Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”
In realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.
Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.
Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.
Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.
Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.
Il Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.
Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.
E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchinaperfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.
Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.
Educare nel calcio. Oggi sembra una favola utopistica. Una volta, invece, questa affermazione corrispondeva ad una naturale consuetudine. La figura di Luciano Tessari incarna al meglio tale concetto. Educatore prima di ogni altra cosa. Simbolo capace di intrecciare un rapporto fraterno e costruttivo con i propri giocatori. Nella veste di fedele assistente di Nils Liedholm scriverà pagine gloriose tra Milan e Roma.
Nato a San Martino Buon Albergo nel settembre del 1928, compie una carriera da portiere più che soddisfacente. Verona, Roma, Fiorentina e Palermo le tappe principali. Dotato di un Fisico scultoreo e roccioso indossa i guantoni fino al 1958 quando, a 31 anni, opta per il ritiro dall’agonismo. Il calcio, però, rimane nella quotidianità di Luciano. Inizia così il percorso da allenatore all’alba degli anni sessanta. Per tre stagioni accetta e traghetta con lodevoli risultati le formazioni giovanili del Milan. Nel 1964-1965 giunge il trionfo nel torneo Primavera. Di lì a poco si aprirà la proficua e profonda collaborazione con mister Nils Liedholm. Al fianco del barone svedese sarà prima il coach dei portieri dal ’65 al ’67 per poi allestire la sceneggiatura dell’epopea romanista negli anni ottanta.
Cortese, sobrio, mai sopra le righe. Tessari trova subito l’amalgama giusta con i suoi allievi. Da tecnico titolare, in realtà, la sua carriera non esplode mai definitivamente. Verrà chiamato soprattutto in situazioni di emergenza, come nel caso della Roma nel ’71 in luogo di Helenio Herrera (quando operava nelle compagini del vivaio capitolino) e del Latina dopo altre due stagioni (in sostituzione di Rosa). Nella complessa esperienza in terra pontina, però, trova spazio un rampante Alessandro “Spillo” Altobelli con 7 reti in 28 gettoni.
Le comprovate doti umane vengono alla luce successivamente al timone delle rappresentative giovanili dell’Almas Roma e del Comitato Regionale Lazio. Questo curriculum permette a Tessari di stimolare ancora le attenzioni di Liedholm che lo richiama per un posto da allenatore in seconda di nuovo al Milan. Il tandem in panchina lavora con sagacia portando in serbo il decimo scudetto della storia rossonera, quello della stella. Gianni Rivera, ormai veterano, è l’emblema di quella squadra.
Il Nord al comando del calcio italiano. Le corazzate del Centro-Sud sembrano in netto e colpevole ritardo. Al fine di smentire queste malelingue il Presidente della Roma Dino Viola chiede espressamente a Tessari di porre in essere un’opera di convincimento rivolta allo stesso Liedholm. Le nozze sportive si celebrano nell’estate del 1979. Cinque lunghe annate piene di emozioni. Splendido lo scudetto del 1983 con il maestro Falcao ad orchestrare una formazione davvero eccezionale. Capitan Di Bartolomei, Pietro Vierchowod, Sebino Nela, Carlo Ancelotti, il bomber Pruzzo ed altri strepitosi interpreti. Uniti, coesi e allevati da due padri professionali come Nils e Luciano. La bacheca si riempie anche con quattro successi in Coppa Italia. Unica sconfitta che, ancora oggi, brucia nel cuore e nelle vene dei giallorossi è quella patita nella finale di Coppa Campioni nel 1984 giocata proprio nel teatro dello stadio Olimpico. Il legame tra capo e vice ormai è indissolubile. Il Milan di Giussy Farina, ai titoli di coda come patron, richiama al vecchio amore il mister svedese. Tessari segue il maestro con profonda e sincera devozione. Tre apprezzabili stagioni, anche se con una rosa in tono minore rispetto al passato ed al fantasmagorico futuro targato Berlusconi.
Tessari non è stato un semplice assistant coach. Note a tutti le sue minuziose relazioni sui talenti scovati in giro per l’Italia e per l’Europa. Basti pensare ai profili stilati su Carlo Ancelotti (ai tempi del Parma) e sul brasiliano Falcao (recapitate puntualmente a Liedholm).
Luciano Tessari: il fedele scudiero. Una vita per il calcio con la testa sempre alta e una bontà d’animo esemplare.
Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concettifuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.
Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la secondametà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppeperduta l’anno successivo contro il Valencia.
Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.
L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.
Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.
“C’erano anche le condizioni per tornare alla Lazio prima di andare alla Roma. A Parma andavo molto d’accordo con Crespo a cui ho fatto fare tanti gol. Quando lui venne a Roma la prima cosa che disse fu di prendere Fuser, ma il vice allenatore era Mancini…C’era quella possibilità che non è stata presa in considerazione, poi mi hanno proposto la Roma nel momento in cui era al vertice e ho detto di sì”. Diego Fuser è convinto di non aver mancato di rispetto ai tifosi laziali andando a giocare per due anni alla Roma.
“È vero. Magari i tifosi della Lazio ci possono essere rimasti male, però io penso che un calciatore quando dà tutto, quando va in una società e dimostra che per quella maglia dà tutto…”. Fuser ha dimostrato sul campo, nella sua ventennale carriera, di non risparmiarsi mai. Infatti l’impegno e la corsa, oltre alla tecnica e un gran tiro da fuori, sono le caratteristiche principali del piemontese, funambolo della fascia destra.
Tutta la famiglia di Diego Fuser tifa Torino da sempre, anche per questo motivo il centrocampista di Venaria Reale fa parte degli ultimi “ragazzi del Filadelfia”.
Cresce con la maglia granata addosso, nel mito del Grande Torino e calpestando il prato dello stadio simbolo della gloriosa società torinese.
Esordisce in Serie A il 26 Aprile del 1987, durante il derby della Mole. Junior si tocca l’inguine sul finire del primo tempo, ad inizio ripresa non si presenta in campo: stiramento.
Gigi Radice fa alzare dalla panchina il diciannovenne proveniente dalla Primavera.
