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Alessandro Iacobelli Calciatori

Il calciomercato iniziò con Jeppson al Napoli

La storia del primo trasferimento milionario del calcio italiano, che portò per la prima volta una trattativa calcistica ad assumere tutti i contorni dello show business

105 milioni di lire per infiammare un popolo. Achille Lauro tanti ne sborsa nella calda estate del 1952 per portare a Napoli Hasse Jeppson. Una trattativa dai contorni cinematografici condita da aneddoti e leggende metropolitane tramandate nei decenni. Si è parlato di una valigia piena di banconote consegnate da ‘O Comandante al patron dell’Atalanta Turani nelle segrete stanze di un albergo in via Veneto a Roma, o precedentemente della medesima cifra scritta dall’armatore su un tovagliolo, dinanzi ad una tavola imbandita, per convincere il numero uno dei bergamaschi a cedere alle lusinghe partenopee.

A Lauro serviva un’operazione tecnico-mediatica strabiliante per consolidare la compagine azzurra nei piani nobili del calcio italiano e, soprattutto, per mettere in ghiaccio un potere politico sul territorio campano e meridionale corroborato da percentuali bulgare registrate nei vari appuntamenti elettorali. Achille, d’altronde, era pure un sagace editore e non poteva certo ignorare la rilevanza dei messaggi letti dalla popolazione su carta.

Jeppson era la punta che mancava al Napoli dell’epoca. Svedese di nascita, 1 metro e 80 di altezza, corre e segna in patria con la casacca del Djurgården (58 reti in 51 apparizioni). Atterra poi in Inghilterra, per motivi di studio e lavoro, dove viene ingaggiato dal Charlton Athletic. Tocca la doppia cifra di gol in sole 8 gare disputate, con la ciliegina di una pregevole tripletta all’Arsenal, e viene segnalato agli osservatori dell’Atalanta che non ci pensano su due volte assicurandosi le prestazioni di Hasse per la stagione ’51-’52. Il centravanti scandinavo è una macchina da guerra anche in Serie A dove trafigge i portieri avversari 27 volte in 22 presenze. A questo punto i tempi sono maturi all’ombra del Vesuvio.

E’ il momento. Achille fa carte false, smuove acque, ragiona, disegna mentalmente le mosse da compiere, infine agisce. Jeppson firma per un valore monstre paragonabile al bilancio del Banco di Napoli. Da qui la celebre frase ancora oggi scolpita nel mare e nel cielo del capoluogo campano. Lo svedese rimane a Napoli fino al 1956 tra alti e bassi, accese discussioni con Presidente e allenatori (in particolare non facile il rapporto con Monzeglio), mondanità e un rapporto di viscerale affetto intrecciato con il popolo partenopeo. Nel caratteristico e mai dimenticato stadio del Vomero “Arturo Collana” la tifoseria esulta e impreca nel giro di pochi istanti. Il folclore si mescola con i bollenti spiriti tipici della passione calcistica. “Uanema ‘e Jeppson” e “Mannaggia ‘a Jeppson!” sono affermazioni che spiegano meglio di ogni altra cosa il contesto misto tra teatro e sport di quel tempo.

Ottimo quarto posto comunque il primo anno con 14 gol messi a segno. Quinta piazza nel secondo con altri 20 centri a referto. Sesta posizione nel 1954-1955 con un rendimento meno roboante (10 marcature realizzate). Nell’ultima annata in azzurro, quella ’55-’56 Jeppson condivide il reparto offensivo con il talento brasiliano Luis Vinicio, appena arrivato dal Botafogo. ‘O Lione si scatena siglando 16 gol, mentre Hasse esulta in 8 circostanze. La squadra però, guidata in panchina prima da Monzeglio e poi da Amadei, archivia un difficile campionato al quattordicesimo posto. Un gruppo, impreziosito da due pedine di livello come Bruno “Petisso” Pesaola e Vitali, più che discreto ma evidentemente ancora non in grado di spiccare il volo.

