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Alessandro Iacobelli Calciatori

Il calciomercato iniziò con Jeppson al Napoli

La storia del primo trasferimento milionario del calcio italiano, che portò per la prima volta una trattativa calcistica ad assumere tutti i contorni dello show business

105 milioni di lire per infiammare un popolo. Achille Lauro tanti ne sborsa nella calda estate del 1952 per portare a Napoli Hasse Jeppson. Una trattativa dai contorni cinematografici condita da aneddoti e leggende metropolitane tramandate nei decenni. Si è parlato di una valigia piena di banconote consegnate da ‘O Comandante al patron dell’Atalanta Turani nelle segrete stanze di un albergo in via Veneto a Roma, o precedentemente della medesima cifra scritta dall’armatore su un tovagliolo, dinanzi ad una tavola imbandita, per convincere il numero uno dei bergamaschi a cedere alle lusinghe partenopee.

A Lauro serviva un’operazione tecnico-mediatica strabiliante per consolidare la compagine azzurra nei piani nobili del calcio italiano e, soprattutto, per mettere in ghiaccio un potere politico sul territorio campano e meridionale corroborato da percentuali bulgare registrate nei vari appuntamenti elettorali. Achille, d’altronde, era pure un sagace editore e non poteva certo ignorare la rilevanza dei messaggi letti dalla popolazione su carta.

Jeppson era la punta che mancava al Napoli dell’epoca. Svedese di nascita, 1 metro e 80 di altezza, corre e segna in patria con la casacca del Djurgården (58 reti in 51 apparizioni). Atterra poi in Inghilterra, per motivi di studio e lavoro, dove viene ingaggiato dal Charlton Athletic. Tocca la doppia cifra di gol in sole 8 gare disputate, con la ciliegina di una pregevole tripletta all’Arsenal, e viene segnalato agli osservatori dell’Atalanta che non ci pensano su due volte assicurandosi le prestazioni di Hasse per la stagione ’51-’52. Il centravanti scandinavo è una macchina da guerra anche in Serie A dove trafigge i portieri avversari 27 volte in 22 presenze. A questo punto i tempi sono maturi all’ombra del Vesuvio.

E’ il momento. Achille fa carte false, smuove acque, ragiona, disegna mentalmente le mosse da compiere, infine agisce. Jeppson firma per un valore monstre paragonabile al bilancio del Banco di Napoli. Da qui la celebre frase ancora oggi scolpita nel mare e nel cielo del capoluogo campano. Lo svedese rimane a Napoli fino al 1956 tra alti e bassi, accese discussioni con Presidente e allenatori (in particolare non facile il rapporto con Monzeglio), mondanità e un rapporto di viscerale affetto intrecciato con il popolo partenopeo. Nel caratteristico e mai dimenticato stadio del Vomero “Arturo Collana” la tifoseria esulta e impreca nel giro di pochi istanti. Il folclore si mescola con i bollenti spiriti tipici della passione calcistica. “Uanema ‘e Jeppson” e “Mannaggia ‘a Jeppson!” sono affermazioni che spiegano meglio di ogni altra cosa il contesto misto tra teatro e sport di quel tempo.

Ottimo quarto posto comunque il primo anno con 14 gol messi a segno. Quinta piazza nel secondo con altri 20 centri a referto. Sesta posizione nel 1954-1955 con un rendimento meno roboante (10 marcature realizzate). Nell’ultima annata in azzurro, quella ’55-’56 Jeppson condivide il reparto offensivo con il talento brasiliano Luis Vinicio, appena arrivato dal Botafogo. ‘O Lione si scatena siglando 16 gol, mentre Hasse esulta in 8 circostanze. La squadra però, guidata in panchina prima da Monzeglio e poi da Amadei, archivia un difficile campionato al quattordicesimo posto. Un gruppo, impreziosito da due pedine di livello come Bruno “Petisso” Pesaola e Vitali, più che discreto ma evidentemente ancora non in grado di spiccare il volo.

La carriera agonistica dell’attaccante svedese dura solo un’altra stagione, 1956-1957, con la maglia del Torino. In granata torna ad assaporare la doppia cifra di reti strappando sovente standing ovation da parte del pubblico. Senza dimenticare ovviamente le valide prove con i colori della propria Nazionale (12 gol complessivi) e la partecipazione al Mondiale del 1950 chiuso al terzo gradino del podio.

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Fabio Belli Presidenti

Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Calciatori Fabio Belli

Gordon Banks e la parata su Pelé: la più bella di sempre

di Fabio BELLI

Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.

Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibile parata di tutti i tempi.Venne effettuata da Gordon Banks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.

Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di miglior portiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.

Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.

