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Alessandro Iacobelli Calciatori

Il calciomercato iniziò con Jeppson al Napoli

La storia del primo trasferimento milionario del calcio italiano, che portò per la prima volta una trattativa calcistica ad assumere tutti i contorni dello show business

105 milioni di lire per infiammare un popolo. Achille Lauro tanti ne sborsa nella calda estate del 1952 per portare a Napoli Hasse Jeppson. Una trattativa dai contorni cinematografici condita da aneddoti e leggende metropolitane tramandate nei decenni. Si è parlato di una valigia piena di banconote consegnate da ‘O Comandante al patron dell’Atalanta Turani nelle segrete stanze di un albergo in via Veneto a Roma, o precedentemente della medesima cifra scritta dall’armatore su un tovagliolo, dinanzi ad una tavola imbandita, per convincere il numero uno dei bergamaschi a cedere alle lusinghe partenopee.

A Lauro serviva un’operazione tecnico-mediatica strabiliante per consolidare la compagine azzurra nei piani nobili del calcio italiano e, soprattutto, per mettere in ghiaccio un potere politico sul territorio campano e meridionale corroborato da percentuali bulgare registrate nei vari appuntamenti elettorali. Achille, d’altronde, era pure un sagace editore e non poteva certo ignorare la rilevanza dei messaggi letti dalla popolazione su carta.

Jeppson era la punta che mancava al Napoli dell’epoca. Svedese di nascita, 1 metro e 80 di altezza, corre e segna in patria con la casacca del Djurgården (58 reti in 51 apparizioni). Atterra poi in Inghilterra, per motivi di studio e lavoro, dove viene ingaggiato dal Charlton Athletic. Tocca la doppia cifra di gol in sole 8 gare disputate, con la ciliegina di una pregevole tripletta all’Arsenal, e viene segnalato agli osservatori dell’Atalanta che non ci pensano su due volte assicurandosi le prestazioni di Hasse per la stagione ’51-’52. Il centravanti scandinavo è una macchina da guerra anche in Serie A dove trafigge i portieri avversari 27 volte in 22 presenze. A questo punto i tempi sono maturi all’ombra del Vesuvio.

E’ il momento. Achille fa carte false, smuove acque, ragiona, disegna mentalmente le mosse da compiere, infine agisce. Jeppson firma per un valore monstre paragonabile al bilancio del Banco di Napoli. Da qui la celebre frase ancora oggi scolpita nel mare e nel cielo del capoluogo campano. Lo svedese rimane a Napoli fino al 1956 tra alti e bassi, accese discussioni con Presidente e allenatori (in particolare non facile il rapporto con Monzeglio), mondanità e un rapporto di viscerale affetto intrecciato con il popolo partenopeo. Nel caratteristico e mai dimenticato stadio del Vomero “Arturo Collana” la tifoseria esulta e impreca nel giro di pochi istanti. Il folclore si mescola con i bollenti spiriti tipici della passione calcistica. “Uanema ‘e Jeppson” e “Mannaggia ‘a Jeppson!” sono affermazioni che spiegano meglio di ogni altra cosa il contesto misto tra teatro e sport di quel tempo.

Ottimo quarto posto comunque il primo anno con 14 gol messi a segno. Quinta piazza nel secondo con altri 20 centri a referto. Sesta posizione nel 1954-1955 con un rendimento meno roboante (10 marcature realizzate). Nell’ultima annata in azzurro, quella ’55-’56 Jeppson condivide il reparto offensivo con il talento brasiliano Luis Vinicio, appena arrivato dal Botafogo. ‘O Lione si scatena siglando 16 gol, mentre Hasse esulta in 8 circostanze. La squadra però, guidata in panchina prima da Monzeglio e poi da Amadei, archivia un difficile campionato al quattordicesimo posto. Un gruppo, impreziosito da due pedine di livello come Bruno “Petisso” Pesaola e Vitali, più che discreto ma evidentemente ancora non in grado di spiccare il volo.

La carriera agonistica dell’attaccante svedese dura solo un’altra stagione, 1956-1957, con la maglia del Torino. In granata torna ad assaporare la doppia cifra di reti strappando sovente standing ovation da parte del pubblico. Senza dimenticare ovviamente le valide prove con i colori della propria Nazionale (12 gol complessivi) e la partecipazione al Mondiale del 1950 chiuso al terzo gradino del podio.

