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Calciatori Jean Philippe Zito

Pastore: “Il Fotogenico Piero” che bucava le reti e… l’obiettivo

di Jean Philippe ZITO

“La partita si è svolta su un terreno reso addirittura impraticabile dalla pioggia caduta nel pomeriggio: un terreno fangoso e vischioso che ha messo a dura prova la solidità degli atleti e di conseguenza la perizia dell’arbitro. Tutte le azioni, o quasi tutte, dell’una e dell’altra parte sono state alla mercé della fortuna: fasi impeccabili di gioco venivano frustrate dal fango: altre, assai più imperfette, trovavano nel fango la loro casuale correzione. Un palcoscenico di questo genere doveva vedere la prevalenza, almeno in linea di stile della squadra più forte: e la squadra più forte oggi si è palesata la Lazio”.

Il 30 Aprile del 1933 si gioca Alessandria-Lazio, in una giornata piovosa che la cronaca de “Il Littoriale” ci descrive come determinante, non solamente per lo stato decisamente precario del campo, ma anche per lo spettacolo offerto dai giocatori contrapposti.

La Lazio si è presentata in Piemonte con questo undici: Capitan Sclavi, Bertagni, Del Debbio, Fantoni (II), Tonali, Serafini, “Filó” Guarisi, Fantoni (I), Pastore, Gabriotti, De Maria. I padroni di casa dell’Alessandria rispondono con: Mosele, Lombardo, Fenoglio, Avalle, Costenaro, Barale (III), Cattaneo, Scagliotti, Notti, Marchina, Borelli.

L’Alessandria ha messo in campo tutto l’agonismo possibile fin dalle prime battute, ma si è fatta comunque sorprendere al sesto minuto da un’azione dello sgusciante De Maria, che ha fornito l’assist per il gol decisivo del centrattacco Pietro Pastore, lasciato colpevolmente solo davanti al portiere avversario. Il risultato non cambia nonostante la Lazio finisca la partita in 9 uomini (espulsi De Maria e lo stesso Pastore), contro 10 (rosso per Lombardo).

Il “fotogenico Piero” oltre ad essere un attaccante implacabile sotto porta, da anni è impegnato in numerose pellicole cinematografiche.

Nato a Padova nel 1903, inizia a giocare a pallone da giovanissimo nella squadra della città di Sant’Antonio assieme al fratello Vito. Quest’ultimo, a causa di un contrasto violento, perde la vita durante una partita. La famiglia sconvolta dall’accaduto, vieta a Piero di continuare a fare il calciatore. Ma dopo essersi dedicato per breve tempo al pugilato, decide comunque di tornare alla sua più grande passione: il calcio.

Nel 1923, a vent’anni, si accasa alla Juventus. Mentendo ai genitori, dice che ha trovato lavoro alla FIAT di Torino per trasferirsi nel capoluogo piemontese. In maglia bianconera disputa 4 stagioni (55 gol il suo personale bottino), vincendo il campionato nel 1925/26 mettendo a segno 4 gol, tra andata e ritorno, nella finale contro l’Alba di Roma.

Di questo successo bionconero scrive Vladimiro Caminiti: “Combi, Rosetta, Allemandi, Grabbi, Viola, Bigatto, Munerati, Vojak, Pastore, Hirzer, Munerati. È la Juventus che vince il secondo scudetto, e vi gioca un centrattacco innamorato delle stelle, da intendere come dive e miss, passa le ore parlando di Greta Garbo, cucendosi addosso, mentre segna goal che quasi spaccano la rete, nuove parti da primo attore. Si vede attore, si sogna attore. Fa rima con Pastore.”

Nel 1927 si trasferisce al Milan, indossando la maglia rossonera per due stagioni (59 partite, 39 gol). Nell’estate del 1928, Pastore disputa con l’Italia le Olimpiadi di Amsterdam, ottenendo la medaglia di bronzo dopo che la Nazionale ha sconfitto con un roboante 11 a 3 l’Egitto.

Dopo le Olimpiadi, con il permesso della società meneghina, si aggrega ad una tournée estiva del Brescia negli Stati Uniti. Le “rondinelle” salpano dal porto di Genova il 23 luglio 1928 sul transatlantico Duilio, raggiungendo New York in 10 giorni. Dal 5 Agosto al 5 Settembre il Brescia ha disputato 9 partite; Piero ne ha giocate 5 segnando altrettanti gol.

Durante il viaggio in America, a New York, viene avvicinato da alcuni impresari della Paramount colpiti dalla sua grande somiglianza con Rodolfo Valentino. Il primo sex symbol della storia del Cinema è scomparso prematuramente da un paio d’anni e negli USA sono alla disperata ricerca di un erede. A Piero viene proposto un provino, che viene superato alla grande. Gli impegni calcistici però non gli consentono di accettare l’allettante proposta degli Studios.

Tornato in Italia si trasferisce a Roma, iniziando a giocare per la Lazio. Il regista danese Alfred Lind, giunto nella Capitale per girare il suo nuovo lungometraggio, corteggia Pastore proponendogli un ruolo nel film muto “Ragazze, non scherzate”. Piero acconsente lusingato, debuttando così nel mondo del Cinema. Poco dopo concede il bis, in uno degli ultimi film muti della storia: “La leggenda di Wally”, di Gian Orlando Vassallo.

Nel frattempo con la Lazio nei campionati 1929/30 e 30/31 disputa 57 partite, segnando 23 gol. Dopo una nuova breve parentesi a Milano nel 31/32, sempre sponda milanista, torna alla Lazio. Nella “BrasiLazio” trova poco spazio anche perché sempre più impegnato nella carriera cinematografica: in due stagioni gioca soltanto 18 partite segnando 9 goal.

Nel 1933 lo sceneggiatore Mario Soldati, amico di Pastore dai tempi della Juventus, lo segnala per il ruolo di protagonista al regista Walter Ruttman per il film “Acciaio“, interamente girato nelle acciaierie di Terni. Il debutto di Piero da primo attore, viene unanimemente elogiato dalla critica cinematografica. Come calciatore disputa la penultima stagione al Perugia in serie B nel 1934/35 (3 presenze, 2 gol) e l’ultima nella Roma (4 presenze, 1 gol).