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Senza categoria Valerio Fabbri

C’era una volta la schedina: vita, miracoli e declino di un feticcio calcistico per eccellenza

di Valerio Fabbri

Si parla spesso di come il calcio moderno abbia stravolto le nostre abitudini pallonare. Prima ci si riuniva al bar per commentare le partite in base alle cronache del lunedì. Poi subentrò la radio, che permetteva di fantasticare e sognare in diretta. Poi arrivarono le reti private e le dirette con commenti dagli studi televisivi, e il bar dalla strada si trasferì sul piccolo schermo. Ma le partite domenicali rimanevano pur sempre un’emozione da vivere più che da vedere in diretta. Il sentimento era sempre lo stesso, perché il calcio spezzatino che caratterizza questo secondo millennio era pura fantascienza nemmeno quindici anni fa. Il pranzo domenicale, per gli italioti amanti del pallone, era ritmato dalle partite in contemporanea, sempre e comunque, durante tutto il campionato, con una sola ora di differenza del calcio di inizio fra estate e inverno. Prima ancora della mitica tramissione di Radio Rai “Tutto il calcio minuto per minuto”, nelle abitudini dei fanatici del pallone entrò la schedina del Totocalcio, un appuntamento fisso che è andato perso e si è annacquato insieme a tante altre piccole e grandi tradizioni (i numeri dall’1 all’11, le maglie classiche e non in stile militare, etc.). Se è ben nota la fine ingloriosa della schedina, la sua nascita lo è molto meno. Già negli anni ’30 ci fu un tentativo di creare un concorso pronostici legato al calcio. Il pallone già riempiva a tal punto le domeniche degli italiani che Leandro Arpinati, romagnolo e sodale di Mussolini dalla prima ora, nonché presidente della F.I.G.C., ideò un concorso legato al campionato sulla falsariga delle lotterie, varate dalle menti economiche del fascismo per aiutare le dissestate finanze dello Stato. Tuttavia Achille Starace, fascista “diciannovista” e presidente del C.O.N.I., si oppose strenuamente e affossò l’idea di Arpinati, temendo di finire in ombra. Per ironia della sorte ci volle l’intraprendenza di un ebreo triestino, ex giornalista della Gazzetta dello Sport, Massimo Della Pergola, per ridare vigore all’iniziativa di Arpinati. Costretto a lasciare prima la professione e poi il paese in seguito alle leggi razziali, Della Pergola si ritrova internato in Svizzera in un campo sulle rive del Rodano, matricola 21915. Per scongiurare la depressione, per ridare slancio al calcio italiano nel dopoguerra, o semplicemente per evadere dalla difficile realtà di un campo di concentramento e sognare un domani negato, Della Pergola iniziò a dare forma ad un concorso di pronostici basati sulla competenza calcistica e non sulla dea bendata, come le lotterie. L’idea fu tanto semplice quanto geniale, per certi versi simile a quanto già accadeva in Gran Bretagna e in Scandinavia, ma i suoi calcoli, le sue ipotesi di lavoro, i suoi sogni non trovarono finanziatori: c’era da pensare ad altro nel dopoguerra, il calcio è un palliativo, si sentiva rispondere. Della Pergola però non rinunciò alla sua idea: come poteva abbandonare il sogno che lo ha tenuto in vita in quei giorni difficili? Decise quindi di proseguire per la sua strada, pur accollandosi molti debiti. Con i colleghi svizzeri Fabio Jegher e Geo Molo, conosciuti durante l’internamento, fondò la Società Italiana Sportiva a Responsabilità Limitata (Sisal), dopo aver ottenuto dai Ministeri dell’Interno e delle Finanze i permessi per la gestione del gioco. Il C.O.N.I., guidato da Giulio Onesti, inizialmente ne rimase fuori, pur se la proposta era interessante: un terzo alla Sisal, un terzo al C.O.N.I., e un terzo ai vincitori. Il 5 maggio 1946 si gioca la prima schedina Sisal, costo 30 lire per una sola colonna; a vincere fu Emilio Biasotti, milanese con origini romane, che indovinò 12 risultati e incassò 462.846 lire. Gli incontri inseriti riguardavano il girone finale della serie A, i seguenti due la serie mista B e C, mentre i rimanenti, tra cui il cosidetto incontro lilla (Legnano-Novara in questo caso), riguardavano la coppa Alta Italia. Trascorsero due anni e il C.O.N.I., su pressione del Ministero dell’Interno, volle essere della partita. Nasce così il Totocalcio, e con esso il Totip, dedicato all’ippica, che rimane ad appannaggio della Sisal quasi come risarcimento per lo scippo. Il resto è storia. Nella stagione 1950-1951 viene inserita la tredicesima partita e doppio montepremi (12 e 13 risultati esatti), poi le doppie e le triple, nascono i sistemi e la schedina è già parte del linguaggio comune (“una partita da tripla”, per indicare un match dall’esito incerto). La Sisal poi negli anni ’90 non è più solo calcio: prima l’Enalotto, poi il Superenalotto, infine l’acquisizione di Match Point per entrare nel mercato delle scommesse moderne. E la schedina del Totocalcio, in un turno di campionato che ormai dura anche 3 giorni, finisce impolverata nel museo della storia.

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Calciatori Valerio Fabbri

Alfredo Di Stefano: la “saeta rubia” non andò alla Roma per un autista di troppo

di Valerio Fabbri

Alfredo Di Stefano, scomparso di recente e ricordato come una vera e propria icona del calcio mondiale, agli inizi degli anni ’50 fu ad un passo dal vestire la maglia giallorossa e, con ogni probabilità, quella azzurra. Un retroscena poco noto eppure assai accattivante, ma è un dato di fatto che la saeta rubia, nata a Buenos Aires e naturalizzata spagnola, segnò la storia del Real Madrid e del calcio europeo dopo essere stato vicino firmare con la Roma di Renato Sacerdoti, il Banchiere di Testaccio che, dopo aver fiutato l’affare, fece marcia indietro fra mille timori.

