L’incredibile stagione del Boemo nell'”altra” Puglia, 10 anni dopo la fine di Zemanlandia a Foggia
“Fore de capu” con il Lecce di Zeman. “Mambo salentino“, hit estiva firmata Amoroso-Boomdabash, riporta cuore e mente dei tifosi giallorossi a quella folle stagione 2004-2005 vissuta con il condottiero boemo al timone della truppa salentina.
E non poteva che riproporsi dalla PugliaZemanlandia, dopo l’epopea di Foggia, in tutto il suo fantasmagorico splendore. Libertà di agire al comando di un gruppo già forgiato al gioco spiccatamente offensivo da Delio Rossi nelle annate precedenti. Il mister di Praga torna quindi ad insegnare pallone come solo lui sa fare e, onestamente, come non avveniva da qualche tempo. Il 4-3-3 non è sindacabile e, fin dal principio della preparazione estiva, lo spogliatoio segue le direttive senza esitazioni. La partenza è degna del miglior Schumacher alla guida della Ferrari. Pari 2-2 a Bergamo all’esordio, roboante 4-1 in casa ai danni del Brescia alla seconda, altro 2-2 all’Olimpico con la Roma e successo 3-1 sul Cagliari al Via del Mare. A Verona contro il Chievo il primo tonfo, per poi ripartire di slancio con le vittorie su Palermo e Messina (entusiasmante l’1-4 sui peloritani), oltre all’ottimo punto strappato al cospetto dell’Inter.
Zemanlandia, si sa, è croce e delizia. In una stagione dai due volti, strepitoso girone di andata e seconda parte fisiologicamente più difficoltosa, spiccano in negativo le 73 reti subite (peggior retroguardia del torneo) e alcune batoste patite nell’arco del campionato. Dal rovinoso poker per mano della Fiorentina al Franchi, ai due netti scivoloni con la Sampdoria (1-4 in casa e 3-0 al Ferraris) passando per i 5-2 di San Siro col Milan e al Delle Alpi con la Juventus. Sole e tempesta, appunto. Lampi di fuochi d’artificio però illuminano il primo maggio 2005 con i salentini che annichiliscono 5-3 la malcapitata Lazio con i timbri di Dalla Bona, Vucinic (doppietta) e Diamoutene. Al culmine del campionato sarà undicesimo posto e salvezza più che tranquilla con lo scettro di secondo miglior attacco dietro la Juventus con la bellezza di 67 gol messi a segno. E in Coppa Italia? Montagne russe, che domande! I giallorossi infatti salutano la kermesse tricolore agli ottavi di finale. Nel doppio confronto contro l’Udinese di Luciano Spalletti, Ledesma e compagni capitolano tra le mura amiche 4-5 (con tanto di incredibile rigore parato dall’attaccante Di Michele a Vucinic all’ultimo minuto) ed espugnano inutilmente il Friuli per 3-4.
In quella indelebile annata singoli talenti brillano nel firmamento calcistico italiano. Cassetti sfreccia sul settore destro, l’uruguagio Giacomazzi dipinge trame esemplari tra mediana e trequarti, in avanti il tandem Vucinic-Bojinov fa impallidire le retroguardie avversarie. Il Luna Park del boemo è tornato al centro del villaggio ma l’avventura durò un solo anno, con la foschia di Calciopoli che portò Zeman ad abbandonare la panchina prima della fine dell’ultimo 3-3 col Parma. Come per il Foggia, i successivi ritorni in panchina non ripristinarono l’antica magia.
La storia che stiamo per raccontare finisce e comincia con un colpo di pistola: fuori da un campo da calcio e dentro una realtà difficile che undici uomini guidati da un allenatore di calcio speciale, un professore, avevano portato a un passo dal tetto del mondo. Con la conferma che le imprese eccezionali vengono compiute da persone in grado di piegare qualunque tipo di avversità.
Caldas non è una città. È uno dei 32 dipartimenti che formano la Colombia, nazione che va pazza per il fútbol alla stregua di tutte le realtà sudamericane. Gente semplice, di montagna, per la quale il calcio può rappresentare un riscatto sociale, per qualcuno l’unico in un tessuto sociale dove disoccupazione e violenza per le strade sono piaghe sempre aperte. Il capoluogo di Caldas è Manizales, poco meno di 400 mila abitanti e tante difficoltà da affrontare, su tutte una sismicità terribile, che ha portato però la cittadina di montagna, a oltre 2000 metri sul mare, a diventare un avamposto dell’edilizia antisismica. Realtà difficile e logisticamente penalizzata, Manizales vive per l’orgoglio legato alla squadra di calcio locale: l’Once Caldas, che rappresenta con il nome del dipartimento tutto il territorio e che vive della gloria degli anni Cinquanta, quando l’Once Deportivo e il Deportes Caldas unirono le loro forze: da quell’esperienza il club ha ereditato il primo titolo nazionale che appare nella sua bacheca.
Difficile competere con le grandi storiche del calcio colombiano, ma alla fine degli anni Novanta qualcosa inizia a cambiare: nel 1998 l’Once Caldas sfiora il titolo Nazionale, perduto contro il Deportivo Calì, e fa il suo esordio in Copa Libertadores, la Champions League sudamericana. Manca qualcosa e come spesso accade, non solo nel calcio, il profetanon si trova in patria, anche se sulla sua provenienza c’è una prima clamorosa coincidenza per la nostra storia. A Medellín, 210 chilometri da Manizales ma a cinque ore di strada visto il tortuoso sentiero di montagna che separa le due città, il prestigioso Atletico Nacional (se lo ricordano bene i tifosi del Milan: erano loro gli avversari a Tokyo quando René Higuita fu bucato da una punizione di Chicco Evani che portò i rossoneri di Sacchi sul tetto del mondo) ha un allenatorediverso in panchina. Classe 1967, arriva in prima squadra dopo una lunga trafila nelle giovanili. Si chiama Luis Fernando Montoya e ha due particolarità: avrebbe potuto diventare un calciatore di talento, ma ha preferito continuare gli studi per aiutare economicamente la famiglia. Questo gli è valso l’acquisizione di modi gentili e colti che l’hanno subito portato ad avere un soprannome, El Profesor, divenuto rapidamente El Profe per brevità. La seconda è che il Profesor è nativo del distretto di Antioquia, quello che ha Medellín come capoluogo, ma incredibilmente viene da una città che si chiama… Caldas. Segno del destino?