Terminata l’esperienza da calciatore, inizia un lungo percorso che lo vede recitare al fianco di attori del calibro Gino Cervi, Alberto Sordi, Erminio Macario, Totò, Kirk Douglas, Vittorio Gassmann, Anthony Quinn e Sofia Loren. Lavora con registi come Rossellini, Zampa, Comencini, Camerini, Mastrocinque, Mattoli, Steno e lo possiamo ammirare anche nel cult movie dedicato alla città eterna “Vacanze romane”.

Intervistato nel 1955 dalla rivista “Il Calcio Illustrato” dichiara: “Se rinascessi farei il calciatore, senza dubbio. La gente dello sport è diversa, è migliore della gente d’affari”.

A testimoniare come l’amore viscerale, genuino e sincero per il calcio non l’abbia mai abbandonato.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (seconda parte)

di Fabio Belli

La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.

La Juventus del quinquennio d'oro
La Juventus del quinquennio d’oro

Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.

La "prima" europea del Napoli
La “prima” europea del Napoli

In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.

Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934
Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934

L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.

Meazza capocannoniere d'Europa
Meazza capocannoniere d’Europa

Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.

Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.

Polemiche dopo la partita d'andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937
Polemiche dopo la partita d’andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937

La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.

La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese
La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese

Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.

La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (prima parte)

di Fabio Belli

Il calcio europeo ha vissuto uno sviluppo di ampio respiro una volta placatisi definitivamente i venti di guerra. L’UEFA nasce nel 1954 per iniziativa italo-belga-francese e, a cent’anni dai primi passi mossi in Inghilterra, rende realtà i sogni di tutti i pionieri del football del novecento: creare competizioni che rappresentino un metro di misura tra i club a livello internazionale. Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa UEFA animeranno i sogni di decine di milioni di sportivi continentali per decenni, fino alle attuali trasformazioni in Champions League ed Europa League.

La Coppa dell'Europa Centrale
La Coppa dell’Europa Centrale

Quando però negli anni ’30 un nuovo ordine mondiale sembrava andare prefigurandosi, poi sconvolto dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale diretta conseguenza dell’ascesa del nazifascismo, si era lavorato per mettere a confronto realtà di club di paesi diversi: la Coppa della Mittel-Europa, proprio lei, la Mitropa Cup, è stata la prima vera competizione europea per club. All’epoca era più facile vederla chiamata sui giornali col suo nome di “Coppa dell’Europa Centrale”, che col senno di poi le dava il sapore di una Champions League d’antan.

Troppo instabile la penisola iberica, troppo disorganizzate (nel football) Francia e Germania, troppo altera l’Inghilterra: il resto d’Europa si sentiva però pronta al confronto, e non bisogna credere che fosse una discriminante negative. All’epoca le squadre di club austriache e ceke avevano ben altra forza rispetto alle realtà emergenti nei paesi attualmente leader del calcio mondiale. Chi trionfava nella Mitropa poteva ben dirsi Campione d’Europa: di una sola parte di essa, certo, ma quella che più contava, all’epoca, a livello di club, ovviamente escluse le leggende inglesi.

L’evoluzione del torneo va di pari passo con quello che poteva essere e non è stato, all’epoca, del Vecchio Continente. Inizio in sordina dal 1927 al 1933 con un torneo, per quanto prestigioso, ad 8 squadre, poi il boom con le 5 edizioni a 16 e 20 squadre che possono essere considerate la versione embrionale di quella che vent’anni dopo sarà la Coppa dei Campioni. Poi l’improvviso declino, con la finale del 1939 mai disputata a causa dell’invasione della Polonia: in Europa non sarà tempo di pallone per un bel po’.

Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa
Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa

L’Italia è assente dalle prime due edizioni vinte da Sparta Praga e Ferencvaros: ceki e ungheresi hanno la meglio in entrambe le occasioni in finale sul Rapid Vienna. La riforma dei campionati vede l’Italia presentare, in attesa del girone unico, due rappresentanti uscite da un girone di spareggi nel 1929. Sono Genoa e Juventus le prime squadre a misurarsi in campo europeo a livello di club: entrambe escono subito ai quarti di finale, con gli ungheresi dell’Ujpest che alzeranno il trofeo ai danni dello Slavia Praga.

Nel 1930, di nuovo fuori ai quarti il Genoa, è l’Inter la prima squadra a passare un turno in Europa. Per domare i campioni uscenti dell’Ujpest serviranno 4 partite. Vittoria 4-2 a Milano, sconfitta con lo stesso pareggio in Ungheria, poi spareggio in parità (1-1) e alla fine vittoria di quella che nel frattempo è già diventata Ambrosiana. In semifinale sarà lo Sparta Praga ad estromettere i nerazzurri, ma a conquistare la Coppa, dopo due finali perse, sarà il Rapid Vienna.

Resoconto d'epoca della sfida tra Roma e First Vienna
Resoconto d’epoca della sfida tra Roma e First Vienna

L’anno successivo farà registrare la migliore performance della Roma, semifinalista battuta dai futuri campioni del First Vienna dopo aver piegato lo Slavia Praga nei quarti, fatali invece alla Juventus che non riuscirà nemmeno nel 1932 ad arrivare in finale. I bianconeri saranno però diretti responsabili del primo trionfo europeo italiano, quello del Bologna. I bianconeri infatti termineranno in una rissa furibonda la semifinale contro lo Slavia Praga: entrambe le squadre saranno squalificate e i felsinei, vincenti sul First Vienna, saranno proclamati campioni d’ufficio.

L'Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l'Inter
L’Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l’Inter

Nonostante la vittoria del Bologna, dunque la prima squadra italiana a giocare la finale della competizione sarà l’Inter nel 1933: Juventus ancora fuori in semifinale, sarà l’Austria Vienna a vedersela con l’Ambrosiana. A Milano il 3 settembre del 1933 un micidiale uno-due di Levratto e Meazza permette ai nerazzurri di prendere il largo, ma un gol di Viertl nel finale suona come un sinistro presagio. Cinque giorni dopo una tripletta della leggenda del calcio austriaco, Matthias Sindelar, manda in delirio i 58.000 del Prater di Vienna, e nega all’Inter la possibilità di alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale.