Fuser entra in campo e gioca una partita d’applausi contro Platini e compagni. È, insieme a Lentini, protagonista nell’azione del pareggio di Cravero, un debutto da incorniciare.
La consacrazione in campionato arriva l’anno dopo. 38 presenze totati (30 in Serie A e 8 in Coppa Italia), 4 gol. Il 27 Novembre 1988 nella vittoria allo Stadio Olimpico di Roma contro i giallorossi per 3 a 1, arrivano i primi gol nel massimo torneo; una doppietta per il numero 14 che a 20 anni inizia prepotentemente a far parlare di sé.
Nell’estate del 1989 il Milan di Berlusconi acquista per 7 miliardi di Lire Diego Fuser, che si trasferisce nella squadra campione d’Europa in carica. Arrigo Sacchi è contento del suo arrivo e lo fa esordire immediatamente in una partita ufficiale. Il 23 Agosto debutta in Coppa Italia con la maglia rossonera, nella vittoria ai calci di rigore contro il Parma.
Durante la stagione si ritaglia un buono spazio nonostante l’agguerrita concorrenza. 20 presenze in Serie A e 2 gol di cui 1 nel derby della Madonnina vinto per 3 a 0 (i derby sono una costante nella carriera di Fuser); 8 partite giocate in Coppa Italia, 2 in Coppa dei Campioni, 2 nelle finali di Supercoppa Europea e 1 nella finale di Coppa Intercontinentale. A causa della “fatal Verona” però non vince lo Scudetto.
Per il ventunenne Diego, il palmares non è tutto. Vuole giocare con maggiore continuità e il Milan lo manda in prestito per un anno alla Fiorentina. L’allenatore della Viola è Sebastião Lazaroni che è ben contento di impiegarlo con continuità. Nel 90/91 infatti raccoglie 39 presenze (32 in Serie A e 7 in Coppa Italia). Mette a segno ben 8 gol, 5 dei quali direttamente su calcio di punizione.
“Lazaroni mi ha insegnato a calciare le punizioni, cosa che io non avevo mai fatto. A fine allenamento stavo mezz’ora, tre quarti d’ora, e lui mi diceva come calciare. Dovevo giocare sulla tensione del portiere…”. Diego Fuser racconta il gol più importante di quella stagione. “Quello con la Juve, su calcio di punizione, forse è stato il più bello. C’era in porta Tacconi. Palo-gol. Fare un gol e vincere la partita 1 a 0 alla fine mi ha permesso di entrare nella storia di Firenze e questa è una cosa che mi fa veramente piacere”.
Arrigo Sacchi è diventato il Commissario Tecnico della Nazionale, Fabio Capello l’ha sostituito sulla panchina del Milan. Diego torna a Milanello con un bagaglio d’esperienza arricchito dall’anno passato a Firenze, ma non riesce a trovare comunque grande spazio. 22 presenze totali tra Campionato (per lo più spezzoni di gara) e coppa nazionale, con un bottino di 4 reti e 3 assist totali. A dispetto dello Scudetto alzato al cielo a fine stagione, Diego vuole giocare titolare e accetta una nuova sfida.
La Lazio di Cragnotti lo acquista (7 miliardi di Lire) per la stagione 1992/93. Fuser parte per Roma con un albo d’oro di notevole importanza per un ragazzo di 24 anni. A Formello trova Dino Zoff come allenatore che gli consegna la fascia destra del centrocampo. I primi gol con la Lazio arrivano con la prima vittoria in campionato: il 4 Ottobre 1992 alla quinta giornata, una doppietta nel 5 a 2 contro il Parma. Il bottino personale a fine annata recita: 33 presenze da titolare (solamente 1 partita saltata per squalifica) e record personale di gol, ben 10 in Serie A. Quarti di finale in Coppa Italia, quinto posto in campionato e qualificazione in Coppa UEFA. La sfida accettata ad inizio stagione è vinta.
Nel 93/94 alcuni piccoli infortuni non consentono a Fuser di fare l’en plein di presenze, è comunque tra coloro che giocano di più (31 presenze e 2 gol complessivi). Con la Lazio ottiene un ottimo quarto posto finale, in Coppa Italia una brutta figura con l’Avellino e in Coppa UEFA il cammino non è fortunato. Nei derby, dopo tre pareggi consecutivi, il 6 Marzo del 1994 arriva la sua prima vittoria. La Lazio vince 1 a 0, con un gol di Beppe Signori tra la nebbia dei fumogeni e un rigore parato da Marchegiani a Giannini sotto la Sud.
L’anno dopo arriva a Roma, direttamente dal “Foggia dei miracoli”, Zdenek Zeman. “All’inizio fu un trauma, perché la prima settimana di ritiro non si mangiava e si correva come dei dannati. Dopo una settimana così, ho detto: io smetto! Però alla fine devo dire che Zeman per me è stato un allenatore eccezionale, una grandissima persona”.
Fuser con l’arrivo di Rambaudi, inizia a giocare come mezzala destra, ottenendo sempre ottime prestazioni. Il cammino in Europa si interrompe ai quarti di finale contro il Borussia Dortmund, in Coppa Italia in semifinale contro la Juventus, mentre in campionato la Lazio arriva seconda dietro i bianconeri.
Nel 95/96, secondo anno di Zeman, la Lazio arriva terza. Ormai è stabilmente nella parte alta della classifica e Diego Fuser è una certezza del campionato italiano (in questa stagione 39 presenze e 6 gol in totale). Snobbato da Arrigo Sacchi nelle convocazioni per i campionati del Mondo del 1994, viene chiamato dallo stesso per disputare gli Europei del 1996 in Inghilterra.
Dopo le fatiche inglesi, Fuser inizia una nuova stagione nella Lazio e a Roma ormai è di casa. Giunto infatti alla sua quinta stagione con l’aquila sul petto, la sua intenzione è quella di rimanere in biancoceleste ma, soprattutto, di vincere un trofeo. Da troppo tempo il popolo laziale non gioisce per una vittoria e Diego con tutte le sue forze vuole regalare questa gioia ai suoi tifosi. La stagione 96/97 vede un avvicendamento in corsa in panchina. Durante la seconda parte della stagione torna Dino Zoff al posto di Zeman. La Lazio arriva al quarto posto confermando di essere nell’élite del calcio italiano, ma non riesce a spingersi troppo oltre in Europa e in Coppa Italia.
