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Alessandro Iacobelli Allenatori

Zeman a Lecce: mambo salentino

L’incredibile stagione del Boemo nell'”altra” Puglia, 10 anni dopo la fine di Zemanlandia a Foggia

“Fore de capu” con il Lecce di Zeman. “Mambo salentino“, hit estiva firmata Amoroso-Boomdabash, riporta cuore e mente dei tifosi giallorossi a quella folle stagione 2004-2005 vissuta con il condottiero boemo al timone della truppa salentina.

E non poteva che riproporsi dalla Puglia Zemanlandia, dopo l’epopea di Foggia, in tutto il suo fantasmagorico splendore. Libertà di agire al comando di un gruppo già forgiato al gioco spiccatamente offensivo da Delio Rossi nelle annate precedenti. Il mister di Praga torna quindi ad insegnare pallone come solo lui sa fare e, onestamente, come non avveniva da qualche tempo. Il 4-3-3 non è sindacabile e, fin dal principio della preparazione estiva, lo spogliatoio segue le direttive senza esitazioni. La partenza è degna del miglior Schumacher alla guida della Ferrari. Pari 2-2 a Bergamo all’esordio, roboante 4-1 in casa ai danni del Brescia alla seconda, altro 2-2 all’Olimpico con la Roma e successo 3-1 sul Cagliari al Via del Mare. A Verona contro il Chievo il primo tonfo, per poi ripartire di slancio con le vittorie su Palermo e Messina (entusiasmante l’1-4 sui peloritani), oltre all’ottimo punto strappato al cospetto dell’Inter.

Zemanlandia, si sa, è croce e delizia. In una stagione dai due volti, strepitoso girone di andata e seconda parte fisiologicamente più difficoltosa, spiccano in negativo le 73 reti subite (peggior retroguardia del torneo) e alcune batoste patite nell’arco del campionato. Dal rovinoso poker per mano della Fiorentina al Franchi, ai due netti scivoloni con la Sampdoria (1-4 in casa e 3-0 al Ferraris) passando per i 5-2 di San Siro col Milan e al Delle Alpi con la Juventus. Sole e tempesta, appunto. Lampi di fuochi d’artificio però illuminano il primo maggio 2005 con i salentini che annichiliscono 5-3 la malcapitata Lazio con i timbri di Dalla Bona, Vucinic (doppietta) e Diamoutene. Al culmine del campionato sarà undicesimo posto e salvezza più che tranquilla con lo scettro di secondo miglior attacco dietro la Juventus con la bellezza di 67 gol messi a segno. E in Coppa Italia? Montagne russe, che domande! I giallorossi infatti salutano la kermesse tricolore agli ottavi di finale. Nel doppio confronto contro l’Udinese di Luciano Spalletti, Ledesma e compagni capitolano tra le mura amiche 4-5 (con tanto di incredibile rigore parato dall’attaccante Di Michele a Vucinic all’ultimo minuto) ed espugnano inutilmente il Friuli per 3-4.

In quella indelebile annata singoli talenti brillano nel firmamento calcistico italiano. Cassetti sfreccia sul settore destro, l’uruguagio Giacomazzi dipinge trame esemplari tra mediana e trequarti, in avanti il tandem Vucinic-Bojinov fa impallidire le retroguardie avversarie. Il Luna Park del boemo è tornato al centro del villaggio ma l’avventura durò un solo anno, con la foschia di Calciopoli che portò Zeman ad abbandonare la panchina prima della fine dell’ultimo 3-3 col Parma. Come per il Foggia, i successivi ritorni in panchina non ripristinarono l’antica magia.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Il calciomercato iniziò con Jeppson al Napoli

La storia del primo trasferimento milionario del calcio italiano, che portò per la prima volta una trattativa calcistica ad assumere tutti i contorni dello show business

105 milioni di lire per infiammare un popolo. Achille Lauro tanti ne sborsa nella calda estate del 1952 per portare a Napoli Hasse Jeppson. Una trattativa dai contorni cinematografici condita da aneddoti e leggende metropolitane tramandate nei decenni. Si è parlato di una valigia piena di banconote consegnate da ‘O Comandante al patron dell’Atalanta Turani nelle segrete stanze di un albergo in via Veneto a Roma, o precedentemente della medesima cifra scritta dall’armatore su un tovagliolo, dinanzi ad una tavola imbandita, per convincere il numero uno dei bergamaschi a cedere alle lusinghe partenopee.

A Lauro serviva un’operazione tecnico-mediatica strabiliante per consolidare la compagine azzurra nei piani nobili del calcio italiano e, soprattutto, per mettere in ghiaccio un potere politico sul territorio campano e meridionale corroborato da percentuali bulgare registrate nei vari appuntamenti elettorali. Achille, d’altronde, era pure un sagace editore e non poteva certo ignorare la rilevanza dei messaggi letti dalla popolazione su carta.

Jeppson era la punta che mancava al Napoli dell’epoca. Svedese di nascita, 1 metro e 80 di altezza, corre e segna in patria con la casacca del Djurgården (58 reti in 51 apparizioni). Atterra poi in Inghilterra, per motivi di studio e lavoro, dove viene ingaggiato dal Charlton Athletic. Tocca la doppia cifra di gol in sole 8 gare disputate, con la ciliegina di una pregevole tripletta all’Arsenal, e viene segnalato agli osservatori dell’Atalanta che non ci pensano su due volte assicurandosi le prestazioni di Hasse per la stagione ’51-’52. Il centravanti scandinavo è una macchina da guerra anche in Serie A dove trafigge i portieri avversari 27 volte in 22 presenze. A questo punto i tempi sono maturi all’ombra del Vesuvio.

E’ il momento. Achille fa carte false, smuove acque, ragiona, disegna mentalmente le mosse da compiere, infine agisce. Jeppson firma per un valore monstre paragonabile al bilancio del Banco di Napoli. Da qui la celebre frase ancora oggi scolpita nel mare e nel cielo del capoluogo campano. Lo svedese rimane a Napoli fino al 1956 tra alti e bassi, accese discussioni con Presidente e allenatori (in particolare non facile il rapporto con Monzeglio), mondanità e un rapporto di viscerale affetto intrecciato con il popolo partenopeo. Nel caratteristico e mai dimenticato stadio del Vomero “Arturo Collana” la tifoseria esulta e impreca nel giro di pochi istanti. Il folclore si mescola con i bollenti spiriti tipici della passione calcistica. “Uanema ‘e Jeppson” e “Mannaggia ‘a Jeppson!” sono affermazioni che spiegano meglio di ogni altra cosa il contesto misto tra teatro e sport di quel tempo.