Lo avrà pensato probabilmente anche lui quando l’Once lo chiama per tentare quella scalata al titolo mai riuscita al club «unificato» di Manizales. El Profe è fresco del secondo posto nel campionato colombiano con una squadra che comprendeva Milton Patiño, Juan Carlos Ramírez, Freddy Totono Grisales, Iván Champeta Velásquez, Faustino Asprilla: stelle della Nazionale, mentre l’Once è provincia pura del calcio della Cordigliera: la gente mastica e sputa tabacco e guarda inizialmente con diffidenza l’uomo di Caldas che viene da fuori Caldas.
Nessuno pensa che Montoya possa diventare il miglior allenatore del Paese: nel 2003 El Profesor chiama a raccolta Juan Carlos Henao, Samuel Vanegas, Elkin Soto, Arnulfo Valentierra, Sergio Galván Rey, Dayro Moreno: una generazione nuova che non ha nulla a che fare con la Colombia di Francisco Maturana, che a Italia ’90 e USA ’94 partì addirittura col sogno di conquistare il titolo mondiale. Gente nuova, idee nuove e le strade di Manizales sono in festa per la conquista del secondo titolo nazionale della storia del club. Il calcio di Montoya ha principiprecisi: chi governa lo spazio in campo governa la partita, e quindi al talento dei funamboli sudamericani deve aggiungersi una feroce applicazione all’europea. Fantasia e sacrificio nel fútbol possono andare a braccetto, una terza via che da quelle parti forse non avevano mai provato: conosce i classici della letteratura ma divora le partite del Milan di Sacchi e del Barcellona di Cruijff, i giocatori con lui possono parlare e si convincono di essere in grado di fare qualsiasi cosa.
Basterebbe il titolo nazionale a Manizales, ma Montoya ha un’idea folle: la Libertadores, che ne dite della Libertadores? I dirigenti del club si limitano a dargli del pazzo, ma dentro di loro pensano di avere a che fare con un eretico: è già stato sacrilego disarcionare per una stagione le grandi del calcio colombiano, figurarsi fare lo sgambetto a brasiliani e argentini in campo internazionale. El Profe se la ride sotto i baffi: certo, servirebbe un sorteggio un po’ fortunato per far prendere le misure ai suoi ragazzi fuori dalla Colombia, abituarsi ai viaggi, capire la competizione. Sì, il girone è agevole. Si comincia a fare sul serio agli ottavi di finale, ma l’Once Caldas è troppo forte anche per gli ecuadoriani del Barcelona di Guayaquil.
Ai quarti la prima grande impresa: fuori il Santos di Robinho, Diego ed Elano con un leggendario gol su punizione di Valentierra al Palogrande, il catino da 40 mila posti dell’Once Caldas. I gol di Herly Alcázar e Jorge Agudelo fanno fuori il San Paolo in semifinale: doppio scalpo brasiliano per arrivare a quella che sembra una montagna troppo alta da scalare. Il Boca Juniors di Carlos Bianchi, che ha ripreso a vincere dopo la surreale parentesi alla Roma, è campione del Sud America e del mondo in carica: ai rigori ha battuto il Milan di Ancelotti. Montoya parla ai suoi con la pazienza del Professore: “Gli argentini sanno tutto di questa competizione, di queste partite, noi niente. Possiamo fare il nostro gioco e farci fregare alla prima distrazione, oppure possiamo annullarci a vicenda e provare a vincerla, questa coppa“. 0-0 alla Bombonera, 1-1 nel match di ritorno, il 1 luglio 2004 al Palogrande: a Manizales tutti col fiato sospeso per i calci di rigore. L’Once ne segna due su quattro, il Boca nessuno, con Bianchi che non porta neanche i suoi a ritirare la medaglia d’argento: il vecchio squalo non può tollerare che i nervi dal dischetto siano saltati ai suoi e non ai pivelli. Manizales esplode di gioia, l’Once Caldas è la seconda squadra colombianacampione del Sud America nella storia, El Profesor ha compiuto un’impresa incredibile.
Il 2 luglio 2004 gli inservienti stanno ancora spazzando, a mattino inoltrato, le tribune del Palogrande. Squilla il telefono negli uffici, la telefonata arriva da Bogotà, il piano della federazione è chiaro: l’Once Caldas deve mettere a disposizione Montoya per la Nazionale colombiana. Un passo inevitabile per un allenatore che ha portato una cittadina di provincia e di montagna a diventare campione continentale. Montoya però chiede tempo: c’è ancora un obiettivo da raggiungere. Dall’altra parte del mondo si è consumato infatti un altro successo a sorpresa: il Porto di un giovane, irriverente allenatore, José Mourinho, è passato davanti al Manchester United di Ferguson, alla Juve di Capello, al Real Madrid dei Galacticos e ha vinto la Champions League. Le due sorprese il 12 dicembre 2004 si affrontano a Yokohama per la Coppa Intercontinentale e il titolo di campione del mondo per club. Mourinho nel frattempo sulla panchina del Porto non c’è più, avendo ceduto alle lusinghe della Premier League e del Chelsea. El Profesor è invece al suo posto, come sempre. La partita è a scacchi e si va di nuovo ai rigori, ma stavolta (quasi) tutti segnano. L’Once Caldas sbaglia con JonathanFabbro, che vede schiantarsi sul palo le speranze di un’intera nazione: mai una squadra colombiana era arrivata così vicina al titolo mondiale. L’Once Caldas viene accolto al ritorno a Manizales con un tripudio, ma tutta la Colombia si è innamorata di El Blanco, come viene soprannominata la squadra. Il ciclo però sembra destinato a finire, con Montoya corteggiato da tutto il Sud America ma in procinto di accettare la guida della Nazionale.
Abbiamo però detto che questa storia finisce e comincia, contemporaneamente, con un colpo di pistola. Il 22 dicembre 2004 El Profesor si appresta a passare il Natale in famiglia, appena tornato dalla finale di Yokohama. Attende sotto casa la moglie Adriana Herrera che ha prelevato denaro da un bancomat, prima di andare a cena, ma si accorge che degli uomini accelerano il passo dietro di lei, per aggredirla e rapinarla: Montoya interviene e un proiettile lo colpisce alla colonna vertebrale. La Colombia passa il Natale del 2004 sotto choc: il suo miglior allenatore è in fin di vita e i chirurghi lo operano per ore per salvargli la vita. Ci riescono, anche se la prognosi è terribile: El Profesor resta tetraplegico, immobilizzato in un letto, gambe e braccia sono fuori uso per sempre. Gli aggressori vengono individuati e quasi piagnucolano davanti alla polizia dopo aver scoperto chi è la loro vittima: una scena surreale che non li risparmierà da una durissima condanna.