Con Sven Goran Eriksson arriva a Roma anche l’esperienza, l’acume tattico e l’infinita classe di Roberto Mancini. Una personalità importante come quella del fantasista marchigiano ha ripercussioni in uno spogliatoio unito e con senatori che, solitamente, hanno l’ultima parola. Signori è il primo a subire questa nuova situazione ed è costretto a lasciare la sua amata Lazio durante la sessione invernale del calciomercato.
Intanto in casa Fuser però c’è una preoccupazione più grande, il figlio Matteo, a causa di una grave malattia, sta molto male e ha bisogno di cure continue. Diego reagisce in campo, con la sua solita dedizione nella stagione in cui ottiene i risultati migliori da quando è alla Lazio. Entra nella storia per aver vinto 4 derby su 4 in una sola stagione, realizzando anche un gol su punizione in uno di essi.
Il più antico club della Capitale poi arriva in finale sia in Coppa Italia che in Coppa UEFA, dove affronta le due milanesi. Il 29 Aprile del 1998 è nei cuori di ogni laziale. Dopo aver perso la finale di Coppa Italia d’andata contro il Milan per 1 a 0 al 90° minuto, un Olimpico colmo di passione crede nell’impresa. La vittoria della finale di ritorno, grazie ad una clamorosa rimonta, per 3 a 1 consente alla Lazio di vincere un trofeo dopo 24 anni e un’altra Coppa Italia dopo 40 anni. Diego Fuser è il capitano ed è lui ad alzare la Coppa. Invece in finale di Coppa UEFA Fuser e compagni si scontrano contro l’Inter del “Fenomeno” Ronaldo; un secco 0-3 che non consente il bis di vittorie.
“Quell’anno lì io andai a vedere una casa, per finire la carriera alla Lazio. C’era qualcuno però che non mi voleva, qualcuno che faceva l’allenatore ma non era l’allenatore. Ci furono dei problemi e io andai via”. I contrasti con Roberto Mancini sono il motivo per cui Diego Fuser, dopo 6 stagioni nelle quali si è legato in maniera profonda al mondo Lazio, va via. L’aspetta a braccia aperte il Parma di Alberto Malesani.
La stagione 1998/99 per Fuser è un’annata da incorniciare: titolare inamovibile, entra fin da subito negli schemi della nuova squadra e gli riesce la doppietta svanita l’anno prima. Infatti vince, nella doppia finale contro la Fiorentina, la Coppa Italia e a Mosca la Coppa UEFA contro il Marsiglia con un rotondo 3 a 0.
L’anno dopo inizia con un altro successo per il Parma di Fuser, vince la Supercoppa Italiana contro il Milan. A fine stagione però non riesce a qualificarsi nella massima competizione europea, perde lo spareggio Champion’s contro l’Inter. L’ultimo anno al Parma vede cambiare tre allenatori: Malesani, Arrigo Sacchi e Renzo Ulivieri. Con quest’ultimo non si è creato un gran feeling, Diego vuole cambiare, vuole tornare a Roma.
“Quando andammo a giocare a Roma (con il Parma n.d.r.) l’ultima partita e la Roma vinse lo scudetto Capello mi chiese se volevo andare alla Roma perché loro facevano la coppa dei Campioni e sulla destra avevano solo Cafù”. Schietto, sincero. Diego Fuser decide coraggiosamente di tornare nella Capitale, questa volta dall’altra parte del Tevere.
Nelle due stagioni con la maglia romanista gioca poco, nella seconda stagione 2001/02 addirittura solo 7 presenze totali e, curiosamente, nei derby è sempre assente.
Fuser ha dichiarato che ha visto poco il campo a causa di “una scelta societaria”.
Con la Roma vince una Supercoppa Italiana da titolare contro la Fiorentina allenata da Roberto Mancini. Si è preso così una piccola rivincita.
L’ultimo anno da professionista Diego Fuser lo disputa al Torino. La stagione 2003/04 in Serie B, lo vede per 29 volte in campo con la maglia con la quale è cresciuto e con la quale decide di appendere al chiodo gli scarpini all’età di 36 anni.
Insieme all’amico Gianluigi Lentini decide di giocare nelle serie minori, per divertirsi ancora con il pallone tra i piedi. Nel 2011, poi, il dramma personale: il piccolo Matteo non ce la fa e a 15 anni perde la battaglia contro la malattia, lasciando un vuoto incolmabile nella vita dei suoi genitori. Con fatica Diego si è rialzato anche grazie al calcio, la sua grande passione l’ha aiutato a reagire.
Tornando indietro con la memoria Fuser pensa al ricordo più bello da calciatore, aver alzato la Coppa Italia da capitano della Lazio. “È stata una gioia incredibile perché vedevi realizzato un sogno, ci speravano tutti e quindi quello è stato un momento sicuramente molto, molto bello”.
“Alla fine della stagione io e Paul partiamo per l’Italia, ci hanno organizzato dei provini. Ci stabiliamo a Prato da zia Bianca, sorella di papà, zio Egidio e da mio cugino Dimitri. Nella stessa casa vive anche il nonno e ci arrangiamo nella sua stanza: io e Paul dormiamo in un letto a castello, io sopra e lui sotto. Il nonno ha convinto quelli del Prato a farci allenare con loro. Per i primi tempi speriamo nel tesseramento, ma il Prato fa soltanto promesse e non le mantiene”.
Christian Vieri racconta, nella sua autobiografia, il rientro in Italia dopo aver passato l’intera adolescenza a Sidney. Il padre Roberto ha giocato nel Marconi Stallions sin dalla fine degli anni ’70, quindi il piccolo Bobo si è dovuto trasferire in Australia con la famiglia alla tenera età di 4 anni. Dopo aver praticato gli sport più disparati, con sommo stupore del padre, inizia a giocare anche lui a calcio e a quindici anni esordisce nelle giovanili del Marconi. Lega fin da subito con il suo compagno di squadra Paul e nel 1988 vuole tentare la fortuna nel bel paese.