Ottimo quarto posto comunque il primo anno con 14 gol messi a segno. Quinta piazza nel secondo con altri 20 centri a referto. Sesta posizione nel 1954-1955 con un rendimento meno roboante (10 marcature realizzate). Nell’ultima annata in azzurro, quella ’55-’56 Jeppson condivide il reparto offensivo con il talento brasiliano Luis Vinicio, appena arrivato dal Botafogo. ‘O Lione si scatena siglando 16 gol, mentre Hasse esulta in 8 circostanze. La squadra però, guidata in panchina prima da Monzeglio e poi da Amadei, archivia un difficile campionato al quattordicesimo posto. Un gruppo, impreziosito da due pedine di livello come Bruno “Petisso” Pesaola e Vitali, più che discreto ma evidentemente ancora non in grado di spiccare il volo.

La carriera agonistica dell’attaccante svedese dura solo un’altra stagione, 1956-1957, con la maglia del Torino. In granata torna ad assaporare la doppia cifra di reti strappando sovente standing ovation da parte del pubblico. Senza dimenticare ovviamente le valide prove con i colori della propria Nazionale (12 gol complessivi) e la partecipazione al Mondiale del 1950 chiuso al terzo gradino del podio.

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Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Blaz Sliskovic e il mare: l’Oro di Pescara

di Alessandro IACOBELLI

Onde balcaniche. Blaz Sliskovic e Pescara: un folle amore calcistico. Gli anni ottanta stanno andando via quando, ad un tratto, spunta uno slavo in Abruzzo. A Marsiglia gli danno il ben servito dopo 29 presenze e 6 reti.

La valigia è pronta ma manca ancora la destinazione. L’indole caratteriale di “Baka” non convince i più. In Italia, però, c’è un allenatore che lo adora: Giovanni Galeone. La zona in riva al Mare Adriatico. La legge della spettacolarità del gioco viene prima di tutto il resto. Il mister di origine campana aveva ammirato Sliskovic nel 1985 in un match di Coppa Uefa. L’Hajduk Spalato, ex squadra di Blaz, affronta il Torino. Nelle due sfide l’asso nativo di Mostar colpisce con autentici capolavori balistici e prestazioni strabilianti.

Galeone non dimentica e chiama “Baka” per convincerlo a sposare il suo futuristico progetto biancoazzurro. La mente, spesso, gira libera senza meta. L’estate, il mare, le donne (tante e belle), il fumo, il caffè e ricchi pranzi in salsa jugoslava. Il mister lo sa e lascia fare, perché in fondo ciò che conta è la qualità in campo. Il numero 10 non pesa sulle spalle. L’orchestra è uno spettacolo da pelle d’oca. Dal razzo Rocco Pagano all’esperienza verdeoro di capitan Junior, passando per Bergodi, Gasperini e l’idolo di casa Marchegiani.

Una banda di ragazzi poco noti conquista gli occhi dello stivale pallonaro. Nella stagione 1987-1988 il Pescara, da neo promosso, si presenta ai nastri di partenza della massima serie con un profilo stuzzicante. L’avvio è da urlo. L’Inter cade in casa per 2-0 con le stoccate di Pagano e proprio di Sliskovic su rigore. Tutto è stupendo, magico e apparentemente indistruttibile. Il Delfino viaggia a gonfie vele verso l’obiettivo della salvezza. Le batoste non mancano, ma qualche incidente di percorso è nella norma. Basti pensare alle valanghe di Juventus, Napoli, Fiorentinae Milan. Convincenti i successi contro Avellino e Como, oltre al buon pareggio con l’Empoli.

Blaz mette sempre lo zampino. Punizioni al bacio, dribbling ubriacanti ed assist che aprono immense praterie per i compagni. All’improvviso però il mago di Mostar accusa un infortunio al Comunale di Torino nella gara con i granata. Da quel giorno “Baka” non calcherà più il terreno abruzzese. I ragazzi di Galeone si salvano comunque, conservando un punto sull’Avellino. In estate il fantasista slavo decide di trasferirsi in Francia nel Lens. Il Pescara non sarà più lo stesso. Nonostante un buon antipasto di campionato, nella stagione successiva si materializza la triste caduta in B.

Passano quattro anni e la coppia torna alla ribalta. Galeone e Sliskovic di nuovo insieme. L’annata 1992-1993 nasce sotto discreti auspici con il ritiro di Roccaraso. Il Delfino riscopre il gotha della Serie A. L’illusione estiva dura poco. I tasselli esteri Sivebӕk e Mendy non assicurano le dovute garanzie. Nemmeno l’arrivo del mediano brasiliano Dungarisolve i problemi. Si mettono in luce solo le giovani promesse Allegri e Massara, oltre alla punta ex Milan e Fiorentina Borgonovo. La retrocessione è l’approdo inevitabile.

Il sogno giunge al capolinea. Il popolo abruzzese, però, non ha mai dimenticato. Blaz Sliskovic: zona e genio. Il top player slavo al servizio di Galeone.

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Calciatori Fabio Belli

Francesco Dell’Anno, una carriera vissuta con le scarpe slacciate

di Fabio BELLI

Quando nell’autunno del 1984 Juan Carlos Lorenzo fu chiamato al capezzale di una Lazio ormai in disarmo, il sergente di ferro argentino si scontrò subito con un calcio che non frequentava più da oltre 25 anni e che era cambiato enormemente, facendo diventare anacronistici i suoi metodi. Ma un vecchio lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio e passando in rassegna quella rosa così male assortita, tra un giudizio impietoso e l’altro, le uniche parole positive le riservò ad un giovane della Primavera aggregato al gruppo con altri Under 18. “Quel ragazzino è l’unico che può fare il calciatore in prospettiva, qui.” E visto come andò a finire quella stagione, si può dire che Lorenzo fece centro al primo colpo.

Il “ragazzino” si chiamava Francesco Dell’Anno, detto Ciccio, 17 anni anni appena compiuti in quel 1984 a tinte decisamente orwelliane per la Lazio. Non poté far nulla per evitare il naufragio biancoceleste che portò all’ultima retrocessione in ordine di tempo per il più antico sodalizio calcistico capitolino. Ma i lampi di pura classe che dispensò, a partire dall’esordio assoluto nella sfida vinta contro la Cremonese, riempirono di speranza i tifosi che pure si ostinavano a riempire l’Olimpico in quell’annata così sofferta. Quando all’ultima giornata di campionato, a discesa in cadetteria già consumata, con un gioco di gambe finta e controfinta mise a sedere addirittura Le Roi, Michel Platini, i supportes laziali pensarono che da quella rovinosa caduta stava pur nascendo una stella.