E’ una storia gloriosa quella di Di Stefano. Cresce calcisticamente nel River Plate, dove fa il suo esordio giovanissimo in un gruppo dove la stella è el maestro Adolfo Pedernera. Quella squadra raccoglie successi a ripetizione e forma anche l’ossatura dell’Albiceleste che conquista la Copa America del 1947. Tuttavia, in seguito a problemi interni alla federazione argentina, Pedernera tenta l’avventura in Colombia con i Millonarios, la cui proprietà strapaga i calciatori e solleva diversi dubbi sulla liceità dei suoi contratti dorati, peraltro anticipando di oltre mezzo secolo sceicchi ed oligarchi. La Lega colombiana (DIMAYOR) asseconda l’ascesa dei Millonarios e si libera le mani abbandonando la Federazione colombiana. Riceve anche una squalifica dalla FIFA, ma continua per la sua strada: accogliere giocatori stranieri promettendo lauti guadagni.

Pedernera non è solo un fenomeno con i piedi, ma anche un vero e proprio leader. Ai Millonarios porta, tra gli altri, Di Stefano e Nestor Rossi: inizia il periodo del cosidetto El Dorado del calcio colombiano, meta prediletta anche di calciatori europei (ungheresi, cecoslovacchi, qualche italiano), che primeggerà per diversi anni in America latina e non solo. A Bogotà 5000 tifosi accolgono gli ex del River, la stampa è in delirio, un intero paese si esalta. Per i Millonarios la concorrenza è modesta. A sentire Di Stefano giocano con la tattica del “5 con balletto”: una volta inflitte 5 reti all’avversario, si inizia a “danzare” con la palla per evitare umiliazioni. Ciò non toglie che segnerà 267 gol in 292 partite.

Di Stefano diventa per la stampa colombiana el alemano, per il fisico fuori dall’ordinario e i capelli chiari, caratteristiche non indifferenti alle donne colombiane. Mette in bacheca titoli a ripetizione, di squadra e individuali, ma il Patto di Lima (ottobre 1951) obbliga la DIMAYOR a rientrare nei ranghi Lega e FIFA, e a favorire il deflusso dei calciatori stranieri con contratti irregolari. Un esodo inverso che segna non solo la fine dell’El Dorado, ma anche il ritorno dei campioni alle squadre d’origine. Di Stefano però non ha voglia di rientrare a Buenos Aires, e durante una tournée europea con Los Millonarios fa sapere alla Roma che la città gli piace e giocherebbe volentieri con i giallorossi. Chiede 70 mila dollari all’anno e un autista personale, condizioni alla portata di Sacerdoti, che però teme di ritrovarsi un giocatore sul viale del tramonto, pronto a svernare nella città della Dolce Vita.

Le voci infondate di vincoli contrattuali e ritorsioni della Lega colombiana scoraggiano la Roma, che acquista Ghiggia dal Penarol. Los Millonarios vanno poi in Spagna per altre amichevoli e la storia cambia. Il Barcellona e’ pronto a chiudere l’affare, ma Santiago Bernabeu non ci sta e riceve addirittura il supporto indiretto del governo: eventuali fortune calcistiche dei blaugrana con Di Stefano potrebbero incoraggiare spinte autonomistiche dei catalani, meglio Madrid. Con la promessa di un’alternanza di maglia – una stagione a Madrid e una a Barcellona – il tormentone trova la sua fine. Di Stefano firma alle stesse condizioni proposte alla Roma, incluso l’autista. Ovviamente non si muovera’ dal Real, anzi ne diventera’ un simbolo, antesignano dei “galacticos”, e ne segnera’ la storia firmando in tutte le vittoriose finali di Coppa Campioni tra il 1956 e il 1960.

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Calciatori Fabio Belli

Eduard Streltsov, la triste storia del Pelé sovietico

di Fabio Belli

Parlando di storie di calcio, uno dei temi più utilizzati è sicuramente quello “dalle stelle alle stalle“. Fenomeni che hanno magari ballato una sola estate, talenti sui quali in moltissimi erano pronti a mettere la mano sul fuoco, che hanno visto appassire prematuramente la loro forza sul campo. Difficilmente però la discesa all’inferno è stata così profonda, simbolica e sicuramente anche tragica come quella che Eduard Streltsov ha dovuto affrontare nella sua vita.

Non stiamo parlando di uno qualsiasi, assolutamente no: ma la nebbia che avvolge l’impero sovietico alla fine negli anni cinquanta è fittissima, e di questo purissimo talento che a vent’anni sembrava pronto a sbocciare, si è quasi finito col perdere la memoria. Male, perché quanto fatto vedere sul rettangolo verde da Streltsov prima del fatidico anno 1958 è qualcosa di assolutamente straordinario. La sua squadra è la Torpedo Mosca, non la più vicina ai cuori del Cremlino, dove però non si fanno sfuggire le prodezze e i 48 gol di Streltsov, che in Nazionale si è già fregiato di un alloro a soli 18 anni: l’oro olimpico a Melbourne, nel 1956.