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Calciatori Club Fabio Belli

Giuliano Fiorini ed il gol che salvò la vita alla Lazio… e non solo

di Fabio BELLI

Le storie di tutte le squadre di calcio del mondo sono costellate di gol importanti, alcuni fondamentali, pietre miliari nella vita del club. Reti che hanno regalato scudetti, trofei internazionali, derby, salvezze e promozioni, o sensazioni uniche a chi era allo stadio. Pochissimi club però possono legare una storia, al momento ultracentenaria, all’esito fortunato di una singola partita. Uno scenario questo più consono ad un film che a una competizione sportiva, ma la romanzesca e tormentata storia della Lazio, spesso e volentieri proprio ad una pellicola da Oscar ha finito con l’assomigliare.

Nell’estate del 1986 il sodalizio biancoceleste si ritrova ad affrontare l’ennesima tempesta: non è la prima e non sarà l’ultima, ma in quel particolare caso è in gioco l’esistenza stessa della società. Schiacciata dai debiti dopo la sciagurata gestione-Chinaglia e implicata in un secondo scandalo delle scommesse dopo quello del 1980, la Lazio viene retrocessa in serie C/1 il 5 di Agosto, a causa degli illeciti contestati all’allora tesserato Vinazzani. Il punto è che i nuovi proprietari Calleri e Bocchi, già alle prese con un durissimo piano di risanamento e rilancio finanziario, sono chiari: se gli organi competenti non rivedranno la loro decisione, il loro impegno verrà meno, e la Lazio cesserà di esistere.

Ne segue un lungo mese di proteste e passione per i tifosi laziali, che culmina con la sentenza della CAF che mantiene la squadra allora allenata da Eugenio Fascetti in cadetteria, ma con 9 punti di penalità da scontare. Nell’epoca dei due punti a vittoria, ha quasi il sapore di una condanna posticipata, ma la squadra parte a razzo facendo addirittura pensare ad un’incredibile promozione: illusione che svanisce presto sotto i colpi di stress e stanchezza, che portano i biancocelesti a giocarsi la permanenza in B in un’infuocata domenica di Giugno, allo stadio Olimpico contro il Vicenza, allora ancora “Lanerossi”.

Una partita per la sopravvivenza: al di là dell’onta della terza serie, la Lazio deve evitare una retrocessione che comporterebbe il definitivo dissesto finanziario, con i nuovi azionisti di maggioranza che, a causa dei minori introiti della C, non potrebbero più far fronte agli impegni presi nella stagione 1987/88. Un incubo, un thriller in piena regola anche perchè il Vicenza con un pari si garantirebbe almeno gli spareggi per non retrocedere. E per i tifosi laziali la nemesi si materializza nelle fattezze del portiere dei veneti Ennio Dal Bianco, che para l’impossibile di fronte agli attacchi di una Lazio per nove undicesimi protesa in avanti, fatta eccezione per il portiere Terraneo ed il libero Marino.

Ma come in tutti i film a lieto fine, c’è sempre un eroe a portare la vittoria e la catarsi. Un eroe anticonvenzionale, con i capelli lunghi, un fisico non asciuttissimo e dedito fuori dal campo a tre passioni non strettamente legate fra di loro: famiglia, whisky e sigarette. “Il più forte attaccante del mondo senza fuorigioco“, lo definivano i compagni di squadra con un pizzico di ironia ma anche con tanta ammirazione per la sua generosità: Giuliano Fiorini, che a meno di dieci minuti dalla fine, consente alla Lazio di superare il muro-Dal Bianco e continuare a vivere, anche se la salvezza finale dovrà passare attraverso gli spareggi contro Taranto e Campobasso, all’inizio di Luglio.

