Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”
In realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.
Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.
Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.
Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.
Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talentobrasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.
Schierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.
Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionalebrasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.
La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.
Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.
Alla sua idea di calcio si è ispirato anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino per la sua opera prima, “L’uomo in più“. Il protagonista Antonio Pisapia, interpretato da Andrea Renzi, ex calciatore che rifiuta di truccare partite e fatica a reinserirsi nel mondo del calcio da allenatore, prova ad esportare la sua idea di football avveniristico, con gli attaccanti che si muovono a rombo, tre punte più un trequartista, per i triangoli ed i fraseggi, e tre mediani che fanno muro a centrocampo. “Si possono vincere le partite, così“, spiega senza che nessuno lo ascolti. Finzione dalle radici ben piantate nella realtà: la vicenda umana del protagonista, che nel film incrocia i suoi destini con l’omonimo cantante interpretato da Toni Servillo, si ispira a quella di Agostino Di Bartolomei. Ma anche i riferimenti calcistici vengono dalla realtà visto che lo schema dell'”uomo in più” porta la firma di un allenatore-gentiluomo nato a San Michele al Tagliamento, Ezio Glerean.
Glerean è arrivato alle soglie del grande calcio, ma non è riuscito a sfondare come forse la sua capacità di insegnare calcio avrebbe meritato. La sua strada, nel momento di massimo splendore, si è incrociata con quella di Maurizio Zamparini, il vulcanico presidente che ha saputo lanciare alla ribalta tanti allenatori quanti ne ha allo stesso tempo bruciati. Troppo garbato nei modi e nello stile, Glerean, per resistere ai ritmi del presidente mangiallenatori che lo incrociò nel momento più confuso della sua gestione, quello del “trasloco” da Venezia a Palermo, dove dopo un precampionato travagliato Glerean, nel 2002, riuscì a durare solo una giornata. A Palermo c’è chi ha fatto di peggio con tecnici come Pioli esonerati addirittura prima dell’inizio del campionato ma quella in Sicilia resta forse la grande occasioneperduta del tecnico veneto in una squadra che, al di là delle bizarrie di Zamparini, arriverà in quegli anni alle soglie della Champions League.
All’alba del 2000 gli appassionati di calcio ed in particolare di tattica si stavano passando una voce: quello di Glerean poteva diventare un modello di gioco completamente nuovo, alla stregua del 4-4-2 sacchiano o del 4-3-3 zemaniano. Complice la moglie olandese ed alcuni viaggi ad Amsterdam Ezio era passato spesso dalle parti del campo d’allenamento dell’Ajax ed aveva studiato un’idea di gioco, nata a Sandonà e perfezionata al Cittadella, assolutamente inedita per il calcio italiano. Era nato il 3-3-4, interpretazione estrema della zona che come detto aveva portato il piccolo Sandonà tra i professionisti ed il Cittadella per la prima volta in Serie B, con la piccola squadra in provincia di Padova capace di sbaragliare concorrenza anche più attrezzata nei play off, prima dalla C/2 alla C/1 e poi dalla C/1 alla B.
Le peculiarità di questo modulo sono state illustrate a grandi linee nel film: serve una difesa a tre con centrali bravi nel gioco aereo e nell’uno contro uno, tre mediani capaci di avere cuore e polmoni per correre a tutto campo e recuperare palloni, e soprattutto quattroattaccanti capaci di produrre un pressing continuo sul portatore di palla avversario, per non mandare in sofferenza gli altri reparti, e di dialogare fra loro con rapidi scambi di palla. Una ricetta avveniristica che ha dimostrato di funzionare nelle categorie inferiori, ma per Glerean è mancato il grande salto, l’allenatore-galantuomo che (caso più unico che raro nel calcio di oggi) non ha neanche un procuratore, non ha mai trovato il suo “uomo in più”, ovvero un presidente deciso a scommettere su di lui a grandi livelli, forse complice la lenta fine della rivoluzione della zona, iniziata oltre venti anni prima del miracolo-Sandonà e del 3-3-4, che ne resta ancora l’espressione più estrema, affascinante ed al momento ancora non del tutto esplorata. Oggi Glerean allena a Marostica, tra i dilettanti: la sua passione per cercare nuove formule e trovare un uomo in più in un calcio che sembra aver ormai già detto tutto non si è ancora spenta.
Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.
Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.
Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.
Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.
Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.