La Colombia piange, ma l’eccezionalità di Montoya sta di nuovo per emergere in maniera incredibile. Il corpo è stato offeso ma la mente è sempre quella, il dolore della riabilitazione viene superato con una tenacia senza pari. El Profesor ha raccontato di quei giorni: “Ho dovuto dare l’esempio a mio figlio che, anche se stavo attraversando un momento difficile, non potevo arrendermi. Ho passato momenti molto complicati e questo mi ha rafforzato mentalmente. Penso di essere stato preparato in anticipo a ciò che stava arrivando“. La preparazione è l’insegnamento di vita che Montoya non mancava di dare ai suoi giocatori, forgiato dagli anni di studio e di lavoro con ragazzini del settore giovanile strappati alla strada: «Siamo capaci di superare tutto se ci mettiamo in testa di farlo».
Adriana è una figura centrale nella ripresa del Profesor. Montoya la conosce da quando era bambino, ma si sono fidanzati solo a ventisei anni: da allora non si sono più lasciati, con Adriana che l’ha seguito sui campi di tutto il mondo. Una storia d’amore meravigliosa. Non può di certo abbandonarlo nella sua sfida più difficile, così come il figlio José Fernando, che nel 2004 ha solo tre anni. A tutt’oggi El Profesor lavora dalle quattro alle cinque ore al giorno con il fisioterapista. “La cosa più importante è la perseveranza, perseverare affinché un giorno io possa muovere le braccia per abbracciare di nuovo mio figlio, sarebbe più bello di qualunque coppa alzata al cielo“.
A quello di El Profesor si è aggiunto un altro soprannome per Montoya, campeón de la vida: il suo recupero è stato giudicato miracoloso dai medici tanto quanto la conquista della Libertadores da parte dell’Once Caldas. Pep Guardiola, Jürgen Klopp, José Mourinho, Diego Simeone, Marcelo Bielsa e Hans-Dieter Flick sono i suoi allenatori preferiti, quelli con cui continua a relazionarsi e a lavorare. Ha ricevuto il premio come migliorallenatore del Sud America, un riconoscimento ottenuto solo da altri tre tecnici colombiani nella storia: Francisco Maturana (1993), Hernán Darío Gómez (1996) e Reinaldo Rueda (2016). Anche dalla sedia a rotelle, l’occhio sul calcio e sulla vita del Profesor è quello di sempre. Nella sua ultima intervista ha raccontato: «Mi è sempre piaciuto il buon calcio, all’Once Caldas non avevo grande ricchezza tecnica e ho dovuto adattarmi». Un’attitudine che probabilmente lo ha salvato: vincere oltre ogni pronostico. E al mondo in difficoltà, nel 2020, ha ricordato la sua ricetta per i tempi difficili: “La pandemia è come una partita di calcio, la chiave sta nell’impegno che si mette e nella responsabilità verso se stessi e verso chi ci circonda. Prendiamoci cura di noi stessi, sempre“.
Il calcio è in grado di far nascere legami speciali all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2011 la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia alle orecchie più distratte sarà parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù si era fatto conquistare dal sognoamericano.
Può risultare però più impressionante il fatto che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale riposerà accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore, Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame tra padre e figlio: chi conosce bene il background di quella Lazio sa quanto fosse speciale e a tratti incredibile quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota ma, all’inizio della loro storia umana e professionale, i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.
Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore che, già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante che, dopo la retrocessione del 1971, meditava di lasciare la Lazio sopratutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E, come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto tra i due, nelle prime settimane permeato di scetticismo. Una storia legata ad un limone.
Nel 1971, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesi, svizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo e, alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio sentiva scottare la sua fronte. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.
“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta la visione di Maestrelli, quasi utopistica per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, prese forma per la primavolta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera un po’ discutibile a livello manageriale (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia che fu lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.
Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).
Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai gemelli figli dell’allenatore che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dello stadio Olimpico. Potenza del calcio o, per chi vuole crederci, di mezzo limone.
Alla sua idea di calcio si è ispirato anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino per la sua opera prima, “L’uomo in più“. Il protagonista Antonio Pisapia, interpretato da Andrea Renzi, ex calciatore che rifiuta di truccare partite e fatica a reinserirsi nel mondo del calcio da allenatore, prova ad esportare la sua idea di football avveniristico, con gli attaccanti che si muovono a rombo, tre punte più un trequartista, per i triangoli ed i fraseggi, e tre mediani che fanno muro a centrocampo. “Si possono vincere le partite, così“, spiega senza che nessuno lo ascolti. Finzione dalle radici ben piantate nella realtà: la vicenda umana del protagonista, che nel film incrocia i suoi destini con l’omonimo cantante interpretato da Toni Servillo, si ispira a quella di Agostino Di Bartolomei. Ma anche i riferimenti calcistici vengono dalla realtà visto che lo schema dell'”uomo in più” porta la firma di un allenatore-gentiluomo nato a San Michele al Tagliamento, Ezio Glerean.
Glerean è arrivato alle soglie del grande calcio, ma non è riuscito a sfondare come forse la sua capacità di insegnare calcio avrebbe meritato. La sua strada, nel momento di massimo splendore, si è incrociata con quella di Maurizio Zamparini, il vulcanico presidente che ha saputo lanciare alla ribalta tanti allenatori quanti ne ha allo stesso tempo bruciati. Troppo garbato nei modi e nello stile, Glerean, per resistere ai ritmi del presidente mangiallenatori che lo incrociò nel momento più confuso della sua gestione, quello del “trasloco” da Venezia a Palermo, dove dopo un precampionato travagliato Glerean, nel 2002, riuscì a durare solo una giornata. A Palermo c’è chi ha fatto di peggio con tecnici come Pioli esonerati addirittura prima dell’inizio del campionato ma quella in Sicilia resta forse la grande occasioneperduta del tecnico veneto in una squadra che, al di là delle bizarrie di Zamparini, arriverà in quegli anni alle soglie della Champions League.