Ma come in quei film che riservano ancora una scena dopo i titoli di coda, anche questa storia ha un’appendice sorprendente e commovente: l’eroe mancato della partita per il Vicenza, Dal Bianco, il portiere arrivato oltre i propri limiti, rientra a casa da Roma con la retrocessione che ancora brucia sulla pelle. Ma c’è poco tempo per pensarci: trova il figlioletto (oggi 32enne) in preda ad un malore, la corsa all’ospedale è provvidenziale. Un soccorso che sarebbe mancato senza il gol di Fiorini, visto che il Vicenza in caso di risultato positivo sarebbe andato subito in ritiro per gli spareggi, senza far passare da casa i calciatori. “Sono emotivamente legato a Lazio-Vicenza perché a volte le grandi delusioni si trasformano in grandi gioie. Era previsto, infatti, che se avessimo pareggiato con i biancocelesti avremmo partecipato agli spareggi a Napoli, rimanendo quindi a Roma per una settimana senza tornare a Vicenza. Tornai invece a casa, mio figlio piccolo ebbe dei problemi fisici ed io, nonostante il parere di tutti, decisi di farlo ricoverare nonostante. Ciò gli salvò la vita. Una sconfitta in campo si trasformò in un evento salvifico.” E allora quel gol di Giuliano sembra una volta di più scritto nel destino.

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Maestrelli e Chinaglia: “Quo vadis, Giorgio?”

di Fabio BELLI

Il calcio è in grado di far nascere legami speciali all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2011 la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia alle orecchie più distratte sarà parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù si era fatto conquistare dal sogno americano.

lazioPuò risultare però più impressionante il fatto che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale riposerà accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore, Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame tra padre e figlio: chi conosce bene il background di quella Lazio sa quanto fosse speciale e a tratti incredibile quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota ma, all’inizio della loro storia umana e professionale, i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.

Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore che, già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante che, dopo la retrocessione del 1971, meditava di lasciare la Lazio sopratutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E, come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto tra i due, nelle prime settimane permeato di scetticismo. Una storia legata ad un limone.

Nel 1971, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesisvizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo e, alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio sentiva scottare la sua fronte. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.

“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta la visione di Maestrelli, quasi utopistica per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, prese forma per la prima volta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera un po’ discutibile a livello manageriale (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia che fu lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.

Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).

Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai gemelli figli dell’allenatore che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dello stadio Olimpico. Potenza del calcio o, per chi vuole crederci, di mezzo limone.

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Calciatori Fabio Belli

Branco: tre punizioni nella storia

di Fabio BELLI

Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talento brasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.

brancoSchierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.

Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionale brasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.

La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.

Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.

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Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Calciatori Club Fabio Belli

Washington Cacciavillani: la “meteora” con un leone al guinzaglio

di Fabio BELLI

Anni ’50: il periodo in cui l’infatuazione del calcio italiano verso quello sudamericano tocca i massimi storici. La promessa di talenti “tanto al chilo” che giungono via nave da oltreoceano è troppo allettante e produrrà quella che, fino al ’66, l’anno dell’ignominiosa Corea per la nazionale azzurra, sarà ricordata come l’invasione degli oriundi. Nel 1955 tra di essi c’è anche un quasi ventiduenne “punteiro” uruguaiano di buone speranze, tanto che l’Inter decide di scommettere su di lui: Washington Cacciavillani.

I nerazzurri, dopo il settimo scudetto della loro storia conquistato nel ’54, non hanno saputo ripetersi concludendo la stagione 1954-55 con un deludente ottavo posto. C’è dunque la necessità di un rinnovamento che passa attraverso l’ascesa alla presidenza di Angelo Moratti, il quale avvierà un ciclo lungo ben 13 stagioni. Ma la storia di Cacciavillani sembra ricalcare, con 40 anni di anticipo, quella delle meteore che dalla seconda metà degli anni ’90 in poi contraddistingueranno la presidenza del figlio Massimo.

I tifosi che possono leggere sui quotidiani dell’ingaggio di “Cacciavillani dal River Plate” fanno voli pindarici per un brevissimo lasso di tempo: nelle pagine interne è specificato che il giocatore non arriva dai mitici “Millionarios” di Buenos Aires bensì dal meno blasonato River Plate di Montevideo, Uruguay.

