“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.
Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.
A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.
Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.
Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.
La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.
“Non ho mai mai segnato in un mondiale, questo è il mio vero rimpianto. Ne ho giocati due. Il secondo avendo per C.T. quell’allenatore italiano che aveva avuto pure un figlio in nazionale…Arriva il signor Maldini e mi affronta a muso duro, domanda se ho qualcosa contro un allenatore straniero? No, gli dico io. Meglio, fa lui, perché da oggi qui comando io. Ci tolse carne, zuppe, cocomeri e meloni. Disse che pasta e riso andavano meglio. La cosa peggiore fu che mi tolse pure le punizioni. I francesi si permisero addirittura di tenermi in panchina. Successe allo Strasburgo. Mi hanno pure dato sei mesi di carcere perché dicono che io abbia falsificato dei certificati medici per rescindere il contratto. Volevo solo andarmene di lì, ecco qual era il punto. Volevo tornare in un posto dove tutti fossero felici di avere con loro José Luis Chilavert”.
Chi non ha mai sentito nominare questo portiere-goleador paraguaiano? Eroe di un calcio oramai divenuto anacronistico perché romantico e romanzato. Orgoglio di una Nazione intera, dal carattere estroverso e “caliente” tipico dei latinoamericani. Chilavert è un’icona del calcio mondiale, questa la sua storia.
Nasce a Luque, città distante circa 15 km dalla Capitale del Paraguay Asunción. Cresce in una condizione di estrema povertà. Aiuta la famiglia mungendo le mucche già a 5 anni, vendendo il latte nel quartiere di Ñu Guazú, un sobborgo rurale di Luque. Si può permettere il primo paio di scarpe solamente a 7 anni.
Trova un modo costruttivo per evadere dalla miseria che lo avvolge, giocando a pallone. Lo fa in compagnia del fratello maggiore Rolando. Quest’ultimo lo costringe a stare in porta. Gli altri ruoli sono tutti già occupati ed essendo Josè il più piccolo ha poca voce in capitolo. Così accetta, ma ad una condizione: vuole battere i calci da fermo. Rigori e punizioni sono la sua passione, si esercita a lungo con il piede preferito; il mancino, molto sensibile e di una precisione chirurgica.
Entra nelle giovanili della squadra di Luque, il Club Sportivo Luqueño. Allenato da Modesto Sandoval si fa notare sia per il suo talento tra i pali, sia per le sue indiscusse doti balistiche. Nel 1980, a soli quindici anni, esordisce nella seconda divisione con il Luqueño. Dopo quattro anni viene acquistato dal Guaraní, si trasferisce nella Capitale e debutta nella massima serie paraguaiana. Nel 1984, durante la sua prima stagione con gli Aurinegros, vince il Campionato assieme al fratello Rolando che nel frattempo è diventato titolare nel centrocampo degli “El Aborigen”.
A vent’anni Chilavert decide di accettare la proposta del San Lorenzo de Almagro: Buenos Aires e il campionato argentino l’aspettano. La Primera Division è un campionato certamente più competitivo, ma questo non lo spaventa. Quattro stagioni disputate in argentina, 122 partite giocate. Per due anni di seguito arriva con il “Ciclon” al 7° posto, poi un prestigioso 2° posto ed infine un 5° posto.
Nell’estate del 1988, a 23 anni, José riceve una proposta dall’Europa; il Saragozza è molto interessato a questo giovane portiere bravo tra i pali e dal carattere forgiato dalle prestazioni con la maglia dei “Gauchos de Boedo”. Durante la prima stagione (1988/89), Chilavert si conferma ad ottimi livelli, tanto da guadagnare le attenzioni della Nazionale maggiore che decide di convocarlo.
Epico il debutto in Nazionale. 27 Agosto 1989. Non ci sarebbe potuto essere un esordio più delicato: una partita del girone per accedere ai mondiali di Italia ’90 contro la grande Colombia di Valderrama e Higuita.
Al Defensores del Chaco, si registra il tutto esaurito per spingere la “Albirroja” alla vittoria. Il match è equilibrato, ma vede fin da i primi minuti di gioco i padroni di casa combattivi e determinati. A pochi istanti dal 90° il risultato è fermo sul punteggio di 1 a 1, ma proprio allo scadere una clamorosa leggerezza di René Higuita (uscendo a valanga con il pugno colpisce un’attaccante paraguaiano), concede al Paraguay il match ball.
Dopo che la polizia è dovuta entrare in campo per calmare gli animi, sul dischetto (tra l’incredulità generale) si presenta Chilavert. I giocatori della Colombia cercano di innervosirlo in tutti i modi; sbalorditi, quasi infastiditi lo circondano. Valderrama tenta fino all’ultimo di spostare la palla dal dischetto provocatoriamente. Chilavert allontana il capitano della Colombia platealmente, piegandosi più volte per sistemare meglio il pallone sulla lunetta. Dopo una grande rincorsa che lo spinge fino al limite dell’aria di rigore, calcia con veemenza rasoterra spiazzando Higuita. È gol! La sua prima rete in carriera, accolta da un boato incredibile è decisiva per le sorti dell’incontro.
Purtroppo per Chilavert il Paraguay non riesce a qualificarsi ai Mondiali di Italia ’90, ma per Josè è arrivata la celebrità a livello globale. Al Saragozza da un anno, si è confermato come portiere, ma non ancora come goleador. Il 28 Gennaio del 1990, alla sua seconda stagione in Spagna, segna il suo secondo gol in partite ufficiali sempre su rigore, nuovamente risolutivo. Il Real Zaragoza vince per 2 a 1 contro la Real Sociedad.
Josè in Spagna però si sente un leone in gabbia, non sempre gioca titolare e non si trova a suo agio con il calcio europeo. Dopo l’ultima stagione a Saragozza (90/91) vuole tornare in Sudamerica. Al Vélez Sarsfield, squadra di Liniers sobborgo di Buenos Aires, si sta compiendo una sorta di rivoluzione. La società vuole tornare a vincere il prima possibile in Patria, ma anche tentare di primeggiare nelle competizioni internazionali.
Durante la stagione 90/91 viene introdotta anche in Argentina la modifica della Primera Division con la doppia formula del campionato di Apertura e quello di Clausura. Il torneo viene quindi diviso a metà, incoronando così una squadra campione per l’Apertura (girone d’andata) e una per la Clausura (il ritorno).
La prima stagione al Vélez per Chilavert (1991/92) si chiude con un quarto e un secondo posto. L’ambiziosa società decide quindi di cambiare la guida tecnica riportando a casa Carlos Bianchi, attaccante del primo scudetto vinto nel 1968, bandiera del club, diventato nel frattempo allenatore. A guida de “El Fortin” nella sua prima stagione da allenatore (1992/93) riesce a vincere il torneo di Clausura. Per Chilavert è il primo titolo in Argentina.
Nel 1994 il Vélez arriva in finale di Coppa Libertadores contro il San Paolo. Chilavert a 29 anni ha l’occasione di conquistare il più prestigioso titolo internazionale per club del Sud America. Il 24 Agosto si gioca l’andata che vede “El Fortin” vincere per 1 a 0 grazie al gol de “El Turco” Omar Asad. Al ritorno s’impone il San Paolo con lo stesso risultato. Tempi supplementari e poi i calci di rigore. Primo rigore per il San Paolo, Chilavert para, secondo rigore per il Vélez Chilavert segna! Finisce 5 a 3 per gli argentini che diventano così Campioni del Sud America!
Il 1° Dicembre del 1994 si gioca a Tokyo la finale di Coppa Intercontinentale, il Vélez se la deve vedere con il Milan di Fabio Capello vincitore della Coppa dei Campioni. La partita è segnata da due ingenuità della retroguardia rossonera. La prima con Costacurta che affossa in area Asad e procura così un calcio di rigore, realizzato da Trotta (Chilavert ha concesso di farlo battere al suo Capitano) al 50°. Dopo 7 minuti, nei quali il Milan ha cercato in tutti i modi di pareggiare ma si è trovato di fronte ad un Josè in stato di grazia, sempre Costacurta, con un corto retropassaggio verso Sebastiano Rossi fa un involontario assist a “El Turco” Asad abile nel realizzare saltando il portiere. 2 a 0. Il Vélez di Chilavert, allenato da Carlos Bianchi, è sul tetto del Mondo!