All’alba del 2000 gli appassionati di calcio ed in particolare di tattica si stavano passando una voce: quello di Glerean poteva diventare un modello di gioco completamente nuovo, alla stregua del 4-4-2 sacchiano o del 4-3-3 zemaniano. Complice la moglie olandese ed alcuni viaggi ad Amsterdam Ezio era passato spesso dalle parti del campo d’allenamento dell’Ajax ed aveva studiato un’idea di gioco, nata a Sandonà e perfezionata al Cittadella, assolutamente inedita per il calcio italiano. Era nato il 3-3-4, interpretazione estrema della zona che come detto aveva portato il piccolo Sandonà tra i professionisti ed il Cittadella per la prima volta in Serie B, con la piccola squadra in provincia di Padova capace di sbaragliare concorrenza anche più attrezzata nei play off, prima dalla C/2 alla C/1 e poi dalla C/1 alla B.
Le peculiarità di questo modulo sono state illustrate a grandi linee nel film: serve una difesa a tre con centrali bravi nel gioco aereo e nell’uno contro uno, tre mediani capaci di avere cuore e polmoni per correre a tutto campo e recuperare palloni, e soprattutto quattroattaccanti capaci di produrre un pressing continuo sul portatore di palla avversario, per non mandare in sofferenza gli altri reparti, e di dialogare fra loro con rapidi scambi di palla. Una ricetta avveniristica che ha dimostrato di funzionare nelle categorie inferiori, ma per Glerean è mancato il grande salto, l’allenatore-galantuomo che (caso più unico che raro nel calcio di oggi) non ha neanche un procuratore, non ha mai trovato il suo “uomo in più”, ovvero un presidente deciso a scommettere su di lui a grandi livelli, forse complice la lenta fine della rivoluzione della zona, iniziata oltre venti anni prima del miracolo-Sandonà e del 3-3-4, che ne resta ancora l’espressione più estrema, affascinante ed al momento ancora non del tutto esplorata. Oggi Glerean allena a Marostica, tra i dilettanti: la sua passione per cercare nuove formule e trovare un uomo in più in un calcio che sembra aver ormai già detto tutto non si è ancora spenta.
Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.
Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.
Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.
Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.
Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.
Educare nel calcio. Oggi sembra una favola utopistica. Una volta, invece, questa affermazione corrispondeva ad una naturale consuetudine. La figura di Luciano Tessari incarna al meglio tale concetto. Educatore prima di ogni altra cosa. Simbolo capace di intrecciare un rapporto fraterno e costruttivo con i propri giocatori. Nella veste di fedele assistente di Nils Liedholm scriverà pagine gloriose tra Milan e Roma.
Nato a San Martino Buon Albergo nel settembre del 1928, compie una carriera da portiere più che soddisfacente. Verona, Roma, Fiorentina e Palermo le tappe principali. Dotato di un Fisico scultoreo e roccioso indossa i guantoni fino al 1958 quando, a 31 anni, opta per il ritiro dall’agonismo. Il calcio, però, rimane nella quotidianità di Luciano. Inizia così il percorso da allenatore all’alba degli anni sessanta. Per tre stagioni accetta e traghetta con lodevoli risultati le formazioni giovanili del Milan. Nel 1964-1965 giunge il trionfo nel torneo Primavera. Di lì a poco si aprirà la proficua e profonda collaborazione con mister Nils Liedholm. Al fianco del barone svedese sarà prima il coach dei portieri dal ’65 al ’67 per poi allestire la sceneggiatura dell’epopea romanista negli anni ottanta.
Cortese, sobrio, mai sopra le righe. Tessari trova subito l’amalgama giusta con i suoi allievi. Da tecnico titolare, in realtà, la sua carriera non esplode mai definitivamente. Verrà chiamato soprattutto in situazioni di emergenza, come nel caso della Roma nel ’71 in luogo di Helenio Herrera (quando operava nelle compagini del vivaio capitolino) e del Latina dopo altre due stagioni (in sostituzione di Rosa). Nella complessa esperienza in terra pontina, però, trova spazio un rampante Alessandro “Spillo” Altobelli con 7 reti in 28 gettoni.
Le comprovate doti umane vengono alla luce successivamente al timone delle rappresentative giovanili dell’Almas Roma e del Comitato Regionale Lazio. Questo curriculum permette a Tessari di stimolare ancora le attenzioni di Liedholm che lo richiama per un posto da allenatore in seconda di nuovo al Milan. Il tandem in panchina lavora con sagacia portando in serbo il decimo scudetto della storia rossonera, quello della stella. Gianni Rivera, ormai veterano, è l’emblema di quella squadra.
Il Nord al comando del calcio italiano. Le corazzate del Centro-Sud sembrano in netto e colpevole ritardo. Al fine di smentire queste malelingue il Presidente della Roma Dino Viola chiede espressamente a Tessari di porre in essere un’opera di convincimento rivolta allo stesso Liedholm. Le nozze sportive si celebrano nell’estate del 1979. Cinque lunghe annate piene di emozioni. Splendido lo scudetto del 1983 con il maestro Falcao ad orchestrare una formazione davvero eccezionale. Capitan Di Bartolomei, Pietro Vierchowod, Sebino Nela, Carlo Ancelotti, il bomber Pruzzo ed altri strepitosi interpreti. Uniti, coesi e allevati da due padri professionali come Nils e Luciano. La bacheca si riempie anche con quattro successi in Coppa Italia. Unica sconfitta che, ancora oggi, brucia nel cuore e nelle vene dei giallorossi è quella patita nella finale di Coppa Campioni nel 1984 giocata proprio nel teatro dello stadio Olimpico. Il legame tra capo e vice ormai è indissolubile. Il Milan di Giussy Farina, ai titoli di coda come patron, richiama al vecchio amore il mister svedese. Tessari segue il maestro con profonda e sincera devozione. Tre apprezzabili stagioni, anche se con una rosa in tono minore rispetto al passato ed al fantasmagorico futuro targato Berlusconi.
Tessari non è stato un semplice assistant coach. Note a tutti le sue minuziose relazioni sui talenti scovati in giro per l’Italia e per l’Europa. Basti pensare ai profili stilati su Carlo Ancelotti (ai tempi del Parma) e sul brasiliano Falcao (recapitate puntualmente a Liedholm).
Luciano Tessari: il fedele scudiero. Una vita per il calcio con la testa sempre alta e una bontà d’animo esemplare.
I toscani, generalmente, non hanno un carattere semplice. Burberi, focosi e dalla vena polemica spesso pizzicata. C’è però un trainer che, forse più di tutti, ha saputo temperare a dovere i propri atteggiamenti. Stiamo parlando di Marcello Lippi.