Ad ogni modo la maglia nerazzurra Cacciavillani la vedrà in pratica solo col binocolo: in due anni in prestito alla Pro Patria “El Chico” (questo il suo soprannome) realizzerà la miseria di tre gol. L’Inter nel frattempo alterna quattro allenatori (Campatelli, Meazza – due volte – Ferrero e Frossi) in un parallelismo nella gestione Angelo-Massimo Moratti che col senno di poi ha dello sbalorditivo. L’unica presenza in campionato di Cacciavillani nell’Inter arriva nella stagione 1957/58 con Jesse Carver allenatore, poi un altro giro in Coppa Italia e l’addio definitivo a Milano, in un lungo pellegrinaggio verso sud: Ravenna prima e Casertana poi ma dal 1957 al 1960 “El Chico” realizza (con i romagnoli) un solo gol in partite ufficiali. Carattere sudamericano DOC, la disciplina del Nord ne mortifica l’estro e l’incedere in campo sbilenco, per quanto abbastanza rapido per l’epoca, non aiuta.

Il colpo di fulmine però arriva nel 1960: a Siracusa, in Serie C, trova la sua dimensione non tanto dentro il campo (in quattro stagioni e 107 presenze, solo 6 gol), ma fuori. Cacciavillani si stabilisce in Sicilia e non la lascerà mai più: chiude la carriera tra i dilettanti del Floridia, quindi inizia un’avventura lunga più di vent’anni da allenatore nell’isola: giovanili del Siracusa, Canicattì, Trapani, Modica in ordine sparso. Sempre nelle serie inferiori ma con la possibilità di essere sé stesso, dimenticando le nevrosi milanesi: la leggenda narra di alcune sue passeggiate per il lungomare di Siracusa con un cucciolo di leone (simbolo degli aretusei) al guinzaglio.

Nato il 1 Gennaio del 1934, Cacciavillani muore nel 1999 sempre nel giorno di Capodanno: un percorso circolare per un personaggio che ha riversato la sua estrosità più fuori che dentro il campo.

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Calciatori Fabio Belli

Abe Van Den Ban: i baffi più esagerati della storia del calcio

di Fabio BELLI

Le figurine dei calciatori per i bambini restano il feticcio per eccellenza per tutti coloro che in tenera età si sono avvicinati alla magia del football. In Italia da oltre mezzo secolo la Panini di Modena rappresenta il totem attorno al quale tanti piccoli appassionati hanno vissuto campionati paralleli fatti di scambi e sogni, e inevitabilmente nell’immaginario collettivo certi personaggi sono entrati più degli altri, magari per una nota nel look più stravagante, soprattutto dalla seconda metà degli anni settanta in poi, quando l’immagine dei calciatori ha iniziato a divenire col tempo sempre meno impersonale.

vandebanxs51Quella delle figurine è un’abitudine estesa non soltanto al territorio italiano e, in quasi tutti i paesi europei, le stelle del calcio venivano immortalate e poi scambiate per finire negli album sulle pagine delle rispettive squadre. E mentre in Italia Pizzaballa diventava la figurina rara per eccellenza, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta in Olanda un personaggio stuzzicava la fantasia dei ragazzini dei Paesi Bassi. Si trattava di Abe Van Den Ban, centrocampista di grande grinta ma modesto spessore, capace però di diventare, per la lunga militanza nel club, una leggenda dell’Haarlemsche Football Club, meglio conosciuto semplicemente come Haarlem dalla città di appartenenza. Van Den Ban aveva una particolarità incredibile nel suo ritratto: due lunghissimi baffi stile anni venti, assolutamente anacronistici anche per i tardi ’70, in cui pure barba, baffi e capelli lunghi avevano cominciato a diventare d’ordinanza anche tra i calciatori.

Il look di Van Den Ban non aveva nulla a che vedere con il retaggio della contestazione giovanile sessantottina, con i volti volutamente trasandati di Gigi Meroni, Paul Breitner o tanti altri. Il modello di Abe poteva essere al limite l’investigatore Hercule Poirot, ma neppure il personaggio nato dalla fantasia di Agata Christie, pur provvisto di lunghi mustacchi, si sarebbe spinto a tanto. I baffi di Van Den ban erano oversize e lo sono stati per tutta la durata della sua carriera, consumatasi dopo un’ottantina di presenze tra del fila del FC Amsterdam (con tanto in incrocio in Coppa UEFA contro l’Inter) nell’Haarlem, formazione nella quale arrivò a collezionare quasi 150 presenze in Eredivisie. All’alba degli anni ’80, il ritiro che coincise con l’età d’oro del club, della quale fece parte come allenatore delle giovanili.