A livello personale si aggiunge la soddisfazione di essere eletto per tre volte come miglior portiere del Mondo nel 1995, 1997 e 1998. Miglior giocatore del Campionato Argentino nel 1996. Nello stesso anno viene eletto anche miglior giocatore sudamericano e segna una storica tripletta che lo iscrive di diritto sul libro dei record.
Nel 2000, a 34 anni, Josè decide di provare per la seconda volta l’esperienza europea. Va in Francia e milita nello Strasburgo. In 52 presenze con il Racing, segna solamente 1 gol ma molto importante. Nella finale del 26 maggio 2001 di Coppa di Francia tra Strasburgo e Amiens si va ai calci di rigore. Chilavert para il 4° e segna l’ultimo. Vince così anche in Europa.
Nel 2002 partecipa al suo secondo Mondiale disputato in Giappone e Corea del Sud. Anche in quest’occasione il Paraguay viene eliminato agli Ottavi di finale. La Germania vince per 1 a 0, Chilavert si lamenta anche di tattiche scorrette attuate in campo dagli avversari. Secondo Josè Ballack avrebbe utilizzato delle flagranze maleodoranti per limitare la marcatura avversaria e concedere in questo modo più spazi ai giocatori tedeschi.
Dopo il Mondiale nippo-coreano la sua avventura al Strasburgo finisce con la falsificazione di un certificato medico utile a rescindere senza conseguenze il contratto che lo legava alla formazione francese (per questo motivo viene condannato nel 2005 al pagamento di una pena pecuniaria e sei mesi di carcere per illecito, mai scontati). Si accasa così al Peñarol in Uruguay con il quale diventa campione nel 2003.
Non può concludere la propria carriera che al Vélez nel 2003/04 con 6 presenze, a 39 anni. Decide di appendere i guantoni al chiodo in quella che è diventata la sua squadra del cuore, dopo essere riuscito a segnare 72 gol totali (15 su punizione). Il suo amore per il “Fortin” è viscerale tanto da volersi legare con il club anche oltre la vita: “Ho detto a mia moglie ed a mia figlia che voglio essere cremato, e le ceneri vengano disperse davanti alle porte del terreno di gioco del José Amalfitani, così da poter stare sempre con la gente del Vélez”.
Negli ultimi anni Chilavert si è proposto prima come allenatore del Paraguay, poi come Presidente. Ha polemizzato su Twitter con Maradona, che difende il Presidente Maduro nella guerra fratricida venezuelana, affermando che i giovani del mondo devono stare “attenti alle droghe, che distruggono la vita della persona e, naturalmente, non ti permettono di ragionare per vedere la realtà della vita”.
Nelle scorse settimane, sempre su Twitter, si è scagliato contro Mauro Zarate. L’ex attaccante della Lazio è cresciuto nel Vélez Sarsfield dove è tornato per la terza volta nel 2018 per poi passare, dopo pochi mesi, al Boca Juniors. Visto dalla piazza (e dalla famiglia dello stesso giocatore) come un tradimento, ha fatto indispettire ancor di più tifosi e addetti ai lavori al termine dei quarti di finale della Copa de la Superliga del 16 Maggio vinti ai rigori dal Boca. “È passata la squadra più grande”. José Chilavert, senza troppi peli sulla lingua, ha etichettato Zarate come un “ingrato e fallito” mantenendo fede al suo soprannome: “El Bulldog”.
“Si, viaggiare evitando le buche più dure senza per questo cadere nelle tue paure”
Le parole di Lucio Battisti sembrano cucite a pennello su‘Bora’ Milutinuvic. La valigia ha sempre accompagnato la suggestiva ed affascinante esistenza del personaggio odierno. ‘Bora’ Nasce il 7 settembre 1944 a Bajina Basta, nell’allora Jugoslavia. Le origini subiscono inevitabilmente le ripercussioni dettate dal regime del Maresciallo Tito. Il cocktail di etnie, dopo la morte del dittatore, si sfalda in modo irrimediabile. La terribile guerra civile scuote la polveriera.
La carriera da calciatore è tutt’altro che disprezzabile. Nella veste di centrocampista il buon ‘Bora’ fa il suo dovere con un pizzico di tecnica che non guasta mai. Dal Partizan di Belgrado al Monaco, transitando per il Nizza ed il Rouen. Il tramonto agonistico si materializza addirittura in Messico nei Pumas. Nel Centro America ‘Bora’, uomo a dir poco perspicace, conquista il cuore di una donna benestante figlia di un ricco proprietario terriero. Il seguente aforisma spiega il personaggio: “Nascere poveri è una sfortuna, ma sposarsi una povera è da sciocchi”.
Passa dal campo alla panchina dei Pumas in un batter d’occhio. I risultati sono invidiabili e la Federazione locale gli affida la guida della Nazionale maggiore. Tre lunghi anni per preparare la troupe ai mondiali casalinghi del 1986. Larios e soci, inseriti nel gruppo B, piegano il Belgio per poi pareggiare con il Paraguay ed infine sbancare di misura con l’Iraq. Agli Ottavi di Finale lo stadio ‘Azteca’ pullula di euforia nel successo sulla Bulgaria firmato da Negrete e Servin. Soltanto la Germania Ovest ai rigori sarà in grado di fermare l’allegra compagnia Tricolor. Le susseguenti avventure nel San Lorenzo e nell’Udinese cadono nel dimenticatoio per il magro bottino. Il tecnico serbo opta allora per una sfida ai limiti del paradossale. Diventa quindi il CT della Costa Rica. Le notti magiche esaltano un’autentica rivelazione. Cade la Scozia in principio. Poi giunge la sconfitta di misura con i marziani del Brasile. Al terzo ostacolo i Ticos si scatenano battendo la Svezia di rimonta per 2-1. Capitan Flores e gli altri si inchinano poi al ciclone della Cecoslovacchia negli Ottavi.
Il nome di Milutinovic ingolosisce i sodalizi di mezza Europa. Lui però snobba comodi lidi per sposare senza indugi avventure suggestive. Negli Stati Uniti d’America il calcio non costituisce proprio la disciplina che muove le masse. In realtà nella patria del capitalismo non esiste una Lega Nazionale e conseguentemente latita un torneo professionistico. L’assegnazione dei Mondiali del 1994 è quindi un treno da prendere al volo. La Federazione chiama; ‘Bora’ risponde all’istante. I college divengono un pozzo infinito di giovani promesse. La squadra americana passa come migliore terza dopo il pari con la Svizzera, il colpo inflitto alla Colombia ed il marchio di Daniel Petrescu. La favola a stelle e strisce va in archivio il 4 luglio quando Bebeto al ’73 trafigge Tony Meola.
Il profumo dell’America Latina diviene impellente ed il vagabondo serbo rievoca il passato e torna al timone del Messico cogliendo un ottimo bronzo nella Copa América del 1997. Nel dicembre dello stesso anno ‘Bora’ parte per l’ennesimo viaggio, destinazione Nigeria. Nel continente africano la compagine bianco-verde abbonda in classe e funambolismo. Dal difensore ex Inter Taribo West alle ali Finidi e Babangida, passando per la punta Kanu. Jay-Jay Okocha è la ciliegina sulla torta. Il match inaugurale con la Spagna è un miscuglio di sensazionali emozioni. Sblocca Hierro su punizione. Adepoju firma l’1-1. Raddoppia Raul. Lawal ristabilisce l’equilibrio con la complicità di un distratto Zubizarreta. Allo scoccare del ’79 Oliseh lascia esplodere un bolide destro imparabile. Ipkeba piega poi la Bulgaria per il bis. La Nigeria si aggiudica il raggruppamento D, nonostante lo scivolone patito ad opera del Paraguay. I bookmakers del globo sono fiduciosi nelle potenzialità della banda traghettata da Milutinovic. Ochechukwu e compagni crollano verticalmente negli Ottavi di Finale. La Danimarca di Schmeichel e Helveg gioca a poker senza alcun patema d’animo. ‘Bora’ è frastornato. L’annata ai New York Metrostars è un fiasco.
All’alba del nuovo millennio l’inossidabile ‘Bora’ si rimette in pista. Questa volta però la vetta appare insormontabile. La Federazione cinese mira alla partecipazione ai Mondiali del 2002 in Giappone e Corea. Il regno degli involtini primavera non si distingue certo per la qualità dei calciatori, non troppo distanti dal dilettantismo. Il trainer di Bajina Basta mischia nuovamente le sue carte mettendosi in discussione. Il miracolo è presto esaudito. La truppa asiatica si qualifica contro ogni più rosea attesa alla fase finale. Nel girone C Brasile, Turchia e Costa Rica non fanno sconti. Il fanalino di coda, forse per la prima volta in assoluto, può essere fiero dell’impegno profuso. La gita di Milutinovic, alla ricerca di stimoli e culture ignote, propone ulteriori tappe. Honduras, Giamaica e Iraq gustano i suoi sagaci dettami. Siamo sicuri che la mente di ‘Bora’ girerà vorticosamente in qualche altra zona dell’universo. Il mister esploratore continuerà di certo a scrivere il suo libro.
