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Calciatori Fabio Belli

Branco: tre punizioni nella storia

di Fabio BELLI

Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talento brasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.

brancoSchierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.

Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionale brasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.

La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.

Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.

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Calciatori Fabio Belli

Parigi 1998, Ronaldo vs Nesta: quando eravamo Re

di Fabio BELLI

“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.

Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.

RonaldoNesta1A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.

Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.

Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.

La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Francois Omam-Biyik, il salto del calcio africano oltre la propria storia

di Fabio BELLI

Il Mondiale del 1990 è stato un evento indimenticabile per gli appassionati di calcio. Un football all’epoca pieno zeppo di campioni, Maradona nell’Argentina, Roberto Baggio nell’Italia, l’Olanda di Van Basten e Gullit, i tedeschi, il Brasile dell’astro nascente Romario… insomma, un’epoca d’oro che andava a chiudere un decennio pieno di fantasia e di colori come gli anni ’80. E proprio al Pibe de Oro, in qualità di calciatore più forte del mondo e di campione iridato in carica, toccò aprire le danze del mondiale italiano nella partita inaugurale disputata al Meazza di Milano contro il Camerun.

Il calcio africano iniziava appena ad uscire dall’aspetto “pittoresco” che ne aveva contraddistinto la sua permanenza nelle competizioni internazionali dei precedenti vent’anni. Il Camerun era alla seconda partecipazione ai Mondiali e nel 1982 fece tremare gli azzurri poi Campioni del Mondo, uscendo imbattuto dal girone eliminatorio di Vigo dopo un 1-1 da batticuore contro l’Italia. Ma le prime vere squadre-sensazione del continente africano ai Mondiali furono l’Algeria nel 1982, trascinata dal “tacco di Allah” Madjer ed estromessa da un vero “biscotto” tra Austria e Germania ed il Marocco nel 1986, esaltato dai numeri degli estrosi Timoumi e Bouderbala nonché prima squadra del Continente Nero capace di superare il primo turno in un Campionato del Mondo. Il Camerun, sempre guidato in campo dall’ormai trentottenne Roger Milla, sembrava dunque la vittima sacrificale contro l’Argentina di Dieguito e Caniggia poi destinata ad arrivare di nuovo all‘atto finale della competizione.

Eppure proprio da quella partita gli sportivi di tutto il mondo inizieranno ad amare e sostenere i “Leoni Indomabili“, una generazione di calciatori che trovò le sue espressioni più talentuose nel portiere Tomas N’Kono, forgiato da anni passati nella Liga spagnola, e dallo stesso Milla, uno dei più forti attaccanti africani di tutti i tempi. Ma saranno anche tutti gli altri elementi in rosa a farsi conoscere e a conquistare le folle. A partire da quella di San Siro assolutamente incredula, dopo il fischio d’inizio, nel vedere Maradona e compagni stentare di fronte alla straripante forza atletica e alle accelerazioni devastanti del Camerun. Il tifo si schiera ben presto a favore dei “leoni indomabili”, ma la legge del più forte e del pronostico sembra compiersi inesorabilmente quando André Kana-Biyik si fa espellere lasciando il Camerun in inferiorità numerica.

Ma è a questo punto che si compie uno di quei miracoli che rendono unico il calcio: Makanaky scodella un pallone in area sul quale Francois Omam-Biyik si avventa saltando oltre le umane possibilità, come sembra evidente agli spettatori che in tutto il mondo seguono l’evento. Il portiere Pumpido, sorpreso quando ormai pensava che l’avversario non sarebbe mai arrivato all’impatto sul pallone, si lascia beffare ed il pallone si insacca in rete. E’ il gol che cambia il calcio internazionale e che apre una nuova frontiera nella quale il Camerun diverrà la prima squadra africana a piazzarsi tra le prime otto del mondo e che, soprattutto, rende la Coppa del Mondo un evento di massa anche in Africa. Nella capitale del Camerun, Yaoundè, il delirio provocato dal gol di Omam-Biyik proseguirà tutta la notte visto che i Leoni Indomabili, nonostante la chiusura del match in nove contro undici, portano a casa la vittoria contro i campioni del mondo in carica.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Dirceu: il ragioniere con il mancino fatato

di Alessandro IACOBELLI

Il giudice delle punizioni. Disegnava traiettorie artistiche con la toga sulle spalle e quel piede mancino baciato dalla grazia.
José Guimares Dirceu ha incorniciato la tela del calcio romantico a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Nato il 15 giugno 1952 a Curitiba in Brasile, condivide con il padre la passione per il futebol. La bella madre Diva Delfina pretende dal piccolo funambolo dedizione anche per gli studi. La famiglia Guimaraes si trasforma presto in una simpatica filastrocca. Dirceu infatti accoglie le sorelle Dirce e Dirci con il fratello Darci. Nel periodo adolescenziale il talento della casa prende l’indirizzo della scuola di ragioneria ed aiuta la madre nel bar appena aperto.