All’Harleem Van Den Ban aveva, anche per il suo carattere gioviale ed istrionico, un grandissimo ascendente e così rimase ad allenare i ragazzi di quello che all’epoca era un fiorente settore giovanile. E così nel 1982 il club arrivò fino alla ribalta europea del secondo turno di Coppa UEFA disputato contro lo Spartak Mosca, mentre Van Den Ban iniziava a curare la crescita calcistica di alcuni talenti cristallini del calcio olandese. Uno di essi, Ruud Gullit, era destinato a raggiungere i vertici massimi del calcio mondiale. Già conquistato dalla pettinatura afro con le caratteristiche treccine, Gullit si ritrovò a farsi crescere anche un paio di baffi, forse in contrasto con la sua capigliatura, ma in omaggio al suo maestro Van Den Ban, che ancora oggi è un’icona di stile in Olanda. Sono state prodotte maglie con la sua effige, è stato protagonista di “un venerdì coi baffi“, campagna che esortava gli uomini ad esibire i baffi come segnale di consapevolezza riguardo il cancro alla prostata ed ha allenato una squadra di blogger che portavano nello stemma sulla maglia la sua faccia baffuta. Che resiste nel tempo, con qualche ciuffo grigio in più.

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Calciatori Gian Luca Mignogna

Il 6 giugno 1982 Vincenzo D’Amico salvò la Lazio dal baratro

di Gian Luca MIGNOGNA

Correva l’estate 1980, quando la Lazio fu ingiustamente ed inopinatamente sbattuta in Serie B dalla CAF, nell’ambito del primo processo sportivo sul calcioscommesse. Inopinatamente, perché in primo grado la società biancazzurra era stata prosciolta dalle accuse della Procura Federale. Ingiustamente, perché a livello sportivo non fu riscontrato alcun coinvolgimento diretto del Presidente Umberto Lenzini e/o di altri dirigenti societari ed a livello penale nel successivo processo risultarono tutti assolti con formula piena.

Fu un duro colpo per la prima squadra della capitale. Retrocessa sotto la scure della giustizia sportiva, con tutto il suo bagaglio di nobiltà. A soltanto sei anni di distanza dalla conquista del titolo di Campione d’Italia e con l’aggravante della squalifica dei gioielli di famiglia, Giordano e Manfredonia, su cui tutto l’ambiente contava per rinverdire in fretta i fasti del recente passato.

L’ambiente rimase totalmente sotto shock, soltanto chi visse quei momenti sa quel che provarono i veri laziali. La società non si perse d’animo, tuttavia, il Sor Umberto passò la mano al fratello Aldo ed intorno ad Alberto Bigon fu costruita una squadra in grado di risalire subito in Serie A. Nel 1980/81 la Lazio disputò un grande campionato, ma l’immediata promozione s’infranse alla penultima giornata su un maledettissimo palo centrato da Stefano Chiodi su rigore, al suo primo errore dal dischetto, in un Lazio-Vicenza che lasciò l’Olimpico letteralmente basito. Ma al peggio, si sa, non c’è mai fine.

Nella stagione successiva la Lazio si presentò ai nastri di partenza con rinnovate ambizioni di massima serie. Sotto la guida tecnica di Ilario Castagner, confermato nonostante la delusione della stagione precedente, e capitanata da un grande Vincenzo D’Amico, rientrato alla base dopo un anno di prestito al Torino, La Lazio cominciò il suo secondo anno di purgatorio cadetto in maniera abbastanza convincente e positiva. Cali di concentrazione, prestazioni indicibili ed uno spogliatoio perennemente in contrasto, però, allontanarono ben presto i biancazzurri dai sogni di gloria.