Convince a partecipare a questa impresa anche l’amico australiano, che accetta l’ospitalità della famiglia Vieri, passando due mesi in Toscana. Christian decide di rimanere a Prato, mentre Paul Okon torna a Sidney pronto a giocarsi le sue chance nel Marconi Stallions.
Nella squadra degli “italiani di Sidney”, Okon (che è per metà d’origine italiana) si fa notare immediatamente per la sua capacità di sviluppare trame interessanti con la palla al piede e far filtro davanti alla difesa. Un’ottima tecnica, accompagnata da una buona visione di gioco, che lo porta ad essere titolare inamovibile nei celesti di Sidney. Collezionando nelle stagioni 1989/90 e 1990/91, ben 49 presenze, condite da 4 gol e vincendo l’Under 21 Player of the Season in entrami i campionali.
Queste eccellenti prestazioni fanno sì che arrivi anche la prima convocazione nella Nazionale maggiore. Nei “Socceroos” esordisce il 6 Febbraio del 1991, in una serata uggiosa a Paramatta durante l’amichevole persa per 2 a 0 contro la Cecoslovacchia. “È stata una serata piovosa, veramente tanto ed ero già stato convocato quando avevo 17 anni” ricorda Okon. “Sapevo che avrei avuto un’opportunità quella notte. Sono entrato nel secondo tempo”.
Sempre nel ’91 fa parte della spedizione ai Mondiali di Calcio Under 20 come capitano, segna anche un gol nella prima partita del girone C vinta per 2 a 0 contro Trinidad e Tobago. L’avventura dei giovani australiani si conclude con una finale per il terzo posto persa ai rigori contro l’URSS.
A diciannove anni, ormai lanciatissimo in patria, riceve un’allettante offerta dal Belgio.
Okon accetta e si trasferisce al Bruges, giocando fin da subito in una porzione del campo delicata che richiede esperienza e sicurezza. A fine stagione diventa campione di Belgio vincendo la Division 1 e partecipa con la Nazionale alle Olimpiadi di Barcellona.
Gli “Olyroos” superano il girone D insieme al Ghana, ai quarti battono la Svezia per 2 a 1 e in Semifinale affrontano la Polonia. Dopo un primo tempo abbastanza equilibrato, nella seconda parte la Polonia dilaga vincendo 6 a 1; è il peggior passivo registrato dalla Nazionale Olimpica australiana. Dopo aver perso l’anno precedente la finale di consolazione contro l’Unione Sovietica ai Mondiali under 20, Paul Okon perde ancora la finalina, il Ghana si impone 1 a 0.
Messe da parte le Olimpiadi, nel Bruges Paul Okon continua a giocare bene e a vincere. In totale il suo personale palmarès conta: 2 Campionati (91/92 e 95/96), 3 Supercoppe (1992,1994 e 1996) e 2 Coppe di Belgio (1995 e 1996).
A Roma, alla Lazio, occorre un sostituto di Roberto Di Matteo. Il centrocampista è titolare nella squadra di Zeman, ma vuole essere ceduto a seguito di alcune discussioni avute proprio con il tecnico boemo. Quest’ultimo chiede espressamente al direttore sportivo Nello Governato di provare a prendere un giocatore che sta seguendo da tempo, Paul Okon.
L’australiano è reduce da un brutto infortunio ai legamenti del ginocchio destro subito nel Febbraio del 1996, ma si sente pronto ad affrontare il ritiro estivo con la Lazio per la nuova stagione. Dopo cinque anni ricchi di successi con il club e personali, saluta il Bruges e il Belgio liberandosi a parametro zero e firma un contratto di tre anni con la squadra del Presidente Cragnotti.
Non ha paura dei paragoni con Di Matteo, conosce il proprio valore e, per esorcizzare qualsiasi altro timore, decide di indossare la maglia numero 16 lasciata libera proprio dal centrocampista italiano. L’ambientamento con il calcio nostrano non è semplice per nessun calciatore straniero, soprattutto poi se si passa dal placido modo di vivere il calcio in Belgio, al focoso ambiente romano.
Paul Okon dichiara al quotidiano di Dublino The Irish Time: “Per me il Campionato italiano è il migliore del mondo, in Belgio il calcio è lo sport più seguito ma rimane uno sport, ne parlano la domenica, il lunedì e poi non si sente altro fino al venerdì o al sabato. Qui a Roma ad ogni minuto della giornata, ogni canale televisivo ha programmi che si dedicano al calcio…”.
Esordisce con la maglia del più antico club di Roma, il 28 Agosto 1996 nel secondo turno di Coppa Italia nella vittoria della Lazio contro l’Avellino per 1 a 0. È il primo giocatore australiano nei quasi cento anni di storia del sodalizio biancoceleste.
Il debutto in Serie A avviene alla terza giornata, il 21 Settembre 1996, nell’incontro Inter-Lazio 1 a 1. Alla “Scala del calcio” il playmaker è titolare, gioca un ottimo primo tempo facendo vedere la sua classe e precisione nei passaggi. A dieci minuti dalla fine esce al posto di un giovane Roberto Baronio, la forma fisica non riesce a decollare. I problemi al ginocchio non sono superati completamente. Gioca complessivamente 11 gare da titolare nel girone d’andata, saltando ben 7 gare a causa dei consueti tormenti ai legamenti.
Nel frattempo il tecnico boemo viene esonerato, in panchina torna Dino Zoff e proprio Okon, fortemente voluto alla Lazio da Zeman, non le manda a dire sulla preparazione estiva che l’avrebbe danneggiato: “Il ginocchio mi ha dato molti fastidi. Le grane sono nate dal tipo di preparazione fatta con Zeman, molto dura. Non dico che non sia buona, ma non andava bene per me che ero reduce da un lungo infortunio. Senza Zeman il mio rendimento sarebbe stato diverso”.