128. La “finalina” per il terzo posto dei Mondiali è una strana bestia: in nessuna altra competizione sportiva il ko in semifinale lascia tanto amaro in bocca, e infatti alla vigilia nessuno sembra voglia giocare quella che appare come un’inutile passerella. Poi invece, in campo la sfida si riaccende, e almeno quella medaglia di bronzo si vuol provare ad afferrarla. Solitamente, chi arriva più scarico perde: accadde in tempi recenti a Bulgaria, Corea del Sud e Portogallo, già paghe della semifinale, è successo anche stavolta al Brasile, ma per motivi opposti. Dopo la più grande umiliazione di sempre per la Selecao, è arrivato un nuovo disastro di fronte agli orange alleggeriti dalla tensione della semifinale, e di nuovo micidiali in contropiede. L’immagine del portiere Cillessen seduto in stile giardini pubblici col supporto del palo, è indice di quel poco che è riuscito a creare il Brasile nelle due partite decisive, quelle che dovevano portarlo sulla strada dell’Hexa.
129. Non è stato “Maracanazo”, ma un’umiliazione ben diversa, che paradossalmente ha solleticato l’orgoglio della torcida, che per il senso del dramma tipicamente sudamericano, digerirà sempre meglio una profonda umiliazione che una sconfitta stile 1950, quando le mani erano già sulla coppa. E così al Maracanà, nonostante i tedeschi avessero inflitto loro la peggior sconfitta della storia, non ci sono stati dubbi. Il “nemico” era e restava l’Argentina, come testimoniato dal tifoso che non ha avuto paura di scatenarsi in mezzo agli “hinchas” dell’albiceleste.
130. L’Olanda ha piazzato un primato, facendo giocare tutti e 23 i convocati, prima squadra a mettere in atto una soluzione simile ai Mondiali. La squadra di Van Gaal partiva a fari spenti, l’impressione è che forse il bersaglio grosso si poteva afferrare più questa volta che 4 anni fa, quando la Spagna dava una sensazione di superiorità generale difficile da smentire. Ma un secondo e un terzo posto tra 2010 e 2014 dimostrano come la scuola dei Paesi Bassi sia sempre all’avanguardia. Da 40 anni il sogno è però sempre uno, e continua a sfuggire come una saponetta bagnata. Vedremo se dove non sono arrivati Cruijff, Van Basten e Robben, riusciranno finalmente ad arrivare i giovani fenomeni del futuro.
Germania – Argentina 1-0 dts
131. Come avviene ormai da Francia 1998, dire “ha vinto la squadra migliore” è consuetudine della finale. Dopo un secondo e due terzi posti, la Germania conquista il quarto titolo Mondiale, raggiungendo l’Italia e dando finalmente un senso a dodici anni di straordinaria continuità nella competizione. I tedeschi arrivavano in Brasile tra le favoritissime, ma hanno giocato un Mondiale un po’ col freno a mano tirato. Due strepitose prestazioni, contro il Portogallo (favorita però da un arbitraggio oltremodo severo con i lusitani) e soprattutto Brasile, la Partita della Storia di questo Mondiale, e un’eccellente prova contro la Francia. Ma il balbettare già visto contro Ghana ed Algeria si è ripetuto al cospetto degli argentini, in tre diverse occasioni capaci di graziare Neuer a tu per tu. Ha vinto quella che nell’ultimo decennio si è imposta come una scuola capace di arrivare sempre tra le prime quattro tra Mondiali ed Europei, dal 2006 in poi. Mancava la vittoria, ed è arrivata. Facendo cadere anche l’ultimo tabù: mai un’europea aveva vinto nel continente americano.
132. A decidere la partita, Mario Gotze, classe ’92, talento della new wave tedesca quest’anno passato dal Borussia Dortmund al Bayern Monaco, un po’ discontinuo, ma l’unico forse in grado di spezzare l’equilibrio che gli argentini avevano imposto al match. Ha deciso la partita su un assist di Schurrle, anche lui subentrato dalla panchina: segno che chi ha le alternative e le fa valere, spesso mette le mani sul piatto.
133. Dopo una stagione opaca nella Lazio, in molti pensavano che Miroslav Klose sarebbe stato un’alternativa di lusso per la Germania del “falso nueve” Muller. Invece il centravanti di origini polacche si è imposto da titolare, con la sua presenza come riferimento in avanti capace di far girare tutta la squadra. E’ arrivato anche il record di gol nei Mondiali, una storia fantastica se ci si pensa. Nel 2002, l’ultima finale giocata e persa dalla Germania, Klose era in campo. Quella partita fu vinta dal Brasile con doppietta di Ronaldo, lanciato a sua volta verso il sorpasso a Gerd Muller. Nel 2014, Klose si prende il primato come marcatore di tutti i tempi del Mondiale segnando il gol del sorpasso in semifinale al Brasile sotto gli occhi di Ronaldo… e in finale, conquista anche la Coppa, chiudendo un cerchio lungo dodici anni.
134. Non ci siamo dimenticati naturalmente di uno dei leit-motiv di questa rassegna iridata. Messi vs Maradona, un cavallo di battaglia che è venuto spontaneo cavalcare dopo l’eccellente girone eliminatorio disputato dalla “pulga”. Mai il quattro volte Pallone d’Oro aveva avuto un tale approccio ai Mondiali, e si era pensato che la prospettiva di riportare l’Argentina sul tetto del mondo nella tana del Brasile fosse troppo ghiotta per non sfruttarla. E invece, dopo la giocata ammazza-Svizzera nei supplementari degli ottavi, l’asso del Barcellona si è eclissato, sprecando il match-ball col Belgio, facendosi imbrigliare dalla gabbia di Van Gaal in semifinale, ed infine senza prendere per mano la squadra nell’appuntamento decisivo, con tanto di clamorosa occasione fallita a tu per tu con Neuer. L’occasione irripetibile è perduta: in Russia Messi potrà provare di nuovo, con ogni probabilità, a diventare campione del Mondo, ma difficilmente le porte dell’Olimpo, quello vero, dove solo cinque-sei calciatori sono stati finora ammessi, si apriranno per lui.
135. All’Argentina lo “scherzetto” di festeggiare al Maracanà non è riuscito davvero d’un soffio. Le occasioni mancate da Higuain, Messi e soprattutto Palacio agiteranno a lungo i sogni dei tifosi dell’albiceleste. Che si erano presentati dall’inizio dei Mondiali con questo irriverente coro verso i rivali di sempre: «Brasil, decime qué se siente; tener en casa a tu papá. Te juro que aunque pasen los años; nunca nos vamos a olvidar… Que el Diego te gambeteó, que Canni te vacunó; que estás llorando desde Italia hasta hoy. A Messi lo vas a ver, la Copa nos va a traer; Maradona es más grande que Pelé» (traduzione “Brasile, dimmi cosa senti ad avere in casa tuo papà / Ti giuro che anche se passano gli anni, non ci dimenticheremo mai / Che Diego ti ha dribblato, che Canni (Caniggia, ndr) ti ha infilzato, che stai piangendo da Italia ’90 / Ora vedrai Messi, la Coppa ci porterà, Maradona è più grande di Pelè“). Un tormentone che i giornali argentini hanno utilizzato anche dopo l’1-7 in semifinale: ovvio che dopo il gol di Gotze, sia arrivata la vendetta…
136. A proposito di tifo, cosa avrà mai fatto l’Argentina a Rihanna? In semifinale avevamo segnalato come la popstar si fosse schierata in favore degli olandesi, con un esperimento di photoshop riuscito solo in parte. I colori della bella cantante sono cambiati per la finale: presente al Maracanà, Rihanna ha tifato in maniera sfrenata per la Germania, con tanto di festeggiamenti finali con i giocatori. Difficile capire il perché, sono le stranezze della febbre-Mondiale.
137. Alla fine comunque, ha vinto questo signore qua. Grazie a tutti voi che avete seguito il “Contromondiale” di Storie Fuorigioco! Appuntamento in Russia, dai che tra 1419 giorni ci risiamo!