L’anno fatidico come detto è però il 1958, quando ai piani alti hanno già deciso il destino di questo formidabile asso che al genio e all’imprevedibilità, abbina un fisico che sembra forgiato nell’acciaio sovietico. Nel 1958, il soviet supremo vede in Streltsov la stella capace di conquistare il titolo Mondiale in Svezia, arma segreta da contrapporre alla Perla Nera, un ragazzino chiamato Pelé con il quale Streltsov, tutti sono sicuri, sarà destinato a duellare per anni e anni nell’immaginario collettivo.

Ma col Politburo non si scherza, e Streltsov commette due gravi errori che lo fanno diventare nemico giurato del regime comunista. Ufficialmente, rifiuta il passaggio alla squadra dell’esercito, il CSKA Mosca. Nessuno rifiuta il CSKA, soprattutto se l’ordine di trasferimento arriva dall’alto. Ma secondo i bene informati, il dramma di Streltsov si compie durante una festa in cui gli eroi di Melbourne vennero accolti al Cremlino dai vertici del PCUS, primo passo verso il cammino iridato in Svezia. Streltsov si ritrova di fronte la donna più potente dell’Unione Sovietica, Yekaterina Furtseva, unica alta dirigente di sesso femminile del Partito Comunista dell’epoca. La Furtseva fa capire a Streltsov di desiderare senza mezzi termini una liaison tra il campione e la figlia Svetlana. Lì arriva il gran rifiuto del giovane fenomeno, che si difenderà sempre affermando di aver opposto il suo fidanzamento, con imminente matrimonio, come impedimento a qualsiasi coinvolgimento romantico “pilotato”.

Il problema è che come tutti i giocatori dotati di un genio indiscusso, Streltsov esprime una certa sregolatezza che, abbinata alla passione per l’alcol, si risolve spesso in una mancanza di diplomazia fatale. E dunque fa male a rifiutare il CSKA, fa molto male a rifiutare le attenzioni di una “infanta” del Politburo, ma a mandare fuori di testa Yekaterina Furtseva sarebbe stato l’appellativo poco simpatico di “scimmia“, udito con le sue orecchie, che all’ennesima vodka Streltsov si sarebbe lasciato scappare ad alta voce riferito alla giovane Svetlana.

Morale della favola, mentre Pelé segna ai Mondiali il suo primo gol iridato in Svezia proprio all’Urss, il suo omologo sovietico vede iniziare un lungo incubo nelle fredde celle del famigerato carcere di Butirka. La Furtseva avrebbe denunciato Streltsov, che avrebbe cercato di “violentare” una giovane non meglio identificata in quella maledetta festa. Streltsov, ingenuamente, si fa anche estorcere una confessione, con la falsa promessa di un biglietto per raggiungere la squadra ai Mondiali e l’archiviazione di tutta la storia: sarà invece la sua condanna. Il passaggio da Butirka a un gulag in Siberia sarà rapido, la permanenza ai lavori forzati molto meno: sette lunghi anni che lo minarono nel fisico, ma all’uscita, incredibilmente, il suo talento e la sua inventiva, intatti, portarono la Torpedo Mosca, dove tornò a giocare, ad un nuovo titolo sovietico. Il conto il gulag lo presentò, probabilmente, quando nel 1990 Streltsov morì per un cancro a soli 53 anni: il bicchiere, suo unico confidente, gli rimase accanto fino all’ultimo giorno trascorso a pensare alla sfida mai consumata con Pelé.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1958: Brasile-Svezia 5-2. E tutto il mondo cantò “Didì, Vavà, Pelé, Garrincha”

di Fabio Belli

La nascita di un mito spesso avviene in circostanze irriconoscibili sul momento. Il “Rasundastadion” di Stoccolma (anzi Solna, nella municipalità della capitale, ma un po’ fuori città) il 29 giugno del 1958 era gremito all’inverosimile, ma gli spettatori ebbero la sensazione di trovarsi di fronte ad un copione già scritto. Troppo forte il Brasile per la Svezia padrona di casa, già soddisfatta di essere arrivata a giocarsi il titolo di fronte al proprio pubblico. Eppure mai più gli svedesi arriveranno così in alto; mai più una squadra sudamericana vincerà il Mondiale in Europa, né una europea vincerà in Sudamerica (bisognerà aspettare i Mondiali in Asia e in Africa per altre affermazioni intercontinentali). Soprattutto, quella fu la vittoria per eccellenza di una squadra che si esauriva in una filastrocca che anche un bambino poteva declamare: Didì, Vavà, Pelé, Garrincha.

Dopo un'attesa iniziata nel 1930, il Brasile mette finalmente le mani nel 1958 sulla Coppa Rimet
Dopo un’attesa iniziata nel 1930, il Brasile mette finalmente le mani nel 1958 sulla Coppa Rimet

Il 1958 per il Brasile doveva essere l’anno della rivincita. La squadra del 1954 non era all’altezza di quella che nel 1950 diede vita al sanguinoso “Maracanazo”, la finale persa in casa, la più grande delusione calcistica di tutti i tempi. Stavolta i verdeoro sono forse ancora più forti, ma il più grande nemico dei brasiliani resta sempre… il Brasile. La Selecao in Svezia sente il peso dei favori del pronostico, e contro l’Inghilterra al primo turno, un pari 0-0 dice quello che il tecnico Vicente Feola in fondo sa già: i brasiliani non sono imbattibili neanche questa volta.