Viareggio è la città del carnevale e del mare. Il 12 aprile 1948, con l’Italia repubblicana alle origini, nasce Marcello Romeo Lippi (così come registrato all’anagrafe). Le radici pallonare nascono e cominciano a crescere nel sodalizio della Stella Rossa Viareggio. Nel pieno degli anni sessanta il riccioluto difensore centrale è già noto sui taccuini di molti osservatori.
La Liguria non è lontanissima. A cavallo dei tribolati anni settanta (socialmente sia chiaro) la Sampdoria fa sul serio con il giovanissimo Marcello. Urge però un rapido apprendistato al Savona in Serie C. Un giro nella giostra dei piccoli ed ecco l’approdo sulle montagne russe della Serie A. Ben nove annate in blucerchiato, per partecipare da protagonista alla sorprendente cavalcata della Pistoiese nel torneo cadetto 1979-1980. Una splendida avventura che porta gli “Orange” nella massima serie. L’ultimo treno da giocatore è quello che porta fino a Lucca dove, nel 1982 in C2, archivia una dignitosissima carriera da giocatore.
Scarpini al chiodo, ma la mente subito fissa verso il futuro. Lippi non ha dubbi: sarà mister. Il rampante coach studia, pensa e muove le pedine del suo scacchiere. L’alba può iniziare dalle giovani leve. Marcello infatti accetta i primi incarichi di allenatore nel vivaio della Sampdoria. Arriviamo così al 1986, quando giunge la chiamata del Pontedera. L’esordio nel professionismo non è male con la squadra che si spinge alle soglie della finale di Coppa Anglo-Italiana. I granata però cedono al Piacenza. Siena, Pistoiese e Carrarese sono tappe essenziale per una sacrosanta gavetta. In Emilia-Romagna c’è un Presidente che, ormai da tempo, ne studia sagacia e acume gestionale. Edmeo Lugaresi, patron del Cesena, è convinto della scelta. In riva al fiume Savio passano rapide due stagioni tra alti e bassi. Bene la prima in A, con salvezza incorporata, decisamente più tribolata la seconda con un esonero. Si prosegue con una breve ma discreta esperienza al timone della Lucchese in cadetteria.
Estate 1992: Lippi in Lombardia. A Bergamo scorre acqua nerazzurra. L’Atalanta sogna e tocca vette ancora inesplorate nel campionato ’92-’93. Settima posizione e gioco al passo coi tempi. Il cocktail tra il tipico calcio in salsa italiana e la Nouvelle Vague dei cantori della zona (Sacchi in prima fila) sembra un esperimento temerario.Il sapore della ricetta è gustoso. Bomber Ganz mette a referto 14 reti. Alemão è il perno in mediana. Ferron tra i pali. Bordin, l’uruguaiano Montero e Porrini alzano la barriera arretrata. Ottime anche le prestazioni dell’argentino Rordiguez e dell’ala Rambuadi, trasformato in un fulmine da guerra sotto la cura del mago boemo Zeman. Alcune incomprensioni con la dirigenza orobica rompono però il giocattolo tra Lippi e Percassi.
Il tecnico di Viareggio non vuole fermarsi. Il calore del Sud lo convince ad accettare un progetto arduo da realizzare. Il Napoli, ben lontano dai fasti targati Maradona, si trova di fronte ad una condizione societaria confusa. Ferlaino, nel pieno dello scandalo Tangentopoli, lascia temporaneamente lo scettro in luogo di Ellenio Gallo. Il general manager Bianchi è l’artefice della chiamata di Lippi sulla panchina azzurra. Sul piano finanziario sarà una annata nera con stipendi saltati o giunti in colpevole ritardo. Ciononostante il gruppo è coeso. La difesa è rocciosa con il gioiellino Fabio Cannavaro, l’ultima bandiera nostalgica Ciro Ferrara ed un onesto scudiero come Bia a spalleggiare il guardiano Taglialatela. In regia manovra Pecchia (o Corini) con il supporto di Buso e Thern. L’attacco è frizzante grazie a Fonseca e Paolo Di Canio. Gambaro, Nela, Corradini, Altomare, Policano, Imbriani e Bresciani completano uno spogliatoio più operaio che altolocato. Al “San Paolo” Lippi sperimenta le alchimie tattiche che ritroveremo poi nei lidi nobili della Juventus e della Nazionale italiana trionfante nel 2006 in Germania. Muscoli e atletismo in principio. La qualità è un elemento che impreziosisce e, ovviamente, non può mancare. Il popolo partenopeo sorride ancora con la sesta piazza conclusiva, strappata proprio all’ultimo respiro con il Foggia del mago boemo. L’orizzonte all’ombra di Posillipo è cupo. A fine stagione, quasi in segreto in segno di rispetto verso l’amore dimostrato dai campani, Lippi si accorda con la Juventus. I bianconeri stanno per inaugurare un ciclo rivoluzionario con l’insediamento del trio dietro la scrivania formato da Moggi, Giraudo e Bettega.
Sarà il preludio di un’epoca titolata e difficilmente ripetibile. Prima della gloria, però, c’è stato un lungo periodo di apprendistato in cui Marcello da Viareggio ha plasmato la sua idolatrata carriera da mister.
Sir Alex Ferguson si è congedato da Old Trafford nel 2013 facendo calare il sipario su una autentica leggenda per il Manchester United e il calcio inglese e internazionale in generale. L’ultima Premier League vinta è stato il tredicesimo titolo della Premier League portato a casa dall’allenatore e manager scozzese,che ha chiuso una carriera per certi versi impareggiabile, soprattutto considerando la longevità del suo mandato sulla panchina dei Red Devils.
Prima di approdare in terra mancuniana però, e parliamo ormai del lontano 1986, Ferguson si era abbondantemente fatto le ossa in patria, arrivando anche a guidare la Scozia nei Mondiali messicani. In un campionato però da sempre dominato da Rangers e Celtic, le squadre di Glasgow eternamente ai vertici del football scozzese, gli anni ’80 fecero registrare gli ultimisuccessi di squadre al di fuori dell’Old Firm. Il Dundee United e soprattutto l’Aberdeen, che sotto la guida di Ferguson aprì un ciclo in Scozia e in Europa, straordinariamente vincente per un club di così piccole dimensioni.