(continua…)

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Senza categoria Valerio Fabbri

C’era una volta la schedina: vita, miracoli e declino di un feticcio calcistico per eccellenza

di Valerio Fabbri

Si parla spesso di come il calcio moderno abbia stravolto le nostre abitudini pallonare. Prima ci si riuniva al bar per commentare le partite in base alle cronache del lunedì. Poi subentrò la radio, che permetteva di fantasticare e sognare in diretta. Poi arrivarono le reti private e le dirette con commenti dagli studi televisivi, e il bar dalla strada si trasferì sul piccolo schermo. Ma le partite domenicali rimanevano pur sempre un’emozione da vivere più che da vedere in diretta. Il sentimento era sempre lo stesso, perché il calcio spezzatino che caratterizza questo secondo millennio era pura fantascienza nemmeno quindici anni fa. Il pranzo domenicale, per gli italioti amanti del pallone, era ritmato dalle partite in contemporanea, sempre e comunque, durante tutto il campionato, con una sola ora di differenza del calcio di inizio fra estate e inverno. Prima ancora della mitica tramissione di Radio Rai “Tutto il calcio minuto per minuto”, nelle abitudini dei fanatici del pallone entrò la schedina del Totocalcio, un appuntamento fisso che è andato perso e si è annacquato insieme a tante altre piccole e grandi tradizioni (i numeri dall’1 all’11, le maglie classiche e non in stile militare, etc.). Se è ben nota la fine ingloriosa della schedina, la sua nascita lo è molto meno. Già negli anni ’30 ci fu un tentativo di creare un concorso pronostici legato al calcio. Il pallone già riempiva a tal punto le domeniche degli italiani che Leandro Arpinati, romagnolo e sodale di Mussolini dalla prima ora, nonché presidente della F.I.G.C., ideò un concorso legato al campionato sulla falsariga delle lotterie, varate dalle menti economiche del fascismo per aiutare le dissestate finanze dello Stato. Tuttavia Achille Starace, fascista “diciannovista” e presidente del C.O.N.I., si oppose strenuamente e affossò l’idea di Arpinati, temendo di finire in ombra. Per ironia della sorte ci volle l’intraprendenza di un ebreo triestino, ex giornalista della Gazzetta dello Sport, Massimo Della Pergola, per ridare vigore all’iniziativa di Arpinati. Costretto a lasciare prima la professione e poi il paese in seguito alle leggi razziali, Della Pergola si ritrova internato in Svizzera in un campo sulle rive del Rodano, matricola 21915. Per scongiurare la depressione, per ridare slancio al calcio italiano nel dopoguerra, o semplicemente per evadere dalla difficile realtà di un campo di concentramento e sognare un domani negato, Della Pergola iniziò a dare forma ad un concorso di pronostici basati sulla competenza calcistica e non sulla dea bendata, come le lotterie. L’idea fu tanto semplice quanto geniale, per certi versi simile a quanto già accadeva in Gran Bretagna e in Scandinavia, ma i suoi calcoli, le sue ipotesi di lavoro, i suoi sogni non trovarono finanziatori: c’era da pensare ad altro nel dopoguerra, il calcio è un palliativo, si sentiva rispondere. Della Pergola però non rinunciò alla sua idea: come poteva abbandonare il sogno che lo ha tenuto in vita in quei giorni difficili? Decise quindi di proseguire per la sua strada, pur accollandosi molti debiti. Con i colleghi svizzeri Fabio Jegher e Geo Molo, conosciuti durante l’internamento, fondò la Società Italiana Sportiva a Responsabilità Limitata (Sisal), dopo aver ottenuto dai Ministeri dell’Interno e delle Finanze i permessi per la gestione del gioco. Il C.O.N.I., guidato da Giulio Onesti, inizialmente ne rimase fuori, pur se la proposta era interessante: un terzo alla Sisal, un terzo al C.O.N.I., e un terzo ai vincitori. Il 5 maggio 1946 si gioca la prima schedina Sisal, costo 30 lire per una sola colonna; a vincere fu Emilio Biasotti, milanese con origini romane, che indovinò 12 risultati e incassò 462.846 lire. Gli incontri inseriti riguardavano il girone finale della serie A, i seguenti due la serie mista B e C, mentre i rimanenti, tra cui il cosidetto incontro lilla (Legnano-Novara in questo caso), riguardavano la coppa Alta Italia. Trascorsero due anni e il C.O.N.I., su pressione del Ministero dell’Interno, volle essere della partita. Nasce così il Totocalcio, e con esso il Totip, dedicato all’ippica, che rimane ad appannaggio della Sisal quasi come risarcimento per lo scippo. Il resto è storia. Nella stagione 1950-1951 viene inserita la tredicesima partita e doppio montepremi (12 e 13 risultati esatti), poi le doppie e le triple, nascono i sistemi e la schedina è già parte del linguaggio comune (“una partita da tripla”, per indicare un match dall’esito incerto). La Sisal poi negli anni ’90 non è più solo calcio: prima l’Enalotto, poi il Superenalotto, infine l’acquisizione di Match Point per entrare nel mercato delle scommesse moderne. E la schedina del Totocalcio, in un turno di campionato che ormai dura anche 3 giorni, finisce impolverata nel museo della storia.

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Andrea Rapino Le Finali Mondiali

1950: Uruguay-Brasile 2-1. Campioni del Mondo senza cerimonia

di Andrea Rapino

Non fu una finale vera e propria, anche se all’atto pratico fu una finalissima a tutti gli effetti. Il titolo Mondiale del 1950 non venne infatti assegnato con una partita secca, ma con un torneo conclusivo tra le quattro squadre che avevano vinto i rispettivi gironi della prima fase. Per una serie di coincidenze quel Brasile-Uruguay divenne una sfida con tutti i crismi dello scontro finale, perché le due squadre si trovarono ad affrontarsi nella partita conclusiva nel girone finale prima e seconda in classifica, separate da un punto appena. La formula singolare non deve meravigliare più di tanto: all’epoca non era affatto inusuale, e fin dagli anni ’20 in Italia è così che si svolgono molti spareggi, come ad esempio quelli per la promozione in Serie B o per il passaggio dai tornei regionali alla Serie C.