Croazia e Serbia sono tornate ad affrontarsi per le qualificazioni al Mondiale del 2014 in una partita ufficiale dopo una pausa che durava dal 1999, quando la Serbia era ancora Jugoslavia, e sia Montenegro che Kosovo erano ancora ufficialmente parte del paese. Ma la memoria non può che andare al 13 maggio del 1990, quando nello stesso stadio Maksimir di Zagabria, stracolmo, la partita tra Dinamo Zagabria (Croazia) e Stella Rossa di Belgrado (Serbia) certificò al mondo intero, distratto dalla unificazione della Germania e dalla incipiente dissoluzione dell’Unione Sovietica, che la Jugoslavia era sul punto di esplodere. Quel giorno prese il largo, in maniera inarrestabile, la rabbia nazionalista, mentre gli ultrà distruggevano tutto, Zvonimir Boban, asso dei croati e futuro protagonista del calcio italiano (Bari e soprattutto Milan) prese a calci un poliziotto per difendersi. Violenti scontri tra le due tifoserie, guidate da capitifosi – forse pilotati dall’alto – che sarebbero diventati capi paramilitari, anticiparono il conflitto che si sarebbe scatenata di lì a poco. Quella volta non si giocò. Poi, la guerra civile.
Forse non esiste un esempio più calzante di questo quando si dice che “non è solo un gioco/solo una partita”, perché quel Dinamo Zagabria-Stella Rossa è la sintesi del significato del calcio: un gioco capace di accendere, ingigantire, a volte anticiparerivalità profonde, ma capace anche di restituire normalità alle relazioni dei gruppi che esso rappresenta. E nella recente partita, pur mantenendo intatto il valore simbolico dell’evento, l’ordine pubblico è stato rispettato, grazie ad un massiccio dispiegamento di forze di polizia e al divieto ai tifosi serbi di partecipare all’incontro. Ma il rancore profondo rimane. Nei giorni precedenti alla sfida tra Croazia e Serbia fu arrestato il direttore esecutivo della Dinamo Zagabria, Zdravko Mamic, per incitamento all‘odio etnico, dopo aver lanciato pesantissime accuse al ministro croato dello Sport, Zeljko Jovanovic, di etnia serba. Ha definito la sua nomina «un insulto al cervello dei croati».
È un peccato che si parli di quella partita per i violenti scontri, perché la storia di Croazia – Serbia è anche la storia della “generazione d’oro” jugoslava, della nazionale locale più forte di tutti i tempi – Boban, Šuker, Prosinečki, Mijatović, per citarne alcuni – quando gli jugoslavi era considerati i brasilianid’Europa, e la Stella Rossa arrivava sul tetto del mondo, pur simbolo di un Paese che si stava sgretolando. Da qualche anno sta emergendo una nuova generazione di talenti che gioca sotto bandierediverse, pur essendo nati, molto spesso, nello stesso paese.
“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.
Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.
A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.
Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.
Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.
La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.
Di Brian Clough, l’allenatore senza peli sulla lingua che portò la classe operaia inglese in Paradiso grazie alle vittorie ottenute alla guida di Derby County e Nottingham Forest, si è detto e scritto davvero molto. In parecchi da tempo lo giudicano l’antesignano di Josè Mourinho negli atteggiamenti, anche se “Cloughie” era profondamente diverso in molti aspetti, soprattutto era molto più rude e ruvido pur essendo stato il primo, alla stregua di quanto poi perfezionato dal portoghese, a comprendere l’importanza e il ruolo dei media e della comunicazione nel calcio.
Meno si conosce però del Clough calciatore, autentico flagello divino in linea con le sue caratteristiche fisiche, piccolo attaccante dalla grande rapidità e reattività e soprattutto dal controllo di palla sullo stretto capace di fare impazzire qualsiasi difensore. Del Clough calciatore Bill Shankly, il manager che diede vita alla leggenda del Liverpool, diceva: “E’ peggio della pioggia di Manchester, quella almeno ogni tanto smette.” Sotto porta Clough invece non conosceva soluzione di continuità: con la maglia del Middlesbrough arrivò a segnare 197 reti in 212 apparizioni in campionato e si assestò su quelle medie anche dopo il suo passaggio al Sunderland all’inizio degli anni ’60.
Ma la sua carriera da calciatore si spezzò di fatto quando non aveva ancora compiuto ventotto anni: Clough subì un gravissimoincidente nel giorno di Santo Stefano del 1962, il cosiddetto Boxing Day. Chiamato così perché in Inghilterra è tradizionalmente legato all’usanza, nata nell’Ottocento. di regalare doni ai dipendenti o ai membri delle classi sociali più povere. In particolare, era consuetudine delle famiglie agiate britanniche preparare delle apposite scatole con all’interno alcuni doni e avanzi del ricco pranzo di Natale, da destinare al personale di servizio a cui era concesso libero il giorno successivo al Natale, per far visita alle proprie famiglie. Il 26 dicembre segna ormai da decenni l’inizio della maratona calcistica che gli appassionati di calcio in Gran Bretagna possono gustarsi nel periodo delle feste, quando qualche giorno di ferie aiuta a pensare più spensieratamente al football. Un’atmosfera sempre festosa ma che nel Boxing Day del 1962 segnò la fine del talento di Clough che molti ritenevano avrebbe potuto trovare compimento negli imminenti Mondiali in Cile. Pur considerando che il futuro leggendario allenatore rimase sempre ai margini dei Leoni Bianchi, collezionando solo dueapparizioni in Nazionale in carriera, vuoi per la feroce concorrenza dell’epoca, vuoi per un carattere già ai tempi sin troppo schietto.
