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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Fabio Belli Nazionali

San Marino, i Titani costretti costantemente ad affrontare i Giganti

di Fabio Belli

Per andare più in basso nel calcio, bisogna salire in alto: per la precisione arrampicarsi su una rocca, fin su il monte Titano, davvero non molto lontano da casa nostra, anzi, praticamente Imagea casa nostra. Quella di San Marino è infatti la nazionale più scarsa del pianeta: certo, a pari merito con le selezioni di altri microstati come Anguilla, Montserrat, Papupa Nuova Guinea e Samoa Americane. Ma negli ultimi anni è capitato spesso di vedere la Nazionale sammarinese all’ultimo posto del ranking FIFA, soprattutto quando qualcuna delle altre piccole selezioni riusciva a vincere in maniera estemporanea una partita.

La prima partita ufficiale dei Titani risale al 14 Novembre del 1990: San Marino-Svizzera 0-4 allo stadio Olimpico di Serravalle, “Wembley” putativo della selezione sammarinese e divenuto “San Marino Stadium” dopo la ristrutturazione che l’ha reso un impianto d’avanguardia, seppur di dimensioni ridotte. Da allora, in 32 anni di onorata militanza nel ranking internazionale, i risultati utili sono stati solamente 7: due amichevoli e una sfida di UEFA Nations League contro il Lichtenstein (due pari e una vittoria in amichevole, l’unico successo in una partita ufficiale), un match con la Lettonia, i più recenti pareggi contro Estonia (primo punto di sempre nelle qualificazioni agli Europei) e Gibilterra ed il risultato che resta ancora il più prestigioso, il pari casalingo contro la Turchia nelle qualificazioni per i Mondiali del 1994.

Lo strano caso di San Marino, a scorrere il ranking FIFA fino agli ultimissimi posti, infatti, è facilmente individuabile: la nazionale del Titano, al contrario di samoani e compagnia bella, è costretta a confrontarsi con autentiche leggende del calcio mondiale, e non certo in accesi derby della Micronesia, nei quali in fondo può accadere di tutto. Nelle qualificazioni ufficiali San Marino si è trovato di fronte squadre come l’Inghilterra, la Germania e l’Olanda dovendo spesso digerire sconfitte epocali. Il 2 Settembre 2011 al PSV Stadion di Eindhoven, Andy Selva e compagni hanno incassato undici gol, con quaterna di Van Persie e doppiette di Huntelaar e Sneijder. Nel 2006 contro la Germania il passivo più pesante, 0-13, in un contesto in cui San Marino è abituato a viaggiare alla media di quattro gol e mezzo incassati a partita. Il bis nel 2015, per le qualificazioni agli Europei 2016, vide i tedeschi vincere 0-8 scendendo in campo da Campioni del Mondo contro la squadra in fondo al ranking FIFA, un evento più unico che raro. Ma i biancazzurri non rinuncerebbero mai a ritrovarsi di fronte l’elite del calcio mondiale, anche a fronte di brucianti sconfitte, proprio per il sapore unico di questi appuntamenti.

Basti pensare che nel match d’andata delle qualificazione a Euro 2012 contro l’Olanda, a marcare Sneijder fresco vincitore della Champions League con l’Inter c’era Maicol (scritto proprio così) Berretti, mediano internazionale per hobby, ma di professione studente. D’altronde i professionisti sono sempre stati pochini: la maggior parte dei calciatori della nazionale a San Marino gioca nel campionato locale, il centravanti Andy Selva ha un passato rispettabile in Lega Pro, ed il giocatore più rappresentativo della storia resta l’ex juventino Massimo Bonini, che giocò da capitano nell’unico confronto ufficiale contro l’Italia, allora allenata da Arrigo Sacchi, a Cesena. La perla? Resta il gol di David Gualtieri all’Inghilterra nel ’93, San Marino in vantaggio dopo 8 secondi. Poi finì 1-7: ma vuoi mettere la soddisfazione?

 

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Francois Omam-Biyik, il salto del calcio africano oltre la propria storia

di Fabio BELLI

Il Mondiale del 1990 è stato un evento indimenticabile per gli appassionati di calcio. Un football all’epoca pieno zeppo di campioni, Maradona nell’Argentina, Roberto Baggio nell’Italia, l’Olanda di Van Basten e Gullit, i tedeschi, il Brasile dell’astro nascente Romario… insomma, un’epoca d’oro che andava a chiudere un decennio pieno di fantasia e di colori come gli anni ’80. E proprio al Pibe de Oro, in qualità di calciatore più forte del mondo e di campione iridato in carica, toccò aprire le danze del mondiale italiano nella partita inaugurale disputata al Meazza di Milano contro il Camerun.