L'Uruguay schierato in campo prima del "Maracanazo"
L’Uruguay schierato in campo prima del “Maracanazo”

Nel girone finale del primo Mondiale ospitato in casa il Brasile ha sbaragliato la Svezia 7-1 e la Spagna 6-1. Meno travolgente è stato l’Uruguay del commissario tecnico Juan Lòpez Fontana, l’unico che continua a preferire il metodo al sistema: ha pareggiato con la Roja 2-2 e superato di misura gli scandinavi 3-2. Ai verdeoro basta perciò un pareggio per alzare la Coppa Rimet: hanno i favori del pronostico e sete di gloria dopo le partecipazioni ai tornei iridati di Italia e Francia con formazioni che non rappresentavano l’eccellenza del futebol brasileiro.

Obdulio Varela
Obdulio Varela

L’1-0 segnato da Albino Friaça in avvio di secondo tempo fa sentire praticamente la vittoria in tasca alla folla che gremisce il Maracanã: sugli spalti si stimano tra i 160 e i 200mila. In pochi minuti però il destino della quarta Coppa del Mondo viene stravolto: a metà ripresa arriva il pareggio di Juan Alberto Schiaffino, futuro milanista che in rossonero si fregerà di tre scudetti. A completare l’opera pensa Alcides Edgardo Ghiggia, anch’egli atteso dall’italianizzazione per vestire le maglie di Roma e Milan: sigla il 2-1 a dieci minuti dal termine. Una rete che ricorderà dicendo che “solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, Papa Giovanni Paolo II e io”. Il gol di Ghiggia porta in testa al girone finale la Celeste: dopo vent’anni, e due partecipazioni mancate per motivi “politici”, l’Uruguay si riprende il trofeo più ambito. Per il Brasile è un dramma: una nazione si chiude in un lutto inconsolabile, tanto che la leggenda vuole che centinaia di tifosi sull’onda della disperazione scelgano la strada del suicidio!

In questo clima, i responsabili del comitato organizzatore non sono da meno. Afflitti, quasi in catalessi, non consegnano la coppa. La banda musicale viene meno al protocollo che prevede di intonare l’inno nazionale dei vincitori. Jules Rimet, ideatore della manifestazione, come racconta lui stesso, si ritrova con il trofeo tra le mani, fra i giocatori brasiliani in lacrime, senza sapere cosa fare. Tra l’imbarazzo e l’incertezza, il francese nota per caso vicino a lui il capitano uruguaiano Obdulio Jacinto Muiños Varela: ruvido e combattivo centromediano che in patria è il leader del Peñarol, e che nel 1930 era un ragazzino di tredici anni che vendeva giornali in strada e non aveva ancora iniziato a giocare a calcio. Rimet gli stringe la mano e gli affida la coppa senza neanche una frase di circostanza: il riconoscimento più importante del Mondo viene consegnato come il premio di consolazione di un qualsiasi torneo amatoriale.

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Le Finali Mondiali Valerio Fabbri

1938: Italia-Ungheria 4-2. Il calcio come la guerra, la guerra come il calcio

di Valerio Fabbri

Nel 1938 l’Italia di Vittorio Pozzo conquista la seconda finale mondiale consecutiva, che porterà anche il terzo trofeo in bacheca, dopo il Mondiale del 1934 e l’oro olimpico del 1936 a Berlino. E’ un Mondiale atipico per la situazione politica in Europa che e’ in procinto di esplodere, rinviando al 1950 la successiva edizione. La Guerra civile in Spagna ha escluso una favorita del torneo. Lo stesso vale per l’Austria. L’invasione militare nazista di marzo e la conseguente annessione al Terzo Reich pongono la parola fine al Wunderteam di Hugo Meisl, maestro del calcio danubiano che aveva elaborato una sintesi fra il sistema di Herbert Chapman e il metodo del suo amico Pozzo. Il torneo si svolge in Francia, e questa scelta suscita irritazione tra i sudamericani, che volevano disputare il torneo nel loro continente. Il risultato e’ che anche Argentina e Uruguay non partecipano. Per la prima volta poi i padroni di casa e la squadra campione in carica accedono di diritto alla fase finale, che dura solo due settimane (4-19 giugno).

Il trionfo azzurro a Colombes
Il trionfo azzurro a Colombes

All’esordio nello stadio di Marsiglia gli azzurri sono contestati per il saluto romano, ma sui giornali italiani la notizia viene nascosta. Mai come in questa occasione la Nazionale e’ considerate l’emblema della dittatura fascista, e dagli esuli antifascisti presenti sulle gradinate piovono insulti in tutti i dialetti della penisola. Il commissario Pozzo, convinto patriota che aveva combattuto nella Grande Guerra sul fronte orientale, ha vita facile a giocare la carta del “soli contro tutti”, per ragioni calcistiche più che politiche. Una strategia che, mutatis mutandis, si ripeterà per i Mondiali del 1982 e del 2006, peraltro con simili risultati. Quell’episodio costituisce un mattone pesante sulla costruzione della vittoria finale.

Silvio Piola
Silvio Piola

E’ Peppino Meazza il capitano e la stella della formazione italiana – “una ragazza per Meazza”, si cantava a San Siro per esaltarlo, idolo dentro e fuori dal campo in un’Italia che era già ripiegata nelle curve dell’autarchia, pur essendo convinta di essere l’avanguardia di un nuovo modello politico. Nei fatti non è Meazza, campione anche di sregolatezza, a influire sulla vittoria finale. Sono il laziale Silvio Piola (5) ed il triestino Gino Colaussi (4) a realizzare i gol che portano al trionfo la formazione azzurra. schierata con il piu’ classico metodo pozziano, caratterizzato da una robusta difesa e rapidi contropiede, che trova la sua perfezione nella semifinale contro il Brasile (2-1).

Tuttavia l’esaltazione fascista della superiorità italica non trova riscontro nei fatti, che di lì a breve, collimeranno con la realtà. Gli italiani sono costretti a raggiungere Parigi per la finale con un treno notturno, dove le cuccette non sono sufficienti ad ospitare tutti gli azzurri. C’e’ quindi apprensione per la finale. La partita contro l’Ungheria, altra espressione del calcio danubiano che, a differenza dell’Austria, continuerà a sfornare grandi calciatori anche nel dopoguerra, costituisce uno dei grandi classici del calcio europeo di quegli anni. Dopo averli subiti ad inizio secolo, da una decina d’anni l’Italia supera con regolarità la formazione magiara. Guida in mezzo al campo e capitano degli ungheresi è György (Giorgio) Sárosi, di madre italiana, futuro allenatore in Italia nel dopoguerra, considerato al pari di Meazza e dell’austriaco Sindelar il miglior calciatore della sua epoca.