Fu così che pur partita con propositi ambiziosi, la Lazio si ritrovò suo malgrado invischiata nelle zone basse della classifica ed a dover lottare addirittura per non retrocedere. Tutto questo senza che società, squadra e tifoseria quasi se ne accorgessero. Noblesse oblige. Tutto l’universo biancazzurro visse quei momenti senza la giusta contezza e la dovuta consapevolezza. La mente era rivolta in parte al passato, alla sconcertante retrocessione subita “a tavolino” due anni prima ed alla cocente mancata promozione della stagione precedente. In parte al futuro, perché il campionato in corso frustrò ben presto ogni ambizione di Serie A e allora tutti cominciarono già a pensare alla rivalsa da prendersi l’anno successivo. Eppure c’era una competizione in corso e la classifica si faceva sempre più preoccupante. Per destare l’ambiente serviva una forte scossa, poi arrivata con l’esonero del pur bravo Castagner e l’affidamento della prima squadra a Roberto Clagluna, che frattanto stava ottenendo ottimi risultati con le giovanili.

Alla penultima giornata la situazione però si fece incredibilmente drammatica. Allo Stadio Olimpico si presentò il Varese, in piena lotta per la promozione. Mentre la Lazio, reduce da tre sconfitte consecutive, avrebbe dovuto assolutamente far propri match e punti per lasciarsi alle spalle la zona retrocessione. Dopo neanche un quarto d’ora, tuttavia, i varesotti si ritrovarono in vantaggio per 2-0. Per i biancazzurri d’improvviso il baratro della Serie C sembrò inevitabile. Fu a quel punto che un immenso Vincenzo D’Amico prese per mano la squadra, cominciò a lottare come un leone per la “sua” Lazio e da vera bandiera la condusse prima al pareggio e poi alla vittoria finale scacciaincubi.

Era il 6 giugno 1982. Quando oramai tutti sembravano rassegnati al peggio, salì in cattedra proprio lui, Vincenzo D’Amico, il Golden Boy della Banda ’74, che segnò una tripletta fenomenale, ribaltò una partita che sembrava segnata, assicurò la matematica salvezza alla Lazio e le consentì di gettare le basi per risorgere dalle ceneri in cui l’ingrato destino l’aveva gettata.

SERIE B 1981/82

ROMA, 6 GIUGNO 1982

37° TURNO: LAZIO-VARESE 3-2

MARCATORI: 6′ Turchetta, 14′ Bongiorni, 26′ D’Amico (R), 28′ D’Amico, 73′ D’Amico (R)

LAZIO: Moscatelli, Spinozzi, Chiarenza, Pochesci, Pighin, Sanguin, Vagheggi, Badiani, D’Amico, De Nadai, Surro (62′ Bigon).

ALLENATORE: Roberto Clagluna

VARESE: Rampulla, Vincenzi, Salvadè (78′ Palano), Strappa, Limido, Cerantola, Di Giovanni, Mauti (32′ Scaglia), Mastalli, Bongiorni, Turchetta.

ALLENATORE: Eugenio Fascetti

ARBITRO: Luigi Agnolin (Bassano del Grappa)

RISULTATI: Bari-Sambenedettese 0-0, Brescia-Cremonese 2-3, Catania-Cavese 4-1, LAZIO-VARESE 3-2, Lecce-Palermo 2-1, Pescara-Verona 0-0, Pistoiese-Pisa 0-0, Reggiana-Perugia 2-1, Sampdoria-Rimini 0-0, Spal-Foggia 0-1.

CLASSIFICA: Sampdoria e Verona 47; Pisa 46; Bari e Varese 44; Perugia 41; Palermo 40; Catania 38; LAZIO 37; Lecce, Reggiana, Sambenedettese 36; Cavese, Cremonese, Pistoiese 35; Foggia e Rimini 34; Brescia 30; Spal 28; Pescara 17.

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Calciatori Fabio Belli

Football Mystery 4×16: Duckadam, tra psicologia e leggenda

di Fabio BELLI

Ci troviamo probabilmente di fronte alla storia della più grande impresa compiuta da un portiere in una finale di Champions League, allora ancora Coppa dei Campioni. Nessun estremo difensore nella storia è mai riuscito a parare tutti i tiri dal dischetto in una finale conclusa ai calci di rigore: a fare 4 su 4 fu una vera icona del calcio dell’Est, di cui si persero quasi completamente le tracce dopo la notte da eroe vissuta a Siviglia, il 7 maggio 1986. Stiamo parlando di Helmuth Duckadam: tra psicologia e leggenda.