Ma fu il carattere a tradire il giovane Dell’Anno, come troppo spesso accade alle promesse prive di una guida salda dentro e fuori dal campo. Quando in quella stessa stagione un compagno di squadra più anziano lo sgridò pesantemente perché si presentò al campo di allenamento di Tor di Quinto in fuoriserie, un altro provò a prendere le difese del ragazzo che in fondo, con i suoi soldi, poteva fare quello che voleva. Il punto era un altro però, spiegò il più severo dei due: a 17 anni e senza patente non si può proprio guidare l’automobile, altro che fuoriserie! Ragazze, vita notturna, divertimenti vari fecero il resto, e della classe cristallina di Dell’Anno rimasero solo dei lampi abbaglianti e molto occasionali in Serie B tra Arezzo, Taranto e Udine.

Proprio con la maglia dell’Udinese però riconquistò la massima serie e, nella stagione 1992/93, a suon di prodezze regalò ai friulani una salvezza che mancava da 7 anni, dopo le due retrocessioni del 1987 e del 1990. Numeri di classe sopraffina per un calciatore che ormai, a quasi 26 anni, era additato come inaffidabile e quasi perduto. La sorpresa arrivò con l’offerta dell’Inter che, nell’anno dell’epocale passaggio di consegne tra Ernesto Pellegrini e Massimo Moratti, decise di puntare anche sul talento ribelle di Dell’Anno per costruire una squadra in grado di divertire i tifosi. E, pur con i suoi fisiologici alti e bassi, i colpi di genio di Ciccio deliziano San Siro, con l’Inter che, come a volersi mantenere in linea con la sua schizofrenia calcistica, nella stagione successiva trionfò in Europa in Coppa UEFA ma arrivò per la prima volta a sfiorare la Serie B in campionato. Gli ultimi scampoli importanti di carriera Dell’Anno li ha vissuti a Ravenna, in B, dove c’è chi giura di averlo visto giocare con le scarpe slacciate. Salutò la Romagna dopo aver collezionato il suo massimo bottino di gol con una sola squadra, 23, prima di chiudere la carriera alla Ternana.

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Club Jean Philippe Zito

Venezia 1999: Maniero, Recoba e una rimonta per la storia

di Jean Philippe ZITO

Arrivai al Venezia dal Milan nell’estate del 1998; la squadra era appena risalita dalla B e in città c’era un entusiasmo incredibile. La rosa poi era davvero di livello. In porta Taibi, in difesa Luppi, Pavan, Carnasciali e Dal Canto, a centrocampo Pedone e Beppe Iachini, davanti insieme a me c’era un bomber, Stefan Schwoch, 17 reti in B. Sulla carta ci potevamo salvare tranquillamente, ma l’avvio fu tutt’altro che facile. Una vittoria nelle prime dodici giornate e l’esonero di Walter Novellino a un passo. Il presidente Zamparini parlò con noi e ci chiese se volessimo proseguire con il mister. Noi rispondemmo compatti di sì e alla fine abbiamo fatto bene”.

Filippo “Pippo” Maniero ci racconta come quel Venezia, raggiunta la storica promozione in serie A, abbia la possibilità di raggiungere una salvezza tranquilla grazie agli sforzi profusi dal patron Maurzio Zamparini, alle capacità indiscusse di un rampante Direttore Generale di nome Giuseppe Marotta e al grandissimo motivatore seduto in panchina, Walter Novellino.

Come già detto, l’inizio della Serie A 1998/99 per il Venezia non è stato facile: l’esordio è a Bari contro l’undici allenati di mister Fascetti. Ai galletti pugliesi basta un gol del giovane Gianluca Zambrotta al decimo minuto per far registrare la prima sconfitta veneziana.

La settimana successiva si gioca al Penzo (ubicato sull’isola di Sant’Elena è il secondo impianto più antico d’Italia dedicato al Calcio n.d.r.), di fronte c’è il Parma di Malesani che vede tra le sue fila giocatori del calibro di Buffon, Thuram, Cannavaro, Veron, Fuser, Aspilla…La partita finisce 0 a 0 e così arriva il primo punto in classifica.

Seguono tre sconfitte consecutive contro la Roma all’Olimpico per 2 a 0 con doppietta di Marco Delvecchio, con il Milan al Penzo per 2 a 0 (tra le polemiche per un presunto gol in fuorigioco di Leonardio) e al Renato Curi contro il Perugia per 1 a 0. Non manca il gioco, rigorosamente a zona con pressing e contropiede, ma mancano clamorosamente i gol. Nelle prime 5 giornate di campionato il Venezia ne ha segnato solamente 1. Sotto accusa ci sono sia Pippo Maniero che il bomber della promozione, Stefan Schwoch.

I neroverdi-arancioni alla sesta giornata muovono la classifica e salgono a due punti, grazie al pareggio in trasferta contro l’Udinese per 1 a 1, ottenuto grazie al primo gol di Schwoch. Secondo gol segnato, settimo subito; i numeri restano comunque impietosi. Nei due turni seguenti due sconfitte dolorose: la prima in casa contro il Bologna per 2 a 0, maturata nell’ultimo quarto d’ora. La seconda al Franchi contro la Fiorentina di Trapattoni, che rifila un sonoro 4 a 1 (per il Venezia Schwoch su rigore).

A metà del girone d’andata la panchina di Novellino è già in discussione, serve una scossa e serve subito. Eccoci quindi giunti alla nona giornata, al Penzo arriva la corazzata Lazio. L’umore in Laguna è basso, ma il battagliero mister veneziano vuole vedere “coraggio e orgoglio” contro i biancocelesti romani, anche se sprovvisti dell’attacco titolare.

Esordisce dal 1° minuto un attaccante brasiliano fino a quel momento sconosciuto ai più, Tuta, al fianco di Valtolina. Il 15 novembre del 1998 (esattamente 21 anni fa) accade l’inaspettato. I padroni di casa sono aggressivi fin dall’inizio e mettono alle corde la retroguardia laziale (rimaneggiata, con Negro e Couto centrali per la prima volta insieme), che subisce immediatamente il gol proprio di Bastos Tuta e, verso la fine del primo tempo, il raddoppio di Pedone. Nel secondo tempo la musica non cambia, ed è più volte il Venezia che ha l’occasione di arrotondare ancor di più il risultato. 2 a 0 contro la favorita per lo Scudetto, prima vittoria e partita che sembrerebbe della svolta.