La partita però è a senso unico. Dinanzi ai sessantamila di Colombes, gli azzurri dominano dall’inizio alla fine, con doppiette di Colaussi e Piola e gol ungheresi di Titkos e Sárosi. Come disse Winston Churchill, gli italiani “vanno alla Guerra come se fosse una partita di calcio, e vanno a una partita di calcio come fosse la Guerra”. Per i tifosi italiani, nella penisola e non solo, è tripudio. Per la dittatura una boccata d’ossigeno, un vessillo da manipolare in nome della propaganda fascista, insieme alla vittoria di Gino Bartali pochi giorni dopo al Tour de France. Le rivincite sul fascismo andranno prese sul terreno dovuto, nel calcio non se ne parla.

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Andrea Rapino Stadi

L’Estadio Pocitos: dove la Coppa del Mondo ebbe inizio

di Andrea Rapino

Dove è cominciata la Coppa del Mondo? Dentro un appartamento all’incrocio tra calle Charrúa e calle Coronel Alegre, a Pocitos, quartiere di Montevideo a ridosso del Río de la Plata. Ma non nel senso che lì è stato ideato il torneo giocato in Uruguay nel 1930 o qualcosa del genere: il punto dove è stato dato il calcio di inizio della partita inaugurale si trova proprio dentro una casa.

pocitosOggi Pocitos è il barrio più densamente popolato della capitale con i suoi circa 70mila abitanti, generalmente appartenenti alla media e alta borghesia. Nell’Ottocento le donne ci andavano a lavare i panni nei piccoli pozzi, appunto i pocitos, che danno il nome alla zona. Negli anni del primo torneo ideato da Jules Rimet però era anche la zona dove c’era l’Estadio de Pocitos, terreno di gioco del Peñarol, che ci vinse cinque dei suoi quasi cinquanta “scudetti”.

Inaugurato nel 1921 e utilizzato fino al 1933, quel campo del club aurinegro cadde presto in disgrazia. Il Peñarol gli preferì impianti più capienti, prima di trovare definitivamente casa nello stadio del Centenario. Perciò il Pocitos nel 1940 fu smantellato e lasciato alla mercé dello sviluppo urbanistico: via libera a strade e palazzi, e dentro uno di questi è finito il cerchio di centrocampo, una trentina di centimetri oltre il muro di una qualsiasi abitazione. Poco distante, sempre lungo un marciapiede della Coronel Alegre, è stato invece segnato il primo gol dei Mondiali: lo fece Lucien Laurent, mediano francese morto nel 2005 quasi 98enne, che sbloccò Francia-Messico, poi finita 4-1. Era il 13 luglio 1930.

Del resto quella Coppa era quasi un esperimento, costruito lontano dalle luci dei riflettori, al quale scelsero di aderire tredici selezioni. La competizione, ufficializzata appena un anno prima, doveva essere ospitata tutta al Centenario. Una serie di contrattempi legati al maltempo portò a dividere le prime partite tra i campi che ospitavano Peñarol e Nacional: rispettivamente Estadio Pocitos e Gran Parque Central.

Del Pocitos e del primo gol mondiale non è rimasto nulla nella memoria collettiva fino al 2002, quando un gruppo capeggiato dall’architetto Enrique Benech, grazie a foto aeree e planimetrie, identificò l’area del terreno di gioco. Nel 2006 la municipalità di Montevideo ed il Museo del Fútbol, col sostegno di Coca Cola, bandirono un concorso vinto dall’architetto Eduardo Di Mauro, che tra l’altro è anche hincha del Peñarol.

Di Mauro realizzò due sculture: Cero a Cero y pelota al medio (Zero a zero e palla al centro) e Donde duermen las arañas (Dove dormono i ragni, simile al nostro “togliere la ragnatela” quando si calcia la palla nel sette). Una commemora il punto del primo calcio d’inizio, l’altra quello del gol di Laurent. Per forza di cose, la prima è stata sistemata a qualche metro di distanza, ma sempre lungo la linea di centrocampo; l’altra occupa solo parte del posto dove c’era la porta, poiché anche uno dei due pali ha fatto spazio a una palazzina. Ad ogni modo, meglio tardi che mai per un doveroso tributo al suolo che ha visto cominciare quello che vedremo in Brasile nella prossima estate.

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Club Fabio Belli

Belenenses, i piccoli giganti di Lisbona

di Fabio Belli

Lisbona è città di calcio, e soprattutto ha la storia dalla sua parte. Sin dai tempi dei pionieri sulle rive del Tago si respira football, anche se i maestri lusitani hanno faticato ad imporsi nel mondo, spesso schiavi di uno stile di gioco individualista e poco concreto. Non per niente l’uomo della svolta, Eusebio, è arrivato dall’Africa a fare grandi il Benfica ed il Portogallo. Le Aquile vivono un derby infinito con lo Sporting, ma c’è un’altra realtà cittadina che, pur non potendo vantare il seguito delle big, ha saputo farsi onore per decenni, e soprattutto ai tempi in cui il calcio muoveva i primi passi non solo in Portogallo, ma in tutta l’Europa.

belenensesStiamo parlando del Belenenses, considerata la terza squadra di Lisbona per numero di titoli conquistati e di tifosi, ma che fino all’alba degli anni cinquanta non sfigurava al fianco di Benfica e Sporting. Verrebbe da pensare al caso di Lisbona come a quello di Madrid, dove al fianco di Real e Atletico, realtà di caratura internazionale, combatte coraggiosamente il Rayo Vallecano, spesso nella massima serie, ma quasi mai in grado di essere competitivo per obiettivi che vadano oltre la salvezza. Ma il Belenenses può essere accomunato al Rayo solamente da un particolare: essere l’espressione di un quartiere della capitale, nella fattispecie quello di Santa Maria de Belém. Una località che fino agli anni trenta era una municipalità distinta da Lisbona, e che poi è diventata quartiere periferico, dove nei bar, nei negozi e sui balconi spesso spuntano le bandiere biancoblu del Belenenses, orgoglio di una comunità.