Dai tornei di quartiere alle giovanili del Curitiba il salto è brevissimo, il tempo di sorseggiare un caffè. All’alba degli anni settanta entra a far parte del reggimento di fanteria dell’Esercito. Le Olimpiadi di Monaco del 1972 sono un degno palcoscenico e Dirceu riesce ad onorarlo con quattro acuti. L’anno successivo il Botafogo è la società più lesta nel compiere l’affare. Nel 1975 è tra gli artefici dell’affermazione nel campionato nazionale insieme all’amico Jairzinho. Intanto Dirceu diventa una stella dell’armata verdeoro sfoderando prestazioni e reti da urlo. Le due stagioni che seguono sanciscono l’inizio del tour per una carriera internazionale. Con le casacche del Fluminense e del Vasco De Gama colleziona altri due titoli brasiliani.

Nel 1978, in concomitanza con il Mondiale in Argentina, lo ‘zingaro del calcio’ si trasferisce in Messico alla corte dell’America di Città del Messico. Firma un contratto faraonico per l’epoca in un sodalizio finanziato dalla nota emittente Televisa. Un anno prima aveva sposato Vania, la donna della sua vita.
La platea dell’Europa lo aspetta e lo sbarco si materializza in Spagna. L’Atletico Madrid si innamora di lui per tre lunghe stagioni.

Nel 1980 lo stivale riapre le frontiere del calcio. L’asso brasiliano vuole fortemente approdare in quello che dai più viene elevato come il miglior campionato nel vecchio continente. Nell’estate del post Mondiale iberico firma un contratto con il Verona di Osvaldo Bagnoli, appena promosso dalla B. Due perle in ventotto gettoni. Poi la pizza ed il lungomare di Via Caracciolo a Napoli chiamano e lui risponde. Gli azzurri si salvano per il rotto della cuffia ma Dirceu incanta spesso la platea del San Paolo.
I Nomadi cantano “Io vagabondo” e lui riempie la valigia per altre avventure. Nel suo destino ci sono ancora Ascoli, Como e Avellino. In totale 75 presenze e 13 gol. Le punizioni sono sassate che gonfiano la rete come i fulmini squarciano il cielo.
L’itinerario della carriera di Dirceu non ammette soste. Nel 1987 torna per un attimo in patria alla corte del Vasco Da Gama. Le sirene a stelle e strisce sono assordanti. Con la compagine del Miami Sharks si diverte.
La letteratura pallonara narra vicende a dir poco pittoresche. Quello dell’approdo di Dirceu alla formazione dell’Ebolitana in Serie D nel 1989 è un episodio affascinante che neanche Carlo Levi avrebbe mai potuto immaginare. Il sud e la Campania camminano a braccetto con il brasiliano. Ennesima tappa in quel di Benevento. La gita infinita culmina in Messico con l’Atletico Yucatan.
Un maledetto incidente stradale strappa Dirceu alla vita terrena il 15 settembre 1995. Il ragioniere con il mancino fatato.

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Calciatori Fabio Belli

Football Mystery 3×05: Kaiser, la grande truffa del football

di Fabio BELLI

Carlos Henrique Raposo nasce in Brasile a Rio Pardo, nello stato del Rio Grande do Sul, il 2 aprile 1963. Come centinaia di migliaia di ragazzi della sua età in Brasile, sogna di diventare un calciatore, ma la sua storia è anomala sin dall’inizio. Carlos infatti sin da giovane età dimostra di avere grande charme, capacità dialettiche e una mente affilata come una lama. Vorrebbe studiare, ma la madre sogna di vederlo calciatore e lo spinge a sostenere mille provini. A 15 anni gioca col Botafogo, ma si vede immediatamente che la stoffa gli manca, non sembra neanche in grado di sostenere un ruolo da titolare nelle giovanili.

Oltre al savoir faire, anche l’aspetto però lo favorisce e gli si appiccica addosso il soprannome di Kaiser, per la somiglianza con Beckenbauer. Nel 1979 riesce a strappare un primo contratto con il Puebla, in Messico: da lì inizierà un incredibile ascesa che fino all’inizio degli anni Novanta lo porterà a girare una quantità enorme di squadre, praticamente senza mai scendere in campo.

Kaiser infatti, sin da giovanissimo allaccia rapporti di amicizia con calciatori del calibro di Renato Portaluppi, Romario, Bebeto, Edmundo e molti altri. Dai campioni brasiliani degli anni Ottanta a quelli della generazione successiva, tutti sono stregati dal fascino di Carlos nelle pubbliche relazioni. E pretendono la sua presenza in squadra, nonostante un particolare non di poco conto: nonostante la trafila nei vivai e la somiglianza col grande Franz, Kaiser a pallone proprio non sa giocarci.