102. Germania, parliamone: per la quarta volta consecutiva tra le prime quattro dei Mondiali, è dal 1954 che i tedeschi figurano ininterrottamente tra le prime otto del mondo. Esatto, da sessanta anni la Germania arriva immancabilmente ai quarti di finale (1962, 1978, 1994, 1998), in semifinale (1958, 1970, 2006, 2010), in finale (1966, 1982, 1986, 2002), oppure si laurea campione (1954, 1974, 1990). Restando alla striscia attuale, è anche vero che dopo un secondo e due terzi posti, a Berlino sognano di tornare ad alzare un trofeo, eventualità che manca paradossalmente da diciotto anni (Euro 1996) e da ventiquattro in Coppa del Mondo. Ma la scuola tedesca, anche più di quella brasiliana, è quella che ha mostrato maggiore continuità in assoluto all’appuntamento Mondiale. E’ affascinante che le porte del Maracanà si spalancheranno dopo un epico scontro diretto.
103. Brasile e Germania nella storia dei Mondiali si sono affrontate solo una volta, incredibile se si pensa che si tratta assieme all’Italia delle nazionali più presenti in assoluto nella competizione. Era la finale del 2002 a Yokohama, e di fronte c’erano Ronaldo e Miro Klose: un incrocio mitico, se si pensa che si sono scontrati i due migliori marcatori della storia dei Mondiali. Per Klose l’occasione del sorpasso, dopo l’aggancio avvenuto nel match contro il Ghana, si presenta proprio contro la Selecao. Ma allora i brasiliani vinsero imponendo un tasso tecnico superiore: di sicuro si scontreranno il meglio della scuola europea, tattica ed organizzata fino all’estremo, e quella sudamericana, avvolgente e un po’ incosciente nella ricerca del risultato. Lo si è visto in questi due quarti di finale: una partita a scacchi l’europea Francia-Germania, una carnevale di ripartenze, errori e giocate esotiche Brasile-Colombia.
104. Un pensiero in realtà se lo meriterebbero anche i francesi, che in questo Mondiale alla fine hanno fatto niente di più e niente di meno di ciò che ci si attendeva. Le figuracce del passato sono un ricordo, e la freschezza di Valbuena, Griezmann e la potenza di Benzema restano tra le note positive di questo Mondiale. Ma l’esame di maturità è stato fallito, visto che la squadra di Deschamps è uscita di scena, dopo aver sfruttato un calendario favorevole, al primo avversario di vero, grande spessore. L’eroe dei quarti è stato Mats Hummels: difensore del Borussia Dortmund, può entrare nella lista della spesa solo ed esclusivamente dei top club. Il suo stacco di testa è stato un pezzo di alta scuola, ma meglio ancora è stata la sua prestazione da manuale in difesa. E’ grazie a giocatori così, che spesso lavorano nell’ombra, che si vincono i Mondiali.
Brasile – Colombia 2-1
105. La squadra più bella di questo Mondiale, con la rivelazione più gustosa, esce di scena di fronte a un Brasile che ha dimostrato di meritare un posto tra le prime quattro come mai aveva fatto nelle partite precedenti. Chi ama il calcio avrebbe voluto che Brasile-Colombia non finisse mai, tanta è stata l’intensità del match, soprattutto nel primo tempo. E quando la cannonata di David Luiz sembrava aver chiuso i conti, il rigore di “Ames” ha tenuto tutti col fiato sospeso fino alla fine. Tanto che in molti hanno avuto una strana sensazione: cos’era quella roba sulla spalla del fenomeno colombiano, dopo il penalty trasformato. I fermo immagine, passata la trance agonistica, ha risolto un mistero: una locusta grande più o meno come un barboncino, il primo insetto ad andare in gol in un Mondiale. Da mettere agli atti.
106. Tornando all’aspetto tecnico, l’eredità lasciata dalla Colombia alla competizione è molto interessante. Pekerman ha messo in campo una squadra rapida, travolgente nei cambi di fronte, tradita solo da una difesa non all’altezza e, probabilmente, dall’assenza di Falcao, con Teofilo Gutierrez volenteroso, ma non all’altezza dell’asso del Monaco. Non è servito neppure avere quello che, Messi permettendo, è stato finora il miglior giocatore del Mondiale. “Ames” Rodriguez a fine partita si è sciolto in lacrime, abbracciato e consolato dal killer della Colombia, David Luiz, che lo ha indicato a tutto lo stadio di Fortaleza, traboccante d’entusiasmo, ricordando a tutti: “Ok, abbiamo vinto, ma questo qui… è un fenomeno.”
107. Solo nel 1994 si era visto un Brasile simile, più forte dalla cintola in giù, che in attacco. Allora le star si chiamavano Aldair, Cafu, Dunga, Branco. Stavolta, la “zaga” composta da Marcelo, David Luiz, Thiago Silva si è completata alla perfezione con l’esperto Maicon, più concreto rispetto alla svagato Dani Alves degli ultimi tempi. Le vere stelle in questo caso sono comunque i due centrali, ed è simbolico che i gol siano arrivati da loro. Su Thiago Silva si è detto tutto, e da tempo. La sua assenza per squalifica peserà come un macigno in semifinale. David Luiz ha forse meno classe nelle chiusure, ma si propone in maniera micidiale palla al piede, e la sua grinta l’ha reso un idolo assoluto della Torcida. La sua punizione del 2-1 è una gemma, ed i cinquanta milioni di euro pagati dal Paris Saint Germain al Chelsea per averlo, sembrano sempre più giustificati. Nel 1994, tanta solidità veniva bilanciata da Romario in attacco. Stavolta, c’era Neymar. C’era, perché…
108. … perché i corsi e ricorsi della storia spesso sono crudeli. Alla vigilia di Francia-Germania è tornato d’attualità il fallo-killer di Schumacher su Battiston nel 1982, neanche sanzionato dall’arbitro nella semifinale di quell’edizione. Rischia di costare altrettanto caro alla Selecao, e sempre in favore dei tedeschi, la ginocchiata che ha rotto una vertebra (!) a Neymar da parte del colombiano Zuniga. Il Mondiale perde un protagonista, con Neymar che a dispetto della giovane età era riuscito a prendere per mano una squadra come detto sopra equilibrata come non mai, ma senza quel pizzico di “magia” in avanti tipico della Selecao. E l’incubo che il Brasile si porta dietro dall’inizio della competizione, si trasferisce ora al Minerao di Belo Horizonte, martedì prossimo.
109. Eh sì, perché dal 2002 il Brasile non si piazzava tra le prime quattro del mondo, e come detto contro la Colombia la squadra di Scolari ha meritato solo applausi, giocando con classe e personalità, e non con la paura vista in precedenza di chi si sente “condannato” a vincere perché gioca in casa. Ma per il Brasile, la delusione del 1950 è un fantasma che si può quasi sentire e toccare per le strade. E non per niente, l’enorme passione popolare con cui la gente sta seguendo la squadra in questa avventura, trasuda sofferenza di stampo del tutto europeo. Della folle ed entusiastica, spesso un po’ troppo spaccona, atmosfera con cui di solito vengono vissuti i Mondiali in Brasile, è rimasta giusto qualche traccia. La gente “vuole” vincere non tanto per centrare l’Hexha, che prima o poi arriverà: ma l’occasione di vincere in casa e cancellare “quella” partita, il Maracanazo che nessuno neanche più neanche nomina mentre l’obiettivo si avvicina, è irripetibile. La folla radunatasi di fronte all’ospedale che ha sancito il ko definitivo di Neymar, è in questo senso emblematica. Un’ansia che i tifosi della Selecao sperano si trasformi in energia pura, come è già avvenuto negli stadi di tutto il paese nelle precedenti partite, anche nella semifinale contro la Germania da affrontare senza l’asso dell’attacco e Thiago Silva.
66. Abbiamo già parlato di quanto i deja vu siano frequenti nei Mondiali. L’Italia si ritrova coinvolta in un’eliminazione tra grandi controversie arbitrali, come già avvenuto nel 1962 e nel 2002, quando un arbitro chiamato Moreno, così come in questo caso, scatenò l’ira dei tifosi azzurri. Il Moreno attuale è messicano e soprannominato Dracula, con il centravanti della squadra avversaria, Suarez, famoso per avere il “vizietto” di mordere gli avversari. Possibile che ci ricaschi con Dracula al fischietto? E soprattutto che Dracula non se ne accorga? Ovviamente sì: e il morso di Suarez a Chiellini rischia di diventare (anzi, forse già lo è) un cult alla pari della testata di Zidane a Materazzi nel 2006. In quel caso Horacio Elizondo non fece finta di non vedere, stavolta Dracula-Moreno sì: e questo è costato a lui le prossime partite del Mondiale, a Suarez una probabile, lunga squalifica, e all’Italia l’eliminazione. In una sorta di circolo inesauribile della storia mondiale azzurra.