Le analogie però finiscono qui, visto che come detto il Belenenses prima della Seconda Guerra Mondiale ha conquistato per tre volte il titolo portoghese, che all’epoca era assegnato con gare ad eliminazione diretta con la formula della Coppa, tant’è che il trofeo assegnato, la Taca do Portugal, era lo stesso. Nel 1946 è arrivata però anche la vittoria del campionato a girone unico, e fino al 2001 il Belenenses era stato l’unico club fuori dal circuito delle tre grandi portoghesi (Benfica, Porto, Sporting) ad essersi aggiudicato il titolo. Cinquantacinque anni dopo, fu il Boavista di Oporto a rompere il tabù. Anche lo stadio non è decisamente quello di una piccola realtà: il Belenenses gioca nello splendido Estadio do Restelo, completamente rimesso a nuovo ed attualmente impianto gioiello capace di ospitare circa trentamila spettatori, mentre nel passato, in un derby contro il Benfica, arrivò a contenere addirittura sessantamila tifosi.

Numeri di grande sostanza, che fanno parte però di un passato glorioso del quale il presente spesso non è stato all’altezza. Basti pensare che dopo anni senza mai retrocedere (dopo le già citate tre grandi, il Belenenses è la squadra col maggior numero di presenze nel massimo campionato portoghese) il Belenenses spesso è stato protagonista della Liga de Honra, la seconda serie lusitana, dalla quale è risalito proprio nella scorsa stagione. Il grande rimpianto dei tifosi resta il titolo del ’73, perso all’ultima giornata proprio a causa di una sconfitta in un derby contro il Benfica. Una piccola vendetta a Belém se la sono presa domenica scorsa, costringendo al pari all’Estadio Da Luz le Aquile,, vestendo i panni della neopromossa terribile. Al momento può bastare, in attesa di ritrovare la gloria perduta.

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Club Fabio Belli

Monaco 1860: inseguendo la storia, scappando dal passato

di Fabio Belli

– “Papà, quando è stata l’ultima volta in cui il Monaco 1860 ha vinto il derby?”
– “Non so figliolo, dovresti chiedere al nonno!”
Umorismo tedesco. Magari non il massimo della commedia, ma le barzellette e gli sfottò sul calcio esistono a tutte le latitudini, e questa freddura a Monaco di Baviera è circolata per molti anni tra i tifosi del Bayern, per infierire sui cugini meno vincenti, con i quali va in scena l’acceso derby locale. Per la precisione, il digiuno per i “leoni della Baviera” è durato dal 12 novembre del 1977 al 27 novembre del 1999, esattamente ventidue anni interrotti dalla bordata di Thomas Riedl all’Olympiastadion di Monaco. Una vittoria che coincise con l’ultima età dell’oro nel club, quando il quarto posto nella stagione 1999/00 in Bundesliga, raggiunto grazie ai lampi di classe di un ispirato Thomas Hassler a fine carriera, valse la prima e finora unica qualificazione nella moderna Champions League.

Schermata 2013-09-11 alle 01.05.48Un’avventura che terminò già nel turno preliminare al cospetto degli inglesi del Leeds United, ma nessuno come i tifosi del Monaco 1860 sa quanto sia importante esserci, prima ancora che vincere. Un retaggio figlio non degli insegnamenti decoubertiniani, bensì di una storia tormentata, fatta di cadute, resurrezioni e sofferenze più o meno costanti all’ombra dei cugini del Bayern, capaci di dominare la scena nazionale e molto spesso anche quella internazionale. E dire che prima della Seconda Guerra Mondiale, il Monaco 1860 era squadra di primo livello, soprattutto vicina al cuore e ai pensieri dei gerarchi nazisti. Una commistione che creerà nell’immediato dopoguerra non pochi imbarazzi al club, e che lo porterà di fatto ad eliminare i riferimenti al periodo anteguerra nelle sue biografie.

Il Bayern iniziò ad erodere consensi a quella che era considerata la squadra degli abitanti del cuore di Monaco. Ma negli anni sessanta, quasi contemporaneamente alla nascita della Bundesliga, il Monaco 1860 visse il suo periodo più felice sotto la guida del tecnico austriaco Max Merkel. Nel 1964 il club vinse la Coppa di Germania, nel 1965 perse la finale di Coppa delle Coppe contro gli inglesi del West Ham, mentre nel 1966 conquistò il suo primo e finora unico Meisterschale, il titolo di campione di Germania. Con l’avventura in Coppa dei Campioni conclusasi al cospetto del Real Madrid, il Monaco 1860 vede però spegnersi la sua stella in favore di quella dei rivali cittadini, che negli anni settanta diverranno dominatori del calcio mondiale.

E il peggio doveva ancora venire, visto che dopo il derby vinto nel 1977, il Monaco 1860 è costretto a ripartire addirittura dai campionati regionali: Il fallimento, un’ombra che viene spazzata via dall’avvento di Karl Heinz Wildmoser, ambiziosissimo presidente che riporterà la più antica squadra di Monaco in Bundesliga, e al tramonto degli anni novanta a rompere l’ultraventennale digiuno nei derby, e a respirare aria di Champions League a trentatré anni dal titolo.

Ma la storia del Monaco 1860 ha qualcosa di strano, diverso da tutti gli altri club. E ciò che per tutti all’alba del duemila è fonte di enormi guadagni, per i leoni di Baviera diventa la causa della rovina. Ovvero, la costruzione dello stadio di proprietà, l’Allianz Arena, che per i cugini del Bayern, con i loro centocinquantamila soci, è un investimento verso il futuro, mentre per il piccolo Monaco 1860 è un salto finanziario nel buio. E Wildmoser, nel frattempo affiancato dal figlio, si ritrova sommerso dai debiti. Nel 2004 il club prova addirittura a tornare a giocare nel catino dello storico Grundwalder Stadion, per la gioia dei tifosi, ma il passo indietro complica addirittura le cose. L’Allianz Arena non può essere abbandonata, ma i debiti ed i costi di gestione rischiano di schiacciare il club. Il secondo fallimento della storia viene evitato da un imprenditore giordano, Hasan Abdullah Ismaik, che entra a Monaco subito col piede di guerra perché la legge tedesca gli vieta di possedere, in quanto socio estero, il 51% del club. Ed i leoni del Monaco 1860, ormai da anni in Zweite Bundesliga, attendono di tornare a ruggire: il club ha perso tante battaglie in oltre 150 anni di storia (fondato come società podistica, iniziò l’attività calcistica nel 1899), ma la speranza mai.