Ad ogni modo in quel 26 dicembre 1962 era programmata la sfida tra Sunderland e Bury: uno scontro con il portiere della squadra dei sobborghi di Manchester e il legamento crociato salta, un infortunio che segna la fine della carriera, a quei tempi, nella maggior parte dei casi. E Clough non fa eccezione: dopo un anno e mezzo di tentativi andati a vuoto, l’idea del rientro in campo per lui si fa da parte. L’Inghilterra perde un formidabile, astuto attaccante, ma trova nel contempo un allenatore destinato a lasciare sui tempi un segno indelebile. Le rivincite per Clough saranno molteplici, dal portare il Derby County dal fondo della Seconda Divisione alla vetta d’Inghilterra, ed il Nottingham Forest per due volte consecutive sul trono d’Europa. Ma il cerchio col Boxing Day si chiuderà solo ventidueanni dopo, quando Clough farà esordire proprio in occasione del Santo Stefano in campo, alla guida di un Forest ormai affermatissimo, il figlio Nigel appena diciottenne. Il quale inizierà nel 1984 una brillante carriera che lo porterà a partecipare agli Europei del 1992 con la maglia dell’Inghilterra, per seguire infine le orme paterne come allenatore. Un classico, perfetto caso di giustizia poetica.
Il Mondiale del 1990 è stato un evento indimenticabile per gli appassionati di calcio. Un football all’epoca pieno zeppo di campioni, Maradona nell’Argentina, Roberto Baggio nell’Italia, l’Olanda di Van Basten e Gullit, i tedeschi, il Brasile dell’astro nascente Romario… insomma, un’epoca d’oro che andava a chiudere un decennio pieno di fantasia e di colori come gli anni ’80. E proprio al Pibe de Oro, in qualità di calciatore più forte del mondo e di campione iridato in carica, toccò aprire le danze del mondiale italiano nella partita inaugurale disputata al Meazza di Milano contro il Camerun.
Il calcio africano iniziava appena ad uscire dall’aspetto “pittoresco” che ne aveva contraddistinto la sua permanenza nelle competizioni internazionali dei precedenti vent’anni. Il Camerun era alla seconda partecipazione ai Mondiali e nel 1982 fece tremare gli azzurri poi Campioni del Mondo, uscendo imbattuto dal girone eliminatorio di Vigo dopo un 1-1 da batticuore contro l’Italia. Ma le prime vere squadre-sensazione del continente africano ai Mondiali furono l’Algeria nel 1982, trascinata dal “tacco di Allah” Madjer ed estromessa da un vero “biscotto” tra Austria e Germania ed il Marocco nel 1986, esaltato dai numeri degli estrosi Timoumi e Bouderbala nonché prima squadra del Continente Nero capace di superare il primo turno in un Campionato del Mondo. Il Camerun, sempre guidato in campo dall’ormai trentottenne Roger Milla, sembrava dunque la vittima sacrificale contro l’Argentina di Dieguito e Caniggia poi destinata ad arrivare di nuovo all‘atto finale della competizione.
Eppure proprio da quella partita gli sportivi di tutto il mondo inizieranno ad amare e sostenere i “Leoni Indomabili“, una generazione di calciatori che trovò le sue espressioni più talentuose nel portiere Tomas N’Kono, forgiato da anni passati nella Liga spagnola, e dallo stesso Milla, uno dei più forti attaccanti africani di tutti i tempi. Ma saranno anche tutti gli altri elementi in rosa a farsi conoscere e a conquistare le folle. A partire da quella di San Siro assolutamente incredula, dopo il fischio d’inizio, nel vedere Maradona e compagni stentare di fronte alla straripante forza atletica e alle accelerazioni devastanti del Camerun. Il tifo si schiera ben presto a favore dei “leoni indomabili”, ma la legge del più forte e del pronostico sembra compiersi inesorabilmente quando André Kana-Biyik si fa espellere lasciando il Camerun in inferiorità numerica.