La carriera agonistica dell’attaccante svedese dura solo un’altra stagione, 1956-1957, con la maglia del Torino. In granata torna ad assaporare la doppia cifra di reti strappando sovente standing ovation da parte del pubblico. Senza dimenticare ovviamente le valide prove con i colori della propria Nazionale (12 gol complessivi) e la partecipazione al Mondiale del 1950 chiuso al terzo gradino del podio.

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Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Marcello Lippi, le origini di un mister

di Alessandro IACOBELLI

I toscani, generalmente, non hanno un carattere semplice. Burberi, focosi e dalla vena polemica spesso pizzicata. C’è però un trainer che, forse più di tutti, ha saputo temperare a dovere i propri atteggiamenti. Stiamo parlando di Marcello Lippi.

Viareggio è la città del carnevale e del mare. Il 12 aprile 1948, con l’Italia repubblicana alle origini, nasce Marcello Romeo Lippi (così come registrato all’anagrafe). Le radici pallonare nascono e cominciano a crescere nel sodalizio della Stella Rossa Viareggio. Nel pieno degli anni sessanta il riccioluto difensore centrale è già noto sui taccuini di molti osservatori.

La Liguria non è lontanissima. A cavallo dei tribolati anni settanta (socialmente sia chiaro) la Sampdoria fa sul serio con il giovanissimo Marcello. Urge però un rapido apprendistato al Savona in Serie C. Un giro nella giostra dei piccoli ed ecco l’approdo sulle montagne russe della Serie A. Ben nove annate in blucerchiato, per partecipare da protagonista alla sorprendente cavalcata della Pistoiese nel torneo cadetto 1979-1980. Una splendida avventura che porta gli “Orange” nella massima serie. L’ultimo treno da giocatore è quello che porta fino a Lucca dove, nel 1982 in C2, archivia una dignitosissima carriera da giocatore.

Scarpini al chiodo, ma la mente subito fissa verso il futuro. Lippi non ha dubbi: sarà mister. Il rampante coach studia, pensa e muove le pedine del suo scacchiere. L’alba può iniziare dalle giovani leve. Marcello infatti accetta i primi incarichi di allenatore nel vivaio della Sampdoria. Arriviamo così al 1986, quando giunge la chiamata del Pontedera. L’esordio nel professionismo non è male con la squadra che si spinge alle soglie della finale di Coppa Anglo-Italiana. I granata però cedono al Piacenza. Siena, Pistoiese e Carrarese sono tappe essenziale per una sacrosanta gavetta. In Emilia-Romagna c’è un Presidente che, ormai da tempo, ne studia sagacia e acume gestionale. Edmeo Lugaresi, patron del Cesena, è convinto della scelta. In riva al fiume Savio passano rapide due stagioni tra alti e bassi. Bene la prima in A, con salvezza incorporata, decisamente più tribolata la seconda con un esonero. Si prosegue con una breve ma discreta esperienza al timone della Lucchese in cadetteria.

Estate 1992: Lippi in Lombardia. A Bergamo scorre acqua nerazzurra. L’Atalanta sogna e tocca vette ancora inesplorate nel campionato ’92-’93. Settima posizione e gioco al passo coi tempi. Il cocktail tra il tipico calcio in salsa italiana e la Nouvelle Vague dei cantori della zona (Sacchi in prima fila) sembra un esperimento temerario.Il sapore della ricetta è gustoso. Bomber Ganz mette a referto 14 reti. Alemão è il perno in mediana. Ferron tra i pali. Bordin, l’uruguaiano Montero e Porrini alzano la barriera arretrata. Ottime anche le prestazioni dell’argentino Rordiguez e dell’ala Rambuadi, trasformato in un fulmine da guerra sotto la cura del mago boemo Zeman. Alcune incomprensioni con la dirigenza orobica rompono però il giocattolo tra Lippi e Percassi.