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Calciatori Fabio Belli

Silvio Piola, alfiere del calcio eroico degli anni ’30, tra Parigi e le imprese nei derby romani

di Fabio Belli

Sul dominio internazionale del calcio italiano negli anni ’30 si è parlato moltissimo, e spesso, soprattutto in relazione alle due vittorie nei Mondiali del 1934 e del 1938 della Nazionale azzurra, si è sottolineato come probabilmente anche presunti aiuti e le ingerenze politiche del regime fascista abbiano contribuito ad issare sul tetto del mondo il movimento calcistico italiano in quel decennio. Una interpretazione alquanto ingenerosa, considerando lo spessore dei calciatori dell’epoca. Una generazione di fenomeni, con Giuseppe Meazza a fare da trait d’union ad una parata di campioni che vide Schiavio, Orsi ed Attilio Ferraris trionfare nel 1934, e Ferrari, Biavati, Colaussi e Silvio Piola nel 1938.

contrastoProprio Colaussi e Piola, allo stadio di Colombes a Parigi, sigleranno una doppietta ciascuno che permetterà all’Italia nella finalissima contro l’Ungheria di confermare il titolo mondiale di quattro anni prima. In particolare Piola, nel 1938, ha venticinque anni ed è al massimo dello splendore della sua carriera. E’ stato portato alla Lazio dopo essere esploso nella Pro Vercelli, grazie agli ambiziosi piani del presidente Eugenio Gualdi, che vuole portare la formazione biancoceleste a sfidare lo strapotere delle grandi del Nord, con lo scudetto che all’epoca mai si è spinto a sud di Bologna. Giunto a Roma per l’allora cifra record di duecentocinquantamila lire, Piola porta la Lazio a vette mai raggiunte dall’avvento della Serie A a girone unico, fino al secondo posto del 1937, con lo scudetto vanamente conteso proprio al Bologna.

La stagione del mondiale consacra Piola tra i più grandi fuoriclasse in assoluto del calcio mondiale. Prima sfiora con la Lazio la conquista dell’allora unico trofeo internazionale per club, la Coppa dell’Europa Centrale. Un’antesignana della Champions per squadre italiane, austriache, svizzere, ungheresi, cecoslovacche, romene e jugoslave. Il top del calcio europeo di allora, testimoniato dal fatto che Italia, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria e Jugoslavia arrivarono tra il 1930 ed il 1938 una o più volte tra le prime quattro del Mondiale. In una infuocata finale di ritorno all’allora stadio Nazionale (poi divenuto Flaminio), la Lazio manca l’alloro europeo al cospetto del Ferencvaros, nonostante tre gol di Piola tra andata e ritorno. Il titolo sempre sfuggito con la maglia biancoceleste, però, arriva come detto ai Mondiali parigini, che Piola chiude con cinque reti all’attivo, vicecapocannoniere alle spalle dell’asso brasiliano Leonidas.

Il rapporto con la Lazio va avanti, tanto che Piola resta ancora oggi il miglior marcatore della storia biancoceleste, con 142 reti in 227 incontri di campionato. Ma con le dimissioni di Gualdi dalla presidenza, la squadra biancoceleste non riesce più ad insidiare le grandi per il titolo, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ma al di là dei numeri Piola è entrato nel cuore dei tifosi della Lazio in due occasioni:  il 15 gennaio 1939, quando per la prima volta la Roma subisce l’onta della sconfitta in un derby giocato al campo Testaccio, con Piola nell’inedita veste di regista offensivo, ed il 16 marzo 1941, quando batterà i rivali cittadini praticamente da solo e gravemente ferito. Per quella sfida l’allenatore Canestri si trova ad affrontare una delicatissima situazione di classifica. Per giunta, al 10′, la ruota sembra girare a favore dei giallorossi quando Piola si scontra molto violentemente con il difensore avversario Acerbi: ferita profondissima alla testa, Piola perde molto sangue e, in un’epoca senza sostituzioni, se lasciasse il campo farebbe restare i suoi in dieci.

Piola resta a bordo campo più di un quarto d’ora, mentre gli assalti della Roma vengono respinti dal portiere Uber Gradella. Quindi, dopo quattro punti di sutura e la testa fasciata da un turbante, il capitano biancoceleste rientra in campo. E segna prima di testa (!), per poi raddoppiare nella ripresa, con i punti che non hanno retto ed il turbante inzuppato di sangue, al termine di una strepitosa azione personale, eludendo la guardia di due difensori. Roma-Lazio 0-2, Piola – Piola, e l’incubo retrocessione per i biancocelesti è scacciato, con il più grande centravanti dell’anteguerra che esce in barella, sfinito ed applaudito anche dai tifosi della Roma presenti allo stadio Nazionale, che rendono omaggio allo straordinario valore. E’ l’ultimo regalo di un leone che, a più di trent’anni, viene giudicato ormai al tramonto e viene lasciato tornare al nord. Ma il carattere dimostrato a campo Testaccio fa parte del DNA di Piola, che giocherà altri dieci anni, fino al 1954, e tra Juventus e Novara inanellerà altri 112 gol in Serie A, ancora oggi miglior marcatore di tutti i tempi del calcio italiano.