Ma è a questo punto che si compie uno di quei miracoli che rendono unico il calcio: Makanaky scodella un pallone in area sul quale Francois Omam-Biyik si avventa saltando oltre le umane possibilità, come sembra evidente agli spettatori che in tutto il mondo seguono l’evento. Il portiere Pumpido, sorpreso quando ormai pensava che l’avversario non sarebbe mai arrivato all’impatto sul pallone, si lascia beffare ed il pallone si insacca in rete. E’ il gol che cambia il calcio internazionale e che apre una nuova frontiera nella quale il Camerun diverrà la prima squadra africana a piazzarsi tra le prime otto del mondo e che, soprattutto, rende la Coppa del Mondo un evento di massa anche in Africa. Nella capitale del Camerun, Yaoundè, il delirio provocato dal gol di Omam-Biyik proseguirà tutta la notte visto che i Leoni Indomabili, nonostante la chiusura del match in nove contro undici, portano a casa la vittoria contro i campioni del mondo in carica.
Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanti sono i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del football è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid ma, alle spalle delle merengues, il cammino dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa. Tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di decine e decine di titoli nazionali e internazionali conquistati dalle due formazioni, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.
Il Rayo Vallecano è la terza squadra di Madrid per risultati, ma probabilmente la prima per determinazione e forza di volontà. Il soprannome dei giocatori del Rayo da sempre è “Matagigantes“, ammazzagrandi, coniato nell’anno della primapromozione nella Liga, stagione 1977/78. I giganti del calcio spagnolo cominciarono infatti a fare i conti con quella squadra che, con una maglia che si dice sia un omaggio a quella del River Plate ed il segno distintivo di un’ape disegnata sul petto (a volte anche grandissima, come negli anni ’80), con un budget mostruosamente inferiore a quello delle big, riusciva spesso ad ottenere risultati sbalorditivi. Come negli anni ’90, quando la squadra che vantava gioielli come Toni Polster e Hugo Sanchez, ex leggenda del Santiago Bernabeu, si divertiva ad impallinare Barcellona e Real Madrid. Storiche sono le vittorie casalinghe contro il Real, 2-0 nel 1992/93 e di misura il 19 febbraio del 1997, 1-0, fino al successo nell’ultimo scontro finora disputato in campionato contro le merengues, sempre per 1-0 nel 2019. Ancor di più lo fu però la prima vittoria di sempre al Bernabeu, stagione 1995/96, 2-1 per il Rayo, con gol decisivo rimasto nella storia del brasiliano Guilherme. Il Camp Nou venne invece espugnato per la prima ed ultima volta alla terzultima giornata del campionato 1999/00, il migliore della storia del Rayo con la qualificazione in Coppa UEFA, 2-0 e blaugrana ammutoliti.
Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è poi risollevato tornando a giocare nella Liga, per poi retrocedere di nuovo in “Segunda” nella scorsa stagione. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madre – padrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi siano stati costretti nella loro carriera farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.
“Arrivai al Venezia dal Milan nell’estate del 1998; la squadra era appena risalita dalla B e in città c’era un entusiasmo incredibile. La rosa poi era davvero di livello. In porta Taibi, in difesa Luppi, Pavan, Carnasciali e Dal Canto, a centrocampo Pedone e Beppe Iachini, davanti insieme a me c’era un bomber, Stefan Schwoch, 17 reti in B. Sulla carta ci potevamo salvare tranquillamente, ma l’avvio fu tutt’altro che facile. Una vittoria nelle prime dodici giornate e l’esonero di Walter Novellino a un passo. Il presidente Zamparini parlò con noi e ci chiese se volessimo proseguire con il mister. Noi rispondemmo compatti di sì e alla fine abbiamo fatto bene”.
Filippo “Pippo” Maniero ci racconta come quel Venezia, raggiunta la storica promozione in serie A, abbia la possibilità di raggiungere una salvezza tranquilla grazie agli sforzi profusi dal patron Maurzio Zamparini, alle capacità indiscusse di un rampante Direttore Generale di nome Giuseppe Marotta e al grandissimo motivatore seduto in panchina, Walter Novellino.
Come già detto, l’inizio della Serie A 1998/99 per il Venezia non è stato facile: l’esordio è a Bari contro l’undici allenati di mister Fascetti. Ai galletti pugliesi basta un gol del giovane Gianluca Zambrotta al decimo minuto per far registrare la prima sconfitta veneziana.
La settimana successiva si gioca al Penzo (ubicato sull’isola di Sant’Elena è il secondo impianto più antico d’Italia dedicato al Calcio n.d.r.), di fronte c’è il Parma di Malesani che vede tra le sue fila giocatori del calibro di Buffon, Thuram, Cannavaro, Veron, Fuser, Aspilla…La partita finisce 0 a 0 e così arriva il primo punto in classifica.
