L’incredibile storia dei Bruno’s Magpies di Gibilterra, al secondo turno preliminare di Conference League
Dopo tre edizioni, le perplessità che molti hanno avuto sull’istituzione della Conference League sono state in parte smentite, in parte confermate. Una terza competizione Europea si è dimostrata un’ottima idea sul piano della partecipazione popolare, basti vedere la risposta di pubblico avuta negli stadi di Nazioni che col tempo erano finite tagliate fuori dal grande giro della Champions e dell’Europa League. Sul piano qualitativo, è stato invece inevitabile trovarsi di fronte a una competizione di terzo livello, come l’ultima finale tra Olympiakos e Fiorentina ha confermato sul piano del livello del gioco.
Per gli amanti di un certo tipo di calcio però, la Conference è già stata nell’ultimo triennio una vera e propria fucina di storia davvero particolari. L’anno scorso il KI Klaksvik è stata la prima squadra delle Far Oer a disputare una fase a gironi di una competizione UEFA e questa estate stanno arrivando risultati sorprendenti dalle squadre di San Marino: La Fiorita ha ottenuto contro i bielorussi dell’Isloch la prima vittoria europea della sua storia e affronterà nel secondo turno preliminare i turchi del Basaksehir, che hanno giocato recentemente la Champions League. La Virtus Acquaviva, dopo la storica sfida di Champions contro la Steaua Bucarest (ora FCSB) ha fermato sul pari gli estoni del Flora Tallinn e potrebbe puntare a uno storico accesso al terzo turno. Ma la storia più particolare di questa estate di Conference League arriva senza ombra di dubbio da Gibilterra.
Storia che parte da un pub chiamato “Da Bruno“, con Gibilterra che abbonda inevitabilmente di questo tipo di esercizi essendo discendente della cultura anglosassone. Pub che viene rilevato da un ragazzo di nome Louis: il “Bruno” del locale era probabilmente il vecchio esercente, resta di fatto che ora non c’è più. Al pub di Bruno però vengono a bere e a guardare calcio molti ragazzi, tanto che Louis si vanta del fatto che il locale sarebbe “l’unico posto che vale la pena visitare a Gibilterra“. Quantomeno per trovare un po’ di vita.
Un pub è il luogo ideale per socializzare e Louis fa amicizia con Mick, ragazzo inglese tifosissimo del Newcastle che si vanta dei suoi trascorsi da allenatore. Come accade in molti altri bar, pub o anche ristoranti del mondo, si decide di organizzare una squadra di calcio: per iscriverla ai campionati di Gibilterra bastano 500 sterline, il nome lo sceglie Mick ed è un omaggio alla sua squadra del cuore: nascono così i Bruno’s Magpies.
Louis Perry, proprietario del pub Bruno’s, diventa presidente del neonato club, mentre Mick Embleton, come detto, è l’allenatore. Nelle prime due stagioni i Bruno’s Magpies iniziano a distinguersi come la squadra degli expats inglesi a Gibilterra, mentre gli altri club hanno in maggioranza giocatori di origine spagnola tra le loro fila. Chi gioca con i Magpies ha birra a volontà come ingaggio, niente di più. Il ruolo di Mick è decisivo per organizzare una realtà del tutto amatoriale, poi nel 2016 il salto di qualità con l’ingaggio di David Wilson, allenatore dei Lions Gibraltar che giocano nella massima serie locale, che gli amici del pub di Bruno raggiungono per la prima volta nel 2019.
In pratica i Bruno’s Magpies sono la microrealtà di una microrealtà: a Gibilterra il campionato dal 2008 viene vinto invariabilmente dalla squadra più prestigiosa, il Lincoln Red Imps (che nel 2016 fece la storia battendo nel secondo turno preliminare di Champions League il Celtic Glasgow con un gol di Lee Casciaro) con qualche sporadica interruzione da parte dell’Europa FC. Queste due squadre sono le uniche ad affacciarsi nelle competizioni continentali ma l’istituzione della Conference League apre una porta in più nella quale i Magpies si inseriscono nel 2022 grazie al quarto posto in campionato e al primo trofeo della loro storia, la Rock Cup di Gibilterra vinta nel 2023 ai rigori proprio contro il Lincoln.
I Bruno’s Magpies chiudono al terzo posto il campionato 2023/24 e si ripresentano ai nastri di partenza della Conference League: qui arriva l’appuntamento con la storia. Nell’unico impianto omologato di Gibilterra, il Victoria’s Stadium, i Magpies (che per le competizioni europee su indicazione dell’UEFA omettono il nome del locale) hanno battuto 2-0 gli irlandesi del Derry City. Altra squadra dalla storia notevole visto che si tratta dell’unico club nordirlandese a giocare nel campionato della Repubblica d’Irlanda: la città della “Bloody Sunday” e di altri racconti purtroppo drammatici.
I marcatori sono stati il gallese Ash Taylor e il messicano Francisco Zuniga ma il gol della storia l’ha segnato nel match di ritorno del 18 luglio scorso Evan De Haro, nativo di Gibilterra e capace nei supplementari di insaccare il 2-1 decisivo, su tiro che, da distanza siderale, il numero 7 Juan Jesus aveva mandato a sbattere sulla traversa. E così per la prima volta una squadra di un pub, che fa riferimento a un locale di mescita e ristorazione, ha fatto strada in una competizione UEFA.