Il tecnico di Viareggio non vuole fermarsi. Il calore del Sud lo convince ad accettare un progetto arduo da realizzare. Il Napoli, ben lontano dai fasti targati Maradona, si trova di fronte ad una condizione societaria confusa. Ferlaino, nel pieno dello scandalo Tangentopoli, lascia temporaneamente lo scettro in luogo di Ellenio Gallo. Il general manager Bianchi è l’artefice della chiamata di Lippi sulla panchina azzurra. Sul piano finanziario sarà una annata nera con stipendi saltati o giunti in colpevole ritardo. Ciononostante il gruppo è coeso. La difesa è rocciosa con il gioiellino Fabio Cannavaro, l’ultima bandiera nostalgica Ciro Ferrara ed un onesto scudiero come Bia a spalleggiare il guardiano Taglialatela. In regia manovra Pecchia (o Corini) con il supporto di Buso e Thern. L’attacco è frizzante grazie a Fonseca e Paolo Di Canio. Gambaro, Nela, Corradini, Altomare, Policano, Imbriani e Bresciani completano uno spogliatoio più operaio che altolocato. Al “San Paolo” Lippi sperimenta le alchimie tattiche che ritroveremo poi nei lidi nobili della Juventus e della Nazionale italiana trionfante nel 2006 in Germania. Muscoli e atletismo in principio. La qualità è un elemento che impreziosisce e, ovviamente, non può mancare. Il popolo partenopeo sorride ancora con la sesta piazza conclusiva, strappata proprio all’ultimo respiro con il Foggia del mago boemo. L’orizzonte all’ombra di Posillipo è cupo. A fine stagione, quasi in segreto in segno di rispetto verso l’amore dimostrato dai campani, Lippi si accorda con la Juventus. I bianconeri stanno per inaugurare un ciclo rivoluzionario con l’insediamento del trio dietro la scrivania formato da Moggi, Giraudo e Bettega.

Sarà il preludio di un’epoca titolata e difficilmente ripetibile. Prima della gloria, però, c’è stato un lungo periodo di apprendistato in cui Marcello da Viareggio ha plasmato la sua idolatrata carriera da mister.

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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Dirceu: il ragioniere con il mancino fatato

di Alessandro IACOBELLI

Il giudice delle punizioni. Disegnava traiettorie artistiche con la toga sulle spalle e quel piede mancino baciato dalla grazia.
José Guimares Dirceu ha incorniciato la tela del calcio romantico a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Nato il 15 giugno 1952 a Curitiba in Brasile, condivide con il padre la passione per il futebol. La bella madre Diva Delfina pretende dal piccolo funambolo dedizione anche per gli studi. La famiglia Guimaraes si trasforma presto in una simpatica filastrocca. Dirceu infatti accoglie le sorelle Dirce e Dirci con il fratello Darci. Nel periodo adolescenziale il talento della casa prende l’indirizzo della scuola di ragioneria ed aiuta la madre nel bar appena aperto.

Dai tornei di quartiere alle giovanili del Curitiba il salto è brevissimo, il tempo di sorseggiare un caffè. All’alba degli anni settanta entra a far parte del reggimento di fanteria dell’Esercito. Le Olimpiadi di Monaco del 1972 sono un degno palcoscenico e Dirceu riesce ad onorarlo con quattro acuti. L’anno successivo il Botafogo è la società più lesta nel compiere l’affare. Nel 1975 è tra gli artefici dell’affermazione nel campionato nazionale insieme all’amico Jairzinho. Intanto Dirceu diventa una stella dell’armata verdeoro sfoderando prestazioni e reti da urlo. Le due stagioni che seguono sanciscono l’inizio del tour per una carriera internazionale. Con le casacche del Fluminense e del Vasco De Gama colleziona altri due titoli brasiliani.

Nel 1978, in concomitanza con il Mondiale in Argentina, lo ‘zingaro del calcio’ si trasferisce in Messico alla corte dell’America di Città del Messico. Firma un contratto faraonico per l’epoca in un sodalizio finanziato dalla nota emittente Televisa. Un anno prima aveva sposato Vania, la donna della sua vita.
La platea dell’Europa lo aspetta e lo sbarco si materializza in Spagna. L’Atletico Madrid si innamora di lui per tre lunghe stagioni.