Ma la sua fitta rete di contatti permette la creazione di uno scambio vantaggioso: grazie alle raccomandazioni e alle pressioni di calciatori straordinariamente influenti, Kaiser viene ingaggiato di nuovo dal Botafogo, poi dal Flamengo, infine persino in Europa dall’Ajaccio e poi ancora con la Fluminense e il Vasco da Gama. Questo senza mai giocare una singola partita: ogni volta che rischiava di essere chiamato in causa, finge infortuni impossibili da verificare in un’epoca in cui i club non erano ancora dotati di risonanza magnetica. Quando serviva, un amico dentista gli procurava certificati medici autentici da sventolare in faccia ai medici sociali. E in un’epoca senza Internet, Kaiser approfittava della mancanza di informazioni. Quelle poche che gli servivano lui le confezionava a puntino grazie a qualche amico giornalista: bastavano un paio di articoli che ne parlassero bene e la diceria popolare avrebbe fatto il resto. Un giornale arriverà addirittura a titolare “Il Bangu ha già il suo Re: Carlos Kaiser”

Gli aneddoti si sprecano: proprio al Bangu una volta l’obbligarono a scendere in campo. Raccontò: “Non sapevo cosa fare. Durante il riscaldamento, un gruppo di tifosi m’insultò per i capelli lunghi. Scavalcai e scatenai una rissa: espulso ancora prima di entrare. Ma negli spogliatoi arrivò il presidente furioso. Prima che potesse esplodere, gli dissi: ‘Presidente, Dio mi ha dato due padri: il primo l’ho perso, il secondo è lei. Quando ho sentito i tifosi insultarla, non ho capito più niente. Fra una settimana me ne vado, non si preoccupi’. Mi abbracciò e prolungò il contratto di 6 mesi” All’Ajaccio evitò anche di venire a contatto col pallone durante la presentazione: mandò in delirio i tifosi semplicemente avvolgendosi nella bandiera della Corsica e tirando in tribuna verso il pubblico tutti i palloni disponibili.

La parte dello scambio che spettava a Kaiser era questa: all’interno della rosa era il tuttofare che copriva le magagne del resto dei compagni di squadra, in particolare degli amici più stretti che ne avevano caldeggiato l’ingaggio. Scappatelle all’insaputa delle mogli, serate tra donne e alcol, stravizi da nascondere all’antidoping, certificati e documenti medici da ottenere per simulare infortuni. Kaiser era infaticabile e aveva risorse incredibili, inesauribili. Un talento che gli permise di vivere una carriera di 15 anni da calciatore professionista, scendendo in campo solo per 3 spezzoni di partita in cui cercò di restare il più possibile lontano dal pallone. Per celebrarlo è uscito recentemente un film del regista Louis Myles intitolato eloquentemente: Kaiser, il più grande truffatore della storia del calcio.

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Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 3×02: Roipnol ’90

di Fabio BELLI

Il secondo episodio della terza serie dei nostri approfondimenti sui misteri del calcio si concentra su una storia che ha preso vita, volume e particolari col passare degli anni, con i protagonisti che si sono progressivamente sbottonati su un episodio che ha dell’incredibile. Stiamo parlando di fatti avvenuti in quello che non per niente viene considerato l’ultimo Mondiale di un calcio d’altri tempi, Italia 90: o forse in questo caso sarebbe più opportuno chiamarlo Roipnol ’90.

I FATTI
Negli ottavi di finale del Mondiale italiano del 1990 c’è in cartello una sfida classica, anzi superclassica, dal sapore della finale anticipata. Brasile e Argentina si sfidano nella cornice del nuovissimo stadio Delle Alpi di Torino, un prematuro incrocio a sorpresa tra due favoritissime figlio degli eventi dei gironi eliminatori. Mentre i brasiliani hanno fatto il loro dovere vincendo 3 partite su 3 in un raggruppamento abbastanza abbordabile con Svezia, Costa Rica e Scozia, l’Argentina ha pagato una delle più grosse sorprese della storia del calcio. Nella partita inaugurale dei Mondiali i campioni del mondo in carica vengono sconfitti dal Camerun, con uno straordinario gol di testa di Omam-Biyik. L’Argentina di Maradona ha dovuto rincorrere il ripescaggio contro Romania e Unione Sovietica ed è ora opposta ad un Brasile che sembra andare molto più forte e che effettivamente gioca la partita molto meglio dell’Albiceleste.