Il primo anno alla Lazio si conclude con 18 presenze complessive (14 in Campionato, 2 in Coppa Italia e 2 in Coppa UEFA) e con il passaggio di Zeman alla Roma, commentato con sarcasmo da Paul: “Beati quelli della Roma…”.
Nella stagione seguente Sven Goran Eriksson diventa l’allenatore della Lazio. Lo svedese esplicita pubblicamente più volte la sua stima per il numero 16 che però sta vivendo un incubo. A 25 anni la sua carriera è a rischio a seguito della doppia operazione al ginocchio. Si assenta dai campi di gioco per l’intero campionato, la sua unica preoccupazione è quella di tornare a praticare lo sport tanto amato.
Allo scadere del contratto triennale lascia la Lazio vincendo (da spettatore) 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa e 1 Coppa delle Coppe. I tifosi laziali hanno potuto solo intuire la classe dello sventurato regista australiano, sostenendolo comunque nel difficile periodo personale.
Nella stagione 1999/2000 rimane in Italia, passando alla Fiorentina. Nei viola gioca solamente un anno, accumulando 11 presenze in totale. L’anno dopo va in Inghilterra al Middlesbrough e ci rimane per due stagioni. Gioca con più continuità il primo anno, recuperando una condizione accettabile. Nel 2001/02 invece si ferma nuovamente per infortunio.
Brevi parentesi al Watford prima e al Leeds poi, permettono a Paul Okon di ritrovare un certo feeling con il campo. Nel 2003/04 torna in Italia, in serie B va al Vicenza allenato da Beppe Iachini. Anche in quest’occasione però non riesce ad esprimersi al meglio.
Per questo motivo decide di tornare in Belgio, nazione che lo ha cresciuto calcisticamente e come uomo. A 32 anni accetta le lusinghe dell’Ostenda; in maglia gialla torna ad essere un calciatore affidabile e continuo, giocando da titolare 28 partite su 34. Paul si sente finalmente quello di un tempo, ma ha il rimpianto di non riuscire a salvare l’Ostenda dalla retrocessione.
Il calvario però ricomincia nel campionato successivo. Si trasferisce a Cipro, all’Apoel dove nel 2005/06 scende in campo solamente in 2 occasioni. Il ginocchio non lo lascia in pace.
Per il Maestro Paul Okon è tempo di tornare a casa con la famiglia, si trasferisce al Newcastle United Jets Football Club per l’ultima stagione da professionista della sua travagliata carriera.
Nel 2006/07, alla soglia dei 35 anni, è voglioso di far vedere di nuovo ai suoi connazionali che è ancora in grado di saper stupire: “Voglio fare bene, voglio che la squadra faccia bene e voglio giocare il maggior numero possibile di partite. Richiedo molto a me stesso, spero di essere in grado, prima di tutto di soddisfare me e poi tutti quelli dei Jets”.
Essere così meticoloso, dedito alla disciplina, gli ha permesso di regalare lampi di ottimo calcio per quasi tutte le partite della stagione.
Solamente una persona con grande carattere, forza di volontà e amore viscerale per il proprio lavoro, avrebbe potuto perseverare senza abbattersi o, addirittura, rinunciare.
Paul Okon ha il calcio dentro, è il suo modo di comunicare efficacemente. Appena ha appeso gli scarpini al chiodo ha iniziato ad allenare nel Paese natio, prima i giovani Socceroos e poi per le squadre di club. La sua passione è travolgente, come la voglia di non smettere mai.
A guardarlo adesso, imbolsito e con lo sguardo sin troppo rilassato, viene quasi da non credere che sia stato una delle più astute e guizzanti mezze ali (una volta si diceva mediano di spinta, diciamo che oggi sarebbe un De Rossi un pizzico più offensivo) degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Eppure Nicola Berti ai tempi da giocatore ad un innato estro abbinava una cattiveria agonistica ed una concentrazione che gli hanno permesso di calcare i campi più prestigiosi del mondo, senza sosta, con tanto di due Mondiali disputati in maglia azzurra.
Nicola Berti che per anni è stato uno dei simboli dell'”ultimo scudetto dell’Inter”, quello del 1989 con Trapattoni in panchina, prima che 17 anni dopo Calciopoli cambiasse gerarchie del calcio italiano che parevano scolpite ormai nel marmo. Nicola Berti che si beve non tutta la difesa ma tutto il Bayern Monaco, nella sua interezza, in una memorabile notte di Coppa UEFA. Ed, essendo lui un contro-cliché, in quell’occasione non saranno le bizze del suo talento a sprecare il lavoro di squadra bensì sarà la squadra intera nel match di ritorno a sprecare le sue prodezze. Nicola Berti che ama la birra e la notte con le luci di una Milano da Bere anni ’80 che andavano via via spegnendosi e di cui lui era forse uno degli ultimi esempi concreti. Un calciatore però che riesce ad andare d’accordo in Nazionale anche con Sacchi, simbolo di un Milan odiatissimo in maglia nerazzurra e di un calcio totalmente diverso da quello giocato in quegli anni con l’Inter e con la nazionale di Vicini.
In un’intervista, di quei mondiali del 1994 immerso nell’integralismo sacchiano del 4-4-2, raccontò: “Si giocava negli Stati Uniti dove del calcio non fregava niente a nessuno. Oltretutto, si doveva scendere in campo in orari assurdi per le tv europee, con un caldo incredibile. Dopo ogni primo tempo c’erano 7-8 giocatori che chiedevano di non tornare in campo: pazzesco. Io giocavo fuori ruolo, sulla fascia, ma non me ne importava nulla: l’importante era esserci e mi sono divertito lo stesso.”