Seguono tre sconfitte consecutive contro la Roma all’Olimpico per 2 a 0 con doppietta di Marco Delvecchio, con il Milan al Penzo per 2 a 0 (tra le polemiche per un presunto gol in fuorigioco di Leonardio) e al Renato Curi contro il Perugia per 1 a 0. Non manca il gioco, rigorosamente a zona con pressing e contropiede, ma mancano clamorosamente i gol. Nelle prime 5 giornate di campionato il Venezia ne ha segnato solamente 1. Sotto accusa ci sono sia Pippo Maniero che il bomber della promozione, Stefan Schwoch.
I neroverdi-arancioni alla sesta giornata muovono la classifica e salgono a due punti, grazie al pareggio in trasferta contro l’Udinese per 1 a 1, ottenuto grazie al primo gol di Schwoch. Secondo gol segnato, settimo subito; i numeri restano comunque impietosi. Nei due turni seguenti due sconfitte dolorose: la prima in casa contro il Bologna per 2 a 0, maturata nell’ultimo quarto d’ora. La seconda al Franchi contro la Fiorentina di Trapattoni, che rifila un sonoro 4 a 1 (per il Venezia Schwoch su rigore).
A metà del girone d’andata la panchina di Novellino è già in discussione, serve una scossa e serve subito. Eccoci quindi giunti alla nona giornata, al Penzo arriva la corazzata Lazio. L’umore in Laguna è basso, ma il battagliero mister veneziano vuole vedere “coraggio e orgoglio” contro i biancocelesti romani, anche se sprovvisti dell’attacco titolare.
Esordisce dal 1° minuto un attaccante brasiliano fino a quel momento sconosciuto ai più, Tuta, al fianco di Valtolina. Il 15 novembre del 1998 (esattamente 21 anni fa) accade l’inaspettato. I padroni di casa sono aggressivi fin dall’inizio e mettono alle corde la retroguardia laziale (rimaneggiata, con Negro e Couto centrali per la prima volta insieme), che subisce immediatamente il gol proprio di Bastos Tuta e, verso la fine del primo tempo, il raddoppio di Pedone. Nel secondo tempo la musica non cambia, ed è più volte il Venezia che ha l’occasione di arrotondare ancor di più il risultato. 2 a 0 contro la favorita per lo Scudetto, prima vittoria e partita che sembrerebbe della svolta.
Invece, la decima giornata, vede la sconfitta del Venezia per 1 a 0 fuori casa contro la Salernitana. L’undicesima sancisce il primo dei tre 0 a 0 nelle ultime quattro giornate che precedono la sosta invernale. Pareggio interno contro la Sampdoria, vittoria esterna a Cagliari per 1 a 0 (grazie ad un autogol) e successivi due match a reti inviolate: prima in casa contro il Piacenza, poi a Vicenza nel derby veneto. L’emergenza è la fase realizzativa. La difesa va bene, la manovra scorre fluida, ma il rendimento in avanti è insufficiente, soprattutto di Pippo Maniero che non è riuscito a segnare neanche un gol.
Nel mercato invernale l’intuizione di Marotta e Zamparini si chiama Alvaro Recoba. Relegato nel dimenticatoio in casa interista, il talento uruguaiano ha bisogno di giocare.
“A Venezia era come se fosse arrivato Maradona. E a lui il fatto di essere visto come il più bravo non dispiaceva affatto”.
L’arrivo di “El Chino” ha giovato anche a Pippo Maniero. La prima gara dopo la sosta si gioca a Venezia contro l’Empoli il 6 gennaio 1999: “Perdevamo due a zero alla fine del primo tempo ed eravamo sotto di un uomo per l’espulsione di Bilica. Nella ripresa segnò Valtolina e poi due mie reti, entrambe su pennellate del Chino”. Il secondo di tacco al volo. “Mi arrivò il cross ed ero girato. Potevo colpirla solo in quella maniera e mi andò bene. Se ci riprovo 100 volte mica mi viene…”. Finale di partita 3 a 2, vittoria importante e prestazione maiuscola di Recoba. Venezia tutta è innamorata del fantasista tutto mancino.
È l’inizio di un nuovo campionato per il Venezia di Novellino che fa vedere un bel calcio, finalmente finalizzato dal tandem Recoba-Maniero (Schwoch nel frattempo è stato ceduto al Napoli). Dopo la vittoria in rimonta con l’Empoli, una sonora sconfitta al San Siro per 6 a 2 contro l’Inter non modifica il corso degli eventi. All’ultima giornata del girone di andata il Venezia pareggia 1 a 1 contro la Juventus.
Il cambio di marcia definitivo avviene tra la diciottesima e la ventesima giornata. 7 punti in tre partite grazie alla vittoria casalinga per 2 a 1 contro il Bari, a segno un Maniero ritrovato e Tuta (discussa e controversa la reazione alla sua marcatura). Poi il pareggio esterno a Parma per 2 a 2 (sempre Maniero, doppietta) e la vittoria casalinga (il giorno di Carnevale) contro la Roma di Zeman per 3 a 1 con il primo gol di Recoba al Penzo.