67. Insomma, ce ne sarà di chi parlare a lungo, ma l’aspetto tecnico del match contro l’Uruguay non è scivolato in secondo piano. Anche e soprattutto perché l’espulsione (ingiustificabile errore, va detto) di Marchisio ha accelerato una deriva del match che, dopo un primo tempo di buon contenimento, aveva portato l’Italia ad arretrare paurosamente il baricentro dopo l’espulsione del nervoso, instabile ma probabilmente indispensabile (sì, qui andiamo controcorrente) Balotelli. Una scelta difensiva implosa quando qualcosa è andato storto, e non è un caso che invece di gridare all’ingiustizia (come avvenne nel 2002), i media italiani si siano scatenati contro il non-gioco espresso dagli azzurri dopo due anni di preparazione ed una finale europea. A parte qualche sprazzo contro l’Inghilterra peggiore dagli anni ’70, contro Costa Rica ed Uruguay i tiri in porta si sono contati sulle dita di una mano. A sessant’anni di distanza, si può comunque ammirare come sia cambiato il modo di reagire da parte dei giornali italiani ad un’eliminazione dell’Italia ai Mondiali.
68. E parte la solita sequela del tutti contro tutti: Prandelli attacca la stampa, Abete se la prende col sistema, Marchisio con Suarez, Verratti con l’arbitro e tutti, ma proprio tutti, con Balotelli. Da Bearzot a Vicini a Sacchi, da Zoff a Trapattoni a Lippi, il rito delle dimissioni in Italia fa sempre scalpore, forse perché inusuale. Di sicuro ci troviamo ad un punto che ha riportato il calcio italiano indietro di circa 50 anni: dopo lo scandalo di Cile ’62, arrivò il diluvio Corea del Nord a svegliare un football azzurro addormentato (ma che allora già dominava con le milanesi a livello internazionale di club). Due eliminazioni al primo turno che tornano clamorosamente d’attualità, ora che dopo un’edizione del 2010 giocata colpevolmente (e lo si capisce ora) con la pancia piena e senza stimoli, si torna di nuovo a casa. Via Prandelli, via Abete, la Nazionale ha bisogno però di protagonisti veri anche in campo: perché il sistema-calcio italiano sarà in crisi profonda e non si può negare, ma paesi come la Costa Rica e lo stesso Uruguay, non si può dire che raggiungano risultati superiori ai nostri con investimenti finanziari maggiori e politiche più lungimiranti. Lavorare bene, alla lunga, paga più che lavorare tanto, al di là dei luoghi comuni.
Costa Rica – Inghilterra 0-0
69. Partita che aveva poco da dire: i “Ticos” hanno dimostrato una volta di più di meritare la qualificazione e il primo posto, gestendo il pari che serviva loro per chiudere in testa. Inghilterra senza stimoli, tanto che i giornali inglesi hanno preferito concentrarsi sul caso-Suarez, stella della Premier League. E in barba agli interessi del Liverpool, la stampa britannica c’è andata giù pesante, con titoli del tipo “squalificate questo mostro”. Con due morsi e una squalifica per razzismo già alle spalle, Suarez (che si era affidato anche a uno psicologo per evitare di cadere di nuovo in questo tipo di comportamenti) potrebbe andare incontro ad una squalifica a tempo che coinvolgerebbe anche i Reds.
Giappone – Colombia 1-4
70. Se non ci fosse Suarez, la storia del giorno sarebbe sicuramente la sua: Faryd Mondragòn, classe ’71, a fine partita si è piazzato tra i pali della Colombia ed è diventato il giocatore più anziano della storia dei Mondiali. A 43 anni, c’era già ad USA ’94, ed è allla sua terza Coppa del Mondo solo perché la Colombia era assente dalla rassegna dal ’98. Un momento emozionante, in parte rovinato dalla FIFA che non ha permesso al numero uno il giro di campo finale in compagnia dei figlioletti.
Grecia – Costa D’Avorio 2-1
71. Il collegamento tra Grecia ed Epica è sin troppo facile, ma da dieci anni a questa parte la Nazionale ellenica, a fronte di risorse decisamente limitate, sta riuscendo ad ottenere risultati incredibili. E soprattutto a sovvertire situazioni sulla carta irrimediabili. L’impresa di Euro 2004 è agli atti e nella storia, ma anche due anni fa negli Europei in Polonia e in Ucraina, si guadagnarono un quarto di finale contro la Germania quando l’eliminazione sembrava inevitabile. Stesso copione stavolta: dopo il rovescio iniziale contro la Colombia e lo scialbo pari contro i giapponesi, chi si aspettava la coppia Samaris-Samaras (a proposito: con il messicano Ochoa è il secondo svincolato decisivo a Brasile 2014, dov’è l’errore?) agli ottavi? E contro la Costa Rica, poi: comunque vada, tra le prime otto del Mondiale ci sarà una prima volta assoluta ed inaspettata.
Rimasugli di Croazia – Messico 1-3
72. Non ce ne vogliano Bradley Cooper, Ellen DeGeneres e le stelle degli Oscar, ma a nostro avviso il “selfie” dell’anno è questo. Que viva Mexico, Que viva Héctor Herrera!
53. Una montagna va scalata un passo alla volta, e Leo Messi stavolta sembra fare davvero sul serio. Già il gol contro la Bosnia aveva fatto pensare a un approccio diverso della “pulga” all’unica competizione che davvero può dargli l’immortalità calcistica, cioè il Mondiale. Contro l’Iran, la sua magia è stata per giunta risolutrice, in un match che l’albiceleste ha rischiato a più riprese di perdere. Di sicuro, la preoccupazione per quanto espresso dalla squadra c’è, l’Argentina sembra troppo sbilanciata in avanti, tanta qualità in alcuni reparti, ma poca in altri. ci sono però anche tante analogie con Messico ’86 e con Maradona, soprattutto relativamente al fatto che un solo giocatore, quello considerato il più forte al mondo, possa cambiare le sorti di tutta la squadra. E risolvendo facilmente situazioni apparentemente impossibili.
Germania – Ghana 2-2
54. La storia del giorno, e non può essere altrimenti, è quella relativa a Miroslav Klose, a segno e capace di salvare i tedeschi da una inaspettata sconfitta, contro un Ghana sovrastante atleticamente, ma troppo ingenuo in difesa. 15 gol in quattro diversi Mondiali, che gli valgono per ora la palma, a braccetto con Ronaldo, di miglior marcatore della storia dei Campionati del Mondo. Per il centravanti della Lazio, più che un onore si tratta di un logico epilogo in una carriere in ci il feeling con i Mondiali è sempre stato massimo. A partire da Giappone-Corea 2002, quando si rivelò al mondo a suon di gol, trascinando una Germania rinnovata dopo il fiasco di Euro 2000 alla finalissima. Con un secondo e due terzi posti, ed una carriera da 303 reti tra club e Nazionale, il ragazzino partito da Opole, in Polonia, è diventato una leggenda per la Germania, per la quale resta il miglior marcatore di tutti i tempi, dopo il sorpasso a sua volta storico su Gerd Muller. Tra i miti del Mondiale, ora è nell’Olimpo.
Nigeria – Bosnia 1-0
55. La prima volta può essere indimenticabile, ma in altri casi tradisce. A dispetto di una squadra ricca di talenti ed individualità (Dzeko, Lulic, Pjanic, Ibisevic) ed il grande cammino nelle qualificazioni, la Bosnia saluta anticipatamente la compagnia. Può sperare nella qualificazione, con grandi aspettative a questo punto, una Nigeria che negli ultimi due anni viene sistematicamente snobbata dagli addetti ai lavori, ma che dalla vittoria in Coppa d’Africa, difficilmente ha sbagliato colpi. Concreta, quadrata e soprattutto difensivamente organizzata, la squadra di Keshi ora deve capitalizzare contro l’Argentina quanto seminato nelle prime due partite. Il calcio africano aspetta ancora la squadra capace di piazzare un vero exploit: i quarti di finale raggiunti dal Camerun nel 1990, dal Senegal nel 2002 e dal Ghana nel 2010 non rappresentano più un risultato in linea con l’enorme popolarità del football nel continente nero.