Il calcio africano iniziava appena ad uscire dall’aspetto “pittoresco” che ne aveva contraddistinto la sua permanenza nelle competizioni internazionali dei precedenti vent’anni. Il Camerun era alla seconda partecipazione ai Mondiali e nel 1982 fece tremare gli azzurri poi Campioni del Mondo, uscendo imbattuto dal girone eliminatorio di Vigo dopo un 1-1 da batticuore contro l’Italia. Ma le prime vere squadre-sensazione del continente africano ai Mondiali furono l’Algeria nel 1982, trascinata dal “tacco di Allah” Madjer ed estromessa da un vero “biscotto” tra Austria e Germania ed il Marocco nel 1986, esaltato dai numeri degli estrosi Timoumi e Bouderbala nonché prima squadra del Continente Nero capace di superare il primo turno in un Campionato del Mondo. Il Camerun, sempre guidato in campo dall’ormai trentottenne Roger Milla, sembrava dunque la vittima sacrificale contro l’Argentina di Dieguito e Caniggia poi destinata ad arrivare di nuovo all‘atto finale della competizione.

Eppure proprio da quella partita gli sportivi di tutto il mondo inizieranno ad amare e sostenere i “Leoni Indomabili“, una generazione di calciatori che trovò le sue espressioni più talentuose nel portiere Tomas N’Kono, forgiato da anni passati nella Liga spagnola, e dallo stesso Milla, uno dei più forti attaccanti africani di tutti i tempi. Ma saranno anche tutti gli altri elementi in rosa a farsi conoscere e a conquistare le folle. A partire da quella di San Siro assolutamente incredula, dopo il fischio d’inizio, nel vedere Maradona e compagni stentare di fronte alla straripante forza atletica e alle accelerazioni devastanti del Camerun. Il tifo si schiera ben presto a favore dei “leoni indomabili”, ma la legge del più forte e del pronostico sembra compiersi inesorabilmente quando André Kana-Biyik si fa espellere lasciando il Camerun in inferiorità numerica.

Ma è a questo punto che si compie uno di quei miracoli che rendono unico il calcio: Makanaky scodella un pallone in area sul quale Francois Omam-Biyik si avventa saltando oltre le umane possibilità, come sembra evidente agli spettatori che in tutto il mondo seguono l’evento. Il portiere Pumpido, sorpreso quando ormai pensava che l’avversario non sarebbe mai arrivato all’impatto sul pallone, si lascia beffare ed il pallone si insacca in rete. E’ il gol che cambia il calcio internazionale e che apre una nuova frontiera nella quale il Camerun diverrà la prima squadra africana a piazzarsi tra le prime otto del mondo e che, soprattutto, rende la Coppa del Mondo un evento di massa anche in Africa. Nella capitale del Camerun, Yaoundè, il delirio provocato dal gol di Omam-Biyik proseguirà tutta la notte visto che i Leoni Indomabili, nonostante la chiusura del match in nove contro undici, portano a casa la vittoria contro i campioni del mondo in carica.

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Club Fabio Belli

Football Mystery 2×05: Union Berlino, nella vecchia Foresteria

di Fabio BELLI

In Germania le particolari condizioni sociopolitiche, dovute prima alla divisione e poi alla riunificazione tra Ovest ed Est, hanno portato alla nascita di società definite “Kult”, ovvero di culto, rappresentanti della controcultura. Ad Amburgo c’è il St. Pauli, i pirati col Jolly Rogers come simbolo che stazionano nel quartiere a luci rosse della città. A Berlino c’è la squadra che rappresenta l’Est, storicamente più povero ma calcisticamente fiero e, da quest’anno, per la prima volta in Bundesliga. Scopriamo dunque l’Union Berlino: nella vecchia Foresteria.

Il nucleo dell’Union nasce nel quartiere di Koepenick. I tifosi dell’Hertha, la squadra di Berlino Ovest con la quale si vivrà per la prima volta nel massimo campionato tedesco il derby della Capitale, dicono che da quelle parti è semplicemente l’inizio della Polonia. Ma Union ed Hertha sono diventate rivali solo di recente, visto che i nemici acerrimi del club di Köpenick erano quelli della Dinamo. I tempi sono quelli dell’Oberliga, anni Settanta e Ottanta. Le squadre della Germania Est vincono in Europa, ma se Carl Zeiss Jena e Magdeburgo giocano finali e alzano trofei, in patria la Dinamo Berlino sfrutta la protezione della Stasi, i potentissimi servizi segreti dell’Est, per vincere dieci scudetti di fila. I derby con la Dinamo sono partite in cui spesso le squadre si passano da 3 a 6 gol, ma la curva dell’Union è l’unica dove si possono gridare cose contro il regime che, fuori dallo stadio, costerebbero carissime. In tedesco il gioco di parole preferito è “Entfernen Sie die mauer”. Che significa sia “togliete la barriera”, sia “buttate giù il Muro”.

I cugini della Dinamo vantano sicuramente una spinta di Stato, ma l’Union, pur essendo costantemente presente nella DDR Oberliga, vince poco con una Coppa della Germania Est e una finale persa nel 1968. 52 anni fa. Si era spostato nella zona Est di Berlino negli anni ’20, nel quartiere di Köpenick. In quel periodo si è guadagnato anche il soprannome di ‘Eisern Union , l’unione di ferro. Quelli dell’Union erano chiamati ‘Schlosserjungs, i ‘ragazzi metalmeccanici’, per il completo blu da operai con cui giocava la squadra, che ricordava i lavoratori dell’acciaio.