Dopo la sconfitta contro il Milan a San Siro per 2 a 1 alla ventunesima giornata, due vittorie casalinghe consecutive. La prima contro il Perugia per 2 a 1 (Recoba-Maniero), la seconda per 1 a 0 contro l’Udinese(Recoba). Al turno numero 24 il Venezia perde a Bologna 2 a 1, ma alla venticinquesima si gioca a Venezia contro la Fiorentina lanciatissima in zona Champion’s League.
Un match che è entrato di diritto nella storia del club veneto. Al 18° minuto punizione dai 25 metri. “El Chino” spedisce la palla sotto al sette, con un incolpevole Toldo fermo a guardare. Al 42° calcio d’angolo dalla sinistra battuto da Recoba, Miceli stacca di testa, e con un’incredibile carambola, segna il secondo gol. In pieno recupero, altra punizione dai venti metri, spostata sulla destra. Nuovamente Recoba sul punto di battuta, che con un altro tiro a giro beffa Toldo. Fine primo tempo 3 a 0 per il Venezia e gara da incorniciare per il talento uruguaiano. A due minuti dalla fine dell’incontro Esposito realizza su calcio di rigore il gol della bandiera per i Viola. Il 4 a 1 finale lo segna ancora Recoba con un gol di rara bellezza. Stoppando la palla sulla linea di fondo beffa in dribbling Falcone, poi con la suola dribbla Toldo e a porta libera segna di destro. Standing ovation finale e salvezza ad un passo.
Nelle seguenti 6 partite di campionato il Venezia rallenta l’altissima media punti del girone di ritorno con 3 sconfitte (Lazio, Sampdoria e Vicenza), un pareggio e 2 vittorie con il Cagliari in casa per 1 a 0 (Recoba) e il Piacenza fuori (1 a 0, Maniero). Alla giornata numero 32 ad Empoli il Venezia pareggia 2 a 2 (doppietta de “El Chino”), ma la partita salvezza si gioca in casa contro l’Inter alla trentatreesima.
È il 16 maggio 1999, penultima giornata di campionato, e con una vittoria il Venezia sarebbe matematicamente salvo. Dopo 1 minuto la squadra di casa è già in vantaggio con un eurogol di Volpi. Dopo soli 3 minuti punizione dal limite, “El Chino” è implacabile: 2 a 0.
Al minuto numero 18 il 3 a 0, gol di Maniero di testa. Una partita incredibile, giocata con un furore sportivo emozionante. Il “Fenomeno” Ronaldo segna nella ripresa il gol della bandiera su rigore. 3 a 1 finale e grande festa per una salvezza insperata, ottenuta dopo un avvio disastroso di campionato.
Come una fenice quella squadra, da Gennaio del 1999 fino a fine stagione, ha incantato soprattutto grazie all’arrivo di Recoba. “Eravamo davvero un grande gruppo si stava uniti in campo e anche fuori. E se chiedete a un tifoso del Venezia che squadra ricordano con più piacere, vi parlerà quasi sicuramente di noi…”. Pippo Maniero ricorda con affetto quella squadra che come una fenice è rinata, riuscendo a compiere l’impossibile.
Il secondo episodio della terza serie dei nostri approfondimenti sui misteri del calcio si concentra su una storia che ha preso vita, volume e particolari col passare degli anni, con i protagonisti che si sono progressivamente sbottonati su un episodio che ha dell’incredibile. Stiamo parlando di fatti avvenuti in quello che non per niente viene considerato l’ultimo Mondiale di un calcio d’altri tempi, Italia 90: o forse in questo caso sarebbe più opportuno chiamarlo Roipnol ’90.
I FATTI
Negli ottavi di finale del Mondiale italiano del 1990 c’è in cartello una sfida classica, anzi superclassica, dal sapore della finale anticipata. Brasile e Argentina si sfidano nella cornice del nuovissimo stadio Delle Alpi di Torino, un prematuro incrocio a sorpresa tra due favoritissime figlio degli eventi dei gironi eliminatori. Mentre i brasiliani hanno fatto il loro dovere vincendo 3 partite su 3 in un raggruppamento abbastanza abbordabile con Svezia, Costa Rica e Scozia, l’Argentina ha pagato una delle più grosse sorprese della storia del calcio. Nella partita inaugurale dei Mondiali i campioni del mondo in carica vengono sconfitti dal Camerun, con uno straordinario gol di testa di Omam-Biyik. L’Argentina di Maradona ha dovuto rincorrere il ripescaggio contro Romania e Unione Sovietica ed è ora opposta ad un Brasile che sembra andare molto più forte e che effettivamente gioca la partita molto meglio dell’Albiceleste.