IL PERSONAGGIO
L’Argentina è sotto pressione, ma può vantare in rosa “Il” personaggio del Mondiale. Diego Armando Maradona quattro anni prima ha vinto, a detta di molti da solo, la Coppa del Mondo e medita di fare il bis con una squadra che continua ad essere abbastanza modesta, ma che rispetto a quattro anni prima ha qualche freccia in più nel suo arco. Come il sodale d’attacco di Diego, il rapidissimo Claudio Paul Caniggia, che come lui gioca in Italia. L’Argentina difende a ondate sugli attacchi dei brasiliani, si fa vedere raramente dalle parti della porta avversaria ma nel finale il Brasile sembra non averne più. Maradona capisce che il momento è quello giusto, danza tra gli avversari imbambolati nello stile del gol che aveva steso gli inglesi nel 1986 e serve in diagonale a Caniggia l’assist perfetto: Taffarel dribblato, Argentina ai quarti di finale, brasiliani attoniti. Già: perché “così” attoniti?

LE ACCUSE
Si parlerà della classica partita vinta dalla squadra che ha saputo subire e colpire in contropiede, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma proprio Diego Maradona col tempo racconterà un retroscena incredibile, per giunta in diretta televisiva: “Molti dei calciatori in campo giocavano in Italia e anche i brasiliani – ha ricordato Diego – venivano a bere alla nostra panchina. E, quando è venuto Branco, gli ho detto “Valdito bevi pure”, lui si è scolato tutta l’acqua». «Poi – ha continuato Maradona – è venuto anche Olarticoechea e allora gli ho gridato: “no, no, da quella borraccia no. Fatto sta – ha proseguito Maradona – che a partire da quel momento, Branco, stralunato, tirava le punizioni e stramazzava a terra. Dopo la partita, quando i due pullmaìn si sono incrociati, m’ha fatto segno che era colpa mia. Ma gli ho risposto di no. C’era un buon rapporto tra noi, e non ne abbiamo più parlato». Qualcuno ha messo nell’acqua un Roipnol (un sedativo utilizzato dagli psichiatri – ndr), ed è finito tutto in vacca.” La testimonianza dello stesso Branco conferma le accuse: “C’ era Maradona a terra e accanto a lui il massaggiatore con le borracce. Chiesi a Diego il permesso di bere e loro, non ricordo se Diego o il massaggiatore, mi porsero un contenitore. Quell’ acqua aveva un sapore amaro, però non ci badai. In pochi minuti avvertii un malessere. Mi girava la testa, le gambe erano strane: a tratti mi sentivo un leone, a tratti ero sul punto di svenire. All’ intervallo domandai la sostituzione, ma il C.T. Lazaroni mi intimò di tenere duro”.

LE CONCLUSIONI
Storie di calcio d’altri tempi, ma già trasmesse in mondovisione. Non si pensava fosse possibile, ma le accuse vennero confermate, con Branco che raccontò: Un giorno, mi pare che fossimo nel ‘ 92, all’ aeroporto di Rio incontrai per caso Oscar Ruggeri che mi disse ridendo, “Ehi, Claudio, che bello scherzetto ti abbiamo combinato in Italia”, e racconta che quella borraccia aveva un tappo di colore diverso dalle altre perché dentro c’ era un sedativo. Ruggeri mi confidò che quella era l’ acqua per gli avversari. Non so quale veleno mettessero dentro l’ acqua, ma so che lo mettevano e questa è una cosa inaccettabile, antisportiva, per niente etica. Se quel giorno a Torino fossi stato sorteggiato per l’ antidoping, avrei fatto la figura del drogato e la mia carriera sarebbe stata rovinata.” A chiudere la polemica ci pensò un attaccante di quel Brasile che giocava per il Napoli con Maradona, Careca, che confermò però l’incredibile episodio: “A Branco girava la testa. Lui pensava che fosse il caldo. Magari gli è mancata la lucidità di dire “non sto bene resto fuori”. Poi tra di noi c’erano almeno quindici giocatori che giocavano in Italia, ci si conosceva tutti… ma non ce l’ho con Diego.
Alla fine sbagliò Lazaroni. Io e Alemão gli dicevamo che bisognava marcarlo a uomo, ma lui niente, voleva marcare a zona. Aveva appena firmato per la Fiorentina e doveva dimostrare qualcosa o fare degli esperimenti. Fatto sta che ci faceva giocare con la difesa a tre.” Secondo Careca, non fu colpa del sonnifero.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Telê Santana, “O Mestre” della classe brasiliana: attaccare senza limiti

E se la tragedia del Sarrià fosse frutto della nostra immaginazione? L’uomo è stato davvero sulla luna? Siamo proprio sicuri della morte di Elvis Presley e Michael Jackson? Paradossi che tolgono il sonno. Sì perché il Brasile del 1982 era il paradiso calcistico. Perfezione tecnica distillata da una solida guida: Telê Santana. Attaccare sempre, ovunque e senza limiti. La difesa? Ora chiediamo troppo.