Non si impuntava per una posizione in campo, Berti, l’importante era divertirsi e lui la vita l’ha sempre presa con una certa filosofia, senza perdere la testa neanche quando l’Inter di Pellegrini andò a pescarlo nel 1988 nella Fiorentina. Era già una stella dell’Under 21 grazie ad una sua tripletta storica rifilata al Portogallo. Fu subito scudetto, sembrava un’era pronta ad iniziare, l’Inter dei tedeschi subito dopo il Milan degli olandesi ed invece la sua era la Milano da bere che appunto si stava spegnendo. L’altra, invece, quella del Berlusconismo che stava appena nascendo. Ed anche di giocatori come Berti iniziavano ad uscirne fuori sempre meno.
Perso lo scatto dei bei tempi non ci ha messo molto a tagliare la corda: a 31 anni si è tolto lo sfizio di una stagione al Tottenham, in Premier League, poi dieci anni ai Caraibi a godersi la vita prima di tornare in Italia per fare il punto sul nostro calcio e sull’Inter, sempre senza peli sulla lingua. Ma a sentire lui l’importante è sempre divertirsi e, più che il calcio, ora sono i viaggi la sua vera passione: “Il posto più bello che ho visto? Ne dico due: lo Yemen e il Kazakhstan. Al largo dello Yemen c’è un’isoletta, si chiama Socotra. È bella almeno come quelle dei Caraibi. Nessuno mi impedirà mai di viaggiare, continuerò a farlo e sempre di più.” Tanto la Milano dei suoi anni d’oro non c’è più da un pezzo.
10 maggio 1987: il Napoli entra nella storia. Il match contro la Fiorentina decreta il primo scudetto del sodalizio partenopeo. Un traguardo sognato per più di sessanta anni dal popolo e per diciotto dal Presidente Corrado Ferlaino. Una cavalcata epica, vissuta a ritmi pazzeschi. Tutte le componenti necessarie, dopo effimeri tentativi, si mescolano alla perfezione. L’assetto dirigenziale trova una quadratura inedita. Il patron Ferlaino si avvale di fidati delfini del calibro di Italo Allodi, nella veste di General manager, ed un rampante Pierpaolo Marino agli esordi come Direttore Sportivo.
Nella torrida estate del 1986 si pongono le basi per l’impresa tricolore. In panchinasiede Ottavio Bianchi, tecnico esperto e navigato. La squadra proviene da un discreto terzo posto nel torneo precedente vinto dalla Juventus di Trapattoni e Platini. La cessione illustre di Eraldo Pecci, destinazione Bologna, non è certo facile da digerire in zona nevralgica. Il tandem Allodi-Marino opta allora per la grinta agonistica assicurata da Fernando De Napoli, prelevato a titolo definitivo dall’Avellino, e per le geometrie di Francesco Romano. In attacco giunge dall’Udinese Andrea Carnevale.
La stella di Diego Armando Maradona brilla incontrastata. Il fuoriclasse argentino si eleva a divinità pagana della città partenopea. Il numero 10 regala subito lampi di genio nell’esordio al ‘Rigamonti’ contro il Brescia. Buona la prima. Sette giorni dopo la coriacea Udinese blocca sull’1-1 gli azzurri. Graziani risponde a De Napoli. Il derby campano con l’Avellino si risolve a reti bianche. I ragazzi di mister Bianchi tornano alla vittoria il 5 ottobre al ‘San Paolo’. Il Torino cade sotto i colpi di Bagni, Ferrara e Giordano. Nelle successive sei giornate Bruscolotti e soci inanellano una serie invidiabile di risultati utili; spiccano i tre blitz in trasferta con Sampdoria, Roma e Juventus. Il sorpasso sui bianconeri trova una micidiale conferma nel poker rifilato al malcapitato Empoli. Il girone di andata culmina con lo scivolone patito in quel di Firenze; Diaz, Antognoni e Monelli trafiggono Garella. Inutile l’acuto di Maradona.
Tra gennaio e febbraio il Napoli scatena la sua furia incamerando un filotto limpido. Brescia, Udinese, Avellino e Torino devono inchinarsi. Nel frattempo le acerrime rivali Inter, Roma e Juventus accusano rispettivamente quattro e cinque lunghezze. Il traguardo si avvicina sempre di più, ma con l’avvento della primavera il ciuccio si eclissa. In quattro turni racimola solo un successo (0-1 a Bergamo) e due pareggi (in casa con Sampdoria e Roma). Arriva pure la sconfitta di misura contro l’Inter firmata Bergomi.
Il gruppo, però, resta unito e coeso. L’ambiente non si scompone. Alla 24ͣ Renica e Romano estromettono definitivamente la ‘Vecchia Signora’ dalla lotta per il titolo. La stanchezza fisica e psicologica appare lapalissiana nel match di Verona, dove gli Scaligeri offendono per tre volte. Il 2-1 sul Milan, con strepitoso raddoppio del Pibe de Oro, riassesta l’equipaggio. “Su quel ramo del lago di Como” il contingente azzurro impatta 1-1 ma guadagna un punto approfittando dal passo falso dell’Inter al ‘Del Duca’ di Ascoli. La città, dal Vomero a Posillipo, vive una settimana frenetica. Un immenso abbraccio avvolge il prato verde dell’impianto di Fuorigrotta per la passerella contro la Fiorentina. Domenica 10 maggio 1987 90.000 cuori battono all’unisono e scandiscono il conto alla rovescia. Termina 1-1 la sfida con le segnature di Carnevale e Roberto Baggio. Allo scoccare delle 17.45 l’arbitro Pairetto chiude le ostilità. La festa può cominciare. Ascoli è la cornice ideale per archiviare una stagione indimenticabile; Carnevale e Barbuti timbrano il congedo nel giubilo collettivo.
E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.
Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.
I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.
Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.
E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.
La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.
Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.
In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.
L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.
Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.
Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.
La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.
Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.
La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.
Sessantaquattro punti collezionati in trentotto giornate, secondo posto e Stefan Schwoch capocannoniere degli arancioneroverdi. L’accostamento cromatico, inaccettabile per i più e stupefacente per una cerchia ristretta di persone nell’ambito della penisola italica, ha subito fatto scattare i più attenti sibilando ‘Venezia’ tra le labbra di chi sta fissando lo schermo del proprio computer. Grazie ai gol dell’attaccante nato a Bolzano, i lagunari riescono a conquistare il secondo posto, dietro un’imprendibile Salernitana, assicurandosi la promozione: 1997-1998, il Venezia torna in serie A.