Invece, la decima giornata, vede la sconfitta del Venezia per 1 a 0 fuori casa contro la Salernitana. L’undicesima sancisce il primo dei tre 0 a 0 nelle ultime quattro giornate che precedono la sosta invernale. Pareggio interno contro la Sampdoria, vittoria esterna a Cagliari per 1 a 0 (grazie ad un autogol) e successivi due match a reti inviolate: prima in casa contro il Piacenza, poi a Vicenza nel derby veneto. L’emergenza è la fase realizzativa. La difesa va bene, la manovra scorre fluida, ma il rendimento in avanti è insufficiente, soprattutto di Pippo Maniero che non è riuscito a segnare neanche un gol.

Nel mercato invernale l’intuizione di Marotta e Zamparini si chiama Alvaro Recoba. Relegato nel dimenticatoio in casa interista, il talento uruguaiano ha bisogno di giocare.

A Venezia era come se fosse arrivato Maradona. E a lui il fatto di essere visto come il più bravo non dispiaceva affatto”.

L’arrivo di “El Chino” ha giovato anche a Pippo Maniero. La prima gara dopo la sosta si gioca a Venezia contro l’Empoli il 6 gennaio 1999: “Perdevamo due a zero alla fine del primo tempo ed eravamo sotto di un uomo per l’espulsione di Bilica. Nella ripresa segnò Valtolina e poi due mie reti, entrambe su pennellate del Chino”. Il secondo di tacco al volo. “Mi arrivò il cross ed ero girato. Potevo colpirla solo in quella maniera e mi andò bene. Se ci riprovo 100 volte mica mi viene…”. Finale di partita 3 a 2, vittoria importante e prestazione maiuscola di Recoba. Venezia tutta è innamorata del fantasista tutto mancino.

È l’inizio di un nuovo campionato per il Venezia di Novellino che fa vedere un bel calcio, finalmente finalizzato dal tandem Recoba-Maniero (Schwoch nel frattempo è stato ceduto al Napoli). Dopo la vittoria in rimonta con l’Empoli, una sonora sconfitta al San Siro per 6 a 2 contro l’Inter non modifica il corso degli eventi. All’ultima giornata del girone di andata il Venezia pareggia 1 a 1 contro la Juventus.

Il cambio di marcia definitivo avviene tra la diciottesima e la ventesima giornata. 7 punti in tre partite grazie alla vittoria casalinga per 2 a 1 contro il Bari, a segno un Maniero ritrovato e Tuta (discussa e controversa la reazione alla sua marcatura). Poi il pareggio esterno a Parma per 2 a 2 (sempre Maniero, doppietta) e la vittoria casalinga (il giorno di Carnevale) contro la Roma di Zeman per 3 a 1 con il primo gol di Recoba al Penzo.

Dopo la sconfitta contro il Milan a San Siro per 2 a 1 alla ventunesima giornata, due vittorie casalinghe consecutive. La prima contro il Perugia per 2 a 1 (Recoba-Maniero), la seconda per 1 a 0 contro l’Udinese(Recoba). Al turno numero 24 il Venezia perde a Bologna 2 a 1, ma alla venticinquesima si gioca a Venezia contro la Fiorentina lanciatissima in zona Champion’s League.

Un match che è entrato di diritto nella storia del club veneto. Al 18° minuto punizione dai 25 metri. “El Chino” spedisce la palla sotto al sette, con un incolpevole Toldo fermo a guardare. Al 42° calcio d’angolo dalla sinistra battuto da Recoba, Miceli stacca di testa, e con un’incredibile carambola, segna il secondo gol. In pieno recupero, altra punizione dai venti metri, spostata sulla destra. Nuovamente Recoba sul punto di battuta, che con un altro tiro a giro beffa Toldo. Fine primo tempo 3 a 0 per il Venezia e gara da incorniciare per il talento uruguaiano. A due minuti dalla fine dell’incontro Esposito realizza su calcio di rigore il gol della bandiera per i Viola. Il 4 a 1 finale lo segna ancora Recoba con un gol di rara bellezza. Stoppando la palla sulla linea di fondo beffa in dribbling Falcone, poi con la suola dribbla Toldo e a porta libera segna di destro. Standing ovation finale e salvezza ad un passo.

Nelle seguenti 6 partite di campionato il Venezia rallenta l’altissima media punti del girone di ritorno con 3 sconfitte (Lazio, Sampdoria e Vicenza), un pareggio e 2 vittorie con il Cagliari in casa per 1 a 0 (Recoba) e il Piacenza fuori (1 a 0, Maniero). Alla giornata numero 32 ad Empoli il Venezia pareggia 2 a 2 (doppietta de “El Chino”), ma la partita salvezza si gioca in casa contro l’Inter alla trentatreesima.

È il 16 maggio 1999, penultima giornata di campionato, e con una vittoria il Venezia sarebbe matematicamente salvo. Dopo 1 minuto la squadra di casa è già in vantaggio con un eurogol di Volpi. Dopo soli 3 minuti punizione dal limite, “El Chino” è implacabile: 2 a 0.

Al minuto numero 18 il 3 a 0, gol di Maniero di testa. Una partita incredibile, giocata con un furore sportivo emozionante. Il “Fenomeno” Ronaldo segna nella ripresa il gol della bandiera su rigore. 3 a 1 finale e grande festa per una salvezza insperata, ottenuta dopo un avvio disastroso di campionato.

Come una fenice quella squadra, da Gennaio del 1999 fino a fine stagione, ha incantato soprattutto grazie all’arrivo di Recoba. “Eravamo davvero un grande gruppo si stava uniti in campo e anche fuori. E se chiedete a un tifoso del Venezia che squadra ricordano con più piacere, vi parlerà quasi sicuramente di noi…”. Pippo Maniero ricorda con affetto quella squadra che come una fenice è rinata, riuscendo a compiere l’impossibile.

L’augurio di chi scrive è che Venezia città, vent’anni dopo, possa risorgere dopo essere stata sommersa dall’acqua alta a causa del cattivo tempo.

