Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.
Il West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.
Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.
Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.
I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.
Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.
Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.
Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.
Il terzo ciclo dei racconti di Football Mystery parte con quello che viene ricordato, probabilmente, come il gol fantasma più famoso della storia del calcio. Quello che decise il Mondiale del 1966, l’unico vinto dagli inventori del football, gli inglesi. Lo segnò il gioiello della West Ham Academy Geoffrey Hurst, ma la decisione che cambiò la storia di una Coppa del Mondo la prese un guardalinee azero: l’ineffabile Bakhramov.
I FATTI
Il 30 luglio del 1966 a Wembley Inghilterra e Germania Ovest si giocano il titolo. Gli inglesi hanno la spinta del pubblico di casa, ma anche la responsabilità di non deludere una nazione intera. E i tedeschi hanno evitato la sconfitta all’89’ con un gol di Weber, che ha portato la partita ai supplementari. 2-2 al 90′, l’Inghilterra vede all’orizzonte il rischio di una beffa come quella che ha schiantato i brasiliani nel 1950. La storia la cambia una bordata di un superbo centravanti, Hurst, col pallone che sbatte sulla traversa e rimbalza sulla linea. Dentro o fuori? Da 53 anni non c’è una risposta certa a questa domanda, ed è qui che entra in gioco il nostro protagonista: Tofiq Bakhramov.
IL PERSONAGGIO
Quando il pallone va a sbattere sulla traversa e poi sulla linea, tenendo col fiato sospeso i 100.000 di Wembley e, contestualmente, tutta l’Inghilterra e la Germania, l’arbitro della finalissima non è nella posizione migliore per capire. Si tratta dello svizzero Dienst, che immediatamente va a interloquire con il guardalinee meglio posizionato. Si tratta di Bakhramov, azero di
nascita ma sovietico di rappresentanza ai Mondiali del 1966. Passano alcuni interminabili secondi, ne nasce un dialogo paradossale con Dienst che parla solo tedesco e un po’ d’inglese, l’azero oltre alla lingua madre mastica il russo. Ma quello del calcio è un linguaggio universale e Bakhramov, come dimostrerà nel seguito della sua carriera arrivando a diventare segretario della federazione dell’Azerbaigian, ha un talento naturale per la diplomazia e sa prendere la decisione giusta al momento giusto. E’ gol! E l’Inghilterra sarà campione.
LE ACCUSE
Le voci si sprecheranno. I tedeschi accusarono Bakhramov di aver deciso per vendicare l’Unione Sovietica eliminata in semifinale proprio dalla Germania Ovest anche a causa della discussa espulsione, da parte dell’arbitro italiano Concetto Lo Bello. Inoltre, seppur i replay dell’epoca non chiarissero la situazione, i tedeschi lamentavano il fatto che una nuvola di gesso si fosse alzata al momento del rimbalzo della sfera prova inequivocabile che aveva toccato, e quindi non varcato completamente, la linea. Di sicuro l’esperienza non mancava a Bakhramov che non era neanche guardalinee, ma già arbitro Nazionale del 1964. Quella decisione lo rese l’azero più influente nella storia del calcio, tanto che oggi lo stadio della capitale Baku è dedicato a lui. Ma il pallone era entrato o no?
LE CONCLUSIONI
Come detto, la certezza assoluta ancora non c’è, anche se si propende quasi all’unanimità per il no. Nel 1995 uno studio dell’università di Oxford, il più approfondito sulla questione, stabilì con l’aiuto dei computer e della tecnologia come il pallone non avesse varcato completamente la linea. Bakhramov spiegò sempre di aver visto il pallone toccare la rete e non la traversa e poi rimbalzare dentro e di non essersi dunque mai posto il problema se la sfera avesse superato o meno la fatidica linea. Una spiegazione da maestro di diplomazia, sicuramente furba, sicuramente coerente con un personaggio che con una sola decisione ebbe la freddezza di indirizzare un intero Mondiale di calcio, tanto da essere ricordato da tutti col soprannome di “ineffabile” a decenni di distanza.
Pierre il bello, il biondo, il rapido. Il 16 aprile 1960 l’edificazione del muro di Berlino era ancora un progetto in attesa di realizzazione, ma la divisione in blocchi contrapposti era già una realtà consolidata. Il ragazzino Littbarski assaggia l’ebbrezza del manto verde alle dipendenze del vivaio del Vfl Schöneberg. Il praticantato prosegue nell’Herta Zehlendorf.
Nel 1978 la freccia teutonica instaura un legame che segnerà per sempre la carriera da calciatore. Pierre è del Colonia. In Bundesliga passano in rassegna sette intense stagioni. 243 caps pedalando spedito sulla fascia destra con 89 reti ad impreziosire lo sfondo. Il palmares forse non rende merito al suo talento cristallino. La bacheca è occupata, nel complesso, da tre titoli. In biancorosso alza al cielo due Coppe di Germania, nelle finali contro Fortuna Düsseldorf (1977-1978) e nel derby contro il Fortuna Colonia (1982-1983). Il calcio totale di mister Rinus Michels esalta le sguscianti qualità di Pierre. Gli avversari, per lui, si trasformano in birilli. Sua la firma decisiva al minuto 68 ai danni del portiere Bernd Helmschrot.