Nel 1980 lo stivale riapre le frontiere del calcio. L’asso brasiliano vuole fortemente approdare in quello che dai più viene elevato come il miglior campionato nel vecchio continente. Nell’estate del post Mondiale iberico firma un contratto con il Verona di Osvaldo Bagnoli, appena promosso dalla B. Due perle in ventotto gettoni. Poi la pizza ed il lungomare di Via Caracciolo a Napoli chiamano e lui risponde. Gli azzurri si salvano per il rotto della cuffia ma Dirceu incanta spesso la platea del San Paolo.
I Nomadi cantano “Io vagabondo” e lui riempie la valigia per altre avventure. Nel suo destino ci sono ancora Ascoli, Como e Avellino. In totale 75 presenze e 13 gol. Le punizioni sono sassate che gonfiano la rete come i fulmini squarciano il cielo.
L’itinerario della carriera di Dirceu non ammette soste. Nel 1987 torna per un attimo in patria alla corte del Vasco Da Gama. Le sirene a stelle e strisce sono assordanti. Con la compagine del Miami Sharks si diverte.
La letteratura pallonara narra vicende a dir poco pittoresche. Quello dell’approdo di Dirceu alla formazione dell’Ebolitana in Serie D nel 1989 è un episodio affascinante che neanche Carlo Levi avrebbe mai potuto immaginare. Il sud e la Campania camminano a braccetto con il brasiliano. Ennesima tappa in quel di Benevento. La gita infinita culmina in Messico con l’Atletico Yucatan.
Un maledetto incidente stradale strappa Dirceu alla vita terrena il 15 settembre 1995. Il ragioniere con il mancino fatato.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Alessandro Iacobelli Club

Napoli 2000/01: storia di un paradosso sportivo, la B prima di riveder le stelle

di Alessandro IACOBELLI

Precipitare nelle tenebre del calcio. Sì, a Napoli hanno visto anche questo. Parlarne oggi fa un certo effetto. A venti anni di distanza, all’ombra del Vesuvio, la voragine è davvero impressionante. L’era De Laurentiis ha portato la calda piazza partenopea nel gotha del pallone italiano con ottima vista sui grandi palcoscenici europei.
All’alba del millennio però la terra di San Gennaro ha visto l’inferno sportivo ad occhi aperti. Gestioni discutibili e scellerate all’insegna di un’esposizione debitoria milionaria. La stagione 2000-2001 doveva essere quella del rilancio ed invece si è rivelata la prima tappa di una morte ormai annunciata. L’annata del riscatto! Uno slogan che risuona dopo la cavalcata in B con il quarto posto e la risalita nella massima serie. Novellino in panchina e bomber Schwoch stella in attacco. Quarto posto, 63 punti e tanto entusiasmo. Il popolo azzurro ritrova dunque euforia e nuove apparenti certezze. In estate però gli equilibri dirigenziali mutano in rapida successione senza trovare un porto sicuro. Il ritorno di Corrado Ferlaino, dopo un breve interregno del tridente Gallo-Moxedano-Setten, dura solo qualche anno. All’orizzonte appare Gorgio Corbelli, dominatore delle televendite, che acquista per 100 miliardi il 50% delle quote societarie.
Chi sarà l’uomo del rilancio? Il tandem Corbelli-Ferlaino risponde al dilemma ingaggiando per la guida tecnica Zdenek Zeman. Campagna acquisti contesa tra due fuochi al timone. Fior di quattrini per una miriade confusionaria di acquisti. Meteore del calibro di Rabiu Afolabi, Abdelilah Saber, Claudio Husain e Damir Stojak. Quiroga e Vidigal provenienti dallo Sporting Lisbona. Per la regia si punta su Pecchia dalla Juventus. Dall’Inter, a parametro zero, giunge Moriero. Per la fascia sinistra fari accesi sul giovane Jankulovski. In avanti Sesa a supporto dei confermati Nicola Amoruso, Stellone e il brevilineo Bellucci. Mancini e Coppola si scambiano il testimone tra i pali.