IL PERSONAGGIO
L’Argentina è sotto pressione, ma può vantare in rosa “Il” personaggio del Mondiale. Diego Armando Maradona quattro anni prima ha vinto, a detta di molti da solo, la Coppa del Mondo e medita di fare il bis con una squadra che continua ad essere abbastanza modesta, ma che rispetto a quattro anni prima ha qualche freccia in più nel suo arco. Come il sodale d’attacco di Diego, il rapidissimo Claudio Paul Caniggia, che come lui gioca in Italia. L’Argentina difende a ondate sugli attacchi dei brasiliani, si fa vedere raramente dalle parti della porta avversaria ma nel finale il Brasile sembra non averne più. Maradona capisce che il momento è quello giusto, danza tra gli avversari imbambolati nello stile del gol che aveva steso gli inglesi nel 1986 e serve in diagonale a Caniggia l’assist perfetto: Taffarel dribblato, Argentina ai quarti di finale, brasiliani attoniti. Già: perché “così” attoniti?
LE ACCUSE
Si parlerà della classica partita vinta dalla squadra che ha saputo subire e colpire in contropiede, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma proprio Diego Maradona col tempo racconterà un retroscena incredibile, per giunta in diretta televisiva: “Molti dei calciatori in campo giocavano in Italia e anche i brasiliani – ha ricordato Diego – venivano a bere alla nostra panchina. E, quando è venuto Branco, gli ho detto “Valdito bevi pure”, lui si è scolato tutta l’acqua». «Poi – ha continuato Maradona – è venuto anche Olarticoechea e allora gli ho gridato: “no, no, da quella borraccia no. Fatto sta – ha proseguito Maradona – che a partire da quel momento, Branco, stralunato, tirava le punizioni e stramazzava a terra. Dopo la partita, quando i due pullmaìn si sono incrociati, m’ha fatto segno che era colpa mia. Ma gli ho risposto di no. C’era un buon rapporto tra noi, e non ne abbiamo più parlato». Qualcuno ha messo nell’acqua un Roipnol (un sedativo utilizzato dagli psichiatri – ndr), ed è finito tutto in vacca.” La testimonianza dello stesso Branco conferma le accuse: “C’ era Maradona a terra e accanto a lui il massaggiatore con le borracce. Chiesi a Diego il permesso di bere e loro, non ricordo se Diego o il massaggiatore, mi porsero un contenitore. Quell’ acqua aveva un sapore amaro, però non ci badai. In pochi minuti avvertii un malessere. Mi girava la testa, le gambe erano strane: a tratti mi sentivo un leone, a tratti ero sul punto di svenire. All’ intervallo domandai la sostituzione, ma il C.T. Lazaroni mi intimò di tenere duro”.
LE CONCLUSIONI
Storie di calcio d’altri tempi, ma già trasmesse in mondovisione. Non si pensava fosse possibile, ma le accuse vennero confermate, con Branco che raccontò: Un giorno, mi pare che fossimo nel ‘ 92, all’ aeroporto di Rio incontrai per caso Oscar Ruggeri che mi disse ridendo, “Ehi, Claudio, che bello scherzetto ti abbiamo combinato in Italia”, e racconta che quella borraccia aveva un tappo di colore diverso dalle altre perché dentro c’ era un sedativo. Ruggeri mi confidò che quella era l’ acqua per gli avversari. Non so quale veleno mettessero dentro l’ acqua, ma so che lo mettevano e questa è una cosa inaccettabile, antisportiva, per niente etica. Se quel giorno a Torino fossi stato sorteggiato per l’ antidoping, avrei fatto la figura del drogato e la mia carriera sarebbe stata rovinata.” A chiudere la polemica ci pensò un attaccante di quel Brasile che giocava per il Napoli con Maradona, Careca, che confermò però l’incredibile episodio: “A Branco girava la testa. Lui pensava che fosse il caldo. Magari gli è mancata la lucidità di dire “non sto bene resto fuori”. Poi tra di noi c’erano almeno quindici giocatori che giocavano in Italia, ci si conosceva tutti… ma non ce l’ho con Diego.
Alla fine sbagliò Lazaroni. Io e Alemão gli dicevamo che bisognava marcarlo a uomo, ma lui niente, voleva marcare a zona. Aveva appena firmato per la Fiorentina e doveva dimostrare qualcosa o fare degli esperimenti. Fatto sta che ci faceva giocare con la difesa a tre.” Secondo Careca, non fu colpa del sonnifero.