La chance da mille e una notte arriva nel 1986. Il Colonia sbaraglia la concorrenza e punta dritto verso la finalissima di Coppa Uefa. C’è solo un problema: il Real Madrid. Al Bernabeu non c’è partita. Allofs illude. Sanchez, Gordillo, la doppietta di Valdano e Santillana ribaltano tutto. Il successo biancorosso nel ritorno (2-0) è una effimera consolazione.
L’annata trascorsa in Francia, con la maglia dell’RC Parigi, è una fermata quasi istantanea. La nostalgia per le origini è forte, anzi fortissima. Pierre allora ripercorre la strada di casa. Colonia punto e basta. Così sarà fino al 1993. Oltre 120 gettoni conditi da 27 marcature.
La vita, in fondo, è una continua sperimentazione. LIttbarski, per chiudere in bellezza una brillante carriera, opta per un lungo viaggio orientale. Vola in Giappone dove indosserà le casacche di JEF United e Vegalta Sendai. Si diverte e sforna giocate d’altissima scuola. Appende gli scarpini al chiodo nel ’97.
Manca il fulcro della storia: la Nazionale. Un decennio sulla cresta dell’onda con la Germania dell’Ovest. Soccombe nelle finali del 1982 (contro l’Italia) e del 1986 (con l’Argentina), ma gioisce nelle notti magiche del 1990 di nuovo al cospetto di Maradona. Prende parte inoltre ad un paio di Europei, nel 1984 e nel 1988. Derwall e Beckenbauer ringraziano.
Decisamente più movimentata la carriera da allenatore. Yokohama FC e Avispa Fukuoka le avventure giapponesi. Torna in Germania per il ruolo di assistente nel Bayer Leverkusen e nel Wolfsburg (tecnici Berti Vogts, Steve McClaren e Felix Magath), con un’esperienza come primo allenatore del Duisburg. Nel 2012 accetta la proposta di assumere le vesti di capo osservatore proprio del Wolfsburg. Nel mezzo tre incarichi certamente inusuali tra Australia, Iran e Liechtenstein. Guida appunto Sydney FC, Saipa e Vaduz.
Il biondo di Colonia non si è fermato mai, regalando tante emozioni con le sue ubriacanti incursioni. L’incubo delle difese: Pierre Littbarski.
La Coppa d’Africa regala sempre suggestioni importanti, spesso capaci di creare incroci che non hanno nulla da invidiare a quelli che, ad esempio, hanno fatto la storia dei Mondiali.
Così come nel 1974 due mondi si tesero idealmente la mano nella sfida tra Germania Est e Ovest, nell’edizione 2015 del trofeo in Guinea Equatoriale le due anime del fiume Congo si sono ritrovate di fronte. La Repubblica del Congo (capitale Brazzaville) contro la Repubblica Democratica del Congo (capitale Kinshasa), che una volta si chiamava Zaire. E che proprio in quel Mondiale, Monaco ’74, ha partecipato come prima squadra dell’Africa Nera a essere presente in una rassegna iridata, con le pressioni del regime che fecero saltare i nervi a MwepuIlunga che spazzò via la palla ancor prima che il Brasile, con lo specialista Rivelino, potesse battere un calcio di punizione.
L’Africa è un gioiello bellissimo vista dall’alto sorvolando il fiume Congo, che divide due Nazioni che si portano dietro però tutti i problemi, le contraddizioni e le sofferenze del Continente Nero. La divisione è puramente coloniale: francesi da una parte, belgi dall’altra, ma un filo sottile continua a unire le due popolazioni, tanto che prima dello scontro in Guinea Claude Le Roy, allenatore del Congo “Brazzaville”, si era detto comunque felice che il Congo, in un modo o nell’altro, in semifinale ci sarebbe stato.
La partita è stata folle e imprevedibile come solo in Coppa d’Africa può avvenire: Repubblica del Congo, sfavorita alla vigilia, avanti di due reti in apertura di ripresa dopo un primo tempo chiuso sullo zero a zero. Quindi si scatena la Repubblica Democratica del velocissimo Yannick Bolasie e del bomber Mbokani e, in meno di mezz’ora, il risultato passa sul 2-4. Quanto basta per assistere all’incredibile esultanza di Muteba Kidiaba, il portiere del Mazembe, l’unica squadra africana che abbia mai giocato una finale del Mondiale per Club (nel 2010, contro l’Inter). Kidiaba si siede e inizia a saltellare trascinandosi sul sedere, come se avesse il… didietro a molla.
Se non lo si vede, non ci si può credere: una partita comunque giocata a mille all’ora, con l’allegria tattica che potenzia la prestanza fisica di giocatori che nel calcio che conta arrivano a militare nella Serie B inglese, al Terek Grozny in Russia o al massimo alla Dinamo Kiev, come il centravanti della Repubblica Democratica, Dieumerci Mbokani. Proprio così, in francese Mbokani si chiama “grazie a Dio”. Inoltre il talento più cristallino della squadra, Kebano, numero dieci classe ’92 cresciuto nel Paris Saint Germain e passato tra le fila del Charleroi in Belgio, di nome di battesimo si chiama Neeskens. Chiaro omaggio all’asso dell’Olanda degli anni ’70, di cui Neeskens Kebano ricalca in parte le movenze. Mille storie in una insomma, come solo l’Africa sa riservare col suo calcio folle e in parte ancora spensierato.