Paradossalmente, dopo la riunificazione l’Union perde la massima serie, ma si toglie soddisfazioni importanti. Anche in terza divisione, vincendo un derby contro la Dinamo, a sua volta caduta in disgrazia, per 8-0 (all’interno dello stadio c’è un tabellone permanente che ricorda quel risultato) e giocando la Coppa UEFA, per due turni, nel 2001 dopo la finale di Coppa di Germania raggiunta e persa contro lo Schalke.

Ma se i tifosi dell’Hertha dicono che per andare a giocare contro l’Union bisogna andare in Polonia, è perché lo stadio degli “Eiserner” è uno dei più caratteristici d’Europa. Già a partire dal nome: l’An der Alten Forsterei Stadion, traducibile in “La vecchia casa del Guardiaboschi”. Sorge in mezzo alla foresta che costeggia Berlino e è un impianto che è stato salvato più volte dai tifosi. Per mantenere in vita l’An der Alten Forsterei è stata effettuata una ristrutturazione tra il 2008 e il 2013, condotta e finanziata da 2mila tifosi con 140mila ore di lavoro gratuito e circa 3 milioni di euro di finanziamenti a propria disposizione, tutti arrivati dal basso e non dal comune, come Berlino aveva promesso. Oggi, fuori dallo stadio, c’è un monumento in memoria di quell’impresa: un caschetto da lavoro rosso, con incisi tutti i nomi degli operai che hanno contribuito, senza percepire un euro, alla ricostruzione.

L’An der Alten Forsterei è stato teatro di notevoli momenti di calcio romantico. Il Mondiale del 2014 vinto dalla Germania vide migliaia di berlinesi riunirsi a Köpenick dove all’interno dell’impianto era stato predisposto un maxischermo e soprattutto 800 divani in campo, per seguire le partite della Nationalmannschaft come in un salotto tra amici. Ma la tradizione più radicata è la veglia natalizia: la Foresteria di Köpenick si riempie di tifosi e spesso anche giocatori che attendono la mezzanotte intonando gli inni dell’Union e i canti natalizi. Un’idea che partì da 89 tifosi che nel 2004 decisero di entrare clandestinamente all’Al der Alten Forsterai in ristrutturazione e attendere la mezzanotte insieme. Lo spirito del Natale ha coinvolto, nel dicembre scorso, 30.000 supporters dell’Union. E il prossimo anno le luci e le candele si accenderanno in Bundesliga.

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Calciatori Fabio Belli

Paul Breitner: il Maoista con il Libretto Rosso in una mano ed un dopobarba nell’altra

di Fabio BELLI

I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.

Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.

Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.

Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Pierre Littbarski: il Rapido di Colonia

di Alessandro IACOBELLI

Pierre il bello, il biondo, il rapido. Il 16 aprile 1960 l’edificazione del muro di Berlino era ancora un progetto in attesa di realizzazione, ma la divisione in blocchi contrapposti era già una realtà consolidata. Il ragazzino Littbarski assaggia l’ebbrezza del manto verde alle dipendenze del vivaio del Vfl Schöneberg. Il praticantato prosegue nell’Herta Zehlendorf.

Nel 1978 la freccia teutonica instaura un legame che segnerà per sempre la carriera da calciatore. Pierre è del Colonia. In Bundesliga passano in rassegna sette intense stagioni. 243 caps pedalando spedito sulla fascia destra con 89 reti ad impreziosire lo sfondo. Il palmares forse non rende merito al suo talento cristallino. La bacheca è occupata, nel complesso, da tre titoli. In biancorosso alza al cielo due Coppe di Germania, nelle finali contro Fortuna Düsseldorf (1977-1978) e nel derby contro il Fortuna Colonia (1982-1983). Il calcio totale di mister Rinus Michels esalta le sguscianti qualità di Pierre. Gli avversari, per lui, si trasformano in birilli. Sua la firma decisiva al minuto 68 ai danni del portiere Bernd Helmschrot.

La chance da mille e una notte arriva nel 1986. Il Colonia sbaraglia la concorrenza e punta dritto verso la finalissima di Coppa Uefa. C’è solo un problema: il Real Madrid. Al Bernabeu non c’è partita. Allofs illude. Sanchez, Gordillo, la doppietta di Valdano e Santillana ribaltano tutto. Il successo biancorosso nel ritorno (2-0) è una effimera consolazione.

L’annata trascorsa in Francia, con la maglia dell’RC Parigi, è una fermata quasi istantanea. La nostalgia per le origini è forte, anzi fortissima. Pierre allora ripercorre la strada di casa. Colonia punto e basta. Così sarà fino al 1993. Oltre 120 gettoni conditi da 27 marcature.
La vita, in fondo, è una continua sperimentazione. LIttbarski, per chiudere in bellezza una brillante carriera, opta per un lungo viaggio orientale. Vola in Giappone dove indosserà le casacche di JEF United e Vegalta Sendai. Si diverte e sforna giocate d’altissima scuola. Appende gli scarpini al chiodo nel ’97.