Non è la prima volta invece che Gibilterra avanza nelle Coppe: il Lincoln Red Imps in Champions perse 3-0 il ritorno contro il Celtic dopo la storica vittoria sopra citata, ma resta la prima squadra del luogo ad aver partecipato ad una fase a gironi, nella Conference League 2022/23, la prima edizione. Difficile che i Bruno’s Magpies riescano ad eguagliare questa impresa visto che nel secondo turno preliminare dovranno affrontare il Copenaghen: un regalo meraviglioso per i ragazzi del pub di Gibilterra, considerando che solo nel febbraio scorso il “Parken” è stato teatro della sfida degli ottavi di finale di Champions League tra i danesi e il Manchester City di Guardiola. Una passerella straordinaria da festeggiare al ritorno con qualche pinta di birra in più.
Virtus-FCSB apre una nuova era per le squadre del Titano nelle Coppe Europee
Martedì 9 luglio la nuovissima e discussa Champions League, che culminerà con la fase a “campionato” considerata da molti un vero e proprio surrogato della Superlega, aprirà i battenti. Si giocheranno le gare del primo turno preliminare, un programma in cui spicca un appuntamento impossibile da non notare per gli appassionati di un certo tipo di calcio di “nicchia”.
Il cambio di formula infatti ha portato alla cancellazione di quel “preliminare del preliminare” che portava i club campioni nazionali degli ultimi quattro paesi del ranking UEFA a contendersi l’unico posto disponibile per il primo preliminare vero e proprio. Un ragionamento arzigogolato ma chi conosce la situazione sa di cosa stiamo parlando. Sul fondo del ranking, inevitabilmente, c’erano le squadre di San Marino che nella loro storia dunque hanno formalmente disputato sempre una sorta di anticamera della Champions, vivendo come un appuntamento prestigioso gli scontri con squadre nordirlandesi o armene.
Da quest’anno però, come detto, la musica cambia: tutte le squadre partono dall’inizio senza preamboli, nel lungo cammino verso la fase “a campionato” che l’anno scorso (quando si rincorrevano ancora ai gironi) ha portato ad esempio alla ribalta le imprese del KI Klaksvik, capace di eliminare club svedesi e ungheresi per poi accedere alla fine alla fase a gironi di Conference League, traguardo straordinario per un minuscolo club delle Far Oer.
Difficile pensare che per i campioni di San Marino possa succedere lo stesso, ma il sorteggio del primo turno preliminare della Champions League 2024/25 ha regalato comunque una grande soddisfazione agli appassionati del Titano. A Serravalle scenderà infatti in campo, martedì prossimi, l’FCSB, al secolo la Steaua Bucarest a sua volta colpita da un rocambolesco cambio di denominazione negli ultimi anni. Il 31 marzo 2017 il tribunale supremo della Romania ha accolto un ricorso del Ministero della Difesa, obbligando la società a rinunciare anche alla denominazione Steaua (riavocata all’esercito): la società ha cambiato dunque ufficialmente nome in Fotbal Club FCSB, continuando però ad utilizzare informalmente il nome di Steaua Bucarest (avallata in tal senso da UEFA e federcalcio rumena).
Al San Marino Stadium arriverà dunque per una partita ufficiale contro un club locale, per la prima volta nella storia, una squadra Campione d’Europa, con la Steaua che vinse lo storico titolo del 1986 a Siviglia contro il Barcellona grazie alle parate a ripetizione di Helmut Duckadam nella crudele lotteria dei calci di rigore. Ad affrontare la Steaua/FCSB, in maniera altrettanto suggestiva, sarà la Virtus del Castello di Acquaviva, reduce dalla conquista del suo primo Scudetto in assoluto a San Marino.
L’FCSB ha conquistato nella stagione appena trascorsa il suo ventisettesimotitolo di Romania e sembra voler compiere qualche passo verso il suo blasone perduto, considerando che dal 2018 non fa strada nelle Coppe Europee oltre le fasi preliminari (sedicesimi di Europa League persi contro la Lazio). Il punto però è che mai un avversario di tale blasone è sceso in campo a San Marino per un’impresa europea e il fatto che a vivere questo appuntamento sarà un’esordiente assoluta in Champions rende il tutto ancor più suggestivo.
Un’altra curiosità è legata alla presenza di Federico Piovaccari tra le fila della Virtus: il club sammarinese si è rinforzata con il bomber classe 1984, che a 40 anni si rimette in gioco sul palcoscenico della Champions League che ha già calcato proprio con la maglia della Steaua Bucarest, nella stagione 2013/14 che fu l’ultima per il club romeno con la storica denominazione. La Steaua raggiunse partendo dai preliminari la fase a gironi della massima competizione europea e Piovaccari giocò 12 partite segnando anche 4 gol. Ora ci riproverà giocando contro l’FCSB da avversario, con l’appuntamento di martedì 9 luglio 2024 alle ore 21.00 al San Marino Stadium che si preannuncia come la più importante sfida di club mai disputata da un club del Titano.
La storia che stiamo per raccontare finisce e comincia con un colpo di pistola: fuori da un campo da calcio e dentro una realtà difficile che undici uomini guidati da un allenatore di calcio speciale, un professore, avevano portato a un passo dal tetto del mondo. Con la conferma che le imprese eccezionali vengono compiute da persone in grado di piegare qualunque tipo di avversità.
Caldas non è una città. È uno dei 32 dipartimenti che formano la Colombia, nazione che va pazza per il fútbol alla stregua di tutte le realtà sudamericane. Gente semplice, di montagna, per la quale il calcio può rappresentare un riscatto sociale, per qualcuno l’unico in un tessuto sociale dove disoccupazione e violenza per le strade sono piaghe sempre aperte. Il capoluogo di Caldas è Manizales, poco meno di 400 mila abitanti e tante difficoltà da affrontare, su tutte una sismicità terribile, che ha portato però la cittadina di montagna, a oltre 2000 metri sul mare, a diventare un avamposto dell’edilizia antisismica. Realtà difficile e logisticamente penalizzata, Manizales vive per l’orgoglio legato alla squadra di calcio locale: l’Once Caldas, che rappresenta con il nome del dipartimento tutto il territorio e che vive della gloria degli anni Cinquanta, quando l’Once Deportivo e il Deportes Caldas unirono le loro forze: da quell’esperienza il club ha ereditato il primo titolo nazionale che appare nella sua bacheca.