Nato nel 1931 a Itabirito, Santana sposa il calcio da giovanissimo. Baricentro basso, dinamismo e piedi educati. Sbarca il lunario con la maglia della Fluminense. Nella veste di ala segna a valanga strabiliando la tifoseria. Il Brasile tra gli anni ’50 e ‘60’ è una facoltà a numero chiuso. Garrincha, Amarildo, Zagallo, Vavà e Pelè alzano un muro invalicabile. Dopo oltre 500 gettoni nel Tricolor Telê completa altre tre dignitose annate con Guarani e Vasco de Gama. Il fiato diventa corto e la carriera da trainer solletica la mente. La riflessione è prolungata e sofferta ma, alla fine, Santana sceglie la panchina.

In patria vince e costruisce il mito. Fluminense, Atletico Mineiro, San Paolo, nuovamente Atletico Mineiro e Gremio. La lista di titoli è ricca: due campionati brasiliani, un campionato Carioca, un campionato Gaucho. Il gioco spumeggiante, arioso e privo di eccessivi compiti tattici diverte e aguzza l’ingegno della federazione brasiliana. La gestione targata Coutinho aveva iniettato il virus dei dettami europei. Artifici scientificamente congeniati che, però, ingabbiavano la libertà della fantasia. Con Santana al timone la samba torna alla ribalta. Socrates, Cerezo, Junior, Falcao, Zico, Eder e Dirceu. Ai Mondiali spagnoli del 1982 la corazzata verdeoro ci arriva da unica favorita. Il primo girone è una passerella di velluto contro URSS, Scozia e Nuova Zelanda. La seconda fase parte con i migliori auspici, grazie al tris rifilato ai rivali dell’Argentina.

Il 5 luglio 1982 il Brasile, apparentemente proiettato verso la semifinale con la Polonia, sfida l’Italia di Bearzot. Gli azzurri vengono dal successo su Maradona e soci. Gentile prende in consegna Zico e non lo lascerà più. Bruno Conti e Cabrini sono sguscianti spine nel fianco. Tardelli è un motorino instancabile a centrocampo e poi c’è lui: Paolo Rossi. L’attaccante juventino, criticato al veleno dalla stampa fino a quel momento, prende per mano le sorti sportive della penisola. I Telê boys insaccano due gol (e che gol!) con Socrates e Falcao, ma con questa Italia non c’è nulla da fare. Il giocattolo si rompe.

Santana cerca allora di dimenticare la cocente delusione trasferendosi addirittura in Arabia Saudita. I soldi non fanno la felicità? Dipende dai puti di vista. Il mister si toglie comunque la soddisfazione di alzare la coppa del Re saudita e di trionfare nel locale campionato.

Nel 1985 la Nazionale brasiliana naviga in sabbie mobilissime, rischiando di non prender parte alla rassegna irridata dell’anno successivo in Messico. Il ct risponde presente e salva il salvabile. Il 21 giugno, a Guadalajara, i nodi vengono al pettine. Il Brasile di Careca, Branco e Almeao viene eliminato ai rigori nei quarti di finale dalla Francia. L’ennesimo sogno svanito convince Telê a dire addio alla panchina verdeoro.

Il calcio in patria, però, ha ancora bisogno di lui. Atletico Mineiro, Flamengo e San Paolo sono le sue ultime avventure. Il tempo di vincere ancora: due Coppe Libertadores, due Coppe Intercontinentali, due Recope Sudamericane, una Supercoppa Sudamericana, due campionati Paulisti, un campionato brasiliano e un campionato Mineiro. Una bacheca da mille e una notte che spedisce Telê Santana nel gotha del calcio universale.

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Calciatori Fabio Belli

Germano: l’amore proibito del nuovo Garrincha nell’Italia degli anni Sessanta

di Fabio BELLI

Estate del 1962: il boom economico in Italia sta iniziando a scaldare i motori, nel Paese si respira un’aria più fresca, nuova, forse anche un po’ ingenua. A neanche venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il paese non è ancora molto più ricco, ma ha ripreso a sperare e, soprattutto, a sognare. Il calcio è un importantissimo veicolo di divertimento e aggregazione ma, nell’era della vertiginosa crescita industriale, sono le grandi del Nord a comandare. La Nazionale agli ultimi Mondiali in Cile ha subito lo scandaloso arbitraggio dell’inglese Aston contro i padroni di casa. Una vergogna, ma nel calcio in cui gli echi della comunicazione, soprattutto da oltreoceano, arrivano ancora distorti, sono cose che capitano anche con una certa frequenza.