Si parte il 30 settembre. Un “San Paolo” gremito e bollente di passione accoglie la Juventus. Stellone illude. Del Piero e Kovacevic ristabiliscono il pronostico della vigilia. Zemanlandia non decolla, anzi affonda. Due punti in sei partite. Il Bologna maramaldeggia sul prato azzurro con un 5-1 catastrofico. Coppola e la retroguardia fanno acqua da tutte le parti. A Perugia si materializza l’ultima malinconica tappa della gestione boema.

La società chiama Emiliano Mondonico per salvare il Titanic partenopeo. Un uomo buono, pacato e sagace come allenatore. Indubbie qualità che però non bastano per compiere il miracolo. Nel mercato invernale arriva il colpo Edmundo, asso brasiliano con piedi fantasmagorici ma testa rivolta a ludici pensieri. L’epilogo di Firenze è lo specchio di una immensa tristezza. Magoni e compagni archiviano il campionato al penultimo posto con 36 punti all’attivo.
Tre anni di limbo in B e poi l’addio. Corbelli viene arrestato per uno scandalo legato alle televendite, mentre Ferlaino cede il passo in luogo dell’albergatore Naldi. Nell’agosto del 2004 la settima sezione del Tribunale Civile del capoluogo campano annuncia il fallimento della Società Sportiva Calcio Napoli con quasi 80 milioni di debiti.
Il resto è storia contemporanea. Il Napoli Soccer fondato da De Laurentiis con Pier Paolo Marino Direttore Generale. Dalla C1 alla Serie A in quattro stagioni. A Posillipo c’è di nuovo il sole.

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Calciatori Club Fabio Belli

Ezio Vendrame: se lo mandi in tribuna, gode

di Fabio BELLI

Ma è proprio vero che una volta Ezio puntò la propria porta per protestare contro un pareggio già scritto in una partita contro la Cremonese e si fermò sulla linea di porta, causando però un infarto ad uno spettatore in tribuna? Ed è accaduto anche che quando i compagni di squadra non si smarcavano in zona d’attacco,polemicamente saltava a due piedi sopra il pallone e in quell’equilibrio precario scrutava l’orizzonte davanti a sé per capire dove lanciare, con la mano sopra la fronte tipo vedetta? Ed è vero che nella stagione trascorsa a Napoli approfittava delle mancate convocazioni del tecnico Vinicio per sgattaiolare via nei bagni, durante l’intervallo, per consumare un amplesso con qualche signora in vista della tribuna centrale del San Paolo?

D’altronde il titolo del suo primo libro autobiografico, “Se mi mandi in tribuna, godo“, è piuttosto eloquente in questo senso. Ma con i personaggi come Ezio Vendrame, poeta del gol ma non alla maniera di Claudio Sala perché lui la poesia la concentrava prevalentemente fuori dal campo, non capisci mai dove finisca la realtà ed inizi la leggenda. Da ex calciatore, dopo la grande amicizia consumata con Piero Ciampi (raccontò: “L’ultima volta che lo vidi litigammo furiosamente. Lui non voleva smettere di bere e pretendeva che rimanessi alzato con lui fino all’alba inoltrata.Alla fine, quasi per scusarsi del suo comportamento, mi disse: “Ma Ezio… io sono un poeta!” Purtroppo l’alcol era ormai per Piero fuori controllo … ma rimane pur sempre la persona migliore che io abbia mai incontrato“), oltre alla sua biografia calcistica si è prodotto nella composizione di poesie.

Al pallone ci ha pensato solo per allenare i ragazzini della Sanvitese, in Friuli, a pochi passi da dove è nato. Ovvero Casarsa della Delizia, terra materna di Pier Paolo Pasolini. La frase “Vorrei allenare una squadra di orfani” è sua, figlia dell’insofferenza verso le esasperazioni dei genitori dei piccoli calciatori. Lo stesso libro sopra citato è permeato da aneddoti reali mischiati a racconti che sconfinano nella barzelletta riadattata. Questo Vendrame lo sa e ci gioca sopra. Per lui il calcio non è mai stata una cosa da prendere sul serio.