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Club Valerio Fabbri

Spartak Mosca: la squadra della classe operaia nata dal patto dei quattro fratelli Starostin

di Valerio Fabbri

La storia dei fratelli Starostin – Aleksandr, Andrej, Pëtr e Nikolaj, nati fra il 1902 e il 1909 – è anche quella dello Spartak Mosca, squadra di calcio russa nata nelle strade del quartiere Krasnaja Presnja della capitale e celebrata anche dal poeta Vladimir Majakovskij. Perché l’epopea di questi fratelli riassume, per certi versi, la vicenda di un’ideologia, quella sovietica, e della sua dissoluzione.

urlÈ Nikolaj Starostin che decide di creare una polisportiva in grado di competere con il CSKA (dell’Armata Rossa) o la Dinamo (del commissariato degli interni/KGB). Nel 1935 – fondato nel 1922 come Krasnaja Presnja – nasce il club professionistico di calcio Spartak Mosca, dal nome del celebre Spartaco che guidò un’epica rivolta degli schiavi contro Roma. A suo modo, anche lo Spartak è espressione di una rivolta, essendo l’unica squadra sovietica nata per iniziativa di un gruppo di amici e non come emanazione delle potenti polisportive militari.

La classe operaia si identifica a tal punto nella squadra di calcio che, nel 1936, la Piazza Rossa diventa teatro di una partita dimostrativa fra la prima e la seconda squadra dei biancorossi davanti a Stalin in persona. Nemmeno la Dinamo aveva mai ottenuto tanto. Il passo è breve affinché lo Spartak Mosca finisca per rappresentare la squadra proletaria per eccellenza, nella quale si identificano i russi e non solo. Un perfetto modello sovietico, in teoria. Un pericoloso precedente “borghese”, in pratica. È l’inizio della fine.

Lavrentij Berija, capo dei servizi di sicurezza dal 1938, responsabile delle repressioni staliniane, appassionato di calcio e presidente della Dinamo, fa arrestare e condannare a 10 anni di lavori forzati i fratelli Starostin, colpevoli del proprio successo e rei di avere troppe volte sconfitto la sua Dinamo in campionato. Tutti e quattro i fratelli vivranno una seconda vita, ma chi rimarrà legato al club è Nikolaj, responsabile tecnico del club fino alla morte nel 1992. Lo Spartak ha continuato a far bene anche senza di lui, anche se la sua morte ha segnato la fine di un pezzo di storia del calcio russo, ora dominato da squadre nuove – Zenit San Pietroburgo, Anzhi Makhachkala, Rubin Kazan, per citarne alcune – spirito del tempo moderno.

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Fabio Belli Presidenti

L’Avvocato Agnelli, dalla miniera di aneddoti all’amore per Platini

di Fabio Belli

Dire Juventus e dire Agnelli è la stessa cosa, quasi tutti lo sanno. Da Giovanni all’Avvocato Gianni, da Umberto fino ad arrivare ai giorni nostri, ad Andrea e alla possibile apertura dell’ennesimo ciclo vincente bianconero, che si rigenera dalle ceneri di Calciopoli come l’Araba Fenice. Dire Juventus è dire Agnelli, ma si può essere d’accordo che tra tutti i protagonisti della storia bianconera, l’Avvocato sia stato quello più carismatico, più ricco di stile e di aneddoti raffinati.

url-1Volerli riassumere in un solo articolo è follia, citarne qualcuno invece è un esercizio di stile che fa bene al cuore degli appassionati, oltre che allo spirito di chi vuole disintossicarsi dal calcio saturo di polemiche dei giorni nostri. Da quanti sterili protagonisti l’Avvocato sarebbe stato annoiato, se fosse ancora qui. Lui che amava i personaggi sopra le righe, originali, ed oltre ad essere stato, nella sua quarantennale esperienza da padre nobile della Juventus, una miniera di aneddoti, era anche uno che amava raccontare le storie del passato, quelle della Juventus cinque volte Campione d’Italia negli anni ’30, la squadra della sua prima giovinezza, ma anche quella dell’immediato dopoguerra, simbolo della rinascita dell’Italia dalle macerie.

Nella grandeur juventina degli anni ’80, all’Avvocato piaceva tormentare Platini, suo figlio calcistico preferito e per questo stuzzicato, come lo furono anche Baggio e Del Piero negli anni novanta. Una volta al campo di allenamento l’Avvocato si presentò in macchina, direttamente dentro il rettangolo verde, e cominciò ad intrattenersi con i calciatori. Propose una scommessa: fece piazzare tanti palloni sulla linea di centrocampo, e chiese a tutti di cimentarsi per provare a colpire volontariamente la traversa. In molti mancavano il bersaglio, qualcuno riusciva, lui osservava sornione finché notò Platini in disparte, che faceva stretching col massaggiatore. “Platini, la annoia il nostro gioco?” “Sinceramente , Avvocato.” rispose l’asso francese. “Allora perchè non prova a divertirci lei?” Senza battere ciglio Platini sussurrò qualcosa al massaggiatore, che lentamente si avviò verso la parte opposta del campo, e con l’aiuto di una panca salì a posizionare, in bilico sulla traversa, una lattina vuota. Da dove si trovava, Platini scalciò l’aria un paio di volte per sgranchirsi, quindi prese la mira e fece saltare, da una parte all’altra del campo, la lattina al primo colpo. “Molto bene,” si limitò a sorridere l’avvocato, e se ne andò.

Per parlare di Platini l’Avvocato, che era stato sempre un mattiniero, amava iniziare le sue settimane con telefonate a Boniperti, il suo uomo di fiducia alla Juventus che abbandonava gli spalti per scaramanzia alla fine di ogni primo tempo, e soprattutto al tecnico dell’epoca, Trapattoni, che alle sei del mattino si svegliava, comunque fosse andata la partita del giorno prima, per fare il punto con l’Avvocato. Che pungeva sempre: “Però quel Maradona lì mi sembra più bravo…” in un confronto che gli permetteva di rimproverare a Boniperti di aver lasciato cadere nel vuoto la sua segnalazione del Pibe de Oro, ai tempi dell’Argentinos Juniors. Amava tenere sulla corda i suoi uomini, l’Avvocato, ma lo faceva perché ne era orgoglioso. Ed era ottimista: quando in una assolata giornata di fine aprile del 1986 la Juventus piegò il Milan conquistando di fatto il suo ventiduesimo scudetto, a causa dell’incredibile crollo della Roma contro il Lecce, un giornalista gli chiese se si aspettava una giornata così. E lui rispose col suo solito tono ironico e disincantato: “Io mi aspetto sempre di tutto dalle giornate.” Stile inconfondibile, allora lo chiamavano stile Juventus.