In Germania Est, in pieni anni ’70, lo sport era sfoggio atletico di olimpismo. I calciatori erano prevalentemente scarti di altri sport, non molto considerati dall’opinione pubblica ma soprattutto dai vertici della DDR, interessati a propagandare la forza della Germania Orientale tramite l’atletica, la ginnastica, il nuoto. Quando le due Germanie il 22 giugno 1974 si trovarono così difronte nella gara che assegnava la vetta nella prima fase a gironi dei Mondiali del ’74, la partita assumeva contorni socio-politici storici, ma dal punto di vista sportivo nessuno si aspettava grandi cose dalla formazione dell’Est che peraltro aveva già fatto la storia nelle due precedenti partite entrando tra le prime otto del mondo per la prima volta nella propria storia.
La corsa al primo posto sembrava di esclusivo appannaggio della Germania Occidentale: piena zeppa di campioni, passando da Beckenbauer a Gerd Muller e arrivando fino al dualismo tra Overath e Netzer, non poteva farsi sfuggire il primato del girone per regalarlo ai cugini dell’Est. Giocando in casa poi! La partita si svolgeva al Volksparkstadion di Amburgo, e la tensione cominciò a montare giorni prima del faccia a faccia. Vennero concessi 8.500 biglietti per i tifosi provenienti dall’Est, i quali solo per il giorno della partita, e strettamente per il tempo necessario al viaggio, poterono usufruire di un visto turistico per oltrepassare il muro di Berlino, marcati stretti e schedati dai VoPos che controllavano l’afflusso in entrata e in uscita. Si diceva addirittura che la Banda Baader-Meinhof, il più temuto gruppo terroristico tedesco in assoluto, fosse pronta ad imbottire lo stadio di tritolo per approfittare dell’enorme visibilità che l’evento avrebbe avuto a livello mondiale.
Fortunatamente nulla di tutto questo accadde ed anzi la partita risultò essere una delle più interessanti del Mondiale. Ci furono occasioni da gol da una parte e dall’altra, Kreische per la Germania Est e Grabowski per la Germania Ovest fallirono nel primo tempo comodissime opportunità. Gli occidentali di Helmut Schoen, col peso del pronostico, non solo in merito alla partita ma con l’intero Mondiale ed il ruolo di padroni di casa sulle spalle, non riuscirono ad esprimere al meglio il loro potenziale. Si arrivò a 13′ dalla fine col punteggio ancora in parità e la sensazione che un eventuale 0-0 finale avrebbe salvato capra e cavoli, permettendo alla RFT di chiudere in testa e alla DDR di fare bellafigura smorzando così ogni tipo di eventuale tensione.
Arrivò però il minuto 78, quando dalle retrovie Kurbjuweit fece partire un lungo lancio sul quale la difesa della Germania Ovest si trovò impreparata: il centravanti Jurgen Sparwasser, stella del Magdeburgo vincitore di una Coppa delle Coppe ai danni del Milan, addomesticò la sfera di testa e, dopo averla lasciata rimbalzare, si liberò di Vogts scagliando il pallone alle spalle di un impietrito Maier. La Germania Est si prese così partita e primo posto, e per la prima volta il regime della DDR celebrò l’impresa con toni trionfalistici. Si parlò di premigrandiosi per gli eroi di Amburgo guidati dal CT Georg Buschner, che in realtà ricevettero una gratifica di soli 2500 marchi, già pattuita alla vigilia del Mondiale in caso di passaggio del turno. E se la Germania Ovest si consolò della prima sconfitta nell’unico vero derby mai disputato in un Mondiale proprio con la conquista del titolo iridato, gli alti papaveri della DDR, circa un decennio dopo, incassarono la beffa della fuga di Sparwasser verso l’Ovest: proprio lui, l’eroe di una generazione che anticipò ancora una volta i tempi, prima che il muro si sbriciolasse per sempre.
Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.
Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibileparata di tutti i tempi.Venne effettuata da GordonBanks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.
Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di migliorportiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.
Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.
Il 18 gennaio del 1977 Luciano Re Cecconi, una delle anime dello scudetto laziale del 1974, restava ucciso al culmine di un tragico scherzo. I racconti di quel tardo pomeriggio romano nella gioielleria Tabocchini si sono susseguiti senza che emergessero mai aspetti in grado di chiudere una volta per tutte la vicenda. La versione ufficiale parlano di uno scherzo al gioielliere sicuramente inopportuno visto che ci si trovava all’apice degli anni di piombo, ma assolutamente innocente nella sua dinamica. Una rapina simulata con due dita che facevano sporgere il bavero della giacca, come i bambini. E un solo colpo di pistola, fatale, dalla mira incredibilmente precisa per un gioielliere che già aveva subito altre (vere) rapine, ma non aveva certo l’attitudine di un giustiziere della notte.