Manca il fulcro della storia: la Nazionale. Un decennio sulla cresta dell’onda con la Germania dell’Ovest. Soccombe nelle finali del 1982 (contro l’Italia) e del 1986 (con l’Argentina), ma gioisce nelle notti magiche del 1990 di nuovo al cospetto di Maradona. Prende parte inoltre ad un paio di Europei, nel 1984 e nel 1988. Derwall e Beckenbauer ringraziano.

Decisamente più movimentata la carriera da allenatore. Yokohama FC e Avispa Fukuoka le avventure giapponesi. Torna in Germania per il ruolo di assistente nel Bayer Leverkusen e nel Wolfsburg (tecnici Berti Vogts, Steve McClaren e Felix Magath), con un’esperienza come primo allenatore del Duisburg. Nel 2012 accetta la proposta di assumere le vesti di capo osservatore proprio del Wolfsburg. Nel mezzo tre incarichi certamente inusuali tra Australia, Iran e Liechtenstein. Guida appunto Sydney FC, Saipa e Vaduz.

Il biondo di Colonia non si è fermato mai, regalando tante emozioni con le sue ubriacanti incursioni. L’incubo delle difese: Pierre Littbarski.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Jurgen Sparwasser: 45 anni fa il gol che abbatté il Muro per una notte

di Fabio BELLI

In Germania Est, in pieni anni ’70, lo sport era sfoggio atletico di olimpismo. I calciatori erano prevalentemente scarti di altri sport, non molto considerati dall’opinione pubblica ma soprattutto dai vertici della DDR, interessati a propagandare la forza della Germania Orientale tramite l’atletica, la ginnastica, il nuoto. Quando le due Germanie il 22 giugno 1974 si trovarono così di fronte nella gara che assegnava la vetta nella prima fase a gironi dei Mondiali del ’74, la partita assumeva contorni socio-politici storici, ma dal punto di vista sportivo nessuno si aspettava grandi cose dalla formazione dell’Est che peraltro aveva già fatto la storia nelle due precedenti partite entrando tra le prime otto del mondo per la prima volta nella propria storia.

La corsa al primo posto sembrava di esclusivo appannaggio della Germania Occidentale: piena zeppa di campioni, passando da Beckenbauer a Gerd Muller e arrivando fino al dualismo tra Overath e Netzer, non poteva farsi sfuggire il primato del girone per regalarlo ai cugini dell’Est. Giocando in casa poi! La partita si svolgeva al Volksparkstadion di Amburgo, e la tensione cominciò a montare giorni prima del faccia a faccia. Vennero concessi 8.500 biglietti per i tifosi provenienti dall’Est, i quali solo per il giorno della partita, e strettamente per il tempo necessario al viaggio, poterono usufruire di un visto turistico per oltrepassare il muro di Berlino, marcati stretti e schedati dai VoPos che controllavano l’afflusso in entrata e in uscita. Si diceva addirittura che la Banda Baader-Meinhof, il più temuto gruppo terroristico tedesco in assoluto, fosse pronta ad imbottire lo stadio di tritolo per approfittare dell’enorme visibilità che l’evento avrebbe avuto a livello mondiale.

Fortunatamente nulla di tutto questo accadde ed anzi la partita risultò essere una delle più interessanti del Mondiale. Ci furono occasioni da gol da una parte e dall’altra, Kreische per la Germania Est e Grabowski per la Germania Ovest fallirono nel primo tempo comodissime opportunità. Gli occidentali di Helmut Schoen, col peso del pronostico, non solo in merito alla partita ma con l’intero Mondiale ed il ruolo di padroni di casa sulle spalle, non riuscirono ad esprimere al meglio il loro potenziale. Si arrivò a 13′ dalla fine col punteggio ancora in parità e la sensazione che un eventuale 0-0 finale avrebbe salvato capra e cavoli, permettendo alla RFT di chiudere in testa e alla DDR di fare bella figura smorzando così ogni tipo di eventuale tensione.

Arrivò però il minuto 78, quando dalle retrovie Kurbjuweit fece partire un lungo lancio sul quale la difesa della Germania Ovest si trovò impreparata: il centravanti Jurgen Sparwasser, stella del Magdeburgo vincitore di una Coppa delle Coppe ai danni del Milan, addomesticò la sfera di testa e, dopo averla lasciata rimbalzare, si liberò di Vogts scagliando il pallone alle spalle di un impietrito Maier. La Germania Est si prese così partita e primo posto, e per la prima volta il regime della DDR celebrò l’impresa con toni trionfalistici. Si parlò di premi grandiosi per gli eroi di Amburgo guidati dal CT Georg Buschner, che in realtà ricevettero una gratifica di soli 2500 marchi, già pattuita alla vigilia del Mondiale in caso di passaggio del turno. E se la Germania Ovest si consolò della prima sconfitta nell’unico vero derby mai disputato in un Mondiale proprio con la conquista del titolo iridato, gli alti papaveri della DDR, circa un decennio dopo, incassarono la beffa della fuga di Sparwasser verso l’Ovest: proprio lui, l’eroe di una generazione che anticipò ancora una volta i tempi, prima che il muro si sbriciolasse per sempre.