Negli ultimi anni Aberdeen ha vissuto un periodo di rinascitaculturale importante: terza città della Scozia per estensione e popolazione dopo la capitale Edimburgo e Glasgow, ha una media di iscritti all’università di gran lunga superiore a quella nazionale ed è animata da diverse iniziative culturali e, rarità per le frastagliate coste scozzesi, anche da una spiaggia punto di ritrovo per molti giovani. Ma quando il manager alle prime armi Ferguson vi approda, nel 1979, lo scenario è quello un po’ ruvido e grigio della provincia della Scozia che trova nel calcio occasioni di riscatto sociale. Opportunità abbastanza rare a dire il vero visto che fino ad allora in bacheca per l’Aberdeen c’erano solo due Coppe di Scozia ed il titolo del 1955.
Ferguson da calciatore aveva giocato nell’Aberdeen e conosceva bene l’ambiente e, soprattutto, sapeva perfettamente una cosa: per battere i colossi di Glasgow bisognava giocare d’anticipo, assicurandosi i migliori giocatori scozzesi prima che le loro quotazioni salissero alle stelle. E le scelte di Ferguson dimostrano la lungimiranza che lo contraddistinguerà anche nella quasi trentennale esperienza allo United. In porta, Jim Leighton che difenderà i pali della nazionale scozzese fin oltre i quarant’anni. In difesa, il roccioso Willie Miller, un mito dell’Aberdeen, 558 presenze in vent’anni in biancorosso. A centrocampo Alex McLeish davanti alla difesa e Gordon Strachan a fare gioco. Non è un caso che, con Ferguson come mentore, i quattro diventeranno tuttiallenatori. Di sicuro c’è che nel 1980 l’Aberdeen vince, sotto la guida di Fergie, il suo secondo titolo scozzese al primo colpo ma il meglio, è proprio il caso di dirlo, deve ancora venire.
Grazie a Ferguson infatti, il nome di Aberdeen inizia a girare per l’Europa. Soprattutto, tra l’82 e l’84, la squadra delle Highlands vincerà tre Coppe nazionali di fila che spalancheranno le porte della Coppa delle Coppe. Nel 1983, l’anno più esaltante della storia dell’Aberdeen, la squadra ha trovato un equilibrio perfetto e fila dritta verso la finalissima di Goteborg contro il Real Madrid di Santillana, Stielike e Camacho. Partita a pronostico chiuso, tanto che i tifosi delle merengues in buona parte snobbano la trasferta scozzese, con lo stadio Ullevi per tre quarti riempito dai colori biancorossi. L’Aberdeen scende in campo con questa formazione: Leighton, Rougvie, McLeish, Miller, McMaster, Cooper, Strachan, Simpson, Weir, McGhee, Black. Una filastrocca che ogni tifoso di Aberdeen sa ancora ripetere a memoria.
Eh sì, perché dopo sette minuti Eric Black fa esplodere la festa scozzese portando subito in vantaggio i suoi. Il Real capisce che non si tratterà di una passeggiata e, pur trovando al quarto d’ora il pari grazie ad un rigore di Juanito, soffre la grinta e la concretezza scozzese, esaltata dalle rapide trame di gioco disegnate da Ferguson. Ma l’eroe della partita non fa parte dell’undici iniziale dell’Aberdeen. Si va ai supplementari e poco prima del fischio finale Ferguson getta nella mischia John Hewitt al posto di Black. Nel secondo overtime sarà lui a realizzare una rete che è ancora incastonata nella storia del calcio scozzese. Il potente Real Madrid è battuto, l’esultanza sugli spalti è sfrenata, l’Aberdeen dal freddo e grigio Nord della Scozia è catapultato nel caldocuore d’Europa. Una potenzacontinentale, confermata dalla successiva vittoria nella Supercoppa Europea, contro l’Amburgo battuto 2-0 nel match di ritorno a Pittodrie, che permetterà di raggiungere il tetto d’Europa ai biancorossi. L’impresa più incredibile di Ferguson, pronto poi a scrivere la leggenda del Manchester United.
Di Brian Clough, l’allenatore senza peli sulla lingua che portò la classe operaia inglese in Paradiso grazie alle vittorie ottenute alla guida di Derby County e Nottingham Forest, si è detto e scritto davvero molto. In parecchi da tempo lo giudicano l’antesignano di Josè Mourinho negli atteggiamenti, anche se “Cloughie” era profondamente diverso in molti aspetti, soprattutto era molto più rude e ruvido pur essendo stato il primo, alla stregua di quanto poi perfezionato dal portoghese, a comprendere l’importanza e il ruolo dei media e della comunicazione nel calcio.
Meno si conosce però del Clough calciatore, autentico flagello divino in linea con le sue caratteristiche fisiche, piccolo attaccante dalla grande rapidità e reattività e soprattutto dal controllo di palla sullo stretto capace di fare impazzire qualsiasi difensore. Del Clough calciatore Bill Shankly, il manager che diede vita alla leggenda del Liverpool, diceva: “E’ peggio della pioggia di Manchester, quella almeno ogni tanto smette.” Sotto porta Clough invece non conosceva soluzione di continuità: con la maglia del Middlesbrough arrivò a segnare 197 reti in 212 apparizioni in campionato e si assestò su quelle medie anche dopo il suo passaggio al Sunderland all’inizio degli anni ’60.
Ma la sua carriera da calciatore si spezzò di fatto quando non aveva ancora compiuto ventotto anni: Clough subì un gravissimoincidente nel giorno di Santo Stefano del 1962, il cosiddetto Boxing Day. Chiamato così perché in Inghilterra è tradizionalmente legato all’usanza, nata nell’Ottocento. di regalare doni ai dipendenti o ai membri delle classi sociali più povere. In particolare, era consuetudine delle famiglie agiate britanniche preparare delle apposite scatole con all’interno alcuni doni e avanzi del ricco pranzo di Natale, da destinare al personale di servizio a cui era concesso libero il giorno successivo al Natale, per far visita alle proprie famiglie. Il 26 dicembre segna ormai da decenni l’inizio della maratona calcistica che gli appassionati di calcio in Gran Bretagna possono gustarsi nel periodo delle feste, quando qualche giorno di ferie aiuta a pensare più spensieratamente al football. Un’atmosfera sempre festosa ma che nel Boxing Day del 1962 segnò la fine del talento di Clough che molti ritenevano avrebbe potuto trovare compimento negli imminenti Mondiali in Cile. Pur considerando che il futuro leggendario allenatore rimase sempre ai margini dei Leoni Bianchi, collezionando solo dueapparizioni in Nazionale in carriera, vuoi per la feroce concorrenza dell’epoca, vuoi per un carattere già ai tempi sin troppo schietto.