Helmut Duckadam fu lo storico portiere della Steaua Bucarest degli anni 80, la prima squadra dell’Est Europa che riuscì a vincere il più ambito trofeo calcistico continentale, la Coppa dei Campioni. La Steaua 1986 fu l’orgoglio della Romania di Ceausescu, che riuscì in un’impresa che nel calcio dell’Est non fu mai completata né dai maestri sovietici, nonostante la Dinamo Kiev del Colonnello Lobanovski dettasse legge in quegli anni, e che fu raggiunta solo 5 anni dopo dai brasiliani d’Europa, gli jugoslavi, con la Stella Rossa del 1991.

Duckadam arriva all’appuntamento della notte più importante della sua carriera da perfetto sconosciuto del calcio europeo: della Steaua si conoscono la classe di Belodedici, la forza di un attaccante come Lacatus e poco altro. Nato in Transilvania, Duckadam sembra un personaggio del castello del conte Dracula: alto, imponente e baffuto, abbia alla prestanza fisica un’agilità non comunque alla sua stazza. Esplode calcisticamente nell’UT Arad, poi come tutti i calciatori migliori del Paese finisce alla Steaua, gestita direttamente dai figli di Ceausescu. In Nazionale è chiuso da Silviu Lung, storico portiere dell’Universitatea Craiova, ma in quegli anni tutti pensano che sia Duckadam il migliore.

La Steaua si trova a disputare il 7 maggio 1986 una delle finali di Coppa dei Campioni più strane della storia. Si gioca a Siviglia contro il Barcellona che si gioca in una notte mezzo secolo di complessi rispetto al Real Madrid. I catalani hanno raggiunto la finale vincendo una tiratissima sfida ai rigori contro il Goteborg e sono strafavoriti contro i rumeni. L’allenatore inglese del Barca, Terry Venables, fiuta la trappola: con tanti catalani in campo e uno stadio esaurito con 69700 spettatori del Barcellona e 300 romeni, le gambe tremano ma il tecnico viene tradito proprio dai suoi pretoriani fatti arrivare dall’esterno per vincere in europa: sono impalpabili lo scozzese Steve Archibald ma soprattutto il tedesco Bernd Schuster, fuoriclasse dal carattere difficile che non giocò mai un Mondiale per le liti con i compagni di squadra della Germania Ovest. Al momento della sua sostituzione a 5′ dal novantesimo, Schuster uscì dal campo, andò dritto negli spogliatoi a farsi una doccia, chiamò un taxi e si vide i rigori in televisione a casa sua.

In quanto a stranezze, la Steaua non fu da meno e la finale del 1986 fu la prima che vide un allenatore, Emerich Jenei, mandare in campo il suo vice, Angel Iordanescu. Ufficilalemtne in rosa e futuro CT della Nazionale romena, Iordanescu non giocava da due anni e studiava da allenatore al fianco di Jenei. Ma la sua classe aiutò a spaventare definitivamente il Barcellona. Si andò ai rigori, e qui Duckadam divenne il protagonista assoluto.

I primi quattro tentativi vanno tutti male: Urruti, il portiere basco del Barcellona, è un noto pararigori e neutralizza i primi tentativi di Majearu e Boloni. Dall’altra parte però, Duckadam fa lo stesso contro il capitano Alexanco e Pedraza. “Il primo rigore è sempre il più difficile,” spiegò anni dopo Duckadam raccontando la sua impresa. “Parato quello, ho giocato con il cervello degli avversari: sapevo che Pedraza avrebbe pensato che avrei cambiato angolo, perché Urruti l’aveva fatto e ne aveva parati 2 su 2, così mi sono ributtato a destra”. Il terzo rigore dello Steaua lo tira Lacatus, di potenza, senza pensare, e il pallone finalmente entra. Poi tocca all’eroe della semifinale col Goteborg, Pichi Alonso, e Duckadam si ributta a destra, sicuro che l’avversario avrebbe pensato che stavolta avrebbe cambiato. Quasi blocca il pallone, poi Balint mette dentro il 2-0 e su Marcos Alonso (padre dell’attuale giocatore del Chelsea, ex Fiorentina), Duckadam si sente ormai onnipotente. Basta una lieve finta a destra, stavolta Alonso tira a sinistra ma il portiere ha tutto il tempo di cambiare e di firmare una delle più grandi sorprese della storia del calcio europeo.