germano1La stella indiscussa di Cile 1962 doveva essere Pelè ma gli infortuni non hanno permesso alla Perla Nera di essere protagonista. Al suo posto, il Brasile ha celebrato Amarildo per la conquista del suo secondo titolo mondiale. Ma il fascino dei calciatori esotici, pieni di talento ed estro, diversi da quelli che in Italia praticano il catenaccio sistematico, comincia a farsi largo tra i tifosi e in un campionato come la Serie A che comincia a potersi permettere l’ingaggio di calciatori esteri. Così il primo club a cavalcare la suggestione del Brasile di Pelè è il Milan del patron Rizzoli, che porta in Italia Josè Germano de Sales, sgusciante ala piena di guizzi e dribbling tanto da essere paragonato a Manè Garrincha. Allora appena ventenne, Germano faceva parte dei preselezionati per Cile ’62, ma alla fine non ha partecipato alla spedizione.

Da Germano i tifosi del Milan si aspettano grandi cose e soprattutto volano con la fantasia immaginando giochi di prestigio palla al piede, dribbling a ripetizione su un fazzoletto di campo, gol pescati direttamente dal cilindro di un mago. Quello che non sanno è che, soprattutto all’epoca, l’adattamento di un calciatore brasiliano in una realtà estremamente ordinata, grigia e fredda come quella milanese è molto complicato. Ed iniziano a sentir parlare di un termine misterioso, “saudade“, che significa più di nostalgia: è voglia di respirare un’aria diversa da quella delle ciminiere milanesi, è voglia di sentirsi circondati da tutt’altro rispetto a quella che è la realtà che diventa una prigione dalle sbarre di malinconia dalla quale si può solo evadere.

Germano comincia bene, gioca e segna in Coppa dei Campioni contro l’Union Luxembourg e in campionato contro il Venezia. Ma il suo stile svagato e la svogliatezza negli allenamenti non piacciono al Paròn Nereo Rocco che in quella stagione porterà per la prima volta la Coppa dei Campioni in Italia. Il suo Milan, a caccia dell’obiettivo più grande, dev’essere una macchina perfettamente oliata e Germano a novembre viene spedito al Genoa dove colleziona presenze ad intermittenza (solo dodici in campionato), qualche intemperanza e la frattura della mandibola, riportata in un incidente stradale una volta tornato a Milano a fine stagione.

Nel capoluogo lombardo l’aspirante Garrincha resterà altri due anni senza scendere mai più in campo fino al 1965, quando tornerà in Brasile al Palmeiras. Troppo, per una frattura della mandibola. Si scoprirà in seguito che i problemi di Germano a Milano erano puramente extracalcistici: il giocatore infatti iniziò una relazione clandestina con la figlia del potente Conte Agusta, l’industriale delle motociclette. La ragazza, per giunta allora minorenne, riempirà le cronache dei rotocalchi rosa per la sua fuga in Belgio, nel 1967, proprio per raggiungere Germano, che nel frattempo si era accasato allo Standard Liegi. Nascerà anche una figlia, Lulù. Troppo tutto insieme, per l’allora bigotta moralità italiana: e se di lì a poco i giocatori di colore conquisteranno grandi vette sportive (Jair nell’Inter, Nenè nel Cagliari), l’avvento di Germano ebbe l’effetto dirompente di un terremoto nel calcio italiano, che scoprì gloria, pazzie e miserie dei protagonisti del “futbol bailado”.

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Fabio Belli Nazionali

Le mille suggestioni del derby del fiume Congo

di Fabio Belli

La Coppa d’Africa regala sempre suggestioni importanti, spesso capaci di creare incroci che non hanno nulla da invidiare a quelli che, ad esempio, hanno fatto la storia dei Mondiali.

Così come nel 1974 due mondi si tesero idealmente la mano nella sfida tra Germania Est e Ovest, nell’edizione 2015 del trofeo in Guinea Equatoriale le due anime del fiume Congo si sono ritrovate di fronte. La Repubblica del Congo (capitale Brazzaville) contro la Repubblica Democratica del Congo (capitale Kinshasa), che una volta si chiamava Zaire. E che proprio in quel Mondiale, Monaco ’74, ha partecipato come prima squadra dell’Africa Nera a essere presente in una rassegna iridata, con le pressioni del regime che fecero saltare i nervi a Mwepu Ilunga che spazzò via la palla ancor prima che il Brasile, con lo specialista Rivelino, potesse battere un calcio di punizione.