Ad ogni modo in quel 26 dicembre 1962 era programmata la sfida tra Sunderland e Bury: uno scontro con il portiere della squadra dei sobborghi di Manchester e il legamento crociato salta, un infortunio che segna la fine della carriera, a quei tempi, nella maggior parte dei casi. E Clough non fa eccezione: dopo un anno e mezzo di tentativi andati a vuoto, l’idea del rientro in campo per lui si fa da parte. L’Inghilterra perde un formidabile, astuto attaccante, ma trova nel contempo un allenatore destinato a lasciare sui tempi un segno indelebile. Le rivincite per Clough saranno molteplici, dal portare il Derby County dal fondo della Seconda Divisione alla vetta d’Inghilterra, ed il Nottingham Forest per due volte consecutive sul trono d’Europa. Ma il cerchio col Boxing Day si chiuderà solo ventidueanni dopo, quando Clough farà esordire proprio in occasione del Santo Stefano in campo, alla guida di un Forest ormai affermatissimo, il figlio Nigel appena diciottenne. Il quale inizierà nel 1984 una brillante carriera che lo porterà a partecipare agli Europei del 1992 con la maglia dell’Inghilterra, per seguire infine le orme paterne come allenatore. Un classico, perfetto caso di giustizia poetica.
Umbria matta. Il calcio senza limiti e barriere. Viciani e la Ternana: una storia totale. Guardiola, Zeman, Vinicio, Galeone e Sacchi anche loro rivoluzionari ma in ritardo. La periferia del calcio aveva, già al culmine degli anni sessanta, il suo fautore della controcultura.
Un uomo semplice in fondo. Venuto alla luce nella libica Bengasi, approda nel bel paese insieme ai genitori. Si stabilisce in Toscana e coltiva il frutto del pallone tra i piedi. Sarà un’onesta carriera da calciatore la sua. Un mediano dai sani polmoni tra Fiorentina, Como, Genoa, Tevere Roma e Fermana.
Si parte da Fermo appunto. Il progetto mentale di Viciani è asciutto ed elementare: cose facili, cose nuove, cose belle. Il materiale umano latita tecnicamente? Nessun problema. Ci si muove in uno spazio ristrettissimo con un pressing estenuante sugli avversari ed una ramificata manovra basata su passaggi fitti e mai forzati. Allacciate le cinture, si parte: questo è il gioco corto. Nelle Marche il laboratorio sperimenta le innovazioni con alterne indicazioni da custodire. Il tour procede sulle panchine di Sangiorgiese, Ravenna e Prato. Nel 1967 il confine tra Umbria e Lazio è vuoto. Il Presidente delle “Fere” Creonti intercetta il vento che cambia e chiama alla sua corte il mister. I rossoverdi sbancano al primo colpo. La promozione in Serie B, in un girone infernale con le calde piazze del sud, traccia l’apoteosi. In estate cambia il timone societario con Giovanni Manini al timone. Cardillo e Liguori sono i protagonisti di una salvezza meritata. La vittoria all’Olimpico sulla Lazio eleva il prestigio e Viciani, forse appagato dal sorprendente rendimento del suo contingente, decide di traslocare. Le lusinghe dell’Atalanta sono pressanti, ma il campo non darà lustro al tecnico. Opaca pure la successiva annata in quel di Taranto.
È il 1971 e la storia diventerà ben presto mito. Il timone della Ternana cambia ancora: pieni poteri a Giorgio Taddei. Corrado VIciani torna alla base. Mastropasqua è il libero, circondato da arcigni difensori come Benatti, Agretti e Rosa. Il portiere Alessandrelli si oppone alle minacce avversarie. A centrocampo il moto perpetuo è recitato dagli instancabili Beatrice, Cardillo e Marinai. Davanti c’è il tridente indemoniato: Selvaggi, Traini e Jacolino. 50 punti frutto di 43 reti messe a segno e 28 subite. L’Italia intera guarda con stupore e simpatico interesse l’impresa compiuta dalla matricola umbra. L’entusiasmo del popolo è alle stelle. La Serie A, però, sembra una scalata epica e proibitiva. Il copione dello spettacolo rossoverde non cambia. Il gioco corto del maestro non si discute. Gli apostoli seguono i dettami alla lettera ma il piatto dei risultati piange. Tre illusori successi: Vicenza, Verona e Bologna. La stampa nazionale ammira la manovra avveniristica delle “Fere”, nonostante le cadute a ripetizione. Al triplice fischio del campionato sarà retrocessione diretta all’ultimo posto con soli 16 punti totalizzati.
La Sicilia in cartolina. Mister Viciani intravede nel Palermo un nuovo laboratorio. Il susseguente biennio in rosanero porterà la squadra ad una finale di Coppa Italia (sconfitta ai calci di rigore contro il Bologna) ed un salto in A perso al fotofinish. La lavagna di Corrado girerà ancora, ma non sarà come prima. Tante, troppe stagioni vissute tra retrocessioni e salvezze al cardiopalmo. Cavese, Lanerossi Vicenza, Civitanovese passando per Livorno, Turris e Foggia. Torna al “Liberati” in Serie C per limitare i danni causati spesso da una società allo sbando.
La curva est dello stadio di Terni, a lui intitolata nel 2014, è il giusto ricordo di un profeta provinciale senza macchia e senza paura. Corrado Viciani: il Rinus Michels dei poveri.
E se la tragedia del Sarrià fosse frutto della nostra immaginazione? L’uomo è stato davvero sulla luna? Siamo proprio sicuri della morte di Elvis Presley e Michael Jackson? Paradossi che tolgono il sonno. Sì perché il Brasile del 1982 era il paradiso calcistico. Perfezione tecnica distillata da una solida guida: Telê Santana. Attaccare sempre, ovunque e senza limiti. La difesa? Ora chiediamo troppo.
Nato nel 1931 a Itabirito, Santana sposa il calcio da giovanissimo. Baricentro basso, dinamismo e piedi educati. Sbarca il lunario con la maglia della Fluminense. Nella veste di ala segna a valanga strabiliando la tifoseria. Il Brasile tra gli anni ’50 e ‘60’ è una facoltà a numero chiuso. Garrincha, Amarildo, Zagallo, Vavà e Pelè alzano un muro invalicabile. Dopo oltre 500 gettoni nel Tricolor Telê completa altre tre dignitose annate con Guarani e Vasco de Gama. Il fiato diventa corto e la carriera da trainer solletica la mente. La riflessione è prolungata e sofferta ma, alla fine, Santana sceglie la panchina.