Difficile competere con le grandi storiche del calcio colombiano, ma alla fine degli anni Novanta qualcosa inizia a cambiare: nel 1998 l’Once Caldas sfiora il titolo Nazionale, perduto contro il Deportivo Calì, e fa il suo esordio in Copa Libertadores, la Champions League sudamericana. Manca qualcosa e come spesso accade, non solo nel calcio, il profetanon si trova in patria, anche se sulla sua provenienza c’è una prima clamorosa coincidenza per la nostra storia. A Medellín, 210 chilometri da Manizales ma a cinque ore di strada visto il tortuoso sentiero di montagna che separa le due città, il prestigioso Atletico Nacional (se lo ricordano bene i tifosi del Milan: erano loro gli avversari a Tokyo quando René Higuita fu bucato da una punizione di Chicco Evani che portò i rossoneri di Sacchi sul tetto del mondo) ha un allenatorediverso in panchina. Classe 1967, arriva in prima squadra dopo una lunga trafila nelle giovanili. Si chiama Luis Fernando Montoya e ha due particolarità: avrebbe potuto diventare un calciatore di talento, ma ha preferito continuare gli studi per aiutare economicamente la famiglia. Questo gli è valso l’acquisizione di modi gentili e colti che l’hanno subito portato ad avere un soprannome, El Profesor, divenuto rapidamente El Profe per brevità. La seconda è che il Profesor è nativo del distretto di Antioquia, quello che ha Medellín come capoluogo, ma incredibilmente viene da una città che si chiama… Caldas. Segno del destino?
Lo avrà pensato probabilmente anche lui quando l’Once lo chiama per tentare quella scalata al titolo mai riuscita al club «unificato» di Manizales. El Profe è fresco del secondo posto nel campionato colombiano con una squadra che comprendeva Milton Patiño, Juan Carlos Ramírez, Freddy Totono Grisales, Iván Champeta Velásquez, Faustino Asprilla: stelle della Nazionale, mentre l’Once è provincia pura del calcio della Cordigliera: la gente mastica e sputa tabacco e guarda inizialmente con diffidenza l’uomo di Caldas che viene da fuori Caldas.
Nessuno pensa che Montoya possa diventare il miglior allenatore del Paese: nel 2003 El Profesor chiama a raccolta Juan Carlos Henao, Samuel Vanegas, Elkin Soto, Arnulfo Valentierra, Sergio Galván Rey, Dayro Moreno: una generazione nuova che non ha nulla a che fare con la Colombia di Francisco Maturana, che a Italia ’90 e USA ’94 partì addirittura col sogno di conquistare il titolo mondiale. Gente nuova, idee nuove e le strade di Manizales sono in festa per la conquista del secondo titolo nazionale della storia del club. Il calcio di Montoya ha principiprecisi: chi governa lo spazio in campo governa la partita, e quindi al talento dei funamboli sudamericani deve aggiungersi una feroce applicazione all’europea. Fantasia e sacrificio nel fútbol possono andare a braccetto, una terza via che da quelle parti forse non avevano mai provato: conosce i classici della letteratura ma divora le partite del Milan di Sacchi e del Barcellona di Cruijff, i giocatori con lui possono parlare e si convincono di essere in grado di fare qualsiasi cosa.
Basterebbe il titolo nazionale a Manizales, ma Montoya ha un’idea folle: la Libertadores, che ne dite della Libertadores? I dirigenti del club si limitano a dargli del pazzo, ma dentro di loro pensano di avere a che fare con un eretico: è già stato sacrilego disarcionare per una stagione le grandi del calcio colombiano, figurarsi fare lo sgambetto a brasiliani e argentini in campo internazionale. El Profe se la ride sotto i baffi: certo, servirebbe un sorteggio un po’ fortunato per far prendere le misure ai suoi ragazzi fuori dalla Colombia, abituarsi ai viaggi, capire la competizione. Sì, il girone è agevole. Si comincia a fare sul serio agli ottavi di finale, ma l’Once Caldas è troppo forte anche per gli ecuadoriani del Barcelona di Guayaquil.
Ai quarti la prima grande impresa: fuori il Santos di Robinho, Diego ed Elano con un leggendario gol su punizione di Valentierra al Palogrande, il catino da 40 mila posti dell’Once Caldas. I gol di Herly Alcázar e Jorge Agudelo fanno fuori il San Paolo in semifinale: doppio scalpo brasiliano per arrivare a quella che sembra una montagna troppo alta da scalare. Il Boca Juniors di Carlos Bianchi, che ha ripreso a vincere dopo la surreale parentesi alla Roma, è campione del Sud America e del mondo in carica: ai rigori ha battuto il Milan di Ancelotti. Montoya parla ai suoi con la pazienza del Professore: “Gli argentini sanno tutto di questa competizione, di queste partite, noi niente. Possiamo fare il nostro gioco e farci fregare alla prima distrazione, oppure possiamo annullarci a vicenda e provare a vincerla, questa coppa“. 0-0 alla Bombonera, 1-1 nel match di ritorno, il 1 luglio 2004 al Palogrande: a Manizales tutti col fiato sospeso per i calci di rigore. L’Once ne segna due su quattro, il Boca nessuno, con Bianchi che non porta neanche i suoi a ritirare la medaglia d’argento: il vecchio squalo non può tollerare che i nervi dal dischetto siano saltati ai suoi e non ai pivelli. Manizales esplode di gioia, l’Once Caldas è la seconda squadra colombianacampione del Sud America nella storia, El Profesor ha compiuto un’impresa incredibile.