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Calciatori Fabio Belli

Gordon Banks e la parata su Pelé: la più bella di sempre

di Fabio BELLI

Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.

Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibile parata di tutti i tempi.Venne effettuata da Gordon Banks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.

Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di miglior portiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.

Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.

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Alessandro Iacobelli Le Finali Mondiali

2014: Germania-Argentina 1-0 dts. Il lampo della perfezione tedesca

di Alessandro IACOBELLI

Un lampo all’improvviso. Un guizzo che, al momento giusto, rende il calcio ad un pallone poesia a rima baciata.

Al minuto 113 dei tempi supplementari il cilindro di Mario Gotze estrae il colpo dello strike. La Germania torna sul tetto dell’universo al termine di un digiuno durato ben 14 anni. Il Mondiale in salsa brasiliana del 2014 mette a confronto nell’ultimo appuntamento il contingente teutonico e la speranzosa Argentina.

La perfezione tedesca è frutto di una generazione costruita ad arte, come naturale successione delle cocenti delusioni patite nel 2006 (in casa) e negli Europei del 2008. A Berlino riconoscono l’empasse del movimento e disegnano il progetto di rinascita. Si parte dalle fondamenta dei vivai. Strutture all’avanguardia con istruttori qualificati pongono solide basi. Bastano pochi attimi per veder fiorire talenti limpidi. Già nella spedizione sudafricana del 2010 la lista dei 23 del ct Loew annovera piccoli gioielli da curare e proteggere. In porta il monumentale Neuer. L’armadio Jerome Boateng copre la retroguardia. Le principali novità in zona nevralgica con Kroos, Muller, Khedira e Ozil. Il disegno completo vedrà la luce due anni più tardi con Reus e proprio Gotze chiamati per l’Europeo in Polonia e Svizzera. Su questi solidi mattoni floride ecco pure qualche navigata chioccia come Lahm, Schweinsteiger, Podolski e Klose.

La storia Albiceleste è diversa e particolare. Dal giubilo messicano del 1986, con un Maradona fuori dalla normalità per tecnica e forma atletica, le glorie sono andate in archivio con la parabola discendente dello stesso Pibe de oro. Eccezione che conferma la regola il paradiso solo sfiorato nel 1998 nei quarti di finale con le risate dell’Olanda di Berkamp e Davids. Opache le prestazioni nelle seguenti tre edizioni. Nel 2010 la versione aziendalista di Maradona, come Commissario Tecnico, non riconsegna Diego nella sua versione irripetibile. Passano quattro anni e l’Argentina si affida a mister Alejandro Sabella, onesto trainer chiamato dopo l’interregno fallimentare di Batista. Le convocazioni non lasciano spazio a sorprese o esclusioni da prima pagina. La grazia calcistica pullula nel reparto offensivo. C’è tutto il meglio desiderabile nel pieno della maturità. Messi, Aguero, Higuain, Lavezzi e Di Maria. Il resto dello scacchiere esterna lacune croniche che si manifestano come tasse obbligatorie.

Il 13 luglio 2014 il Maracanà è una pentola bollente. 80000 spettatori gridano, piangono, sognano e gioiscono. L’attesa svanisce. Si parte agli ordini di Rizzoli. Nel primo tempo la Germania è distratta e indolente. Il Pipita avrebbe due ghiotte occasioni ma non riesce a scartare i regali emozionandosi dinanzi a Neuer. Alla mezzora però la rete si gonfia con Gonzalo che già esulta. La terna arbitrale non è d’accordo e annulla per fuorigioco. Da quel momento in poi la compagnia tedesca sobbalza dal letto. Howedes fa tremare il palo. Kroos non dona potenza al suo destro su invito a nozze di Ozil. Messi c’è? Sì ed invia qualche squillo, ma lo stomaco sale sulle montagne russe. Lionel accusa nausea e vomito a ripetizione.

Il pareggio dura e resiste fino al novantesimo. Si va ai supplementari. Entra Palacio e si complica la vita provando un pallonetto sul portiere avversario. Un’altra chance sprecata dai sudamericani. Ci vuole concretezza, senza sconti. Scocca il 22’ della prima frazione supplementare e i tedeschi trovano il codice per aprire la cassaforte. Servizio di Schurrle per Gozte. L’asso del Borussia Dortmund addomestica la sfera con il petto e, con un sinistro al volo, cambia la sua vita ed il Mondiale. Romero è impotente e sconsolato.