Rimasugli di Svizzera – Francia 2-5
56. Sul gol annullato a fil di sirena di Benzema: una situazione più simile alla pallanuoto e al basket che al calcio, ma che proprio ai Mondiali trova un illustre precedente. Nel 1978, Brasile-Svezia 1-1, Zico segna all’ultimo secondo il gol della vittoria per la Selecao, ma l’arbitro fischia mentre viene battuto il calcio d’angolo. E senza concedere il recupero: al contrario del gol francese però, quello avrebbe regalato la vittoria ai verdeoro: una beffa mica male…
46. Il sapore è quello di un’occasione perduta per entrambe le formazioni. Non sembrano però squadre in grado di lasciare un segno tangibile in un Mondiale dall’alto coefficiente di difficoltà. Soprattutto la Giappone di Zac ci si poteva attendere di più. Ora la qualificazione è appesa al filo della vittoria greca sulla Costa D’Avorio, e a quella dei “Blue Samurai” sulla forte Colombia. E il rito dei tifosi giapponesi che ripuliscono con zelo gli spalti alla fine di ogni partita, inizia a sembrare il simbolo della resa, oltre che un segno di indubbia civiltà.
Italia – Costa Rica 0-1
47. E veniamo alle nostre (dolenti) note. La sconfitta azzurra contro la Costa Rica brucia particolarmente considerando la sensazione di Deja Vu indotta dal gol di Bryan Ruiz. La maledizione del ’66, quando dopo aver definito una banda di “Ridolini” i ragazzi della Corea del Nord, l’Italia finì affondata dal gol di Pak Doo Ik (è sempre bene ricordarlo, un militare, non un dentista), si è perpetrata nel tempo, sia nei Mondiali felici che in quelli tristi. Nel ’70, nell’82, nel ’94 e nel 2006, in totale due vittorie e due finali, si scatenarono feroci polemiche dopo i pareggi nel girone eliminatorio contro Israele, Camerun, Stati Uniti, e nel 1994 addirittura perdemmo all’esordio contro l’Irlanda. Peggio è andata nel 2002, eliminati dalla Corea (sempre lei) del Sud, e soprattutto nel 2010, quando il pari contro la Nuova Zelanda ed il ko contro la Slovacchia sembrava aver segnato il punto più basso in assoluto. All’azzurro-tenebra si è aggiunto ora il ko contro un paese da meno di cinque milioni di abitanti. In attesa di Italia-Uruguay…
48. D’altronde i “Ticos” (così sono soprannominati i calciatori della Costa Rica) possono contare su tifosi scatenati, che venerano una Nazionale che solo nell’ultimo quarto di secolo è riuscita a raccogliere risultati significativi. Nel 1990, unica volta in cui raggiunsero gli ottavi di finale ai Mondiali, l’impresa fu talmente celebrata che venne girato un film, intitolato appunto 1990. E nella serata di venerdì a San José l’entusiasmo popolare è stato straripante.
49. Comunque, nel girone dell’Italia la situazione si fa intricata. Questa “diapositiva” illustra bene come stanno le cose prima dell’ultima giornata.
Svizzera – Francia 2-5
50. Il curioso caso di Karim Benzema: con un pizzico di fortuna in più sarebbe senza dubbio il capocannoniere di Brasile 2014. Dopo la “quasi tripletta” contro l’Honduras, il centravanti del Real Madrid ha segnato il 6-2 nella strabordante vittoria francese contro la Svizzera proprio in concomitanza con il triplice fischio finale dell’arbitro. Gol naturalmente non convalidato: ma la filosofia con cui Benzema sta prendendo queste piccole disavventure è quella di una Francia diversa, meno boriosa e più pratica, che nonostante l’assenza di Ribery e senza i favori del pronostico, ha destato una delle migliori impressioni della parte iniziale di Brasile 2014. E si è messa in tasca la qualificazione agli ottavi.
Honduras – Ecuador 1-2
51. Ed è proprio parlando di possibili capocannonieri che non ti aspetti, che chiudiamo il resoconto odierno. Enner Valencia entra nella nostra lista della spesa, anzi balza di prepotenza al primo posto, visto che l’età (25 anni) e la militanza con i messicani del Pachuca, suggeriscono un prossimo assalto delle squadre europee. I due gol con cui il brevilineo attaccante, cresciuto in patria nell’Emelec, ha “ribaltato” l’Honduras, si aggiungono a quello segnato contro la Svizzera e ad un repertorio che indica come le squadre a caccia di una punta scaltra e veloce, debbano fare in fretta a telefonare al suo procuratore.
52. Una delle nostre storie riguardanti le partite d’esordio si è rivelata profetica. Nel segno di “di padre in figlio”, Carlo Costly è tornato a fare gol per l’Honduras in un Mondiale dopo 32 anni. L’ultima volta, in Spagna, in squadra c’era il padre di Carlo, Anthony: la vera dinastia del calcio in Honduras.
34. Gioca in America, ha 34 anni ed è un attaccante. Tim Cahill è forse un po’ fuori tempo per finire nei nostri consigli per gli acquisti. Ma il gol più bello dei Mondiali finora è suo: gran botta al volo, traversa e pallone alle spalle di Cilessen. Non è servito all’Australia, ma questo attaccante dei New York Red Bulls già contro il Cile era stato una vera spina nel fianco, prendendole praticamente tutte di testa ed andando in gol. La sua carriera in Europa l’ha già spesa, peraltro per otto stagioni e con ottimo profitto, con l’Everton. E anche se il Mondiale dei “Socceroos” è durato appena cinque giorni tra la prima partita e la seconda, la coppia Cahill-Leckie sarà ricordata a lungo dai tifosi.
35. “L’AZ Alkmaar non rinuncerà al suo gioco offensivo che gli ha permesso di arrivare all’ultima giornata in testa alla classifica.” Parola di Louis Van Gaal, che dopo le disavventure tra Barcellona e Nazionale (primo giro), si era rimesso in gioco nel piccolo club che stava, a suo di gol e risultati pazzi, mettendo le mani dopo anni sull’Eredivisie, interrompendo lo storico dominio della triade Ajax-PSV-Feyenoord. Ovviamente, l’AZ perse quella partita subendo due gol in contropiede, e il titolo: ma il nostro è un vincente, e Van Gaal riportò il titolo ad Alkmaar, nel suo nuovo laboratorio, nel 2009, rilanciandosi a livello internazionale. Questo per dire che l’Olanda è già a otto gol segnati e tre subiti in due partite, e questa Nazionale Orange sembra altrettanto pazza e spregiudicata rispetto a quell’AZ. Nel calcio di solito vince chi subisce meno, non chi picchia di più. Nel frattempo, i motivi per simpatizzare per un’Olanda così spumeggiante, non mancano dentro e fuori il campo…
Spagna – Cile 0-2
36. “Maracanazo” è una parola spagnola, non portoghese. Nonostante si riferisca alla celeberrima disfatta del ’50, il Mondiale perso in casa dal Brasile contro l’Uruguay. Un segno del destino, la scelta di quella parola, traslata oggi alla fine di un ciclo che da tre grandi competizioni (Europeo+Mondiale+Europeo) prevedeva un solo vincitore. Lo “Spagnacanazo” si è consumato proprio al Maracanà, al cospetto di un super-Cile, ma i Campioni del Mondo sono apparsi logori, stremati da una stagione di club che aveva visto le formazioni iberiche dominare in lungo e in largo. A nulla è servito l’innesto di Diego Costa: trapianto rigettato, e il dietrofront dalla Selecao alle Furie Rosse che tanto aveva fatto infuriare la Torcida, si è ritorto contro il bomber ora al Chelsea ed ex Atletico Madrid.
37. Non si giocava un Mondiale in Sudamerica da Argentina 1978. Una vera anomalia considerando la popolarità del football a quelle latitudini, ma la rinuncia della Colombia del 1986 e l’irruzione sulla scena di Africa ed Asia ha dilatato i tempi. Ora, finalmente, si stanno vedendo tifosi provenienti da tutta l’America Latina, con un calore di cui in parte si era perduta la memoria. E se i messicani hanno tenuto testa ai brasiliani, e i colombiani hanno già dato spettacolo, la “Marea Roja” cilena si è superata nel giorno dello “Spagnacanazo”. Una valanga di entusiasmo che ha raggiunto picchi da leggenda al momento dell’inno cantato a squarciagola sulle tribune del Maracanà, ed ha debordato con il trenino degli “hinchas” cileni in sala stampa, in una invasione di campo imprevedibile per l’organizzazione brasiliana.