Destino. E per quanto Re Cecconi era benvoluto non solo dai suoi cari, ma da tutto l’ambiente biancoceleste e del calcio nazionale, la perdita umana risulta ancora incalcolabile. Ma la vicenda anche dal punto calcistico nasconde una morale amarissima: il nome di Re Cecconi viene indissolubilmente, inevitabilmente legato alla grottesca vicenda della sua morte, quando il giocatore in sé avrebbe meritato ben altra considerazione nell’immaginario collettivo. Re Cecconi rappresentava infatti il prototipo del centrocampista moderno, una delle creature più belle della macchina costruita da Tommaso Maestrelli, scomparso per ironia macabra di quel destino cinico e beffardo che ha avvolto quella squadra, poco più di un mese prima dell’angelo biondo.
All’epoca, la Lazio del 1974 visse il suo massimo splendore di pari passo con l’apogeo dell’esplosione del calcio atletico olandese e tedesco. La finale di Monaco ’74 assunse agli occhi di tutti i contorni di una svolta epocale, nel passaggio tecnico-tattico da quelli che erano stati i contenuti del Mondiale messicano di quattro anni prima. In molti trovarono analogie tra la Lazio e quell’Olanda, ma il modello vincente che si impose in quel periodo, proprio per le vittorie conseguite sul campo, fu quello teutonico. Il Bayern Monaco tre volte campione d’Europa si contrapponeva all’altra grande del periodo, il Borussia Monchengladbach. Che a centrocampo schierava una sorta di fotocopia di Re Cecconi, Gunter Netzer: stessi capelli biondi, stessa fisionomia, stesse movenze.
O meglio, quasi: il dinamismo di Re Cecconi, Netzer non lo ha mai avuto. Piedi più “nobili” sì, e questo ne compensava alcune carenze nella corsa. Tanto che il tedesco, pur soffrendo in Nazionale la rivalità con i colossi del Bayern, arrivò alla maglia del Real Madrid. In Italia “Cecconetzer”, come fu ribatezzato da alcuni, restava il fulcro di una Lazio che si giovava delle sue particolarità, uomo ovunque del centrocampo capace di siglare anche gol eroici come quello contro il Milan che fece esplodere l’Olimpico all’ultimo minuto, negli anni d’oro dell’epoea di Maestrelli. In quell’inizio di 1977 la Nazionale azzurra era in piena rifondazione, pronta a vivere una rinascita che dai Mondiali argentini sarebbe culminata nel titolo del 1982. Nonostante essere fuori dal circuito delle grandi squadre del Nord avesse sempre penalizzato Re Cecconi, difficile pensare che nella rifondazione di Bearzot non ci sarebbe stato spazio per “Cecconetzer”. L’orologio della sorte si fermò però per sempre su quel maledetto 18 gennaio del 1977, e l’immagine di Re Cecconi finì incatenata a quell’assurdo, tragico scherzo, mettendo in secondo piano le straordinarie qualità del calciatore, addirittura epocali a livello tattico.
Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico da una parte. Maier, Hanser, Rohr, Schwarzenbeck, Beckenbauer, Kappelmann, Hadewicz, Durnberger, Muller, Hoeness e Wunder dall’altra. La prima è una formazione ben conosciuta dai tifosi della Lazio, quella dello storico primo scudetto del ’74. Il secondo è un gruppo entrato a pieno diritto nella leggenda del calcio, quello che ha sdoganato il calcio tedesco di club ai massimi livelli a livello internazionale. Ovvero, il Bayern Monaco per tre volte Campione d’Europa tra il ’74 ed il ’76. Si tratta solo di un’amichevole, giocata all’Olimpico di fronte ad oltre 50.000 spettatori, ma il match assumerà una valenza simbolica importantissima, perché sarà l’unica passerella europea di un certo spessore da parte della “Banda del ’74”.
La partita si disputa di martedì il 17 settembre del 1974, una data scelta non a caso, perché il giorno dopo la Lazio, fresca del trionfo in campionato del 12 maggio, avrebbe dovuto esordire nella massima competizione continentale. Per giocare la prima sfida in Coppa dei Campioni la Lazio dovrà invece attendere altri 25 anni, quando il torneo si è già trasformato in Champions League, nella sua prima sfavillante edizione a 32 squadre. Questo perché i biancocelesti pagarono salatissimi gli incidenti dell’anno prima in Coppa UEFA, nel match di ritorno dei sedicesimi di finale contro l’Ipswich Town. Una situazione che portò alla squalifica dalle Coppe Europee la Lazio, che contava però sull’intercessione di Artemio Franchi, all’epoca potentissimo dirigente calcistico italiano e soprattutto presidente dell’UEFA, per vedersi rivolto un atto di clemenza, e poter essere presente all’appuntamento con la storia.
Probabilmente è stata però proprio la politica a chiudere l’ultimo portone tra la Lazio e l’Europa: la squadra di Maestrelli era vista come una magnifica meteora, e al momento degli incidenti contro l’Ipswich, nell’autunno del 1973, in pochi in Italia pensavano che l’exploit della stagione precedente, con lo scudetto perduto per il gol di Damiani a Napoli a 2 minuti dalla fine del campionato, avrebbe potuto essere ripetuto. L’assenza di una formazione italiana nella Coppa dei Campioni 1974/75 era vista come un danno di immagine anche dai vertici federali, che non si adoperarono da subito sul caso Lazio-Ipswich, proprio perché pensavano che al massimo i biancocelesti sarebbero stati assenti dalla Coppa UEFA dell’anno successivo.