L’anno successivo squadra di Salerno sarebbe stata retrocessa dalla Serie A e costretta a ‘scendere’ nel limbo della B ma la squadra di Venezia non era fatta per essere nuovamente sbattuta in fondo alla classifica della massima serie italiana. La favola veneziana comincia, per la verità, soltanto nel girone di ritorno e, per sintetizzarla brevemente, si potrebbe così scandire: arrivo di Recoba, il Venezia inizia a vincere, Intertoto sfiorato. Anzi, rinunciato, per viltà magari, come il Celestino V dantesco (colui che fece per viltade il gran rifiuto) ma forse anche per restare ben coi piedi per terra. Ma questo si vedrà più avanti, con la speranza che non sia un post interminabile e che il lettore non riesca a leggere.
Tutto comincia, in buona sostanza, con la promozione del Venezia in serie A: stagione 1998-1999, una delle maglie più belle mai viste, ma il girone di andata non è dei migliori. Tuttavia, a gennaio arriva Alvaro Recoba in prestito dall’Inter. Walter Novellino può contare, ora, su un attacco niente male: Recoba, Maniero e Fabian Natale Valtolina, quello stesso Valtolina che aveva segnato il gol del 3 a 3 contro la Roma vestendo la maglia del Piacenza, siglando la terza rete con una rovesciata degna di nota e imbeccata da un lancio di Tramezzani dalle retrovie.
Nel girone di andata il Venezia inizia subito a perdere e a scavare, più che scalare, la classifica della serie A: prima giornata, sconfitta col Bari; seconda giornata, pareggio col Parma fino ad una lunga sequela di sconfitte con Roma, Fiorentina, Milan, Perugia e Bologna. Le uniche due vittorie arancioneroverdi del girone di andata, praticamente, sono contro la Lazio e contro il Cagliari, anch’essa neopromossa come il Venezia. La classifica si mette male, la situazione non è affatto rosea e Novellino deve fare qualcosa per invertire la rotta: a gennaio, come giù detto, arriva Alvaro Recoba in prestito dall’Inter.
La situazione muta del tutto e i lagunari iniziano a vincere con la quasi totalità delle squadre con cui avevano perso; il Pierluigi Penzo, il vecchio stadio sull’isolotto di Sant’Elena (Fondamenta Sant’Elena, per la precisione) s’era appena ricominciato ad usufruire con la promozione in A e ad ogni vittoria pareva che si facesse più arancioneroverde. Uno degli stadi più antichi, dopo il Ferraris di Genova, sembrava avere avuto una seconda gioventù e sembrava quasi venire giù alle due punizioni che Recoba aveva rifilato a Toldo nella casalinga contro la Fiorentina: finì 4 a 1 contro la terza in classifica. Quattro a uno, tripletta di Recoba, aprendo le danze con un gol à la Ali Karimi, battendo la Fiorentina di Trapattoni, Batistuta, Rui Costa e di quel Luis Airton Barroso Oliveira che poi aveva contribuito alla salvezza dei lagunari in uno dei tantissimi momenti difficili che la squadra ha passato. Quattro a uno contro una Fiorentina ai limiti della leggenda e concludendo il campionato inanellando una vittoria contro l’Inter per 3 a 2, dopo aver subito l’onta di sei gol all’andata. Il Venezia finirà la serie A del 98-99 con 42 punti: – 2 dal Bologna e rifiutando il posto nell’Intertoto, affidandolo, così, ad un Perugia che concluse il proprio campionato pericolosamente vicino alla zona salvezza.
L’anno successivo sarà quello dell’ingresso del giapponese Nanami – noto ai più per la sua inconsistenza a centrocampo – e di Spalletti in panchina, dopo che Novellino aveva optato per Napoli, seguito da Schwoch, ma il Venezia non era più lo stesso: retrocessione e discesa nel limbo. Perché, stavolta, non c’era Recoba a salvare il Venezia. La tradizione veneziana, vuole, che il leone di San Marco, simbolo della città, fosse raffigurato brandente una spada se in guerra con qualche Nazione o città, con il Vangelo e con le parole “Pax tibi, Marce, evangelista meus” se in pace.
A chi batte queste righe, affezionato non poco ai colori arancioneroverdi, piace pensare che durante la stagione 98-99 l’emblema del leone fosse quello con la spada ma gli anni successivi avrebbero segnato la pace e la resa, verrebbe da dire, prima ancora che le battaglie potessero aver luogo. E quasi non serve recriminare quel 2 a 2 galeotto contro la Roma, che tanto fece parlare i tifosi giallorossi, perché “quel punto avrebbe potuto consegnarci un altro scudetto”: il Venezia subì fallimenti su fallimenti e ben presto si sarebbe ritrovata con un’altra icona tra le proprie fila (Paolo Poggi) a lottare per la salvezza in C1. Anche quell’illusione durò poco perché la permanenza nel professionismo venne minata del tutto quando l’SSC Venezia, sorto dalle ceneri dell’AC Venezia, dovette cambiare nome in FBC Unione Venezia e ripartire dalla serie D. In sovrannumero, peraltro, nel girone del nordest (C).
Giovanni Volpato, Jacopo Molin, Mirco Tessaro, Matteo Nichele, Simone Corazza, Marco Masiero, Mattia Collauto: una parte dell’organico in D della squadra di Venezia del 2009, compreso l’ultimo citato che, una volta approdato in laguna in serie B, ha vissuto una rapida discesa verticale fino al fallimento in D.
E tant’è, a dire che quella era stata una squadra raffazzonata, preparata all’ultimo e senza maglie fino al girone di ritorno, la favola veneziana era anche quella: senza niente ma con uno stadio centenario che cullava una società incerta, fragile e che si affacciava, perfino, all’azionariato popolare quando si sarebbe completata la ‘cordata’ comunale.