38. Abbiamo già citato il Polpo Paul, che nel 2010 aveva pronosticato tutto il pronosticabile in Sudafrica, e della gallina colombiana che ne emula le gesta. Ma non tutti gli animali sono così precisi: il dromedario Ahmed si sta guadagnando una sinistra fama a suon di pronostici sbagliati. La Spagna ne ha pagato le conseguenze, e su Twitter in molti hanno anticipato la previsione del dromedario come fatale per la squadra di Del Bosque. Curiosamente, per la terza volta negli ultimi quattro Mondiali la squadra Campione in carica esce di scena al primo turno. La Francia nel 2002 e l’Italia nel 2010 erano però state eliminate nella terza ed ultima partita del girone eliminatorio. Dal fischio d’inizio di Spagna-Olanda a quello di Spagna-Cile, il Mondiale delle Furie Rosse è durato due partite e meno di 98 ore: un record difficilmente battibile, soprattutto sui presupposti con cui Iniesta e compagni erano sbarcati in Brasile.
28. Non è una novità che le squadre più attese ai Mondiali spesso vadano incontro a difficoltà imprevista. Per il Belgio l’incubo è durato settanta minuti, complici anche le scelte del tecnico Wilmots che forse ha rinunciato a un po’ troppo talento, tenendo inizialmente in panchina i risolutori del match, Fellaini e Mertens. Un bel sospiro di sollievi per i sostenitori dei “Red Devils”: raramente in patria un Mondiale è stato così sentito dai belgi, che erano assenti dal meglio del calcio nel pianeta dal 2002. Caroselli da Bruxelles ad Anversa a Liegi, con tanto di bandiera brasiliana rivista alla belga. E così il primo ostacolo è stato superato: ma per lasciare davvero il segno in Brasile, servirà qualcosa (e un pizzico di coraggio) in più.
Brasile – Messico 0-0
29. La storia della sesta giornata dei Mondiali è sicuramente quella di Guillermo “Memo” Ochoa, al quale è stato dedicato un titolo giornalistico più che eloquente: “Un disoccupato ferma il Brasile”. Ochoa, classe ’85, è stato considerato per anni una promessa assoluta del calcio mondiale. All’estrema spettacolarità dei suoi interventi non sono però sempre corrisposte prestazioni con la giusta continuità. E’ al suo terzo mondiale, ma nel 2006 e nel 2010 non ha ottenuto il posto da titolare, nonostante si sia messo in evidenza nella Coppa America del 2007. Troppi alti e bassi che lo hanno portato ad arrivare a Brasile 2014 senza una squadra, da svincolato. Herrera gli ha dato fiducia, e contro la Selecao ha stupito il mondo intero, con un intervento alla “Gordon Banks” su Neymar ed altre tre prodezze al limite del miracolo. Le donne sono la sua altra grande passione oltre ai voli tra i pali: ma il Mondiale potrebbe regalargli a questo punto il salto più atteso alle soglie dei trent’anni: quello nel calcio europeo.
30. Parlando del Brasile, dopo le polemiche per l’arbitraggio di Nishimura contro la Croazia, il pari senza reti con i messicani ha alimentato ulteriormente i dubbi attorno alla squadra di Felipe Scolari. L’impressione è che alla Selecao manchi un vero finalizzatore, ma anche un “genio” offensivo di centrocampo, dove le mezze ali di grande talento abbondano, ed anche gli esterni, ma manca il Kakà della situazione, per intenderci. Considerando che Scolari sembra avere scarsa considerazione di Hernanes, che pure non corrisponde pienamente alle caratteristiche sopra citate, il problema non sembra di immediata, facile risoluzione.
31. I pareggi: sconosciuti fino ad Iran-Nigeria, ora sembrano materia di maggiore attualità. E se Brasile-Messico, nonostante la mancanza di gol, ha regalato diverse emozioni, la Russia di Fabio Capello non ha affatto convinto. E dopo un inizio spumeggiante, qualcuno ha iniziato ad addormentarsi di fronte alle prime partite “tattiche”.
Russia – Corea del Sud 1-1
32. Il sesto giorno “Mondiale” è stato anche quello dei portieri, nel bene e nel male. E se Ochoa si è guadagnato la copertina di eroe del momento, il russo Akinfeev ha mandato di traverso l’esordio a Fabio Capello. Kerzhakov ha tolto le castagne dal fuoco contro una Corea confusionaria tanto quanto i russi, ma in qualità di organizzatori nel 2018, le aspettative erano ben altre su una squadra che sembra semplicemente priva della qualità necessaria. Peggio degli svarioni nel secondo tempo, c’è stato il nulla assoluto del primo: chi a Mosca è rimasto alzato tutta la notte (il match in Russia iniziava alle 4 del mattino) di certo non ringrazia…
20. Che sia un segno del destino? Nei precedenti due Mondiali disputati, Messi aveva finora realizzato solamente un gol. La partita contro la Bosnia in verità è stata abbastanza pigra per il fenomeno argentino, ma il gol del momentaneo 2-0 è stato un autentico capolavoro, probabilmente con quello di Van Persie, il più bello della competizione fino a questo momento. E per di più, segnato al Maracanà, dove gli “hinchas” argentini si sono riversati in massa, facendo sentire praticamente a casa l’albiceleste. Leo sa che questa del Mondiale brasiliano è la montagna che deve scalare per entrare nella storia, e soprattutto vincere l’eterno confronto con un certo Diego Armando Maradona. Il primo passo, in barba agli scettici, è stato compiuto.
Germania – Portogallo 4-0
21. All’elenco delle “testate famose” si aggiunge quella di Pepe a Thomas Müller. Tutt’altro fascino, e soprattutto tutt’altra potenza rispetto alla testata per eccellenza, quella rifilata da Zinedine Zidane a Marco Materazzi nella finale del 2006. Ma tant’é: è bastata l’intenzione, ed il gesto ha fatto già il giro del mondo, tanto da meritarsi già una rappresentazione con i celeberrimi mattoncini lego. Il colpo non ha di certo influito sulle capacità di Müller, che ha realizzato la prima tripletta di Brasile 2014.
22. A onor del vero, la testata di Pepe ha scatenato una serie di polemiche sull’arbitraggio del serbo Milorad Mazic, inflessibile con i lusitani e con Pepe, che aveva appoggiato la sua testa su quella di Müller per invitarlo a rialzarsi per una presunta simulazione, e prima ancora nell’assegnare un rigore piuttosto dubbio ai tedeschi. La reazione della stampa portoghese non ha però alimentato le polemiche, ed anzi ha enfatizzato la delusione per la prestazione di Cristiano Ronaldo e compagni. Il primo confronto a distanza con Messi per CR7 è stato impietoso, e i dubbi sulla sua precaria condizione fisica, dopo una stagione massacrante con il Real Madrid, si moltiplicano.
Iran – Nigeria 0-0
23. E’ stato necessario attendere la tredicesima partita ed il quinto giorno dei campionati del mondo per assistere a un pareggio, per giunta a reti bianche. In una competizione inizialmente spettacolare come non mai, una mosca bianca. Il gioco difensivo dei persiani ha pagato (37% di possesso palla contro il 63% nigeriano), ma a rischiare tantissimo sono stati gli africani su palla inattiva. A rubare la scena in Italia, per la curiosa assonanza del cognome, è stato Mehrdad Pouladi. La sua dichiarazione premondiale è stata, poeticamente: “Il calcio è fatto per essere amato da me e mi ricambia con uguale spinta”. Per la serie, dai diamanti non nasce niente, da Mehrdad nascono i fior…
Ghana – Stati Uniti 1-2
24. Clint Dempsey segna al 28”: è il gol più veloce di questi Mondiali, come è facile immaginare, ed il quinto in assoluto più rapido in 84 anni di competizione. Il più veloce resta Hakan Sukur, in gol dopo 11” nella finale per il terzo posto del Mondiale 2002. Nella tabella dei gol-lampo dei Mondiali, Dempsey affianca Bryan Robson.