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Calciatori Fabio Belli

Paolo Sollier: calci, sputi e colpi di testa

di Fabio BELLI

“Alla fine il sessantotto nel calcio è stata solo una questione di look“. Questa frase di Paolo Sollier dice di lui molto di più di quanto serve, ma non solo. Dice tutto anche di come il mondo nel calcio a volte sia impermeabile, ai limiti dell’ottusità, rispetto alla società reale che lo circonda. E forse è proprio questa la grande forza di un gioco capace di unire tutti al di là di differenze sociali, culturali, economiche e politiche. A Sollier però, centrocampista dai buoni polmoni ma dalla tecnica non eccelsa, questo ambiente ha finito con lo stare sempre stretto, anche quando con la maglia del Perugia, negli anni ’70 e nel pieno della contestazione giovanile, si era ritrovato a calcare i campi della massima serie.

url-1Un mondo di “calci, sputi e colpi di testa” quello del pallone, tanto da indurre Sollier ad intitolare così la sua biografia, ormai introvabile e capace di diventare un “cult” della letteratura sportiva. Il fatto è che in un ambiente sostanzialmente convenzionale e conservatore come quello del football, Sollier si è ritagliato una nicchia unica nell’immaginario collettivo per essere stato forse il primo calciatore apertamente di estrema sinistra. E per estrema si intende proprio legata a quegli ambienti che negli anni ’70 si riferivano a quell’ala extraparlamentare, a sinistra anche del PCI, che ballava sulla sottile linea rossa tra la rivoluzione culturale invocata dai sessantottini e la lotta armata poi sfociata nelle tragiche vicende delle BR.

Durante un Lazio-Perugia nel 1976 la tifoseria biancoceleste, tradizionalmente schierata a destra nella sua frangia Ultras, spiegò un eloquente striscione “Sollier Boia“. Il centrocampista piemontese nativo di Chiomonte, d’altronde, non faceva nulla per nascondere le sue idee, anzi le ostentava salutando a pugno chiuso prima di una partita. “Lo facevo per salutare i compagni e gli amici presenti in tribuna quando giocavo nei dilettanti con la Cossatese,” spiegò una volta, “non vedo perché una volta arrivato in Serie A avrei dovuto smettere.” In “Calci, sputi e colpi di testa”, uscito proprio nel 1976, Sollier mise a nudo questi aspetti quando era ancora un calciatore e fu questo a destare scalpore, molto più di quanto avrebbe fatto una biografia dopo il ritiro.

C’è da dire che con i laziali aveva cominciato lui: una stagione prima del famoso striscione, un giornalista lo stuzzicò sulle simpatie destrorse dei tifosi biancocelesti. Lui rispose un po’ generalizzando e un po’ provocando, come amava fare: “Vorrà dire che battere la squadra di Mussolini sarà ancora più bello.” Nel libro racconta poi la tensione del momento, prima del fischio d’inizio all’Olimpico: “Non è corretto parlare dei tifosi della Lazio. E’ meglio parlare dei fascisti della Lazio. Quando giocai contro la squadra biancoceleste entrai nello stadio e mostrai il pugno riuscendo ad attirare la loro attenzione. Mi insultarono in maniera rabbiosa.”

In realtà la carriera di Sollier in Serie A resta molto modesta, con solo una ventina di presenze all’attivo. Più assidua la frequentazione sui campi della cadetteria ma ad interessare erano i suoi racconti di militanza in Avanguardia Operaia, lui, calciatore professionista, che all’epoca il massimo della trasgressione sul rettangolo verde erano stati Gigi Meroni e la sua gallina al guinzaglio. Ora Sollier allena, tra i dilettanti dell’Oleggio, nel settore giovanile e l’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale degli scrittori. Settantenne brizzolato, gli è rimasta la curiosità per i temi sociali ma ora si definisce “non ideologico“: i tempi cambiano per tutti.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Francesco Guidolin: la misura del successo

di Alessandro IACOBELLI

La misura del successo. La carriera di Francesco Guidolin è stata costantemente dominata da quel limbo tra normalità e gloria. Le luci della grande ribalta, per sua stessa ammissione, non sono mai piaciute al tecnico nativo di Castelfranco Veneto. Da Vicenza a Bologna, passando per Udine e Palermo. Tutte esperienze favolose vissute con un unico comun denominatore: la tensione.

Sì perché lui ci mette cuore, anima e polmoni. Ogni giorno con la testa riempita di schemi, pensieri (propri e altrui), intuizioni, pressioni, problemi e palloni. Da calciatore? Molto meglio. Indossi la divisa, vai in campo e corri. Meno seccature. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 Guidolin è un centrocampista dai piedi efficacemente educati, ma dal fisico fin troppo esile. Scarpini ai piedi porta avanti comunque dignitose stagioni tra A e B con le maglie di Verona, Pistoiese, Sambenedettese, Bologna e Venezia.

Cosa fare da grande? A 31 anni Francesco pensa, gira lo sguardo, vede la panchina e decide di accomodarsi per dettare il gioco da bordo campo. Si comincia dalle origini al timone delle giovanili, e poi della prima squadra del Giorgione. I primi anni (Treviso, Fano, Empoli) si rivelano interlocutori, con l’eccezione della promozione in B con il Ravenna nella stagione 1992-1993. Il visionario Presidente dell’Atalanta Percassi lo sceglie per la panchina nerazzurra. Tre mesi nella massima serie con più ombre che luci. Uno schiaffo doloroso ma assai rilevante per una naturale crescita professionale. Nell’estate del 1994, quella dei mondiali americani, Guidolin accetta la proposta del Vicenza. Il mister, non a caso allievo tatticamente della filosofia sacchiana, conquista la Serie A chiudendo la cadetteria in terza posizione.

Il 4-4-2 biancorosso, equilibrato ma spumeggiante al tempo stesso, diventa un cult. Un nono posto al primo anno di A e poi il trionfo in Coppa Italia nel ’97. Al “Menti” Maini, Rossi e Iannuzzi trafiggono Taglialatela ribaltando l’1-0 dell’andata contro il Napoli.

Il preludio alle dolci notti in Europa. I tifosi sognano in Coppa delle Coppe con la sfida al Chelsea in semifinale. Zauli decide il match di andata. Il ritorno si gioca nel glorioso “Stamford Bridge”. Il “Toro di Sora” Luiso zittisce il pubblico con un destro imparabile. La favola però svanisce con le successive reti inglesi di Poyet, Zola e Hughes. Dopo aver eliminato Legia Varsavia, Shaktar Donetsk e Roda JC Di Carlo e soci salutano la prestigiosa competizione. Più di così sarebbe quasi impossibile. Guidolin allora si sposta in Friuli.

A Udine è appena terminato il ciclo targato Zaccheroni. Il patron Pozzo vuole rilanciare le ambizioni con un allenatore rampante. Il bomber brasiliano Marcio Amoroso catalizza al meglio la mole di gioco bianconera siglando la bellezza di 22 reti. Sesto posto finale e qualificazione in Coppa Uefa. Al culmine del campionato tra dirigenza e mister si aprono incomprensioni e malintesi che non si risolvono in breve. Il destino, però, busserà ancora alla stessa porta. Intanto il tecnico viaggia alla volta di Bologna. Quattro annate intense con le coppe solo sfiorate e tanti fuoriclasse passati al “Dall’Ara”. Da Signori a Cruz, passando per il portiere Pagliuca ed il regista Pecchia.