La celebre massima di Gary Lineker non mente mai: “In campo 22 giocatori rincorrono un pallone e alla fine a vincere è la Germania”. Nella notte di Roma come a Rio de Janeiro. Sempre di misura, sempre contro l’Argentina. Il destino dello sport più bello è una sentenza. La birra può tornare a scorrere lungo le vie di Berlino.

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Fabio Belli Nazionali

Il calcio in Brasile: lo stato delle cose tra oro Olimpico, Brasileirao e un’onta da lavare

di Fabio BELLI

8 luglio 2014: una data molto importante per il calcio brasiliano, una sorta di punto zero nelle coordinate di un movimento che, soprattutto nel dopoguerra, è sempre stato la Stella Polare del Football mondiale. E’ il giorno del “Mineirazo”, la Germania vince 7-1 la semifinale dei Mondiali brasiliani, un punteggio da anni ’30 per un’umiliazione storica. Il Dio del Calcio ha deciso che il Brasile non alzerà mai una Coppa del Mondo al Maracanà, vecchio o nuovo che sia. Più prosaicamente, ci si rende conto che la squadra di Dunga, tenuta su con la forza della disperazione e un sorteggio non certo impossibile, senza Neymar si scioglie come neve al sole di fronte a una squadra tecnicamente, ma soprattutto atleticamente di livello superiore.

Il Mineirazo
Il Mineirazo

12 giugno 2016 (il 13 nella notte italiana). C’è ancora Dunga sulla panchina verdeoro, e questa è già una sorpresa. Due anni meno un mese dopo, nella Copa America del Centenario negli Stati Uniti, al Brasile basta un punto per accedere ai quarti di finale, contro un Perù che non batte la Selecao da ben 31 anni. Anche stavolta però accade l’incredibile, un gol di mano di Ruidiaz cambia la storia e regala al Perù sicuramente la più grande gioia calcistica del nuovo millennio, e al Brasile una nuova disfatta da smaltire. L’ultima per Dunga, che in questi due anni dal “Mineirazo” alla delusione di Foxborough, Massachussets, si è caricato sulle spalle gli oneri di una ideale traversata del deserto. E’ un Brasile senza stelle che punta ad un altro obiettivo stagionale, senza Neymar, Marcelo e Thiago Silva voltare pagina  è però molto difficile.

Perù-Brasile, la mano del destino
Perù-Brasile, la mano del destino

Due momenti neri simbolo della crisi di un movimento che dalla metà degli anni Settanta, prima che i vari Zico, Falcao, Socrates e Junior raccogliessero l’eredità di Pelé, Rivelino, Garrincha e Carlos Alberto, non viveva un vuoto tale di punti di riferimento. Nemmeno negli anni Novanta, quando la concretezza e il talento di Romario, Bebeto, Branco e dello stesso Dunga garantirono un titolo Mondiale, c’era questa sensazione. Due momenti simbolo della crisi, due date significative a braccetto però con quella che rappresenta il primo passo verso la rinascita. 20 agosto 2016, il Brasile rompe il tabù Maracanà non nei Mondiali, ma in un’Olimpiade finalmente vinta, finalmente in casa. E’ Neymar, unico simbolo possibile della riscossa del movimento calcistico verdeoro, a trasformare un rigore che sa di liberazione. Perché per il Brasile la vittoria non è mai gioia dell’inaspettato, ma fine della sofferenza.

Il sogno Olimpico è realtà
Il sogno Olimpico è realtà

Nel calcio nessuno vince per diritto divino, ma in Brasile ne sono convinti da sempre: solo la Selecao è depositaria del bel gioco e della Sacra Via per il football. Dopo anni passati a godersi i talenti cresciuti in casa e capaci di fare sfracelli all’estero, al Brasile serve una nuova generazione in grado di infiammare la fantasia dei tifosi. Il Santos, in patria laboratorio dei più grandi talenti prodotti negli ultimi venti anni, Neymar compreso, non vince da un po’ il Brasileirao. L’ultima edizione è stata vinta dal Palmeiras, che rappresenta perfettamente passato, presente e futuro, o se preferite problemi, riscatto e speranze, del calcio brasiliano. C’è ancora Zé Roberto in campo nella squadra campione del Brasile, 42 anni e oltre mille partite da professionista. Il Brasileirao è stato spesso considerato una sorta di cimitero degli elefanti, l’incapacità del football sudamericano di “rottamare” i propri miti e di fornire un’immagine competitiva del proprio campionato,

Che si scontra però con uno stadio nuovo di zecca, l’Allianz Parque, 44mila posti e 200 milioni di dollari per costruirlo, e con la presenza di un classe ’97 in squadra, Gabriel Jesus, considerato l’astro nascente del calcio brasiliano, da affiancare a Neymar per rilanciare definitivamente le sorti della Nazionale ai Mondiali di Russia 2018. Il Palmeiras, club dall’anima italiana perché fondato da migranti all’inizio del secolo scorso, ha staccato con questo successo nella classifica dei successi brasiliani proprio il Santos. Una sorta di passaggio di consegne ideali tra il club che continua a sfornare talenti da importare immediatamente in Europa (all’Inter aspettano Gabigol dopo un quadrimestre da assente ingiustificato) ed un altro che segue invece la strada del rinnovamento interno: chi vuole Gabriel Jesus dovrà sborsare più di quanto si pensa sia ragionevole per un giovane ancora digiuno di esperienza in Europa.