In patria vince e costruisce il mito. Fluminense, Atletico Mineiro, San Paolo, nuovamente Atletico Mineiro e Gremio. La lista di titoli è ricca: due campionati brasiliani, un campionato Carioca, un campionato Gaucho. Il gioco spumeggiante, arioso e privo di eccessivi compiti tattici diverte e aguzza l’ingegno della federazione brasiliana. La gestione targata Coutinho aveva iniettato il virus dei dettami europei. Artifici scientificamente congeniati che, però, ingabbiavano la libertà della fantasia. Con Santana al timone la samba torna alla ribalta. Socrates, Cerezo, Junior, Falcao, Zico, Eder e Dirceu. Ai Mondiali spagnoli del 1982 la corazzata verdeoro ci arriva da unica favorita. Il primo girone è una passerella di velluto contro URSS, Scozia e Nuova Zelanda. La seconda fase parte con i migliori auspici, grazie al tris rifilato ai rivali dell’Argentina.
Il 5 luglio 1982 il Brasile, apparentemente proiettato verso la semifinale con la Polonia, sfida l’Italia di Bearzot. Gli azzurri vengono dal successo su Maradona e soci. Gentile prende in consegna Zico e non lo lascerà più. Bruno Conti e Cabrini sono sguscianti spine nel fianco. Tardelli è un motorino instancabile a centrocampo e poi c’è lui: Paolo Rossi. L’attaccante juventino, criticato al veleno dalla stampa fino a quel momento, prende per mano le sorti sportive della penisola. I Telê boys insaccano due gol (e che gol!) con Socrates e Falcao, ma con questa Italia non c’è nulla da fare. Il giocattolo si rompe.
Santana cerca allora di dimenticare la cocente delusione trasferendosi addirittura in Arabia Saudita. I soldi non fanno la felicità? Dipende dai puti di vista. Il mister si toglie comunque la soddisfazione di alzare la coppa del Re saudita e di trionfare nel locale campionato.
Nel 1985 la Nazionale brasiliana naviga in sabbie mobilissime, rischiando di non prender parte alla rassegna irridata dell’anno successivo in Messico. Il ct risponde presente e salva il salvabile. Il 21 giugno, a Guadalajara, i nodi vengono al pettine. Il Brasile di Careca, Branco e Almeao viene eliminato ai rigori nei quarti di finale dalla Francia. L’ennesimo sogno svanito convince Telê a dire addio alla panchina verdeoro.
Il calcio in patria, però, ha ancora bisogno di lui. Atletico Mineiro, Flamengo e San Paolo sono le sue ultime avventure. Il tempo di vincere ancora: due Coppe Libertadores, due Coppe Intercontinentali, due Recope Sudamericane, una Supercoppa Sudamericana, due campionati Paulisti, un campionato brasiliano e un campionato Mineiro. Una bacheca da mille e una notte che spedisce Telê Santana nel gotha del calcio universale.
Estate 1968. L’A.S. Roma è da poco una società per azioni. Il Presidente Franco Evangelisti, ormai pronto ai saluti, vuole regalare un sogno ai tifosi. Un sogno per ambire alla grandezza del successo. Dal cilindro esce un nome: Helenio Herrera. Prima dell’approdo in riva al Tevere ha vinto di tutto e di più. L’Inter planetaria è opera sua: due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e un tris di scudetti. Gloria anche in Spagna, sulle panchine di Barcellona e Atletico Madrid.
Roma è bella, languida, mondana e attraente. Herrera se la gode eccome. Donne e auto le sue debolezze. Tre mogli, otto figli (di cui una piccola adottata) e una lista indecifrabile di amanti. Mettiamoci pure un pauroso incidente stradale, dal quale rimane incredibilmente illeso.
Il Vangelo di HH è sempre lo stesso: catenaccio e pressing asfissiante. Nella capitale trovano casa due allievi fidati: Santarini e Bet. L’idolatrata bandiera Giacomo Losi, dopo appena otto turni, viene messo alla porta. L’ombra più grande irrompe nel marzo del 1969. La punta Giuliano Taccola muore, per un arresto cardiocircolatorio, nello spogliatoio dello stadio di Cagliari in circostanze mai totalmente chiarite. C’è però una luce: la Coppa Italia. Fabio Capello e l’asso spagnolo Peirò firmano la finalissima contro il Foggia. Grande entusiasmo in città, nonostante l’ottavo posto al termine della prima stagione. L’annata successiva è povera di acuti, con un anonimo undicesimo posto in campionato e l’eliminazione in Coppa delle Coppe in semifinale.
Intanto Marchini rileva la presidenza della società. Il rapporto tra il patron e il tecnico non è dei migliori. Il bicchiere si rovescia all’alba della stagione 1970-1971 con i talentuosi, Spinosi, Capello e Landini ceduti alla Juventus in cambio di tre vecchie volpi come Zigoni, Vieri e Del Sol. C’è turbolenza e contestazione. I giallorossi però viaggiano e bene. Cordova e soci partono a razzo per poi calare nel corso dei mesi. Discreta comunque la sesta piazza a quota 32. Nel mese di aprile Marchini, furibondo dopo alcune dichiarazioni al vetriolo del mister, esonera Herrera ed affida la squadra a Tessari. In sessanta giorni cambia il mondo. Marchini lascia il timone a Gaetano Anzalone e HH torna in sella.
Il secondo trofeo giunge con la Coppa Anglo-Italiana nella stagione ’71-’72. In avanti Vieri, Zigoni, Cordova e soprattutto Amarildo offrono sprazzi funambolici. Cappellini, Scaratti e lo stesso Zigoni timbrano il match contro il Blackpool.
Sembra il paradiso, ma è l’inizio di un incubo sportivo. Si congedano in blocco Del Sol, Vieri, Petrelli e Amarildo. Valerio Spadoni è il nuovo centravanti. Cominciano a farsi largo due giovani promesse: Agostino Di Bartolomei e Francesco Rocca. Nelle prime cinque giornate il popolo romanista si illude. Il capolavoro balistico di Nanni, nel derby con la Lazio, e il poker servito dalla Ternana di Corrado Viciani compromettono l’esperienza capitolina del “Mago”. Anzalone ora non può più difenderlo e opta per l’esonero in luogo di Trebiciani. I giallorossi si salvano per il rotto della cuffia chiudendo undicesimi.
Amaro epilogo di un amore mai sbocciato. Herrera e Roma: così vicini, così lontani.