E invece, verso l’aprile del 1974 fu chiaro che il miracolo sfiorato l’anno precedente, si sarebbe compiuto: un’ingerenza pesante di Franchi a quel punto sarebbe stata vista come ad uso e consumo della federazione italiana, e il tempo giocò semplicemente a sfavore di Chinaglia e compagni. Quell’amichevole del settembre ’74 fu dunque solo un flash di quello che poteva essere e non è stato. All’epoca la leggenda del Bayern era appena iniziata, con la conquista della prima Coppa dei Campioni dei bavaresi nell’incredibile finale di Bruxelles contro l’Atletico Madrid, e con il titolo Mondiale nella finale, disputata proprio a Monaco, contro l’Olanda di Crujyff. Proprio il modello al quale era accostata la Lazio di Maestrelli, capace di portare in Italia dinamismo, squadra corta, diagonali degli esterni difensivi e particolarità fino a quel momento sconosciute alla tattica della Serie A.
Quella squadra, ansiosa di confrontarsi contro formazioni come il Leeds di Bremner e Lorimer (poi finalista in quell’edizione proprio contro il Bayern), il Barcellona di Crujyff, il Borussia Monchengladbach di Gunter Netzer e con lo stesso Bayern, dovette accontentarsi di quella passerella con Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Schwarzenbeck, l’uomo che aveva strappato con il suo gol nel recupero dei supplementari la Coppa all’Atletico Madrid garantendo la ripetizione del match al Bayern, portò in vantaggio i tedeschi, ma la Lazio rispose nel finale con Franzoni, attaccante di riserva ricordato soprattutto per un suo gol nel derby d’andata nella stagione dello scudetto. Rimase un flash, un rimpianto, forse la conferma della consapevolezza di potersi giocare qualcosa di importante al gran ballo delle Grandi d’Europa: ma l’invito, alla fine, non arrivò mai per quella squadra pazza e meravigliosa.
L’enciclopedia Treccani riporta: “Pozzolana: Materiale piroclastico incoerente, emesso dal vulcano nella fase esplosiva e come tale costituito principalmente da piccolissimi granuli vetrosi, più o meno porosi, a cui si accompagnano piccoli cristalli di minerali diversi.” Parliamo di un materiale magico soprattutto per chi, anni fa, prima dell’avvento delle superfici sintetiche e del calcio onnipresente in televisione, faceva il pieno di partite nei campetti di periferia, o comunque nelle serie minori che non potevano permettersi un campo in erba naturale e la relativa manutenzione.
Il campetto in terra, classico e spesso contornato di tribune in legno, dove si respirava passione per un calcio non raffinatissimo tecnicamente, ma sicuramente vissuto col massimo trasporto. Abbiamo sottolineato l’avvento dell’erba sintetica, ma ancora oggi il campo in terra non è certo una rarità. Allora come ora, sarebbe quasi impensabile vedere i campioni del calcio internazionale misurarsi con una superficie del genere, se non per qualche sporadico evento di beneficenza.
E invece, nell’inverno del 1979, qualcosa di incredibile, agli occhi di chi il calcio lo segue oggi, accadde. Una partita passata già di per sé alla storia per il suo risultato: la piccola Malta ospita i colossi della Germania Ovest, nelle qualificazioni all’Europeo italiano del 1980. Una squadra che si appresta ad essere grandissima, che proprio in quell’edizione si laureerà campione d’Europa, e che nel 1982, nel 1986 e nel 1990 raggiungerà la finale dei Mondiali, vincendo nell’ultima occasione. In quella squadra è già titolare fisso Karl Heinz Rummenigge, che diventerà uno dei più forti attaccanti del calcio tedesco di sempre. Un mix tra vecchio e nuovo, con Sepp Maier in porta e il “bello” e talentuoso Hansi Muller in attacco.
Malta invece rappresenta l’estrema periferia del calcio, quando i microstati come Far Oer, Andorra e San Marino ancora non fanno parte dell’élite europea, e alle qualificazioni per la rassegna continentale sono maltesi, ciprioti e persino finlandesi a portare sulle spalle la nomea di squadra-materasso. Molto più di ora in cui ogni tanto arrivano punti in classifica e sconfitte più che onorevoli, come ad esempio quella che la nazionale maltese ha rimediato pochi giorni fa contro l’Italia di Antonio Conte.
Risultato consegnato alla storia, dicevamo, perché Malta riesce a bloccare sullo zero a zero i fortissimi tedeschi occidentali, e quello che accade sul campo di Gzira il 25 febbraio del 1979, resta nel mito del calcio maltese. Già, sul campo di Gzira: i fans di Malta ci perdoneranno se per una volta ci concentreremo non su cosa avvenne, ma su dove avvenne. Il pareggio in sé fu una sorpresa abbastanza clamorosa, detto del divario fra le due squadre, ma il cammino della Germania Ovest verso l’Italia era segnato in positivo, e quello non fu che un piccolo rallentamento nella vittoria del girone di qualificazione.