Gabriel Jesus, stella del Palmeiras
Gabriel Jesus, stella del Palmeiras

Dal Santos veniva anche Felipe Anderson, croce e delizia dei tifosi laziali in Italia: ma è stato proprio Gabriel Jesus a destare l’impressione maggiore alle Olimpiadi. D’altronde il Palmeiras non vinceva il Brasileirao da 22 anni, da quando nel 1994 in squadra c’erano Rivaldo e Roberto Carlos. Quando il club di “Palestra Italia” ha primeggiato in patria, il calcio brasiliano ha sempre vissuto momenti di rinascita. Anche perché una ventata di aria fresca è necessaria anche sul fronte interno: il “vecchio cane” del futebòl brasileiro, Fred, si è aggiudicato per la terza volta in cinque anni il titolo di capocannoniere del Brasileirao. Proprio lui, il più fischiato nel 2014, nel cammino che culminò con l’umiliazione del “Mineirazo”

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Calciatori Fabio Belli

Luciano Re Cecconi, un centrocampista del futuro incatenato nel passato

di Fabio Belli

Il 18 gennaio del 1977 Luciano Re Cecconi, una delle anime dello scudetto laziale del 1974, restava ucciso al culmine di un tragico scherzo. I racconti di quel tardo pomeriggio romano nella gioielleria Tabocchini si sono susseguiti senza che emergessero mai aspetti in grado di chiudere una volta per tutte la vicenda. La versione ufficiale parlano di uno scherzo al gioielliere sicuramente inopportuno visto che ci si trovava all’apice degli anni di piombo, ma assolutamente innocente nella sua dinamica. Una rapina simulata con due dita che facevano sporgere il bavero della giacca, come i bambini. E un solo colpo di pistola, fatale, dalla mira incredibilmente precisa per un gioielliere che già aveva subito altre (vere) rapine, ma non aveva certo l’attitudine di un giustiziere della notte.

Re Cecconi con Giorgio Chinaglia
Re Cecconi con Giorgio Chinaglia

Destino. E per quanto Re Cecconi era benvoluto non solo dai suoi cari, ma da tutto l’ambiente biancoceleste e del calcio nazionale, la perdita umana risulta ancora incalcolabile. Ma la vicenda anche dal punto calcistico nasconde una morale amarissima: il nome di Re Cecconi viene indissolubilmente, inevitabilmente legato alla grottesca vicenda della sua morte, quando il giocatore in sé avrebbe meritato ben altra considerazione nell’immaginario collettivo. Re Cecconi rappresentava infatti il prototipo del centrocampista moderno, una delle creature più belle della macchina costruita da Tommaso Maestrelli, scomparso per ironia macabra di quel destino cinico e beffardo che ha avvolto quella squadra, poco più di un mese prima dell’angelo biondo.

All’epoca, la Lazio del 1974 visse il suo massimo splendore di pari passo con l’apogeo dell’esplosione del calcio atletico olandese e tedesco. La finale di Monaco ’74 assunse agli occhi di tutti i contorni di una svolta epocale, nel passaggio tecnico-tattico da quelli che erano stati i contenuti del Mondiale messicano di quattro anni prima. In molti trovarono analogie tra la Lazio e quell’Olanda, ma il modello vincente che si impose in quel periodo, proprio per le vittorie conseguite sul campo, fu quello teutonico. Il Bayern Monaco tre volte campione d’Europa si contrapponeva all’altra grande del periodo, il Borussia Monchengladbach. Che a centrocampo schierava una sorta di fotocopia di Re Cecconi, Gunter Netzer: stessi capelli biondi, stessa fisionomia, stesse movenze.

Gunter Netzer
Gunter Netzer

O meglio, quasi: il dinamismo di Re Cecconi, Netzer non lo ha mai avuto. Piedi più “nobili” sì, e questo ne compensava alcune carenze nella corsa. Tanto che il tedesco, pur soffrendo in Nazionale la rivalità con i colossi del Bayern, arrivò alla maglia del Real Madrid. In Italia “Cecconetzer”, come fu ribatezzato da alcuni, restava il fulcro di una Lazio che si giovava delle sue particolarità, uomo ovunque del centrocampo capace di siglare anche gol eroici come quello contro il Milan che fece esplodere l’Olimpico all’ultimo minuto, negli anni d’oro dell’epoea di Maestrelli. In quell’inizio di 1977 la Nazionale azzurra era in piena rifondazione, pronta a vivere una rinascita che dai Mondiali argentini sarebbe culminata nel titolo del 1982. Nonostante essere fuori dal circuito delle grandi squadre del Nord avesse sempre penalizzato Re Cecconi, difficile pensare che nella rifondazione di Bearzot non ci sarebbe stato spazio per “Cecconetzer”. L’orologio della sorte si fermò però per sempre su quel maledetto 18 gennaio del 1977, e l’immagine di Re Cecconi finì incatenata a quell’assurdo, tragico scherzo, mettendo in secondo piano le straordinarie qualità del calciatore, addirittura epocali a livello tattico.