Pelé durante i mondiali in Svezia
Pelé durante i mondiali in Svezia

Serve un elemento di rottura, che nei quarti di finale si palesa in uno splendore fino ad allora sconosciuto. Un ragazzino di diciassette anni e otto mesi di nome Edson Arantes do Nascimiento, ma già chiamato da tutti Pelè. Che contro il Galles, quando l’atroce delusione era già in cottura, toglie le castagne dal fuoco a Feola e a tutta una Nazione. E’ nato il mito, Dìdì-Vavà-Pelé-Garrincha, un suono musicale che il popolo brasiliano ritma con gioia già dalla semifinale spumeggiante, vinta 5-2 contro la Francia del capocannoniere del Mondiale, Just Fontaine.

Ma a tutto questo, gli spettatori del Rasundastadion non pensano. Quante grandi squadre poi hanno mancato la trasformazione in mito. Oltre al “Maracanazo”, il naufragio dell’”Arancycsapat” di quattro anni prima è ancora freschissimo, e così quando Nils Liedholm dopo neanche 3’ buca i guanti di Gilmar, più di qualcuno inizia a pensare all’ennesimo scherzo del destino. Ma come detto, al Rasundastadion ancora non sanno chi sono Didì-Vavà-Pelé-Garrincha. Il primo è la mente della squadra, nel calcio di oggi sarebbe improponibile per lentezza, ma la sua lucidità nel guidare il gioco è forse tutt’ora ineguagliata. Il secondo non aveva qualcosa posseduta dagli altri tre, ovvero la tecnica sopraffina, ma possedeva qualcosa che gli altri non avevano, l’opportunismo fulmineo in area di rigore. Il terzo diventerà il più importante calciatore del mondo proprio quel giorno, ed il quarto era e resterà il più grande dribblatore della storia, che in Vavà aveva già il terminale perfetto per i suoi assist.

Ma tutto questo, gli spettatori del Rasundastadion ancora non lo sanno: e non lo sanno neppure quando al 9’ Vavà ha già pareggiato i conti. Cominciano ad intuirlo quando la solita asse Garrincha-Vavà poco dopo la mezz’ora firma il sorpasso. La certezza arriva quando in apertura di ripresa Pelé realizza uno dei più strabilianti gol della storia dei Mondiali. Stop di petto in anticipo su Gustavsson, rimbalzo e pallonetto a scavalcare Axbom e poi sfera scagliata in rete. La prima perla di assoluta purezza della “perla nera”. La partita finisce 5-2 con gol finale proprio di Pelè, e Didì-Vavà-Pelé-Garrincha passa da hit brasiliana a mondale nel giro dei cinque giorni trascorsi tra la semifinale e la finale. Oggi il Rasundastadion neanche esiste più: il mito invece, una volta nato, è destinato a durare per sempre.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1954: Germania Ovest-Ungheria 3-2. Il tramonto senza fine dell'”Aranycsapat”

di Fabio Belli

L’Ungheria viene considerata la zona del crepuscolo del grande sogno europeo. Un vecchio adagio recita che i magiari si “divertono piangendo”, e che interiorizzano troppo i loro drammi, senza mai superarli davvero. E forse non è un caso che dopo il tramonto di quella che, da chi l’ha vista giocare, è ancora considerata la più grande squadra di tutti i tempi, non sia più riuscita ad allestirne una non solo altrettanto forte, ma neanche in grado di avvicinarsi a quei livelli, tanto che il declino del calcio ungherese continua ancora oggi a 60 anni di distanza da quel 4 luglio del 1954.

Tedeschi in trionfo dopo il "Miracolo di Berna"
Tedeschi in trionfo dopo il “Miracolo di Berna”

Grosics, Buzànsky, Lantos, Bozsik, Lòrànt, Zakariàs, Tòth, Czibor, Kocsis, Hidegkuti, Puskàs. Questo era l’undici titolare di quella che veniva chiamata in patria “Aranycsapat”, ovvero la “squadra d’oro”. Al Mondiale del 1954 gli uomini allenati dal CT Gusztav Sebes arrivarono dopo quattro anni di imbattibilità. Ultima sconfitta nel 1950, campioni olimpici ad Helsinki nel 1952 con questo esatto schieramento, con l’unica eccezione di Peter Palotàs al posto di Tòth: non c’era un osservatore, un tecnico, un tifoso che non fosse pronto a scommettere su una marcia trionfale alla rassegna iridata in Svizzera.

Così, quando a Berna al cospetto dell’Ungheria si presentò una Germania Ovest ritrovata sulla scena internazionale dopo l’esilio post bellico, la finale era a pronostico chiuso, forse il più scontato nella storia di sempre dei Mondiali. E non solo per una mera valutazione tecnica: a parlare per l’Ungheria erano proprio i risultati di quel Mondiale. Ovvero, 9-0 alla Corea del Sud e 8-3 ai tedeschi nelle eliminatorie, 4-2 al Brasile nei quarti e 4-2 all’Uruguay in semifinale, seppur ai supplementari. Proprio così: Puskàs e compagni avevano battuto 8-3, esattamente due settimane prima della finalissima, i loro avversari verso la conquista della gloria iridata. Cosa poteva mai andare storto?