25. Del crescente interesse per il calcio negli USA si parla ormai da circa quarant’anni, e non sempre con cognizione di causa. I primi caroselli risalgono al mondiale nippocoreano del 2002, nel quale gli yankee raggiunsero il miglior risultato dell’era moderna e per valore assoluto, considerando “sperimentale” l’edizione del 1930: i quarti di finale. I ragazzi del soccer non sono comunque più un passatempo per
eccentrici: a Chicago e nelle maggiori città, il rito di ritrovarsi per seguire la partita in pubblico, all’europea, prende sempre più piede. Entusiasmo dimostrato anche da come la pagina dedicata al match winner contro il Ghana, John Anthony Brooks Jr., è stata modificata dai supporters USA su Wikipedia.
26. I nostri consigli per gli acquisti continuano con un centrocampista a dir poco pugnace. Kyle Beckerman colpisce per il look, con i lunghi dreadlocks che gli ballonzolano sulla schiena e volano in aria ad ogni tackle. Ma oltre alle treccine c’è di più: sulle orme di Alexi Lalas, già noto al pubblico italiano per il suo passaggio al Padova, la vera passione di Beckerman sono la musica (non si separa mai dalla sua chitarra, portata anche come bagaglio ai Mondiali) ed i viaggi, ma rispetto al difensore degli anni ’90, la sua sostanza calcistica è ben più tangibile. Dominatore della zona mediana, è al massimo della maturità professionale, come dimostra il suo ormai eccellente senso della posizione. Unica perplessità con l’età: a trentadue anni non può essere considerato un investimento a lungo termine, ma i club che fossero interessati ad un acquisto già pronto e maturo, farebbero bene a bussare alla porta della sua squadra, il Real Salt Lake, nello Utah.
Verso Russia 2018
27. Il tweet del giorno è quello di un certo “Jon”, che ironizzando sulle scelte recenti delle sedi Mondiali da parte del massimo organismo calcistico internazionale, si è guadagnato oltre 2000 retweet ipotizzando: “Se la FIFA continua di questo passo, ci saranno: Russia 2018, Qatar 2022, Iran 2026, Corea del Nord 2030, Inferno 2034 e Stoke 2038”. Chissà se i cittadini di Stoke-on-Trent, e di conseguenza i tifosi del City, l’hanno presa a ridere.
Durante la lunga rassegna Mondiale con i racconti delle finali, abbiamo già parlato degli incroci del destino che spesso, davvero per un soffio, non hanno provocato sorprese epocali. Il binario della Coppa del Mondo è sempre sembrato predefinito, come guidato dalla mano invisibile della storia. Se il tiro di Hurst nel ’66 è finito dentro, e quello di Rensenbrink nel ’78fuori, dopo aver colpito un legno a portiere battuto, non sembra un casualità. La Francia nel ’98 prima della finale sarebbe potuta uscire di scena, per un nulla, nei tre turni precedenti ad eliminazione diretta. Eppure alla fine tutto è andato così come si pensava dovesse andare. Nel 2006 invece, la finale ha scritto un copione completamente diverso da quello che gli Dei del calcio sembravano aver preparato.
L’edizione tedesca, stavolta in una Germania unita, come non era accaduto nel ’74, sembrava essere diventata la passerella d’addio perfetta per un grande campione della storia del calcio: Zinedine Zidane. Che dopo il trionfo del ’98, aveva preannunciato il suo ritiro alla fine del suo terzo ed ultimo Mondiale. Giocato divinamente, non appena i ritmi si erano alzati. Partita super contro la Spagna negli ottavi, addirittura leggendaria nei quarti contro il Brasile, fuori dalla finale dopo sedici anni, perfetta contro il Portogallo, per la seconda volta nella sua storia tra le semifinaliste. Mai nell’ultimo quadriennio Zizou aveva giocato così: dopo la Champions League conquistata con il Real Madrid nel 2002, la sua carriera aveva preso un lento declino, ma nell’ultimo grande appuntamento si era ridestato dal suo sonno. E aveva svegliato tutta una squadra impigrita, che fino alla partita contro il Togo aveva rischiato di nuovo l’eliminazione al primoturno, come nel 2002.
Dall’altra parte, un’Italia che a sua volta sembrava seguire lo spartito del 1970 e del 1994: partenza in sordina (stavolta era stato il ciclone “Calciopoli“, costato addirittura la retrocessione in B alla Juventus, a sconvolgere la vigilia azzurra), e poi crescendo culminato con una grande impresa in semifinale. La vittoria in casa dei tedeschi a Dortmund: Germania che proprio dal 1970 sconta un complesso quarantennale verso gli azzurri, nel quale i gol di Grosso e Del Piero alla fine dei tempi supplementari ricoprono un ruolo di primo piano. L’Italia in realtà porta ai Mondiali una generazione che, dopo aver mancato clamorosamente i Mondiali di quattro anni prima, ha l’ultimaoccasione per lasciare un segno tangibile nella storia del calcio. I Buffon, Nesta, Cannavaro, Totti, Del Piero, Filippo Inzaghi, Toni, di cui per anni si è detto meraviglie, senza che ne conseguisse un trionfo tangibile per la Nazionale. Il materiale per vincere c’è, ma come spesso avviene per i colori azzurri, tra il dire e il fare le variabili sono molte.
Nesta infatti si infortuna per l’ennesima volta in Nazionale; Totti è reduce da un grave incidente che per un soffio non gliel’ha proprio fatto saltare il Mondiale. Del Piero e Inzaghi parono dalle retrovie, e Toni, dopo anni passati a segnare a valanga con Palermo e Fiorentina, nontrova il gol, un po’ alla Paolo Rossi. E la doppietta contro l’Ucraina resterà un pezzo unico. Attorno ad un FabioCannavaro da leggenda, che a fine stagione sarà anche insignito del Pallone d’Oro, emergono però dei protagonistiinattesi. Fabio Grosso, che con una discesa pazzesca rimedia il rigore-risolutore contro l’Australia negli ottavi, e segna il gol che fa crollare le certezze tedesche e zittisce gli 80.000 del Westfalenstadion di Dortmund. E Marco Materazzi, che di Nesta prende il posto contro la Repubblica Ceca, e che giocherà un Mondiale al di sopra di ogni previsione.
Complice anche la stanchezza per i supplementari contro i tedeschi, la finale è più a tinte “bleus” che azzurre. Zidane mette subito la sua firma trasformando alla “Panenka” un rigore che per poco non finisce però al di qua della linea. Nel primo tempo però l’Italia reagisce dimostrandosi squadra vera. Prima Marco Materazzi sale altissimo, e di testa pareggia. Quindi Toni timbra la traversa. La squadra di Domenech accorcia le distanze tra i reparti, e le secondo tempo, dopo la fiammata di un gol annullato a Toni, c’è un crescendo francese che culmina in una parata che ha dell’incredibile di Buffon su un’inzuccata formidabile di Zidane.
Sembra davvero tutto scritto: dopo la grande festa in semifinale, l’Italia sembra andare incontro verso l’ennesima delusione, soprattutto perché all’orizzonte ci sono quei rigori che hanno visto gli azzurri sempre sconfitti negli ultimi 26 anni, fatta eccezione per l’Europeo del 2000. E’ invece un colpo di testa di Zidane a cambiare la storia: ma non quello sventato miracolosamente da Buffon, ma quello rifilato a Materazzi, sempre lui, per un’offesa che porta improvvisamente la finale dei Mondiali in uno scenario di partitella tra ragazzini di 10 anni in periferia. Accade anche questo, e il re del calcio di quella fase storica del Football, esce di scena come non avrebbe fatto forse nemmeno con gli amichetti in Algeria nella prima infanzia.
La storia cambia in quelmomento, per un colpo di testa che non va a segno, ed un altro che colpisce un bersaglio illecito, il petto di Materazzi, in Mondovisione. Guai a stuzzicare il destino: senza il suo leader in campo, la spinta della Francia si spegne. Si va ai rigori, dove accade qualcosa di mai visto: gli azzurri ne segnano cinque su cinque (ovviamente tirano anche Materazzi e Grosso, gli uomini del destino), la Francia sbaglia con Trezeguet e gli Champs Élysées gremiti durante la partita si svuotano in un lampo. Un trauma, anche per il presidente della FIFA Blatter che preferisce restare a consolare Zidane nello spogliatoio, invece di premiare gli azzurri. Segno che il copione scritto era un altro: ma per fortuna delle milioni di persone che affollano le piazze italiane per tutta la notte, in un revival speciale ed inatteso di Spagna ’82, il calcio ogni tanto ama anche improvvisare.