Lo zero a zero maturò però in uno stadio dove non c’era l’erba, particolare più unico che raro per una partita internazionale anche per quei tempi. E le foto che si possono ritrovare sono un fantastico anacronismo: i primi prototipi del calcio miliardario, i tedeschi occidentali che, con lo sbarco dell’Adidas e della Coca Cola nella FIFA a piedi uniti proprio a partire da Monaco ’74, hanno iniziato a girare il mondo guadagnando cifre da capogiro, costretti a guadagnarsi il ticket per l’Europeo (all’epoca ad otto squadre, e con il girone di qualificazione necessariamente da vincere) su un campetto simile a quelli che si trovano nei quartieri popolari di tutto il mondo.
Si trattava del vecchio Empire Stadium, che ospitava la nazionale in attesa che venisse approntato il National Stadium Ta’Qali a La Valletta, la capitale. Per una realtà come quella del calcio maltese, l’erba era un lusso, non certo un obbligo: e in via eccezionale, i giganti tedeschi si sarebbero adattati, considerando che il regolamento UEFA non prevedeva limitazioni sulla superficie, purché il campo fosse a norma. E così, quello 0-0 tra Malta e Germania Ovest, è rimasto nella memoria nonostante il gioco poco entusiasmante: per i maltesi, per il risultato. Per il resto del mondo, per aver visto campioni di livello assoluto disputare una partita ufficiale, forse l’ultima a livello europeo, sulla mitica pozzolana.
79. E’ forse meno appariscente degli altri, ma Thomas Müller come protagonista dei Mondiali calza alla perfezione. Archetipo del falso nueve, calciatore dalle grandi doti di duttilità, stella del Bayern Monaco, è già arrivato in giovane età a quote nove reti in nove partite disputate nella competizione iridata, segno che se tutto andrà come deve andare, il record Ronaldo-Klose forse non durerà a lungo. La Germania in Brasile vuole coronare un percorso che dal 2006 ad oggi, tra Mondiali ed Europei, l’ha sempre vista tra le prime quattro: terza nel 2006, seconda nel 2008, terza nel 2010, in semifinale nel 2012. E’ il simbolo di una generazione tedesca che dopo la doppia eurofiguraccia 2000-2004 (che fu comunque intervallata, tanto per gradire, da una finale Mondiale), vuole riassaporare cosa significhi vincere: perché avrà ragione Gary Lineker che tanto nel calcio “alla fine vincono i tedeschi”, ma è anche vero che è da Oliver Bierhoff e dal 1996 che una coppa non viene alzata da mani teutoniche.
80. A Barack Obama il calcio piace: gli Stati Uniti contro il Belgio affronteranno negli ottavi di finale un esame di maturità importante, ma questa Nazionale yankee è stata forse la più seguita della storia, anche di quella che nel 2002, piazzandosi tra le prime otto per la prima volta nell’era moderna, insegnò che si poteva sognare anche col soccer. Quando nel 2009 gli USA persero la finale di Confederations Cup contro il Brasile, rimontati da 2-0 a 3-2, Obama si scatenò con un derby a distanza col presidente brasiliano Lula, con tanto di scambio di maglie finale. Alla squadra di Klinsmann manca forse l’uomo in grado di fare la differenza, ma l’appoggio dei piani alti è senz’altro un’iniezione di popolarità supplementare ed utilissima per la Nazionale.
81. Abbiamo già parlato di volti noti del cinema e della televisione che hanno manifestato il loro appoggio alla Nazionale USA. Will Ferrell, “pizzicato” ad arringare i tifosi in un bar, si aggiunge ad una lista già molto lunga. Già, ma passata l’iniziale curiosità, che in un bar del Kentucky o in una steakhouse nell’Iowa può assomigliare a quella di un italiano per il curling in tempo di Olimpiadi, come si approcciano gli americani al soccer? L’analisi dei flussi della rete aiuta a capire meglio il tutto. Da una parte, Google ha registrato che durante il match contro il Ghana, la domanda più cercata sul celebre motore di ricerca è stata “How long is a soccer game?”, indicativa di un certo disorientamento. Su Twitter però, al momento del gol di Muller, i tweet con la parola “Nazi” o “Nazis” hanno avuto un’impennata vertiginosa. Segno evidente che il tipico campanilismo del tifo calcistico si sta affermando anche nella sua versione a stelle e strisce.
Portogallo – Ghana 2-1
82. Il Mondiale ha perso il Pallone d’Oro: verdetto prevedibile dopo la mancata vittoria portoghese contro gli Stati Uniti, ma difficile da digerire per una Nazionale storicamente ricchissima di talenti, ma che non riesce a risolvere il problema del centravanti dall’alba dei tempi, annoverando tra i miti di ogni epoca onesti ma modesti bomber come Nuno Gomes e Pauleta. La presenza di Helder Postiga è stata in questo senso indicativa. Cristiano Ronaldo è arrivato in Brasile con la pancia piena del suddetto Pallone d’Oro e della “Decima” conquistata con il Real Madrid. Le sue ultime due prestazioni, dopo quella incolore contro la Germania, sono state in crescendo, ma un uomo solo non fa la squadra. A meno che non si tratti di Messi, e questa probabilmente è la grande preoccupazione di CR7 da qui alla fine di Brasile 2014.