Il 2 luglio 2004 gli inservienti stanno ancora spazzando, a mattino inoltrato, le tribune del Palogrande. Squilla il telefono negli uffici, la telefonata arriva da Bogotà, il piano della federazione è chiaro: l’Once Caldas deve mettere a disposizione Montoya per la Nazionale colombiana. Un passo inevitabile per un allenatore che ha portato una cittadina di provincia e di montagna a diventare campione continentale. Montoya però chiede tempo: c’è ancora un obiettivo da raggiungere. Dall’altra parte del mondo si è consumato infatti un altro successo a sorpresa: il Porto di un giovane, irriverente allenatore, José Mourinho, è passato davanti al Manchester United di Ferguson, alla Juve di Capello, al Real Madrid dei Galacticos e ha vinto la Champions League. Le due sorprese il 12 dicembre 2004 si affrontano a Yokohama per la Coppa Intercontinentale e il titolo di campione del mondo per club. Mourinho nel frattempo sulla panchina del Porto non c’è più, avendo ceduto alle lusinghe della Premier League e del Chelsea. El Profesor è invece al suo posto, come sempre. La partita è a scacchi e si va di nuovo ai rigori, ma stavolta (quasi) tutti segnano. L’Once Caldas sbaglia con JonathanFabbro, che vede schiantarsi sul palo le speranze di un’intera nazione: mai una squadra colombiana era arrivata così vicina al titolo mondiale. L’Once Caldas viene accolto al ritorno a Manizales con un tripudio, ma tutta la Colombia si è innamorata di El Blanco, come viene soprannominata la squadra. Il ciclo però sembra destinato a finire, con Montoya corteggiato da tutto il Sud America ma in procinto di accettare la guida della Nazionale.
Abbiamo però detto che questa storia finisce e comincia, contemporaneamente, con un colpo di pistola. Il 22 dicembre 2004 El Profesor si appresta a passare il Natale in famiglia, appena tornato dalla finale di Yokohama. Attende sotto casa la moglie Adriana Herrera che ha prelevato denaro da un bancomat, prima di andare a cena, ma si accorge che degli uomini accelerano il passo dietro di lei, per aggredirla e rapinarla: Montoya interviene e un proiettile lo colpisce alla colonna vertebrale. La Colombia passa il Natale del 2004 sotto choc: il suo miglior allenatore è in fin di vita e i chirurghi lo operano per ore per salvargli la vita. Ci riescono, anche se la prognosi è terribile: El Profesor resta tetraplegico, immobilizzato in un letto, gambe e braccia sono fuori uso per sempre. Gli aggressori vengono individuati e quasi piagnucolano davanti alla polizia dopo aver scoperto chi è la loro vittima: una scena surreale che non li risparmierà da una durissima condanna.
La Colombia piange, ma l’eccezionalità di Montoya sta di nuovo per emergere in maniera incredibile. Il corpo è stato offeso ma la mente è sempre quella, il dolore della riabilitazione viene superato con una tenacia senza pari. El Profesor ha raccontato di quei giorni: “Ho dovuto dare l’esempio a mio figlio che, anche se stavo attraversando un momento difficile, non potevo arrendermi. Ho passato momenti molto complicati e questo mi ha rafforzato mentalmente. Penso di essere stato preparato in anticipo a ciò che stava arrivando“. La preparazione è l’insegnamento di vita che Montoya non mancava di dare ai suoi giocatori, forgiato dagli anni di studio e di lavoro con ragazzini del settore giovanile strappati alla strada: «Siamo capaci di superare tutto se ci mettiamo in testa di farlo».
Adriana è una figura centrale nella ripresa del Profesor. Montoya la conosce da quando era bambino, ma si sono fidanzati solo a ventisei anni: da allora non si sono più lasciati, con Adriana che l’ha seguito sui campi di tutto il mondo. Una storia d’amore meravigliosa. Non può di certo abbandonarlo nella sua sfida più difficile, così come il figlio José Fernando, che nel 2004 ha solo tre anni. A tutt’oggi El Profesor lavora dalle quattro alle cinque ore al giorno con il fisioterapista. “La cosa più importante è la perseveranza, perseverare affinché un giorno io possa muovere le braccia per abbracciare di nuovo mio figlio, sarebbe più bello di qualunque coppa alzata al cielo“.
A quello di El Profesor si è aggiunto un altro soprannome per Montoya, campeón de la vida: il suo recupero è stato giudicato miracoloso dai medici tanto quanto la conquista della Libertadores da parte dell’Once Caldas. Pep Guardiola, Jürgen Klopp, José Mourinho, Diego Simeone, Marcelo Bielsa e Hans-Dieter Flick sono i suoi allenatori preferiti, quelli con cui continua a relazionarsi e a lavorare. Ha ricevuto il premio come migliorallenatore del Sud America, un riconoscimento ottenuto solo da altri tre tecnici colombiani nella storia: Francisco Maturana (1993), Hernán Darío Gómez (1996) e Reinaldo Rueda (2016). Anche dalla sedia a rotelle, l’occhio sul calcio e sulla vita del Profesor è quello di sempre. Nella sua ultima intervista ha raccontato: «Mi è sempre piaciuto il buon calcio, all’Once Caldas non avevo grande ricchezza tecnica e ho dovuto adattarmi». Un’attitudine che probabilmente lo ha salvato: vincere oltre ogni pronostico. E al mondo in difficoltà, nel 2020, ha ricordato la sua ricetta per i tempi difficili: “La pandemia è come una partita di calcio, la chiave sta nell’impegno che si mette e nella responsabilità verso se stessi e verso chi ci circonda. Prendiamoci cura di noi stessi, sempre“.