Tutto il resto, donne comprese, assolutamente sì, invece: quando era una giovanissima promessa il presidente della Spal, Paolo Mazza, gliela giurò perché preferiva trascorrere il tempo con un'”amichetta” piuttosto che ad allenarsi. Andò al Vicenza e stupì tutti con una classe cristallina assolutamente naturale ed imprevedibile. Gli appiccicarono addosso l’etichetta di “George Best italiano” per la convergenza storica con il fenomeno del Manchester United che si abbinava ad una somiglianza fisica quasi perfetta. Ma Ezio si esaltava più per la perfetta incompiutezza di un gol sbagliato che per una sequela di palloni in fondo al sacco, tutti uguali. Una volta raccontò: “Nereo Rocco mi dava del pazzo e la cosa, non lo nego, mi faceva enormemente piacere. Più semplicemente io amavo giocare a pallone ma non mi piaceva fare il calciatore. Mi sentivo stretto, risucchiato, prigioniero anche perché i vincoli, non solo societari ma anche se vogliamo chiamarli così, ‘morali‘, erano ancora molto forti in quegli anni ’70. Hai voglia a dire che c’era stato il ‘68 e che la contestazione giovanile aveva cambiato il mondo… L’Italia era ancora un paese retrogrado e bigotto e il mondo del calcio lo era ancor di più“.

Nel 1969 a Siena regalò un cappotto da 70.000 lire, appena comprato, a uno zingarello che chiedeva la carità: “Aveva più freddo di me,” spiegò lapidario. Vicenza fu la sua pagina migliore: il suo più grande rimpianto? Non aver mancato il passaggio ad una grande del calcio italiano, come la Juventus o l’Inter, ma non aver resistito alla tentazione di rifilare un tunnel a Gianni Rivera: “L’ho vissuta come una mancanza di rispetto nei confronti di quello che era un mio idolo ma me lo ritrovai lì, mi venne incontro e aveva la gambe aperte. Subito dopo mi scusai con lui … anche se quando apri troppo le gambe qualche rischio lo corri sempre!

All’apice della carriera passò al Napoli ma Luis Vinicio, allenatore azzurro nella stagione 1974/75, gli concesse solo tre presenze in quel campionato, allergico alla sua totale inaffidabilità. A soli 28 anni iniziò il declino di una carriera mai davvero sbocciata. Fino ad arrivare al Padova in C dove avvenne il fattaccio con la Cremonese: ribellatosi alla “torta” col punto a fine stagione che stava bene a entrambe le squadre dribblò la sua intera squadra da un lato all’altro del campo senza che nessuno potesse fermarlo. Fino a fintare il tiro davanti al proprio portiere che si tuffò inutilmente su di lui cercando di togliergli il pallone dai piedi. Vendrame lo scartò per poi fermarsi in prossimità della linea di porta e ritornare indietro. In quell’occasione un tifoso sugli spalti morì d’infarto e quando questo gli fu riferito, Vendrame rispose: “Mi chiedo come sia possibile che qualcuno debole di cuore ancora decida di venirmi a vedere giocare.”

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Allenatori Club Fabio Belli

Gennaro Rambone, l’uomo di mare che ha allenato dalla Promozione alla Serie A

di Fabio BELLI

Non era difficile individuare il personaggio che c’era dietro l’uomo e l’allenatore. Di sicuro, negli ultimi anni, quando ormai lo stress della panchina era (e dici poco!) il ricordo di tutta una vita, erano stati in parecchi a capirlo, tra i quali Gene Gnocchi che l’aveva lanciato in diretta nazionale su Sky. Lui, Gennaro Rambone, l’opinionista era abituato a farlo parlando della cosa che calcisticamente gli stava più a cuore: il Napoli. Basta aprire la pagina a lui dedicata su Wikipedia e leggere una sua frase: “Sono stato l’unico a detenere il record di aver giocato e allenato dalla serie A alla Promozione.” L’unico non si sa, la storia è comunque vera, eccome. Anzi, la documentazione è più ricca riguardo le serie inferiori che le altre.