I capitani Fritz Walter e Ferenc Puskas prima del fischio d'inizio
I capitani Fritz Walter e Ferenc Puskas prima del fischio d’inizio

A dispetto del significato etimologico di “Aranycsapat”, però, non era tutto oro quel che luccicava. Innanzitutto i tedeschi, che avevano intuito la formidabile occasione che il Mondiale poteva rappresentare per tornare a far parlare della Germania nel mondo in termini ben diversi dall’orrore della Seconda Guerra Mondiale, nelle eliminatorie avevano preferito consegnarsi agli ungheresi schierando una squadra imbottita di riserve. Questo per non sprecare energie e giocarsi la qualificazione ai quarti, poi ottenuta, contro i modesti turchi. Anche i pezzi grossi in campo, come Helmut Rahn e Fritz Walter, passeggiarono per poi scatenarsi contro Turchia, Jugoslavia e soprattutto Austria in semifinale, battuta 6-1 nonostante i favori del pronostico fossero per gli eredi della leggenda Sindelar.

Secondo poi, “l’oro” della squadra basata sull’ossatura della mitica Honved di Budapest, era racchiuso tutto dalla cintola in su. Ferenc Puskàs, colonnello dell’esercito, deteneva la palma di più forte giocatore del mondo, capace di fatto di interpretare da fuoriclasse tutti i ruoli d’attacco. Sàndor Kocsis viene ancora oggi considerato come uno dei migliori attaccanti-colpitori di testa di ogni epoca. Zoltàn Czibor garantiva i rifornimenti da destra, Nàndor Hidegkuti addirittura è considerato universalmente l’antesisgnano del “falso nueve”, capace di far passare dai suoi piedi tutto il frenetico gioco della squadra, anche grazie alla protezione di un mediano dai sette polmoni come Jòzsef Bozsik. Il pacchetto arretrato però non era all’altezza di tanta grazia calcistica, ad eccezione del portiere Grosics. Buzànsky, Lantos, Lòrànt e Zakariàs erano degli onesti faticatori, e fu proprio questo tallone d’achille a tradire i magiari in finale. Questo, e la doppia battaglia contro i sudamericani. La partita dei quarti di finale contro il Brasile, combattutissima, si concluse in rissa, con Puskàs che rimediò anche una bottigliata in testa (!) da Pinheiro. In semifinale, contro un Uruguay che ai Mondiali non era mai stato eliminato, il mito iniziò a scricchiolare: Hohberg rimontò due gol nel finale, e Borges colse un palo nei supplementari, prima che Kocsis con una doppietta riuscisse a rimettere le cose a posto.

Ma è già l’inizio della fine: le tante battaglie ravvicinate hanno avuto effetti nefasti sulle caviglie di Puskàs. A Berna il colonnello si regge a malapena in piedi, ma Sebes non se la sente di negargli la soddisfazione di diventare, con ogni probabilità, campione del mondo. Dopo 8’ i tedeschi sono per giunta già sotto di due: Puskàs devia in rete avventandosi su un tiro sbilenco di Kocsis, mentre Czibor passa in una difesa avversaria imbambolata. “Herr” Sepp Herberger, CT tedesco, in panchina ha però una strana espressione. E’ stato a vedere la semifinale con l’Uruguay, e sa che i magiari non ne hanno più. E infatti 10’ dopo si è già 2-2, con Morlock e Rahn che approfittano di una difesa ungherese svagata. Il conto di un dominio quadriennale si presenta tutto d’un colpo all’”Aranycsapat”, la difesa fa acqua e la caviglia tradisce il colonnello quando c’è da spingere dentro la palla del 3-2.

Una staffilata di Rahn compie quello che in Germania, anche da un titolo di un film, viene ancora ricordato come il “Miracolo di Berna”. In realtà i rumori sinistri del doping coprono l’esultanza teutonica, una versione che in tempi recenti ha trovato nuove imbarazzanti ammissioni. E’ opinione comune che anche contro la “bomba”, gli ungheresi sarebbero stati imbattibili se non fossero arrivati alla finale logorati e appesantiti dal debito di riconoscenza verso Puskàs e afflitti da una difesa inadeguata. Il risultato però è consegnato alla storia, e del tramonto magiaro non si vede ancora la fine.

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Andrea Rapino Le Finali Mondiali

1950: Uruguay-Brasile 2-1. Campioni del Mondo senza cerimonia

di Andrea Rapino

Non fu una finale vera e propria, anche se all’atto pratico fu una finalissima a tutti gli effetti. Il titolo Mondiale del 1950 non venne infatti assegnato con una partita secca, ma con un torneo conclusivo tra le quattro squadre che avevano vinto i rispettivi gironi della prima fase. Per una serie di coincidenze quel Brasile-Uruguay divenne una sfida con tutti i crismi dello scontro finale, perché le due squadre si trovarono ad affrontarsi nella partita conclusiva nel girone finale prima e seconda in classifica, separate da un punto appena. La formula singolare non deve meravigliare più di tanto: all’epoca non era affatto inusuale, e fin dagli anni ’20 in Italia è così che si svolgono molti spareggi, come ad esempio quelli per la promozione in Serie B o per il passaggio dai tornei regionali alla Serie C.