L’Africa è un gioiello bellissimo vista dall’alto sorvolando il fiume Congo, che divide due Nazioni che si portano dietro però tutti i problemi, le contraddizioni e le sofferenze del Continente Nero. La divisione è puramente coloniale: francesi da una parte, belgi dall’altra, ma un filo sottile continua a unire le due popolazioni, tanto che prima dello scontro in Guinea Claude Le Roy, allenatore del Congo “Brazzaville”, si era detto comunque felice che il Congo, in un modo o nell’altro, in semifinale ci sarebbe stato.

La partita è stata folle e imprevedibile come solo in Coppa d’Africa può avvenire: Repubblica del Congo, sfavorita alla vigilia, avanti di due reti in apertura di ripresa dopo un primo tempo chiuso sullo zero a zero. Quindi si scatena la Repubblica Democratica del velocissimo Yannick Bolasie e del bomber Mbokani e, in meno di mezz’ora, il risultato passa sul 2-4. Quanto basta per assistere all’incredibile esultanza di Muteba Kidiaba, il portiere del Mazembe, l’unica squadra africana che abbia mai giocato una finale del Mondiale per Club (nel 2010, contro l’Inter). Kidiaba si siede e inizia a saltellare trascinandosi sul sedere, come se avesse il… didietro a molla.

Se non lo si vede, non ci si può credere: una partita comunque giocata a mille all’ora, con l’allegria tattica che potenzia la prestanza fisica di giocatori che nel calcio che conta arrivano a militare nella Serie B inglese, al Terek Grozny in Russia o al massimo alla Dinamo Kiev, come il centravanti della Repubblica Democratica, Dieumerci Mbokani. Proprio così, in francese Mbokani si chiama “grazie a Dio”. Inoltre il talento più cristallino della squadra, Kebano, numero dieci classe ’92 cresciuto nel Paris Saint Germain e passato tra le fila del Charleroi in Belgio, di nome di battesimo si chiama Neeskens. Chiaro omaggio all’asso dell’Olanda degli anni ’70, di cui Neeskens Kebano ricalca in parte le movenze. Mille storie in una insomma, come solo l’Africa sa riservare col suo calcio folle e in parte ancora spensierato.

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Calciatori Club Fabio Belli

La Democracia Corinthiana, l’unico caso al mondo di una squadra autogestita dai calciatori

di Fabio BELLI

L’aria degli spogliatoi dello stadio Pacaembu di San Paolo del Brasile ristagna come quella di un magazzino. L’arredamento, in linea con lo stile un po’ spartano del calcio fine anni ’70, lascia ampi spazi vuoti che fanno risuonare echi di parole e passi, come quelli segnati dal ritmo dei tacchetti dei calciatori che entrano nello stanzone. Uno dopo l’altro sfilano i profili di Wladimir, di Socrates, di Casagrande: leggende dell’epoca per il Corinthians prima, del futbòl paulista poi e di tutto il calcio brasiliano in generale. Si siedono sulle panche e discutono di argomenti della massima importanza per il club, strategie per le partite future, programma degli allenamenti, attorno a loro anche cicche di sigarette e qualche birra. Ma neanche l’ombra di un allenatore.

Quello che sta andando in scena è in realtà un esperimento destinato a restare unico nella storia del calcio mondiale: ovvero il primo caso di autogestione di una squadra con i giocatori che tengono salde le redini del comando. E’ quella che passerà alla storia come la “Democracia Corinthiana“, uno dei segni distintivi del Timao (il soprannome storico del club), assieme al Flamengo la squadra più amata di tutto il Brasile. Non sembra un caso che a cavallo della scomparsa di Socrates siano arrivati i maggiori successi della storia del club, con il “Brasileirao” e la Coppa Libertadores, dopo una rincorsa durata tutta una vita. L’apice della fama internazionale del Coritnthians prima di questo periodo era identificabile proprio nel periodo distintosi per gli interpreti della “Democracia”.

Riguardo Socrates, Pelè affermava che fosse il calciatore “più intelligente di tutti i tempi”, riferendosi sia al suo impegno politico-culturale, sia alla sua sapiente regia palla al piede. Walter Casagrande fu un bomber che raccolse consistenti successi anche nella nostra Serie A con le maglie di Ascoli e Torino. Wladimir Rodrigues dos Santos un terzino infaticabile, capace di far parte della selezione dei migliori giocatori di tutti i tempi del campionato Paulista. Erano i leader carismatici di un gruppo che funzionava come una perfetta democrazia autogestita. Le decisioni venivano prese in gruppo e l’allenatore, Mauro Travaglini, serviva solo come supporto “tecnico” per la preparazione atletica, comunque stabilita in proprio dai calciatori.