Nel 2004 scocca l’ora di Palermo. Il vulcanico Zamparini lo chiama per sostituire Silvio Baldini. La truppa rosanero concretizza una cavalcata magnifica con il ritorno in Serie A dopo oltre 30 anni. In A si tocca quasi il paradiso: sesta posizione, 53 punti e Luca Toni autore di 20 gol. Le sirene estere suonano forte. Guidolin sbarca quindi in Ligue 1 al timone del Monaco. Decimo posto a quota 52. Inaspettatamente giunge la richiamata di Zamparini. I due si incontrano a Cannes e concludono l’affare. Il ritorno in Sicilia è un successo. Nel 2006-2007 i rosanero chiudono quinti, corteggiando a lungo anche i preliminari di Champions League. Una stagione particolare, quella dopo Calciopoli, con la Juventus in B e le penalizzazioni di Lazio e Milan. Amauri è il vero top player di quella squadra, ed il suo grave infortunio a novembre complica di molto il cammino dei compagni. L’esonero, con la successiva marcia indietro, in primavera è solo un dettaglio in un anno comunque positivo. La stagione successiva subisce il valzer delle panchine all’ombra del “Barbera”, subentrando a Colantuono per poi essere sollevato dall’incarico in luogo del primo.

Le imprese non finiscono mai. Il condottiero di Castelfranco Veneto alza le braccia al cielo pure a Parma. A settembre sostituisce Cagni e porta la formazione gialloblu in Serie A. Ottima anche la stagione seguente con l’ottavo posto finale. Nel 2010 il ritorno più bello, più sospirato, più atteso… a Udine. Undici anni dopo la famiglia Pozzo alza la cornetta, Guidolin non esita ad accettare. L’avvio però è traumatico: 1 punto nelle prime cinque partite. L’alba del volo. Le giovani stelle bianconere sono pronte a sbocciare. Benatia, Isla, Inler e due assi nella manica: Di Natale e Sanchez. Lo spettacolo è assicurato. Reti a catinelle: 0-7 sul malcapitato Palermo, 0-4 al Cagliari, 2-4 al Genoa, 4-0 al Lecce. Senza dimenticare il pirotecnico 4-4 in casa del Milan. A maggio i friulani sono quarti ai preliminari di Champions League.

Superlativa anche la stagione 2011-2012 terminata in terza posizione. Si scatenano nuove promesse come Pereyra e Asamoah. Da mille e una notte il successo sull’Atletico Madrird, in Europa League, con le firme di Benatia e Floro Flores. Ancora due annate con l’Udinese che registra un quinto ed un tredicesimo posto, con una semifinale di Coppa Italia.

Guidolin allarga gli orizzonti. Nel 2016 infatti si trasferisce in Premier League per traghettare i gallesi dello Swansea alla salvezza totalizzando 27 punti in 16 partite.

Adesso il mister vuole un progetto capace di sognare e far sognare. Italia o estero? Si attendono nuove passionali avventure.

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Club Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 2×01: 1915, lo Scudetto Spezzato tra Lazio e Genoa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio italiano anteguerra c’è uno Scudetto diviso: non parliamo del titolo del 1922, spartito tra Novese e Pro Vercelli a causa di una scissione federale. C’è un campionato mai terminato che ha assegnato uno Scudetto per il quale ufficialmente non esiste delibera. E’ tutto accaduto nel 1915, l’anno dello Scudetto Spezzato.

Nel maggio 1915 il calcio italiano si appresta a concludere l’ennesima stagione di un’epoca pionieristica. Le squadre del Nord a dominare, quelle del Centro-Sud a muovere i primi passi: la Federazione già da qualche anno ha stabilito come la squadra campione dell’Italia settentrionale, da tutti formalmente già considerata Campione d’Italia per manifesta superiorità, dovesse disputare una finalissima contro la squadra campione dell’Italia centro meridionale. Questo per dare più ampio respiro allo sviluppo a livello nazionale di uno sport come il football per il quale di intravedono enormi potenzialità e che non merita di restare confinato a livello locale.

Certo, la differenza tecnica tra Nord e Sud è enorme. La finale nazionale venne istituita nel 1913, e la regina del calcio centro-meridionale è senza dubbio la Lazio. Che perde però 6-0 la finalissima contro la Pro Vercelli nel 1913 e 7-1 in trasferta e 0-2 in casa la sfida di andata e ritorno contro il Casale nel 1914. Da Bologna in giù la Lazio è senza dubbio la squadra più forte. Marcello Consiglio e Fernando Saraceni sono giocatori moderni per l’epoca, e il coraggio di Angelo Zucchi e Augusto Faccani tiene la linea laziale sempre alta.

Ma contro i giganti del Nord si può fare poco: nel 1915 si giocano il titolo il Genoa già 6 volte Campione d’Italia, ma a secco dal 1904, l’Internazionale scudettata nel 1910 e il Torino che ha scalzato l’altra regina piemontese, la Pro Vercelli 5 volte titolata. Ma quello del 1915 è un campionato strano, perché venti di guerra spirano sempre più forti e il 24 maggio l’Italia entra a far parte del primo conflitto mondiale. Sottobraccio ai giovani il fucile si sostituisce al pallone e tra le squadre chiamate a dare un contributo più consistente alla Patria c’è proprio la Lazio, che in qualità di Polisportiva manda decine di atleti, non solo calcistici, al fronte.

Il campionato però viene sospeso e riprenderà solo nel 1920, quando tanti protagonisti saranno caduti o feriti al fronte. Il titolo non è stato assegnato: la Lazio è prima nel centro-sud, il Genoa al centro-nord ma con lo scontro diretto contro il Torino da giocare: in caso di vittoria, sarebbero stati i granata ad andare in finale. C’è anche una finale meridionale da giocare tra le due squadre di Napoli. Un caos e infatti il titolo non viene assegnato, come sarebbe logico pensare. E a questo punto però che la storia si fa davvero misteriosa.

La sospensione bellica del campionato avvenne il 22 maggio 1915. Il 23 maggio il girone Nord avrebbe dovuto disputare le sue partite decisive, Genoa-Torino e il derby Milan-Inter. Ma quella domenica l’Italia dichiarò guerra all’impero Austro-Ungarico. Nel frattempo, la Lazio vinse il girone dell’Italia centrale battendo il Roman, che l’aveva sopravanzata nella fase regionale precedente, mentre non venne omologata la sfida del campionato meridionale tra Naples e Internazionale di Napoli.