L'Uruguay schierato in campo prima del "Maracanazo"
L’Uruguay schierato in campo prima del “Maracanazo”

Nel girone finale del primo Mondiale ospitato in casa il Brasile ha sbaragliato la Svezia 7-1 e la Spagna 6-1. Meno travolgente è stato l’Uruguay del commissario tecnico Juan Lòpez Fontana, l’unico che continua a preferire il metodo al sistema: ha pareggiato con la Roja 2-2 e superato di misura gli scandinavi 3-2. Ai verdeoro basta perciò un pareggio per alzare la Coppa Rimet: hanno i favori del pronostico e sete di gloria dopo le partecipazioni ai tornei iridati di Italia e Francia con formazioni che non rappresentavano l’eccellenza del futebol brasileiro.

Obdulio Varela
Obdulio Varela

L’1-0 segnato da Albino Friaça in avvio di secondo tempo fa sentire praticamente la vittoria in tasca alla folla che gremisce il Maracanã: sugli spalti si stimano tra i 160 e i 200mila. In pochi minuti però il destino della quarta Coppa del Mondo viene stravolto: a metà ripresa arriva il pareggio di Juan Alberto Schiaffino, futuro milanista che in rossonero si fregerà di tre scudetti. A completare l’opera pensa Alcides Edgardo Ghiggia, anch’egli atteso dall’italianizzazione per vestire le maglie di Roma e Milan: sigla il 2-1 a dieci minuti dal termine. Una rete che ricorderà dicendo che “solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, Papa Giovanni Paolo II e io”. Il gol di Ghiggia porta in testa al girone finale la Celeste: dopo vent’anni, e due partecipazioni mancate per motivi “politici”, l’Uruguay si riprende il trofeo più ambito. Per il Brasile è un dramma: una nazione si chiude in un lutto inconsolabile, tanto che la leggenda vuole che centinaia di tifosi sull’onda della disperazione scelgano la strada del suicidio!

In questo clima, i responsabili del comitato organizzatore non sono da meno. Afflitti, quasi in catalessi, non consegnano la coppa. La banda musicale viene meno al protocollo che prevede di intonare l’inno nazionale dei vincitori. Jules Rimet, ideatore della manifestazione, come racconta lui stesso, si ritrova con il trofeo tra le mani, fra i giocatori brasiliani in lacrime, senza sapere cosa fare. Tra l’imbarazzo e l’incertezza, il francese nota per caso vicino a lui il capitano uruguaiano Obdulio Jacinto Muiños Varela: ruvido e combattivo centromediano che in patria è il leader del Peñarol, e che nel 1930 era un ragazzino di tredici anni che vendeva giornali in strada e non aveva ancora iniziato a giocare a calcio. Rimet gli stringe la mano e gli affida la coppa senza neanche una frase di circostanza: il riconoscimento più importante del Mondo viene consegnato come il premio di consolazione di un qualsiasi torneo amatoriale.

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Andrea Rapino Club

Lo “scudetto di Grisù” e gli altri titoli fantasma

di Andrea Rapino

“Lo scudetto di Grisù non ve lo ridanno più” è uno striscione con il quale i tifosi della Carrarese sbeffeggiavano gli spezzini per sminuire il titolo onorifico ricevuto nel 2002. In realtà la squadra dei Vigili del Fuoco La Spezia allenata da Ottavio Barbieri, tecnico cresciuto nella scuola genoana di William Garbutt, lo scudetto l’aveva vinto davvero. In quel Campionato dell’Alta Italia del 1944 doveva esserci in palio il tricolore, ma, alla fine di un torneo per forza di cose abbastanza irregolare, la Figc assegnò ai “pompieri” della Spezia (da qui lo sfottò dei carraresi legato al cartone animato del draghetto-vigile del fuoco) solo una Coppa federale.

Una decina d’anni fa è arrivato per i liguri uno scudetto quasi vero, che ha subito smosso altri appetiti. Richieste per un’onorificenza simile a quella spezzina per i successi ottenuti in campionati bellici sono state registrate a Conversano e Castellammare di Stabia, che tra le due città ha senza dubbio la storia calcistica più sostanziosa.

spezia1944La Juve Stabia sta disputando la quarta stagione consecutiva in B, vanta decenni di serie C alle spalle e ben due Coppe Italia recenti in bacheca, quella di Lega Pro e quella di serie D. Nel 2011 spuntò l’idea del “Comitato per lo scudetto allo Stabia» per far lievitare il valore simbolico del primo posto nel torneo allestito in Campania nel 1945 come Campionato dell’Italia liberata. In lizza c’erano anche Salernitana, Napoli e Casertana. A fare la differenza per la Stabia fu Romeo Menti, ala destra del Grande Torino, spinto al Sud dai venti di guerra e ingaggiato per l’occasione dalle Vespe (a lui è oggi intitolato lo stadio di Castellammare, come quello di Vicenza dove nacque e iniziò a giocare).