I 10 stadi più grandi del mondo: andiamo a scoprirli! Torniamo ad occuparci di stadi, nei capitoli precedenti abbiamo passato in rassegna le caratteristiche particolari di impianti nazionali e internazionali, stavolta ci dedicheremo agli stadi dalla capienza ufficiale più ampia. Da sottolineare che abbiamo tenuto in considerazione solo le strutture in cui si disputano ufficialmente partite di calcio, lasciando da parte impianti che sarebbero entrati in classifica ma che sono dedicati esclusivamente ad altri sport che pure vantano grande seguito, come il cricket o il football americano. Ecco dunque la classifica dei 10 stadi più grandi del mondo.
Tra i 10 stadi più grandi del mondo troveremo alcuni templi in cui si sono disputate finali di Coppa del mondo, come il Soccer City di Johannesburg e il leggendario Azteca di Città del Messico. Senza dimenticare il Camp Nou, vero e proprio monumento a cielo aperto di Barcellona. Ma non vanno dimenticate anche strutture che rappresentano la voglia di crescita del nuovo mondo calcistico, come gli stadi ad Alessandria d’Egitto oppure quello a Giacarta, che hanno visto già disputare finali di competizioni internazionali in attesa di veder crescere le nazionali locali per arrivare ai massimi livelli del football.
I 10 stadi più grandi del mondo riservano però anche sorprese soprattutto in quello che sarà il podio di questa speciale classifica, che riserverà le posizioni più alte a Nazioni che non fanno propriamente parte dell’aristocrazia calcistica mondiale ma che hanno ben chiaro il concetto di “stadio polifunzionale” che ha portato a veri e propri pienoni da guinness dei primati. Non ti resta dunque che scoprire quale sarà lo stadio più grande del mondo?
10) Borg El Arab, Alessandria d’Egitto
Da tempo l’Egitto aspira a ospitare i Mondiali di calcio e questo impianto, diventato il più grande di tutta la nazione e il secondo più grande d’Africa con i suoi 86.000 spettatori di capienza, è stato approntato per i Mondiali Under 20 del 2009, realizzato per alternare anche le partite della Nazionale egiziana con la Capitale Il Cairo. lo stadio è stato progettato e costruito interamente dal Corpo degli Ingegneri delle forze armate egiziane.
9) Gelora Bung Karno Stadium, Giacarta
Dal 1962 a oggi l’impianto in Indonesia è stato più volte rimodernato fino a farlo diventare, con i suoi attuali 88.083 spettatori di capienza, il più grande stadio del Sud-Est asiatico. Il Persija Jakarta è la squadra locale che sfrutta l’impianto oltre naturalmente alla Nazionale di calcio dell’Indonesia, oltre agli eventi internazionali ospitati localmente come la Coppa d’Asia (da ricordare la storica finale del 2007 in cui l’Iraq a sorpresa riuscì a vincere contro l’Arabia Saudita). Il nome si ispira al primo presidente dell’indonesia, Sukarno.
8) Wembley Stadium, Londra
Un colpo al cuore non vedere più il vecchio Wembley, quello della finale del 1966 e delle foto che, anno dopo anno, vedevano la Regina Elisabetta consegnare la FA Cup nelle mani del capitano vincitore della Coppa d’Inghilterra. Il flash più recedente dei tempi moderni resta l’Italia che trionfa nell’impianto completamente rinnovato, in occasione degli Europei del 2021. Il simbolo dello stadio, che una volta erano le leggendarie twin towers, è ora l’aerodinamico arco d’acciaio che sovrasta la North Stand, con la capienza ufficialmente fissata a 90.000 spettatori.
7) Rose Bowl, Pasadena
Un nome che ai tifosi italiani fa subito venire in mente, purtroppo, il rigore di Roberto Baggio contro il Brasile e in generale l’amaro epilogo dei Mondiali del 1994, terminati a un passo dal sogno con la sconfitta in finale dagli undici metri per gli azzurri. Il Rose Bowl era il fiore all’occhiello dell’organizzazione americana del Mondiale, che tornerà ad ospitare partite della Coppa del Mondo nell’edizione United 2026 che coinvolgerà tutto il Nordamerica. 92.542 spettatori per uno stadio che in patria è riconosciuto ufficialmente con lo status di monumento storico e che è stato costruito nel 1922, vivendo innumerevoli ristrutturazioni che l’hanno reso uno degli impianti più moderni del pianeta.
6) FNB Stadium, Johannesburg
La sede della finale Mondiale del 2010 tra Spagna e Olanda. Il nome ufficiale richiama allo sponsor, appunto la First National Bank, anche se informalmente viene chiamato Soccer City e soprattutto “La Pentolaccia”, traduzione del termine The Calabash che indica una pentola usata nella cucina tipica africana. Casa delle partite interne dei Kaizer Chiefs, club di culto nel mondo del calcio e anche della Nazionale di Rugby che vanta un seguito enorme in Sudafrica, la capienza ufficiale è fissata a 94.736 spettatori.
5) Azadi Stadium, Tehran
Costruito all’inizio degli anni ’70 per i giochi asiatici, oltre a essere casa di uno dei derby calcistici più infuocati del mondo, quello tra l’Esteghlal e il Persepolis, l’Azadi ha ospitato alcuni match leggendari della nazionale iraniana, con 120.000 tifosi stipati all’interno per sospingere la nazionale persiana alla qualificazione a Francia ’98 nello spareggio contro l’Australia. Attualmente la capienza è fissata a 95.225 posti, capienza ridotta dopo i gravi incidenti dovuti a un cedimento strutturale nel 2005, in un match tra l’Iran e il Giappone.