83. Il Mondiale ha detto che al calcio africano manca la necessaria maturità. Il caso del Ghana è stato eclatante. La furibonda lite tra Muntari e Kevin Prince Boateng, entrambi esclusi alla vigilia della decisiva partita contro i lusitani, e dei premi pretesi, consegnati e distribuiti in contanti, è la prova lampante di una polveriera presente in una squadra che contro Stati Uniti e Germania aveva dimostrato di essere competitiva nei piedi, ma non con la testa.
Corea del Sud – Belgio 0-1
84. L’esplosione della Fellaini-mania sugli spalti dimostra come il pubblico creda nel grande exploit dei Diavoli Rossi. Che mai avevano chiuso il girone eliminatorio ai Mondiali a punteggio pieno, e che anche contro i coreani sono rimasti fedeli alla cosiddetta zona-Belgio, con tutti i gol fin qui realizzati negli ultimi venti minuti.
Algeria – Russia 1-1
85. La storia dell’ex URSS ai Mondiali è affascinante, ricca di soprusi arbitrali (1962, 1970, 1986) e di grandi occasioni mancate (1966, 1982). Dallo scioglimento dell’impero sovietico, però, il fascino ha lasciato spazio all’approssimazione, e la sola scuola russa non è parsa in grado, nonostante l’abbondanza di mezzi economici (Fabio Capello si è presentato in Brasile come CT più pagato dei Mondiali) di mostrare qualcosa di significativo sul campo, l’unico luogo dove la storia si possa tramandare nel calcio. Il CT italiano ha recriminato molto per questa nuova eliminazione, ma restano impresse nella mente più le papere del portiere Akinfeev, ed una incapacità cronica nel fare gioco, che si è ripercossa nei due soli punti conquistati, al di là degli sprazzi dimostrati contro il Belgio.
86. La storia dell’Algeria invece si ritrova di fronte alla possibilità di un nodo gordiano, a 32 anni di distanza. Alla soddisfazione per la prima qualificazione tra le prime sedici del mondo nella storia, si aggiunge la formidabile possibilità di vendetta, quando nel 1982 la squadra di Madjer, dopo aver battuto la Germania Ovest, si ritrovò fuori a causa di una clamorosa “pastetta” tra i tedeschi e gli austriaci, che giocarono una partita col freno a mano tirato per approdare a braccetto alla seconda fase. Fantasiosa e veloce in attacco, forse un po’ approssimativa nelle chiusure difensive, la squadra algerina sogna la più clamorosa delle vendette: anche se sarà dura, contro una delle favorite del Mondiale, ma la vendetta, fredda così come deve essere, non è mai stata un piatto facile da cucinare.
57. I Diavoli Rossi stanno vincendo e rispettando il pronostico della vigilia, ma a modo loro. Quello tra Belgio e Olanda è uno dei derby più antichi d’Europa, ma le filosofie di gioco della due Nazionali sono sempre state (soprattutto dagli anni ’70 in poi) molto differenti. Cinico, pratico ed essenziale il Belgio, spesso travolgente, esaltante e un po’ sciupona l’Olanda. Il carico di talenti con cui la squadra di Wilmots si è presentata in Brasile quest’anno, non ha cambiato questa tendenza. Ciò che è diverso, e ne avevamo già parlato, è il carico di entusiasmo con cui i tifosi in patria stanno seguendo Fellaini e compagni. Gli ottavi sono conquistati, ma il sogno è emulare gli eroi di Messico ’86, quarti.
Corea del Sud – Algeria 2-4
58. Ci agganciamo perfettamente all’argomento “migliori prestazioni” e all’argomento “derby”. Nel primo caso, l’Algeria che si giocherà la qualificazione contro la Russia, se non avesse mostrato lacune in difesa piuttosto importanti, potrebbe pensare di superare la squadra del 1982, che stupì il mondo battendo la Germania Ovest poi finalista, per poi ritrovarsi esclusa a causa di un atteggiamento abbastanza “permissivo” degli austriaci nei confronti degli stessi tedeschi nell’ultimo match del girone. Nel secondo caso, la Corea del Sud ha attirato il tifo contrario dei cugini del Nord: ha fatto il giro del mondo la foto di Kim Jong Un con tanto di sciarpa dell’Algeria. Quella fra i dittatori e il calcio è una storia che dura da molti anni, e visto che la Corea del Nord non si è qualificata, Kim Jong Un si è lasciato andare ad una botta di “Schadenfreude”.
Stati Uniti – Portogallo 2-2
59. Una delle più belle partite di un Mondiale fin qui prodigo di spettacolo. Il “Team USA” di Klinsmann è andato ad un passo da una clamorosa qualificazione anticipata agli ottavi. Il gol di Varela di un Portogallo sovrastato nel secondo tempo ha rovinato tutto, ma complice anche il fuso orario finalmente favorevole (non succedeva dal Mondiale giocato in casa) il seguito verso Dempsey (ancora in gol!) e compagni sta raggiungendo livelli da record. Le star del cinema e delle serie televisive americane si accodano ad un sostegno fin qui riservato solo agli assi del football e del basket. Jim Parsons, alias Sheldon Cooper di Big Bang Theory, ha manifestato tutto il suo tifo per gli Stati Uniti ai Mondiali, e la CBS ha dedicato uno speciale a come le sue stelle stanno seguendo Brasile 2014.