(tratto dalla Gazzetta del Lazio di venerdì 6 febbraio 2015)
In Lega Pro, nel girone della Lupa Roma, sono presenti i giallorossi del Messina, annaspando tra playout e salvezza. La stagione non è certo facile e il girone unico non aiuta le squadre che si sono lasciate da poco alle spalle l’ultimo scoglio del dilettantismo italiano: la Lupa Roma, dopo un avvio costellato di vittorie e pareggi contro squadre ben più blasonate, si trova ora a metà della classifica seguita a un poco confortante +2 dal Messina. Perché dovrebbe interessare una squadra siciliana al lettore di un periodico che è rintracciabile nelle edicole di Roma e del Lazio e che, non a caso, si chiama ‘La Gazzetta del Lazio’? Perché in realtà parlare del Messina è un pretesto per scrivere di uno dei simboli della rinascita della squadra, dopo essere piombata dalla massima serie alla Serie D: si tratta di Giorgio Corona. Attaccante, soprannominato ‘Re Giorgio’, non si è fatto molto benvolere – a dirla tutta – dal pubblico romano: nella sua lunga carriera, ancora in corso, ha vestito la maglia della Juve Stabia e il gol del 2 a 0 contro l’Atletico Roma – precisamente all’88’ – ha bruciato per non poco tempo sulla pelle dei tifosi capitolini, sebbene di lì a poco la compagine bianco blu sarebbe fallita e avrebbe cessato di esistere. Tuttavia, Giorgio Corona ha una notevole carriera alle spalle, anche se qualcuno potrebbe obiettare che non ha mai vestito la maglia della Nazionale, né si è mai distinto per un così alto numero di reti in serie A (solo sette e con la maglia del Catania).
E’ vero: non ha mai alzato Coppe del Mondo né analoghi trofei per club ma i suoi gol sono più importanti sono quelli segnati negli ultimi anni con la maglia del Messina e, dunque, non in Serie A. Dopo essere tornato al Taranto, concluso il periodo di prestito alla Juve Stabia, decide di rescindere il contratto coi pugliesi e di andare a giocare nella squadra peloritana. Corona torna a militare nel Messina nel periodo peggiore e dopo dodici anni che non indossava quella divisa: i giallorossi sono stati appena scaraventati in Serie D con quattro punti di penalizzazione, ma a ‘Re Giorgio’ non importa molto e, anzi, si carica la squadra sulle spalle traghettandola fino ai playoff. Nella stagione 2011/2012 il Messina verrà fermato alle fasi eliminatorie dei playoff e alla squadra siciliana sarebbe successivamente toccata un’altra stagione in serie D, così come stava analogamente succedendo al Venezia, fermata dal 3 a 2 contro il Sandonà Jesolo nella seconda stagione in D nel girone C degli arancioneroverdi. L’attaccante, nella stagione di ritorno al Messina e alla serie D, disputerà 34 presenze e collezionando 16 centri.
L’anno dopo sarà quello dello scontro con ‘l’altro Messina’ (il ‘Città di Messina’) tra le cui fila militava anche quel Saraniti che ora veste la casacca della Viterbese Castrense: nella stagione 2012/2013 le presenze saranno 33 e i gol 17. L’anno è quello buono e il Messina compie il grande balzo approdando, nuovamente, al professionismo. Facilmente si sarebbe potuto pensare come le strade di Re Giorgio e quelle del Messina fossero destinate a separarsi. Neanche per sogno: a 39 anni gioca per altre 34 partite e mette a segno 11 gol. Finita? Nient’affatto: nella stagione attuale, a quarant’anni, l’attaccante palermitano ha fatto gol per 7 volte in venti presenze. E il campionato non è ancora terminato.
Questa storia può, senza dubbio, far tornare alla mente qualche altro calciatore che ha appeso gli scarpini al chiodo solo una volta arrivato agli ‘–anta’: Hubner, Vierchowod, Zoff, Oliveira sono solo alcuni esempi. Dino Zoff, arrivato ai quarant’anni, indossava ancora la maglia della Nazionale mentre Vierchowod contribuiva alle due salvezze del Piacenza tra il 1997 e il 1999; dall’altra parte Hubner, dopo aver militato in Brescia e Piacenza, torna in C1 nel Mantova di Poggi per poi concludere la carriera a 44 anni a Cavenago d’Adda (Prima Categoria bresciana). C’è, poi, Luis Airton Barroso Oliveira, il brasiliano naturalizzato belga che, dopo aver vestito le maglie di Cagliari e Fiorentina in Serie A, gioca con il Foggia, con il Catania e infine con Venezia e Lucchese. Lulù, così come lo chiamavano i tifosi della Fiorentina, torna per due anni in Sardegna con la neo promossa Nuorese e finisce la carriera vestendo i colori del Muravera di cui, ora, è allenatore.
Un percorso analogo, infine, l’ha intrapreso Marco Ballotta, il quale è volutamente posto alla fine di questo scritto, perché la sua carriera, a poco più di cinquant’anni, è ancora ‘in fieri’ e fa da contraltare a quella di ‘Re Giorgio’: dopo aver abbandonato la Lazio nel 2008 (43 anni, età in cui stabilisce il primato di calciatore più anziano ad aver mai disputato una partita di Champions League) disputerà un intero campionato come centravanti al Calcara Samoggia centrando 24 reti in 37 presenze. Ma non è tutto, anzi, è solo l’inizio: dopo aver rescisso il contratto con i biancocelesti è iniziata, se è consentito a chi scrive, la seconda vita di Ballotta in cui non c’è soltanto la difesa dei pali della propria squadra, ma anche la messa a segno di gol, posizionandosi in ruoli che lo vedono nella trequarti di campo. Nel 2011, dopo due stagioni con il Calcara Samoggia, approda al San Cesario, dividendosi fra porta e attacco, così come tornerà a fare tra 2012 e 2014 – nuovamente – al Calcara. Sembra finita e Ballotta decide di assumersi l’incarico da dirigente del settore giovanile della neopromossa Castelvetro (Eccellenza Emiliana) ma vuole tornare fra i pali e ora è il primo portiere, a cinquant’anni e dieci mesi, della compagine modenese.