4) Azteca, Città del Messico
Un’altra leggenda del calcio mondiale, dagli oltre 100.000 spettatori degli anni ’70 si è arrivati agli attuali 98.500, in un impianto che ha ospitato due finali dei Mondiali, oltre alla leggendaria semifinale del 1970 tra Italia e Germania Ovest che ha portato ad apporre una targa con su scritto: qui si è giocata la partita del secolo. Tempio della Nazionale messicana, è comunque la casa di due club di Città del Messico, il Cruz Azul e l’America.
3) Camp Nou, Barcellona
Un vero e proprio tempio del calcio mondiale, 99.354 spettatori di capienza per l’impianto che ha scritto la leggenda del Barcellona, numero che si riduce un po’ per le misure di sicurezza durante le partite delle competizioni UEFA. I 100.000 del Camp Nou hanno assistito a partite leggendarie non solo della squadra locale, considerando che l’impianto ha ospitato 2 finali di Coppa dei Campioni e match degli Europei del 1964, dei Mondiali del 1982 e delle Olimpiadi del 1992. Ad eccezione di una tribuna è uno dei pochi impianti scoperti di questa stazza, approfittando della scarsità di precipitazioni nella città catalana.
2) Cricket Ground, Melbourne
100 032 spettatori per il più capiente stadio dell’Emisfero Sud, in Australia. Impianto multifunzionale, viene utilizzato com suggerisce il nome per il cricket che è sport di enorme popolarità locale ma l’Australia vi ha disputato anche diverse partite di qualificazione ai Mondiali, anche se spesso i “socceroos” preferiscono impianti più piccoli per giovarsi meglio della spinta del tifo. Negli anni ’70 e ’80 il Cricket Ground ha ospitato anche eventi con circa 130.000 spettatori, come le finali del campionato di football australiano, per poi vedere ridotta la capienza dopo le moderne ristrutturazioni.
1) Rungrado May Day Stadium, Pyongyang
Lo stadio più grande in assoluto si trova in Corea del Nord. Prende il nome da Rungra Island, dove sorge a Pyongyang, capitale dello stato dove il regime locale, ancora ai tempi di Kim Il Sung, il 1 maggio del 1980 ha voluto inaugurare un mastodontico impianto che ancora oggi può ospitare ben 150.000 spettatori. Tutto esaurito che di solito si ottiene durante feste nazionali o parate militari, più bassa l’affluenza per le partite della Nazionale della Corea del Nord, che utilizza l’impianto per i match più importanti. Il perimetro esterno è costituito da 16 grandi arcate, che fanno assomigliare la struttura a un fiore di magnolia e la capienza è stata confermata con il suo ingresso nel Guinness World of Record.
Le storie di tutte le squadre di calcio del mondo sono costellate di gol importanti, alcuni fondamentali, pietre miliari nella vita del club. Reti che hanno regalato scudetti, trofei internazionali, derby, salvezze e promozioni, o sensazioni uniche a chi era allo stadio. Pochissimi club però possono legare una storia, al momento ultracentenaria, all’esito fortunato di una singola partita. Uno scenario questo più consono ad un film che a una competizione sportiva, ma la romanzesca e tormentata storia della Lazio, spesso e volentieri proprio ad una pellicola da Oscar ha finito con l’assomigliare.
Nell’estate del 1986 il sodalizio biancoceleste si ritrova ad affrontare l’ennesima tempesta: non è la prima e non sarà l’ultima, ma in quel particolare caso è in gioco l’esistenza stessa della società. Schiacciata dai debiti dopo la sciagurata gestione-Chinaglia e implicata in un secondo scandalo delle scommesse dopo quello del 1980, la Lazio viene retrocessa in serie C/1 il 5 di Agosto, a causa degli illeciti contestati all’allora tesserato Vinazzani. Il punto è che i nuovi proprietari Calleri e Bocchi, già alle prese con un durissimo piano di risanamento e rilancio finanziario, sono chiari: se gli organi competenti non rivedranno la loro decisione, il loro impegno verrà meno, e la Lazio cesserà di esistere.
Ne segue un lungo mese di proteste e passione per i tifosi laziali, che culmina con la sentenza della CAF che mantiene la squadra allora allenata da Eugenio Fascetti in cadetteria, ma con 9 punti di penalità da scontare. Nell’epoca dei due punti a vittoria, ha quasi il sapore di una condanna posticipata, ma la squadra parte a razzo facendo addirittura pensare ad un’incredibile promozione: illusione che svanisce presto sotto i colpi di stress e stanchezza, che portano i biancocelesti a giocarsi la permanenza in B in un’infuocata domenica di Giugno, allo stadio Olimpico contro il Vicenza, allora ancora “Lanerossi”.
Una partita per la sopravvivenza: al di là dell’onta della terza serie, la Lazio deve evitare una retrocessione che comporterebbe il definitivo dissesto finanziario, con i nuovi azionisti di maggioranza che, a causa dei minori introiti della C, non potrebbero più far fronte agli impegni presi nella stagione 1987/88. Un incubo, un thriller in piena regola anche perchè il Vicenza con un pari si garantirebbe almeno gli spareggi per non retrocedere. E per i tifosi laziali la nemesi si materializza nelle fattezze del portiere dei veneti Ennio Dal Bianco, che para l’impossibile di fronte agli attacchi di una Lazio per nove undicesimi protesa in avanti, fatta eccezione per il portiere Terraneo ed il libero Marino.