Quel comitato si riproponeva di coinvolgere gli sportivi stabiesi più in vista a livello nazionale: l’attaccante juventino Fabio Quagliarella, il portiere del Parma Antonio Mirante, l’ex estremo difensore del Napoli Gennaro Iezzo; si fece pure il nome dell’attore Sebastiano Somma. I sogni di gloria a tavolino dei gialloblé sono tornati sulle cronache sportive soprattutto alla vigilia dei recenti incontri tra Juve Stabia e Spezia, ma sono rimasti sulla carta al pari di quelli del meno noto Conversano, comune di 25mila abitanti a sud del capoluogo Bari, che sportivamente ha brillato soprattutto nella pallamano, dove di scudetti veri ne ha vinti più d’uno.

Nel football di recente Conversano ha disputato al massimo un paio di stagioni in Eccellenza, ma nel 1944 s’aggiudicò il torneo che in Puglia venne battezzato Campionato dell’Italia Libera. Tra le otto squadre che approdarono alle fase finale l’unico nome che spicca è quello del Lecce. Se sul versante tirrenico a spingere la Juve Stabia fu Menti, da quest’altro lato la stella era il portiere tarantino Leonardo Costagliola, già in forza al Bari e in seguito alla Fiorentina, nonché tre volte in nazionale tra cui in un Italia-Cecoslovacchia del 1953 che segnò il debutto degli azzurri sul piccolo schermo. Ma le richieste della giunta comunale conversanese alla Figc sono sempre cadute nel vuoto.

Forse, al di fuori dei campionati ufficiali, l’unico “scudetto di Grisù” che si avvicina a quelli veri potrebbe rivendicarlo l’Udinese: i friulani nel 1896 vinsero la prima competizione calcistica a respiro nazionale disputata nella Penisola, organizzata però sotto l’egida della Federazione Ginnastica Nazionale Italiana e senza applicare completamente le regole riconosciute allora dall’International Football Association Board.

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Calciatori Fabio Belli

Djalma Santos: il primo vero terzino moderno, celebrato da Eduardo Galeano

di Fabio Belli

Terzino o esterno di difesa: poco cambia nella definizione, forse, molto è mutato nell’interpretazione del ruolo, da come era nato, fino a come si è evoluto. Il terzino fino all’inizio degli anni settanta aveva compiti che spesso sfociavano nella vera e propria marcatura a uomo, e così mentre lo stopper si francobollava al centravanti avversario, dall’altra parte chi presidiava le fasce in difesa, stava attento a qui giocatori, solitamente con il sette e con l’undici sulle spalle, che avevano il compito di svariare su tutto il fronte offensivo.

djalmaQuando il Brasile vinse i Mondiali del 1958, in molti rimasero estasiati dal gioco, ma soprattutto dalla ventata di modernità che, nei rispettivi ruoli, gli interpreti più dotati di quella meravigliosa squadra sapevano proporre. E così Manè Garrincha diventò l’uomo dalla finta immutabile alla quale nessun difensore avversario sapeva resistere, Vavà un terminale offensivo implacabile, e Pelè nella finalissima contro la Svezia si consacrò per sempre come la Perla Nera. Ma sulla fascia destra c’era un giocatore, dal fisico compatto e dalla tecnica sopraffina, che divenne il vero prototipo del difensore esterno moderno, capace di controllare la fascia, ma al tempo stesso di sganciarsi in avanti facendo leva sulle sopra citate qualità tecniche, senz’altro fuori dal comune.

Eduardo Galeano, scrittore sudamericano che ha fatto un’arte del racconto letterario del futbòl, lo aveva ribatezzato “La Muralha“, ed in effetti Djalma Santos era freddo ed implacabile come un muro, qualunque avversario avesse di fronte, ma anche capace di esibirsi in dribbling mozzafiato nell’uno contro uno, trovando poi nella corsia opposta un suo perfetto doppione in Nilton Santos. Con loro, il Brasile poteva dire di possedere la coppia di esterni difensivi più forti del mondo, capaci però di trasformarsi all’occorrenza anche in ali aggiunte, il che spiegava la dirompente potenza offensiva della squadra allora allenata da Feola.

Djalma Santos arrivò a disputare quel Mondiale a ventinove anni, nel pieno della maturità calcistica. Era un periodo in cui il futbòl bailado era diventato anche concreto, e le leggendarie beffe degli anni passati, su tutte quelle del 1938 e del 1950, quando Italia ed Uruguay mortificarono le ambizioni di un Brasile lanciato verso il successo, vennero finalmente gettate alle spalle. I club brasiliani dominavano la scena: il Santos di Pelè era destinato ad entrare nella leggenda, così come il Botafogo di Garrincha e del superbo regista Didì. Ma chi portava a casa i titoli in patria era il Palmeiras, che dopo il Mondiale del 1958 strappò Djalma Santos alla Portoguesa, conquistando titoli in serie. Nel 1962, la generazione di fenomeni vinse in maniera ancora più convincente il suo secondo Mondiale, nonostante l’infortunio di Pelè, sostituito dalla rivelazione Amarildo. Ma la Muralha era sempre : scomparso di recente, resta l’esempio principale per tutte le generazioni di terzini moderni, ben prima dei Carlos Alberto e dei Cafu che ne hanno portato avanti la tradizione.