Il calcio in Brasile: lo stato delle cose tra oro Olimpico, Brasileirao e un’onta da lavare

di Fabio BELLI

8 luglio 2014: una data molto importante per il calcio brasiliano, una sorta di punto zero nelle coordinate di un movimento che, soprattutto nel dopoguerra, è sempre stato la Stella Polare del Football mondiale. E’ il giorno del “Mineirazo”, la Germania vince 7-1 la semifinale dei Mondiali brasiliani, un punteggio da anni ’30 per un’umiliazione storica. Il Dio del Calcio ha deciso che il Brasile non alzerà mai una Coppa del Mondo al Maracanà, vecchio o nuovo che sia. Più prosaicamente, ci si rende conto che la squadra di Dunga, tenuta su con la forza della disperazione e un sorteggio non certo impossibile, senza Neymar si scioglie come neve al sole di fronte a una squadra tecnicamente, ma soprattutto atleticamente di livello superiore.

Il Mineirazo
Il Mineirazo


12 giugno 2016 (il 13 nella notte italiana). C’è ancora Dunga sulla panchina verdeoro, e questa è già una sorpresa. Due anni meno un mese dopo, nella Copa America del Centenario negli Stati Uniti, al Brasile basta un punto per accedere ai quarti di finale, contro un Perù che non batte la Selecao da ben 31 anni. Anche stavolta però accade l’incredibile, un gol di mano di Ruidiaz cambia la storia e regala al Perù sicuramente la più grande gioia calcistica del nuovo millennio, e al Brasile una nuova disfatta da smaltire. L’ultima per Dunga, che in questi due anni dal “Mineirazo” alla delusione di Foxborough, Massachussets, si è caricato sulle spalle gli oneri di una ideale traversata del deserto. E’ un Brasile senza stelle che punta ad un altro obiettivo stagionale, senza Neymar, Marcelo e Thiago Silva voltare pagina  è però molto difficile.

Perù-Brasile, la mano del destino
Perù-Brasile, la mano del destino

Due momenti neri simbolo della crisi di un movimento che dalla metà degli anni Settanta, prima che i vari Zico, Falcao, Socrates e Junior raccogliessero l’eredità di Pelé, Rivelino, Garrincha e Carlos Alberto, non viveva un vuoto tale di punti di riferimento. Nemmeno negli anni Novanta, quando la concretezza e il talento di Romario, Bebeto, Branco e dello stesso Dunga garantirono un titolo Mondiale, c’era questa sensazione. Due momenti simbolo della crisi, due date significative a braccetto però con quella che rappresenta il primo passo verso la rinascita. 20 agosto 2016, il Brasile rompe il tabù Maracanà non nei Mondiali, ma in un’Olimpiade finalmente vinta, finalmente in casa. E’ Neymar, unico simbolo possibile della riscossa del movimento calcistico verdeoro, a trasformare un rigore che sa di liberazione. Perché per il Brasile la vittoria non è mai gioia dell’inaspettato, ma fine della sofferenza.

Il sogno Olimpico è realtà
Il sogno Olimpico è realtà

Nel calcio nessuno vince per diritto divino, ma in Brasile ne sono convinti da sempre: solo la Selecao è depositaria del bel gioco e della Sacra Via per il football. Dopo anni passati a godersi i talenti cresciuti in casa e capaci di fare sfracelli all’estero, al Brasile serve una nuova generazione in grado di infiammare la fantasia dei tifosi. Il Santos, in patria laboratorio dei più grandi talenti prodotti negli ultimi venti anni, Neymar compreso, non vince da un po’ il Brasileirao. L’ultima edizione è stata vinta dal Palmeiras, che rappresenta perfettamente passato, presente e futuro, o se preferite problemi, riscatto e speranze, del calcio brasiliano. C’è ancora Zé Roberto in campo nella squadra campione del Brasile, 42 anni e oltre mille partite da professionista. Il Brasileirao è stato spesso considerato una sorta di cimitero degli elefanti, l’incapacità del football sudamericano di “rottamare” i propri miti e di fornire un’immagine competitiva del proprio campionato,

Che si scontra però con uno stadio nuovo di zecca, l’Allianz Parque, 44mila posti e 200 milioni di dollari per costruirlo, e con la presenza di un classe ’97 in squadra, Gabriel Jesus, considerato l’astro nascente del calcio brasiliano, da affiancare a Neymar per rilanciare definitivamente le sorti della Nazionale ai Mondiali di Russia 2018. Il Palmeiras, club dall’anima italiana perché fondato da migranti all’inizio del secolo scorso, ha staccato con questo successo nella classifica dei successi brasiliani proprio il Santos. Una sorta di passaggio di consegne ideali tra il club che continua a sfornare talenti da importare immediatamente in Europa (all’Inter aspettano Gabigol dopo un quadrimestre da assente ingiustificato) ed un altro che segue invece la strada del rinnovamento interno: chi vuole Gabriel Jesus dovrà sborsare più di quanto si pensa sia ragionevole per un giovane ancora digiuno di esperienza in Europa.

Gabriel Jesus, stella del Palmeiras
Gabriel Jesus, stella del Palmeiras

Dal Santos veniva anche Felipe Anderson, croce e delizia dei tifosi laziali in Italia: ma è stato proprio Gabriel Jesus a destare l’impressione maggiore alle Olimpiadi. D’altronde il Palmeiras non vinceva il Brasileirao da 22 anni, da quando nel 1994 in squadra c’erano Rivaldo e Roberto Carlos. Quando il club di “Palestra Italia” ha primeggiato in patria, il calcio brasiliano ha sempre vissuto momenti di rinascita. Anche perché una ventata di aria fresca è necessaria anche sul fronte interno: il “vecchio cane” del futebòl brasileiro, Fred, si è aggiudicato per la terza volta in cinque anni il titolo di capocannoniere del Brasileirao. Proprio lui, il più fischiato nel 2014, nel cammino che culminò con l’umiliazione del “Mineirazo”