Ma come in tutti i film a lieto fine, c’è sempre un eroe a portare la vittoria e la catarsi. Un eroe anticonvenzionale, con i capelli lunghi, un fisico non asciuttissimo e dedito fuori dal campo a tre passioni non strettamente legate fra di loro: famiglia, whisky e sigarette. “Il più forte attaccante del mondo senza fuorigioco“, lo definivano i compagni di squadra con un pizzico di ironia ma anche con tanta ammirazione per la sua generosità: Giuliano Fiorini, che a meno di dieci minuti dalla fine, consente alla Lazio di superare il muro-Dal Bianco e continuare a vivere, anche se la salvezza finale dovrà passare attraverso gli spareggi contro Taranto e Campobasso, all’inizio di Luglio.
Ma come in quei film che riservano ancora una scena dopo i titoli di coda, anche questa storia ha un’appendice sorprendente e commovente: l’eroe mancato della partita per il Vicenza, Dal Bianco, il portiere arrivato oltre i propri limiti, rientra a casa da Roma con la retrocessione che ancora brucia sulla pelle. Ma c’è poco tempo per pensarci: trova il figlioletto (oggi 32enne) in preda ad un malore, la corsa all’ospedale è provvidenziale. Un soccorso che sarebbe mancato senza il gol di Fiorini, visto che il Vicenza in caso di risultato positivo sarebbe andato subito in ritiro per gli spareggi, senza far passare da casa i calciatori. “Sono emotivamente legato a Lazio-Vicenza perché a volte le grandi delusioni si trasformano in grandi gioie. Era previsto, infatti, che se avessimo pareggiato con i biancocelesti avremmo partecipato agli spareggi a Napoli, rimanendo quindi a Roma per una settimana senza tornare a Vicenza. Tornai invece a casa, mio figlio piccolo ebbe dei problemi fisici ed io, nonostante il parere di tutti, decisi di farlo ricoverare nonostante. Ciò gli salvò la vita. Una sconfitta in campo si trasformò in un evento salvifico.” E allora quel gol di Giuliano sembra una volta di più scritto nel destino.
Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”
In realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.
Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.
Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.
Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.
Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.
Il West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.
Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.
Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.
Per andare più in basso nel calcio, bisogna salire in alto: per la precisione arrampicarsi su una rocca, fin su il monte Titano, davvero non molto lontano da casa nostra, anzi, praticamente a casa nostra. Quella di San Marino è infatti la nazionale più scarsa del pianeta: certo, a pari merito con le selezioni di altri microstati come Anguilla, Montserrat, Papupa Nuova Guinea e Samoa Americane. Ma negli ultimi anni è capitato spesso di vedere la Nazionale sammarinese all’ultimo posto del ranking FIFA, soprattutto quando qualcuna delle altre piccole selezioni riusciva a vincere in maniera estemporanea una partita.
La prima partita ufficiale dei Titani risale al 14 Novembre del 1990: San Marino-Svizzera 0-4 allo stadio Olimpico di Serravalle, “Wembley” putativo della selezione sammarinese e divenuto “San Marino Stadium” dopo la ristrutturazione che l’ha reso un impianto d’avanguardia, seppur di dimensioni ridotte. Da allora, in 32 anni di onorata militanza nel ranking internazionale, i risultati utili sono stati solamente 7: due amichevoli e una sfida di UEFA Nations League contro il Lichtenstein (due pari e una vittoria in amichevole, l’unico successo in una partita ufficiale), un match con la Lettonia, i più recenti pareggi contro Estonia (primo punto di sempre nelle qualificazioni agli Europei) e Gibilterra ed il risultato che resta ancora il più prestigioso, il pari casalingo contro la Turchia nelle qualificazioni per i Mondiali del 1994.
Lo strano caso di San Marino, a scorrere il ranking FIFA fino agli ultimissimi posti, infatti, è facilmente individuabile: la nazionale del Titano, al contrario di samoani e compagnia bella, è costretta a confrontarsi con autentiche leggende del calcio mondiale, e non certo in accesi derby della Micronesia, nei quali in fondo può accadere di tutto. Nelle qualificazioni ufficiali San Marino si è trovato di fronte squadre come l’Inghilterra, la Germania e l’Olanda dovendo spesso digerire sconfitte epocali. Il 2 Settembre 2011 al PSV Stadion di Eindhoven, Andy Selva e compagni hanno incassato undici gol, con quaterna di Van Persie e doppiette di Huntelaar e Sneijder. Nel 2006 contro la Germania il passivo più pesante, 0-13, in un contesto in cui San Marino è abituato a viaggiare alla media di quattro gol e mezzo incassati a partita. Il bis nel 2015, per le qualificazioni agli Europei 2016, vide i tedeschi vincere 0-8 scendendo in campo da Campioni del Mondo contro la squadra in fondo al ranking FIFA, un evento più unico che raro. Ma i biancazzurri non rinuncerebbero mai a ritrovarsi di fronte l’elite del calcio mondiale, anche a fronte di brucianti sconfitte, proprio per il sapore unico di questi appuntamenti.
Basti pensare che nel match d’andata delle qualificazione a Euro 2012 contro l’Olanda, a marcare Sneijder fresco vincitore della Champions League con l’Inter c’era Maicol (scritto proprio così) Berretti, mediano internazionale per hobby, ma di professione studente. D’altronde i professionisti sono sempre stati pochini: la maggior parte dei calciatori della nazionale a San Marino gioca nel campionato locale, il centravanti Andy Selva ha un passato rispettabile in Lega Pro, ed il giocatore più rappresentativo della storia resta l’ex juventino Massimo Bonini, che giocò da capitano nell’unico confronto ufficiale contro l’Italia, allora allenata da Arrigo Sacchi, a Cesena. La perla? Resta il gol di David Gualtieri all’Inghilterra nel ’93, San Marino in vantaggio dopo 8 secondi. Poi finì 1-7: ma vuoi mettere la soddisfazione?