L’esperienza durò di fatto un triennio, dal 1982 al 1984, rivelandosi peraltro un autentico successo innanzitutto per le casse del club, che dall’autogestione del gruppo riuscì a ricavare una riduzione drastica delle spese. Quindi dal punto di vista sportivo: non arrivò il successo nel campionato brasiliano, ma due titoli Paulisti (1982 e 1983) comunque molto rilevanti considerando la grande importanza dei campionati statali in Brasile. L’ambiente del calcio verdeoro era d’altronde ideale per questo tipo di iniziativa, con i calciatori che avevano un fortissimo peso anche ideologico, che andava al di là della questione sportiva in sé. Oltre a gestire il club con pari diritto di voto e di opinione rispetto alla dirigenza, i calciatori potevano usare la maglia del Corinthians per fini propagandistici. Socrates stesso promise che avrebbe fatto saltare il suo trasferimento in Italia in caso di passaggio di una riforma costituzionale in Brasile: ma la storia fece il suo corso, la Democracia Corinthiana vide i suoi protagonisti sparpagliarsi ai quattro angoli del mondo e l’esperimento non fu più ripetuto.

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Calciatori Fabio Belli

Gordon Banks e la parata su Pelé: la più bella di sempre

di Fabio BELLI

Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.

Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibile parata di tutti i tempi.Venne effettuata da Gordon Banks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.

Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di miglior portiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.

Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.

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Calciatori Marco Piccinelli

Pedro Riberio Lima: proprietario e giocatore a.. 68 anni!

di Marco PICCINELLI

Si chiama Pedro Riberio Lima (o anche Pedro da Sorda), ha 68 anni ed è il più vecchio calciatore, se non al mondo, sicuramente del Brasile e dell’America Latina.
In Italia, tuttavia, possiamo dire la nostra in merito alla longevità di giocatori: l’ultimo esempio, di cui non penso ci si stancherà mai di ricordarne le gesta, è Marco Ballotta.
Dopo aver dismesso la maglietta di portiere biancoceleste, in cui ha raggiunto il primato di portiere più anziano schierato in campo in una partita di Champions (Lazio – Real Madrid) a 44 anni e 235 giorni, ha continuato a giocare al Calcara Samoggia e al San Cesario, nella prima e seconda categoria emiliana da attaccante (!). Per non parlare del giapponese Kazuyoshi Miura che a 50 anni gioca ancora nella seconda divisione giapponese, vestendo la maglia dello Yokohama e risultando ancora decisivo per la squadra, decidendo partite e facendo conquistare preziosi punti ai suoi.

Ma torniamo a noi. Pedro Riberio Lima è giocatore e proprietario di una squadra, fondata nel 1992, che si chiama Perilima, prendendo le iniziali dei nomi del ‘nostro’ (PEdro RIberio LIMA) e che è inserita nella seconda divisione del campionato paraibano. Un po’ come se, per i lettori romani, il patron della Vigor Perconti, l’omonimo Maurizio Perconti, indossasse la maglia blaugrana e giocasse di tanto in tanto con la prima squadra, stabilmente nella Promozione laziale da ormai svariati anni.
Non intendiamo trattare, in questa sede, la complessità (e la bellezza) del campionato brasiliano, il lettore sappia semplicemente che il campionato paraibano è una competizione regionale (in realtà si dovrebbe parlare di Stati, dato che il Brasile è uno stato federale) e la seconda divisione di tale competizione equivale a classificarla come sesta serie del Paese.
Secondo Globesporte, sito brasiliano che si occupa di calcio e di altri sport a tutti i livelli, Pedro Riberio Lima ha segnato un gol a 58 anni contro il Campinense, nel campionato paraibano del 2007. «Il portiere sconfitto? – riporta Globesporte – Jaílson, l’attuale portiere del Palmeiras. Seu Pedro (come viene chiamato scherzosamente) mira dritto all’angolo a destra della porta, calcia e Jailson rimane fermo al centro della porta. Nessuno conferma, nessuno sa dire con certezza. Ma alcuni dicono che Jailson facilitò molto il gol del nostro Seu Pedro. È una di quelle notizie che nessuno conosce con certezza ma che circonda la vita di Pedro».

Sempre il sito brasiliano Globesporte, recentemente, ha riportato la vicenda della querelle che avrebbe avuto luogo fra il patron/giocatore e la federazione brasiliana di calcio: quest’ultima avrebbe affermato, in sostanza, che a 68 anni non si poteva più disputare partite, sia pure della seconda divisione di un campionato “regionale”. Tuttavia l’autrice dell’articolo ha precisato, in calce allo stesso, che si trattasse di una svista: Seu Pedro può continuare a giocare dato che la federazione brasiliana ha dichiarato come non esista alcun limite di età e che lo stesso non costituisca alcun tipo di veto.
Chissà che Seu Pedro non riesca davvero infrangere qualche altro record!