Il campionato restò fermo 4 anni: il Consiglio Federale tornò a riunirsi nel 1919 e e la Federazione decise di attribuire il titolo al Genoa, ignorando i diritti delle formazioni centro-meridionali, nella fattispecie della Lazio, perché considerate non competitive. Normale pensarla così all’epoca, il problema è che l’assegnazione ai rossoblu fu di fatto convenzionale e mai ufficiale. Mai è stata trovata delibera dell’assegnazione del titolo 1915, né testimonianze della proclamazione dello Scudetto da parte della rivista sociale del Genoa, che alcuni individuano nel settembre 1921, né di una cerimonia di premiazione che sarebbe avvenuta nello scorso anno.

Per quasi 95 anni, dal 1921 al 2015, la storia è stata accettata acriticamente così come è stata tramandata. Il 25 maggio del 2015, in occasione del centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, il settimanale romano Nuovo Corriere Laziale rilanciò la questione. L’avvocato capitolino Gian Luca Mignogna, tifoso laziale, riuscì a lanciare una petizione in pochi mesi: i tifosi laziali risposero in massa con 35.000 sottoscrizioni e soprattutto venne ribaltata buona parte della storiografia ufficiale dedicata allo Scudetto del 1915.

La petizione e la rivendicazione di Mignogna chiede l’assegnazione ex aequo del titolo al Genoa, i cui diritti sono a 100 anni di distanza intoccabili, e alla Lazio che di fatto, unica ad aver terminato il proprio girone interzona, restava l’unica certa finalista di quell’edizione del campionato. La richiesta arriva fino alla FIGC: sotto la presidenza Tavecchio si arriva addirittura alla nomina di una commissione di saggi che evidenzia come la Lazio debba essere considerata campione d’Italia, ricongiungendo lo Scudetto spezzato. La FIGC attraversa però una crisi istituzionale che porta all’attuale presidenza Gravina e all’imminente nomina di una nuova commissione.

Ma come è potuto accadere che semplicemente, per 100 anni, uno Scudetto fosse assegnato per “presunzione di superiorità”, senza che nessuno si facesse domande? Lo Scudetto 1915 è stato in realtà al centro di controversie sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale: come si legge sulla pagina Wikipedia dedicata al campionato di Prima Divisione 1914/15, la decisione sull’assegnazione restò congelata a causa dei reclami di Inter e Torino, poi non presi in considerazione. Inoltre la presunta cerimonia di premiazione genoana avrebbe avuto luogo l’11 dicembre del 1921, durante la fase di risoluzione dello scisma, allora in corso, tra la FIGC e la Confederazione Calcistica Italiana (CCI), della quale faceva parte lo stesso Genoa: molti dei neocampioni rossoblù, in primis il terzino Claudio Casanova, non seppero mai della loro vittoria perché scomparsi in guerra. I presunti conflitti di interessi intercorrenti fra Carlo Montù (alla guida della Federazione nel 1919), Luigi Bozino (presidente prima federale e poi confederale negli anni 1921-1922), e i dirigenti genoani Edoardo Pasteur (vicepresidente FIGC e CCI sotto Montù e Bozino) e George Davidson (capo della Federazione Ciclistica Italiana) gettarono, comunque, un’ombra sull’intera vicenda che a oltre 100 anni di distanza, per intervento della FIGC, potrebbe ora arrivare a una risoluzione con una assegnazione postuma del titolo ex aequo a Genoa e Lazio.

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Calciatori Jean Philippe Zito

José Antonio Chamot, il Guerriero che scoprì la Bibbia

di Jean Philippe ZITO

Ero un diciottenne, mentre lui era già un uomo. Per me era un idolo. In ogni sfida era un guerriero, sempre con la stessa intensità. Ho sempre provato a essere come lui”. Uno dei difensori più forti di tutti i tempi, Alessandro Nesta, parla così del giocatore che l’ha ispirato all’inizio della carriera, diventando un vero e proprio punto di riferimento. “Quando ero un ragazzino della Lazio pendevo dalle sue labbra. Era anche un duro. L’ho rivisto recentemente: è diventato un fanatico religioso”. Chi sta descrivendo il leggendario numero 13? José Antonio Chamot.

La carriera del difensore argentino inizia nel Rosario Central come terzino sinistro. Esordisce in prima squadra nella stagione 1988/89 a diciannove anni, collezionando 19 presenze. Nella stagione successiva con la maglia dei “Canallas” gioca 29 partite, mettendo a segno le sue uniche 3 reti in maglia giallo-blù. Dopo dieci presenze nel 90/91, viene acquistato dal Pisa. Il vulcanico presidente Romeo Anconetani, con un’intuizione delle sue, porta Chamot e Diego Pablo Simeone in Italia.

All’ombra della torre pendente, Chamot si adatta da subito al calcio tattico italiano, esordendo in serie A l’11 Novembre del 1990 nella sconfitta per 4 a 2 a Genova contro la Sampdoria. Gioca da terzino in entrambe le fasce, libero e difensore centrale. L’allenatore dei nerazzurri toscani, Mircea Lucescu, dà fiducia al giovane argentino, tanto che nella seconda parte della stagione Chamot è titolare inamovibile con 15 presenze, che non valgono però la salvezza. Infatti il Pisa retrocede in Serie B.

Nella stagione 1991/92 Chamot gioca con continuità da centrale nel trio difensivo del 3-5-2 di Ilario Castagner. Le buone prestazioni con la maglia pisana fanno sì che molti addetti ai lavori del “calcio che conta” lo tengano sott’occhio. Il 6 Ottobre del 1991 arriva anche il primo gol in Italia, nella vittoria del Pisa per 2 a 0 contro il Pescara. Durante l’anno viene espulso due volte, facendo emergere il suo spiccato agonismo, al limite del consentito.

Nel 92/93 il Pisa cambia l’ennesimo allenatore, ma Josè Antonio Chamot resta il perno della difesa. Gioca titolare per 34 volte, espulso in una sola occasione. Il carattere non manca al “Flaco” e Zdenek Zeman viene colpito anche da questo aspetto durante la partita di Coppa Italia che contrappone il Pisa al Foggia, terminata per 2 a 2 il 2 Settembre del 1992. Il tecnico boemo è pronto ad accogliere Chamot a braccia aperte alla corte dei “Satanelli” pugliesi l’anno successivo.