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Fabio Belli Nazionali Stadi

Malta – Germania Ovest 0-0, un sogno in pozzolana datato 1979

di Fabio Belli

L’enciclopedia Treccani riporta: “Pozzolana: Materiale piroclastico incoerente, emesso dal vulcano nella fase esplosiva e come tale costituito principalmente da piccolissimi granuli vetrosi, più o meno porosi, a cui si accompagnano piccoli cristalli di minerali diversi.” Parliamo di un materiale magico soprattutto per chi, anni fa, prima dell’avvento delle superfici sintetiche e del calcio onnipresente in televisione, faceva il pieno di partite nei campetti di periferia, o comunque nelle serie minori che non potevano permettersi un campo in erba naturale e la relativa manutenzione.

Il campetto in terra, classico e spesso contornato di tribune in legno, dove si respirava passione per un calcio non raffinatissimo tecnicamente, ma sicuramente vissuto col massimo trasporto. Abbiamo sottolineato l’avvento dell’erba sintetica, ma ancora oggi il campo in terra non è certo una rarità. Allora come ora, sarebbe quasi impensabile vedere i campioni del calcio internazionale misurarsi con una superficie del genere, se non per qualche sporadico evento di beneficenza.

E invece, nell’inverno del 1979, qualcosa di incredibile, agli occhi di chi il calcio lo segue oggi, accadde. Una partita passata già di per sé alla storia per il suo risultato: la piccola Malta ospita i colossi della Germania Ovest, nelle qualificazioni all’Europeo italiano del 1980. Una squadra che si appresta ad essere grandissima, che proprio in quell’edizione si laureerà campione d’Europa, e che nel 1982, nel 1986 e nel 1990 raggiungerà la finale dei Mondiali, vincendo nell’ultima occasione. In quella squadra è già titolare fisso Karl Heinz Rummenigge, che diventerà uno dei più forti attaccanti del calcio tedesco di sempre. Un mix tra vecchio e nuovo, con Sepp Maier in porta e il “bello” e talentuoso Hansi Muller in attacco.

Malta invece rappresenta l’estrema periferia del calcio, quando i microstati come Far Oer, Andorra e San Marino ancora non fanno parte dell’élite europea, e alle qualificazioni per la rassegna continentale sono maltesi, ciprioti e persino finlandesi a portare sulle spalle la nomea di squadra-materasso. Molto più di ora in cui ogni tanto arrivano punti in classifica e sconfitte più che onorevoli, come ad esempio quella che la nazionale maltese ha rimediato pochi giorni fa contro l’Italia di Antonio Conte.

Risultato consegnato alla storia, dicevamo, perché Malta riesce a bloccare sullo zero a zero i fortissimi tedeschi occidentali, e quello che accade sul campo di Gzira il 25 febbraio del 1979, resta nel mito del calcio maltese. Già, sul campo di Gzira: i fans di Malta ci perdoneranno se per una volta ci concentreremo non su cosa avvenne, ma su dove avvenne. Il pareggio in sé fu una sorpresa abbastanza clamorosa, detto del divario fra le due squadre, ma il cammino della Germania Ovest verso l’Italia era segnato in positivo, e quello non fu che un piccolo rallentamento nella vittoria del girone di qualificazione.

Lo zero a zero maturò però in uno stadio dove non c’era l’erba, particolare più unico che raro per una partita internazionale anche per quei tempi. E le foto che si possono ritrovare sono un fantastico anacronismo: i primi prototipi del calcio miliardario, i tedeschi occidentali che, con lo sbarco dell’Adidas e della Coca Cola nella FIFA a piedi uniti proprio a partire da Monaco ’74, hanno iniziato a girare il mondo guadagnando cifre da capogiro, costretti a guadagnarsi il ticket per l’Europeo (all’epoca ad otto squadre, e con il girone di qualificazione necessariamente da vincere) su un campetto simile a quelli che si trovano nei quartieri popolari di tutto il mondo.

Si trattava del vecchio Empire Stadium, che ospitava la nazionale in attesa che venisse approntato il National Stadium Ta’Qali a La Valletta, la capitale. Per una realtà come quella del calcio maltese, l’erba era un lusso, non certo un obbligo: e in via eccezionale, i giganti tedeschi si sarebbero adattati, considerando che il regolamento UEFA non prevedeva limitazioni sulla superficie, purché il campo fosse a norma. E così, quello 0-0 tra Malta e Germania Ovest, è rimasto nella memoria nonostante il gioco poco entusiasmante: per i maltesi, per il risultato. Per il resto del mondo, per aver visto campioni di livello assoluto disputare una partita ufficiale, forse l’ultima a livello europeo, sulla mitica pozzolana.