“Rome wasn’t build in a day” è un detto molto popolare oltremanica. Quando lo riferirono a Brian Clough in merito alla pazienza necessaria per costruire un progetto vincente, lui aggiunse a modo suo: “E’ vero, Roma non fu costruita in un giorno: è anche vero però che nessuno mi chiese di prendere parte al progetto.” Perché altrimenti…
Il 20 settembre del 2004, dieci anni fa, “Cloughie” lasciava questo mondo, cedendo alla sofferenza fisica che doveva subire in seguito all’abuso di alcol, che lo costrinse anche ad un trapianto di fegato. Un vizio, quello della bottiglia, che era peggiorato in vecchiaia, in un mondo che cambiava troppo velocemente, e nel quale stentava a riconoscersi, proprio lui che per primo fra tutti aveva intuito certi mutamenti del calcio: l’importanza dei media, e quella dei soldi, due demoni che lui sfruttò a suo favore, per portare la provincia al potere.
Clough e Peter Taylor riuscirono nell’impresa di far vincere al Nottingham Forest più Coppe dei Campioni che scudetti nella sua storia. Non a caso, la biografia del tecnico, chiamata “Walking on water“, si riferiva proprio alla sua capacità di “fabbricare” miracoli, e di ripetere un’esperienza come quella di Derby, che sembrava unica nel suo genere, a Nottingham. Anzi, più che ripeterla completarla, perché al Derby County di Clough mancò la gloria europea, sogno infranto in una semifinale contro la Juventus che, inevitabilmente, segnò la fine dell’idillio col presidente di quella che era stata la sua creatura.
Nonostante a Nottingham la Coppa dei Campioni divenne quasi un’abitudine, il rimpianto più grande della carriera di Brian Clough, almeno stando a quanto disse lui stesso, resta aver lasciato il Derby County. Taylor non lo avrebbe mai fatto: fu la crepa che portò i due a non parlarsi mai più dopo l’ennesimo litigio a Nottingham, quando la gloria, più che i quattrini, non riuscì più a tenere insieme la coppia di tecnici meglio assortita della storia d’Inghilterra.
L’ambizione e l’abilità mediatica di Clough, oltre all’estrema lucidità tattica e alla capacità manageriale, si sposavano perfettamente con le straordinarie qualità di talent scout di Taylor, che trovava sempre nella realtà quei giocatori che l’altro aveva immaginato nella sua mente per fare grandi piccole squadre di provincia. Così arrivarono i fedelissimi come McGovern e O’Hare che seguirono Brian anche a Leeds e a Nottingham, così arrivò l’intuizione di portare Archie Gemmill e soprattutto Trevor Francis al City Ground. Francis è stato l’esempio evidente di come Clough operasse per plasmare le sue creature: spingere i bilanci di club fuori dall’aristocrazia del calcio al limite, al massimo delle loro potenzialità. L’azzardo di investire un milione di sterline, record per l’epoca, su un giocatore che, per le regole di allora, avrebbe potuto scendere in campo solo nell’eventuale finalissima di Coppa dei Campioni. Che il Nottingham giocò, e vinse, con un gol di…? Esatto, neanche a dirlo.
“Se Dio avesse voluto che giocassimo per aria, avrebbe messo dell’erba lassù“, è un’altra sua famosissima citazione, emblema della sua predilezione per il gioco palla a terra, quasi un’eresia nel calcio inglese degli anni ’70. Segno che oltre che per quanto riguarda soldi e dichiarazioni a stampa e televisioni, Clough aveva capito in che direzione stava andando il calcio prima di molti altri. Dopo il divorzio da Taylor, l’alba degli anni novanta ne fiaccò lo spirito con una triplice delusione, quasi consecutiva. L’approdo mancato sulla panchina del Galles, lui che era convinto di poter portare la nazionale di Mark Hughes a Ian Rush a Italia ’90; la tragedia di Hillsborough, che spezzò il suo cuore di proletario di Middlesbrough, abituato alle folle oceaniche che vivevano il calcio come un rito in armonia, estranee alla follia degli hooligans; infine, la delusione della finale di FA Cup, l’unico trofeo che gli è sempre sfuggito, perduta contro il Tottenham nel giorno dell’infortunio di Paul Gascoigne.
“Guidare una nazionale è il massimo obiettivo per un allenatore“, aveva detto più volte, convinto che il suo anticonformismo, dai e dai, insisti e insisti, non gli avrebbe precluso la panchina dell’Inghilterra. Non arrivò nemmeno quella gallese, e la storia praticamente finì lì. Finché ha potuto, è rimasto a parlare alla radio e alla televisione, con quel tono di chi la sapeva lunga, e la sapeva davvero, non solo a chiacchiere: Brian Clough, se voleva, Roma te la tirava su con una giornata di duro lavoro e un doppio whisky a cose fatte.