La prima partita trasmessa in pay per view del calcio italiano è Lazio – Foggia del 29 Agosto del 1993. Chamot ritorna in serie A dopo due anni passati nel campionato cadetto. Il rendimento è costante, confermando tutte le sue qualità. La buona tecnica di base, una grande fisicità e forte temperamento, gli valgono anche la prima chiamata in Nazionale. Debutta nella “Selección” nella finale di andata dello spareggio per le qualificazioni ai Mondiali di USA 94, del 31 Ottobre 1993, Australia 1 Argentina 1. A 24 anni si trova a giocare tra i migliori del suo Paese, affianco al monumento del calcio mondiale Diego Armando Maradona.

Con Zeman si conferma stopper affidabile, capace di mettere fiducia alla retroguardia rossonera guidata dal portiere Franco Mancini. Ma anche al termine di questo campionato, Chamot viene espulso in due occasioni. Nel rocambolesco 5 a 4 subìto dal Piacenza, Josè non batte ciglio e abbandona il campo mestamente. Invece, nella sconfitta per 2 a 0 contro la Cremonese, è vittima di uno scambio di persona. Non è lui a commettere il fallo da rosso diretto, ma a nulla sono valse le proteste. Il Foggia alla fine rischia di qualificarsi per la Coppa UEFA, arrivando a pochi punti dall’impresa. Chamot colleziona 30 presenze e Zeman, che nel frattempo è diventato l’allenatore della Lazio per la stagione 94/95, chiede al Presidente Cragnotti di acquistare il roccioso difensore argentino.

Nell’estate del 1994, per la cifra di 5 miliardi di Lire, Josè Antonio Chamot è un giocatore laziale. A 25 anni è titolare nella squadra di Zeman, giocando al centro della retroguardia biancoceleste al fianco di Cravero, Bacci, Negro, Bergodi ed un giovanissimo Alessandro Nesta.

Anche quest’anno non è fortunato con i cartellini rossi, nella prima stagione a Roma, viene espulso 3 volte. La prima, ingiustamente, il 2 Ottobre 1994 durante un Fiorentina – Lazio 1 a 1, allontanato dal rettangolo verde reo di aver commesso un fallo da ultimo uomo. Oltre il danno, la beffa, uscendo dal campo viene colpito da una moneta da 500 lire che gli fa perdere sangue dalla testa. La seconda il 4 Dicembre 1994, in Cagliari – Lazio 1 a 1, questa volta giustamente per fallo da ultimo uomo (e calcio di rigore per la squadra sarda), la terza il 12 Febbraio 1995, in un Torino – Lazio 2 a 0.

Impiegato anche come terzino sinistro, Chamot spinge molto sulla fascia e crea numerosi pericoli. Uno di questi sblocca i quarti di finale di Coppa UEFA contro il Borussia Dortmund

Il primo gol arriva in un Lazio 4, Genoa 0 il giorno della festa del papà del 1995.

Dopo aver conquistato un eccellente secondo posto in campionato, raggiunte le semifinali di Coppa Italia e i quarti di Coppa UEFA, la stagione successiva lo vede ancora titolare fisso.

Nel 95/96 esordiscono i nomi e i numeri fissi sulle maglie da gioco, Chamot sceglie il numero 6, che è sempre stato il suo numero preferito. 32 presenze in Serie A (1 espulsione, sempre per fallo da ultimo uomo), 4 in Coppa Italia e 1 in Coppa UEFA. Terzo posto nella classifica finale, la Lazio di Zeman è una certezza ai vertici del calcio italiano.

Chamot intanto, inizia un percorso interiore che lo avvicina alla fede e a Dio: “Un giorno ero molto sopraffatto, stanco dei tanti viaggi, ho iniziato a guardare la televisione fino a quando ho trovato un canale cristiano e questo ha cambiato la mia vita perché ho imparato cos’è la Bibbia e chi è Gesù”. Racconta in un’intervista. “Quando si desidera avere denaro e poi ci si rende conto che il denaro non è tutto, cominci a sentire un grande vuoto. Dio ha riempito il mio cuore e cerco sempre di seguire la Sua parola”.

Nel 1996 partecipa come fuori età alle Olimpiadi di Atlanta, Chamot gioca da titolare in tutte le partite che lo vedono protagonista fino alla fine. L‘Argentina però perde 3 a 2 la finale contro la Nigeria con un contestatissimo gol al 90° minuto.

La stagione 1996/97 vede numerosi cambiamenti nell’undici titolare della Lazio: via, tra gli altri, Winter, Di Matteo e Boksic; dentro Protti, Okon e Fish. La concorrenza è alta, anche perché è esploso definitivamente il talento del romano e lazialissimo Nesta. Nonostante tutto, Josè riesce a conquistare per il terzo anno consecutivo i gradi di titolare, prima con Zeman in panchina, poi con Zoff. È una colonna della difesa, che a 27 anni è nel pieno della sua carriera. 34 presenze complessive (29 in Serie A, 2 in Coppa Italia, 3 in Coppa UEFA condite da un gol),

Nel 97/98 arriva Sven Goran Eriksson, in difesa la Lazio acquista Giuseppe Pancaro dal Cagliari e l’esperto Giovanni Lopez dal Vicenza. Chamot ha qualche problema fisico all’inizio della stagione, ed il tecnico svedese pian piano preferisce dar fiducia alla coppia di centrali Nesta-Negro, con Favalli terzino sinistro (capitano) e Pancaro terzino destro.

A fine anno con sole 11 presenze in campionato lascia la Lazio e l’Italia, alzando al cielo la Coppa Italia, destinazione Madrid.

All’Atletico torna a giocare con maggiore continuità e dopo solo una stagione e mezza, nel gennaio del 2000 a quasi 31 anni viene acquistato dal Milan esordendo da titolare il 27 Gennaio contro l’Inter in Coppa Italia. A Milano, sponda rossonera, riabbraccia il suo ex compagno Alessandro Nesta, raccoglie 51 presenze totali, vincendo una Coppa Italia nel 2003 e, soprattutto, la Champions League 2003.

Dopo una sola presenza con gli spagnoli del Leganes nella stagione 2003/04, torna in Argentina nel Rorsario Central. Nel 2006 a 37 anni si ritira proprio nel club dove la sua lunga carriera è iniziata.

Nel 2009 inizia la carriera da allenatore, come secondo, per passare per una sola stagione al River Plate dell’ex compagno laziale Matias Almeyda nel 2011 e tornare poi, nel 2017 al Rosario per esordire come allenatore della prima squadra.

Oggi Josè Antonio Chamot è il tecnico del squadra paraguaiana del Libertad, continua a vivere il calcio con passione, grinta e coraggio.