60. Messi vs. Ronaldo 2-0. Il campo dice impietosamente questo, con l’Argentina già agli ottavi ed il Portogallo a rischio di una clamorosa eliminazione al primo turno. Questo nonostante il Pallone d’Oro contro gli USA abbia regalato magie che contro la Germania non si erano viste. L’assist finale per Varela, straordinario, ma soprattutto il numero nel primo tempo, forse la giocata individuale più bella del Mondiale fino a questo momento, escludendo i gol che meritano sempre un discorso a parte, e che CR7 finora non ha ancora trovato in Sudamerica.
Australia – Spagna 0-3
61. Nella formula dei Mondiali, arrivare alla terza della partita del girone con una sfida tra due squadre già eliminate è un evento raro ma possibile. Il fatto che in questa malinconica passerella siano coinvolti i Campioni del Mondo è decisamente più inusuale: la Spagna ha salvato la faccia, ma il biglietto di ritorno era già in tasca per Casillas e compagni. Analizzare il declino di una squadra che ha fatto epoca è ancora più difficile che individuarne le ragioni del successo. Sicuramente Casillas negli ultimi sei anni aveva salvato delle partite, piuttosto che comprometterle; sicuramente l’ascesa di Piqué si è arrestata, e la mancanza di un leader come Puyol in difesa è tangibile. Sicuramente un giocatore come Xavi, non per niente pronto alla partenza verso lande arabe, non nascerà di nuovo facilmente, e il fatto che la squadra che ha vinto tutto senza centravanti, si sia inceppata all’arrivo di Diego Costa, sicuramente non è un caso. Ma è sicura anche la gratitudine di un paese che ha visto le Furie Rosse superare un complesso secolare proprio grazie a questi eroi al crepuscolo. L’ironia, che in questi casi ci sta, è arrivata prevalentemente dall’estero…
Olanda – Cile 2-0
62. Arjen Robben è sempre stato uno strano tipo di calciatore: i mezzi per diventare il più forte li ha sempre avuti. Il magnetismo glamour di Ronaldo e la continuità di Messi no, né la cattiveria di un Ibrahimovic. Complici anche gli infortuni che raramente lo hanno lasciato in pace. Quando è stato bene, sia al Bayern Monaco che in Nazionale, ha dimostrato però di poter cambiare da solo il volto delle partite. Qualcuno gli ha sempre rimproverato un pizzico di egoismo, e di imprecisione sotto porta: conto il Cile, da assist-man, ha dimostrato che un’Olanda arrivata in sordina in Brasile, può sognare la vendetta, quando in Sudafrica proprio Robben vide il sogno di un’intera Nazione infrangersi di fronte a Casillas.
Camerun – Brasile 1-4
63. E se tra i due litiganti fosse il terzo a godere? Nella grande attesa Mondiale della sfida a distanza tra Messi e Ronaldo, nessuno ha forse considerato che Neymar può contare su una spinta popolare senza precedenti. Il mondo si emoziona nel sentire tutto lo stadio, prima delle partite della Selecao, cantare la seconda strofa dell’inno senza l’accompagnamento musicale. E Neymar è finora protagonista di una squadra non del tutto convincente, ma capace di mandare già quattro volte in gol l’asso del Barcellona, che sembra particolarmente forgiato dall’anno, duro, trascorso in Europa. Dagli ottavi e dal Cile, il gioco si farà duro: vedremo se Neymar sarà già in grado di giocare: l’occasione di un Mondiale da vincere da eroe, in casa, di sicuro non capiterà più.
64. Nel cuore di tifosi ed appassionati, il Camerun del 1990 resta la squadra africana più bella ed amata mai passata in un Campionato del Mondo. Roger Milla, Thomas N’Kono, e la cavalcata fino agli spettacolari quarti di finale perduti contro l’Inghilterra. Per questo, quanto messo in mostra dai “Leoni Indomabili” in Brasile è stato un qualcosa di malinconico. Dalla stucchevole lite sui premi, ironica per una squadra incapace di raccogliere anche solo un punto del girone, a Samuel Eto’o chiuso in una gabbia dorata, infortunato e incapace di lasciare un vero segno in un Mondiale. Della squadra di 24 anni fa capace di contagiare con allegria ed entusiasmo chiunque la guardasse, nemmeno l’ombra.
Croazia – Messico 1-3
65. Comunque vada a finire, questo è stato l’anno delle forte personalità in panchina, i “caudillos” capaci di portare outsider alla vittoria. Diego Simeone all’Atletico Madrid ne è l’esempio più lampante, ma anche il “Piojo” Hector Herrera, corpulento e sanguigno CT del Messico, non si sta rivelando da meno. Le sue sfrenate esultanze stanno diventando letteralmente di culto, e chissà se l’organizzazione trovata non possa portare il “Tri” (che ancora deve subire un solo gol) dove non è mai ancora arrivato finora.