagnando cifre da capogiro, costretti a guadagnarsi il ticket per l’Europeo (all’epoca ad otto squadre, e con il girone di qualificazione necessariamente da vincere) su un campetto simile a quelli che si trovano nei quartieri popolari di tutto il mondo.

Si trattava del vecchio Empire Stadium, che ospitava la nazionale in attesa che venisse approntato il National Stadium Ta’Qali a La Valletta, la capitale. Per una realtà come quella del calcio maltese, l’erba era un lusso, non certo un obbligo: e in via eccezionale, i giganti tedeschi si sarebbero adattati, considerando che il regolamento UEFA non prevedeva limitazioni sulla superficie, purché il campo fosse a norma. E così, quello 0-0 tra Malta e Germania Ovest, è rimasto nella memoria nonostante il gioco poco entusiasmante: per i maltesi, per il risultato. Per il resto del mondo, per aver visto campioni di livello assoluto disputare una partita ufficiale, forse l’ultima a livello europeo, sulla mitica pozzolana.