Classe ’35, la Serie A Rambone l’ha assaggiata a Napoli, sia da calciatore sia da allenatore nel 1983. Erano i tempo in cui, in coppia col “Petisso” Pesaola, subentrò a Massimo Giacomini ereditando una situazione difficile. In quella squadra c’erano il giaguaro Castellini in porta e giocatori di caratura mondiale come Ramon Diaz e Ruud Krol. Nonostante questo “roster” il Napoli si salvò solo all’ultima giornata grazie alla vittoria al “San Paolo” sul Cesena: sufficiente per mantenere due punti di vantaggio sul Cagliari terzultimo. “Anema e core” da una parte, pesce e vino bianco dall’altra: solo dove c’era il mare Rambone sembrava riuscire ad esaltarsi. Anche alle pendici dell’Etna, però, ha saputo ritagliarsi anni ruggenti. Oltre a quelli trascorsi a Napoli, infatti, gli anni più belli ed importanti della sua vita sono legati al Catania ed al rapporto col presidente più vulcanico di tutti i tempi, Angelo Massimino. Colui che non aveva bisogno dirigenti. “Faceva tutto da solo con una valigetta appresso“, raccontava proprio Rambone che spesso si ritrovava licenziato la mattina e riassunto la sera senza neanche il tempo di svuotare l’armadietto al “Cibali”.

Ha svolto anche il ruolo di preparatore atletico all’Olympique Marsiglia stellare di Bernard Tapie, Rambone: un po’ perché gli ricordava Napoli, un po’ per ritagliarsi meritata pausa dagli anni in trincea su panchine bollenti. Solo per citarne alcune: Matera, Sorrento, Paganese ed Ischia che diventerà poi il suo buen ritiro. Ad Agnano però non mancava mai, i cavalli erano la sua altra grande passione oltre a quel Napoli che, come detto, continuava a seguire spendendo i suoi giudizi “bartaliani” sia negli anni difficili della Serie C sia al momento della ripresa con De Laurentiis e Donadoni in panchina, che non esitò a definire “un disastro”.

Colpa del retaggio dei tempi da calciatore in cui svolse il ruolo di centravanti generoso nel ruvido calcio italiano degli anni ’60. Abituato ad essere una voce fuori dal coro chiamava “bandito” tutti coloro che pensavano prima al denaro e poi agli interessi della società. Inutile dire come nel calcio di oggi i banditi si fossero inesorabilmente moltiplicati ai suoi occhi. Con i giornalisti aveva basi di dialogo più solide: “Gente che di calcio non capisce nulla“, diceva. Fissato questo punto era più facile ragionare con lui. Scomparso nel 2010, in un Catania-Napoli del 14 Ottobre di quello stesso anno è stato ricordato soprattutto dalla gente, l’unica parte del calcio alla quale continuava a sentirsi legato.

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Alessandro Iacobelli Club

Lo scudetto all’ombra del Vesuvio: il sogno del Napoli 1987

di Alessandro Iacobelli

10 maggio 1987: il Napoli entra nella storia. Il match contro la Fiorentina decreta il primo scudetto del sodalizio partenopeo. Un traguardo sognato per più di sessanta anni dal popolo e per diciotto dal Presidente Corrado Ferlaino. Una cavalcata epica, vissuta a ritmi pazzeschi. Tutte le componenti necessarie, dopo effimeri tentativi, si mescolano alla perfezione. L’assetto dirigenziale trova una quadratura inedita. Il patron Ferlaino si avvale di fidati delfini del calibro di Italo Allodi, nella veste di General manager, ed un rampante Pierpaolo Marino agli esordi come Direttore Sportivo.