Il calcio è in grado di far nascere legami speciali all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2011 la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia alle orecchie più distratte sarà parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù si era fatto conquistare dal sognoamericano.
Può risultare però più impressionante il fatto che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale riposerà accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore, Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame tra padre e figlio: chi conosce bene il background di quella Lazio sa quanto fosse speciale e a tratti incredibile quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota ma, all’inizio della loro storia umana e professionale, i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.
Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore che, già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante che, dopo la retrocessione del 1971, meditava di lasciare la Lazio sopratutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E, come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto tra i due, nelle prime settimane permeato di scetticismo. Una storia legata ad un limone.
Nel 1971, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesi, svizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo e, alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio sentiva scottare la sua fronte. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.
“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta la visione di Maestrelli, quasi utopistica per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, prese forma per la primavolta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera un po’ discutibile a livello manageriale (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia che fu lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.
Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).
Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai gemelli figli dell’allenatore che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dello stadio Olimpico. Potenza del calcio o, per chi vuole crederci, di mezzo limone.
Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talentobrasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.
Schierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.
Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionalebrasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.
La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.
Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.
Alla sua idea di calcio si è ispirato anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino per la sua opera prima, “L’uomo in più“. Il protagonista Antonio Pisapia, interpretato da Andrea Renzi, ex calciatore che rifiuta di truccare partite e fatica a reinserirsi nel mondo del calcio da allenatore, prova ad esportare la sua idea di football avveniristico, con gli attaccanti che si muovono a rombo, tre punte più un trequartista, per i triangoli ed i fraseggi, e tre mediani che fanno muro a centrocampo. “Si possono vincere le partite, così“, spiega senza che nessuno lo ascolti. Finzione dalle radici ben piantate nella realtà: la vicenda umana del protagonista, che nel film incrocia i suoi destini con l’omonimo cantante interpretato da Toni Servillo, si ispira a quella di Agostino Di Bartolomei. Ma anche i riferimenti calcistici vengono dalla realtà visto che lo schema dell'”uomo in più” porta la firma di un allenatore-gentiluomo nato a San Michele al Tagliamento, Ezio Glerean.
Glerean è arrivato alle soglie del grande calcio, ma non è riuscito a sfondare come forse la sua capacità di insegnare calcio avrebbe meritato. La sua strada, nel momento di massimo splendore, si è incrociata con quella di Maurizio Zamparini, il vulcanico presidente che ha saputo lanciare alla ribalta tanti allenatori quanti ne ha allo stesso tempo bruciati. Troppo garbato nei modi e nello stile, Glerean, per resistere ai ritmi del presidente mangiallenatori che lo incrociò nel momento più confuso della sua gestione, quello del “trasloco” da Venezia a Palermo, dove dopo un precampionato travagliato Glerean, nel 2002, riuscì a durare solo una giornata. A Palermo c’è chi ha fatto di peggio con tecnici come Pioli esonerati addirittura prima dell’inizio del campionato ma quella in Sicilia resta forse la grande occasioneperduta del tecnico veneto in una squadra che, al di là delle bizarrie di Zamparini, arriverà in quegli anni alle soglie della Champions League.
All’alba del 2000 gli appassionati di calcio ed in particolare di tattica si stavano passando una voce: quello di Glerean poteva diventare un modello di gioco completamente nuovo, alla stregua del 4-4-2 sacchiano o del 4-3-3 zemaniano. Complice la moglie olandese ed alcuni viaggi ad Amsterdam Ezio era passato spesso dalle parti del campo d’allenamento dell’Ajax ed aveva studiato un’idea di gioco, nata a Sandonà e perfezionata al Cittadella, assolutamente inedita per il calcio italiano. Era nato il 3-3-4, interpretazione estrema della zona che come detto aveva portato il piccolo Sandonà tra i professionisti ed il Cittadella per la prima volta in Serie B, con la piccola squadra in provincia di Padova capace di sbaragliare concorrenza anche più attrezzata nei play off, prima dalla C/2 alla C/1 e poi dalla C/1 alla B.
Le peculiarità di questo modulo sono state illustrate a grandi linee nel film: serve una difesa a tre con centrali bravi nel gioco aereo e nell’uno contro uno, tre mediani capaci di avere cuore e polmoni per correre a tutto campo e recuperare palloni, e soprattutto quattroattaccanti capaci di produrre un pressing continuo sul portatore di palla avversario, per non mandare in sofferenza gli altri reparti, e di dialogare fra loro con rapidi scambi di palla. Una ricetta avveniristica che ha dimostrato di funzionare nelle categorie inferiori, ma per Glerean è mancato il grande salto, l’allenatore-galantuomo che (caso più unico che raro nel calcio di oggi) non ha neanche un procuratore, non ha mai trovato il suo “uomo in più”, ovvero un presidente deciso a scommettere su di lui a grandi livelli, forse complice la lenta fine della rivoluzione della zona, iniziata oltre venti anni prima del miracolo-Sandonà e del 3-3-4, che ne resta ancora l’espressione più estrema, affascinante ed al momento ancora non del tutto esplorata. Oggi Glerean allena a Marostica, tra i dilettanti: la sua passione per cercare nuove formule e trovare un uomo in più in un calcio che sembra aver ormai già detto tutto non si è ancora spenta.
Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.
Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.
Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.
Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.
Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.