Nella torrida estate del 1986 si pongono le basi per l’impresa tricolore. In panchina siede Ottavio Bianchi, tecnico esperto e navigato. La squadra proviene da un discreto terzo posto nel torneo precedente vinto dalla Juventus di Trapattoni e Platini. La cessione illustre di Eraldo Pecci, destinazione Bologna, non è certo facile da digerire in zona nevralgica. Il tandem Allodi-Marino opta allora per la grinta agonistica assicurata da Fernando De Napoli, prelevato a titolo definitivo dall’Avellino, e per le geometrie di Francesco Romano. In attacco giunge dall’Udinese Andrea Carnevale.

La stella di Diego Armando Maradona brilla incontrastata. Il fuoriclasse argentino si eleva a divinità pagana della città partenopea. Il numero 10 regala subito lampi di genio nell’esordio al ‘Rigamonti’ contro il Brescia. Buona la prima. Sette giorni dopo la coriacea Udinese blocca sull’1-1 gli azzurri. Graziani risponde a De Napoli. Il derby campano con l’Avellino si risolve a reti bianche. I ragazzi di mister Bianchi tornano alla vittoria il 5 ottobre al ‘San Paolo’. Il Torino cade sotto i colpi di Bagni, Ferrara e Giordano. Nelle successive sei giornate Bruscolotti e soci inanellano una serie invidiabile di risultati utili; spiccano i tre blitz in trasferta con Sampdoria, Roma e Juventus. Il sorpasso sui bianconeri trova una micidiale conferma nel poker rifilato al malcapitato Empoli. Il girone di andata culmina con lo scivolone patito in quel di Firenze; Diaz, Antognoni e Monelli trafiggono Garella. Inutile l’acuto di Maradona.

Tra gennaio e febbraio il Napoli scatena la sua furia incamerando un filotto limpido. Brescia, Udinese, Avellino e Torino devono inchinarsi. Nel frattempo le acerrime rivali Inter, Roma e Juventus accusano rispettivamente quattro e cinque lunghezze. Il traguardo si avvicina sempre di più, ma con l’avvento della primavera il ciuccio si eclissa. In quattro turni racimola solo un successo (0-1 a Bergamo) e due pareggi (in casa con Sampdoria e Roma). Arriva pure la sconfitta di misura contro l’Inter firmata Bergomi.

Il gruppo, però, resta unito e coeso. L’ambiente non si scompone. Alla 24ͣ Renica e Romano estromettono definitivamente la ‘Vecchia Signora’ dalla lotta per il titolo. La stanchezza fisica e psicologica appare lapalissiana nel match di Verona, dove gli Scaligeri offendono per tre volte. Il 2-1 sul Milan, con strepitoso raddoppio del Pibe de Oro, riassesta l’equipaggio. “Su quel ramo del lago di Como” il contingente azzurro impatta 1-1 ma guadagna un punto approfittando dal passo falso dell’Inter al ‘Del Duca’ di Ascoli. La città, dal Vomero a Posillipo, vive una settimana frenetica. Un immenso abbraccio avvolge il prato verde dell’impianto di Fuorigrotta per la passerella contro la Fiorentina. Domenica 10 maggio 1987 90.000 cuori battono all’unisono e scandiscono il conto alla rovescia. Termina 1-1 la sfida con le segnature di Carnevale e Roberto Baggio. Allo scoccare delle 17.45 l’arbitro Pairetto chiude le ostilità. La festa può cominciare. Ascoli è la cornice ideale per archiviare una stagione indimenticabile; Carnevale e Barbuti timbrano il congedo nel giubilo collettivo.

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Club Fabio Belli

La Lazio sul tetto d’Europa: quando lo United si inchinò alla new wave del calcio italiano

di Fabio Belli

E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.

uid_126126ad777.580.0Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.

I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.

Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.

E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.

 

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (seconda parte)

di Fabio Belli

La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.

La Juventus del quinquennio d'oro
La Juventus del quinquennio d’oro

Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.

La "prima" europea del Napoli
La “prima” europea del Napoli

In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.

Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934
Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934

L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.

Meazza capocannoniere d'Europa
Meazza capocannoniere d’Europa

Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.

Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.

Polemiche dopo la partita d'andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937
Polemiche dopo la partita d’andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937

La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.

La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese
La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese

Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.

La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.