La Steaua è campione d’Europa per Duckadam sembra l’inizio di una carriera internazionale luminosa, anche se la Romania non sarà tra le Nazionali che andrà in Messico per i Mondiali del 1986. Nel giro di pochi mesi, nessuno saprà invece più che fine avrà fatto Duckadam: nasce una leggenda inquietante, Valentin Ceausescu gli avrebbe fatto spezzare le mani per non aver consegnato un’automobile ricevuta in regalo da uno sponsor per l’impresa compiuta a Siviglia. Una punizione atroce, che l’avrebbe costretto a ritirarsi, ma smentita dallo stesso Duckadam, ricomparso quasi trent’anni dopo la finale del 1986 come ambasciatore UEFA, in un’intervista:

“In caso di vittoria della Coppa dei Campioni ci era stato promesso un grande premio dall’esercito, ma quando fummo ricevuti da Ceausescu l’accoglienza fu fredda. Il regime era già in crisi e il calcio non avrebbe aiutato certo la propaganda. Ma non è assolutamente vero che venni aggredito o che vennero a rompermi le braccia: proprio perché il dissenso politico in Romania era ormai grande, si sarebbe venuto facilmente a sapere. L’unico tiro mancino che ci fece il regime fu di rimangiarsi il premio per la vittoria, consegnandoci solo delle auto usate, alcune assemblate addirittura da componenti militari dismessi. Smisi di giocare perché pochi mesi dopo la finale in una partita finii all’ospedale a causa di un dolore lancinante al braccio, di origine sconosciuta. Gli esami evidenziarono un aneurisma arterioso periferico, una rara forma di trombosi. Non persi il braccio per miracolo, provai a tornare a giocare a casa all’Arad, ma non potevo più fare il professionista.” E così nella notte di Siviglia il tempo della vita da calciatore di Duckadam si fermò per sempre.

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Calciatori Fabio Belli

Parigi 1998, Ronaldo vs Nesta: quando eravamo Re

di Fabio BELLI

“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.

Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.

RonaldoNesta1A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.

Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.

Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.

La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.

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Calciatori Fabio Belli

Il calciatore ed il poeta: l’amicizia tra Ezio Vendrame e Piero Ciampi

di Fabio BELLI

Il poeta e il calciatore, il poeta è il calciatore. Cambiando l’ordine degli… accenti, il risultato non cambia. Non cambia se ci riferiamo alla storia personale di Ezio Vendrame, il “George Best” del Tagliamento, magnifico talento sprecato del calcio dei primi anni ’70 (ne abbiamo già parlato qui) e a quella della sua amicizia con un cantautore, Piero Ciampi, simbolo dell’amore per l’arte e la decadenza. Nessuna sottovalutazione di sé, solo la consapevolezza che, al di là del pallone e della musica, i due erano uniti dall’idea che ci fosse qualcosa di più importante, quel “farabutto esistere” nel quale consumarsi, da anteporre a qualsiasi convenzione sociale.

Vendrame_chitarraL’incontro con Piero Ciampi cambierà Vendrame a tal punto da iniziarlo alla poesia: uno scrittore nato sui campi di gioco, quasi un “unicum” nel panorama dei calciatori di tutto il mondo, tra i quali il massimo della produzione letteraria si ferma nella stragrande maggioranza dei casi a biografie scritte per interposta persona. Dedito all’alcol Ciampi e alle donne Vendrame, due passioni che ne hanno consumato, probabilmente, i rispettivi talenti. Ma la loro amicizia, fino alla morte del cantautore livornese, ha sempre resistito alle bizze del loro genio e della loro conseguente sregolatezza. Vendrame aveva un tale rispetto di Ciampi che, quando l’amico una volta venne allo stadio Appiani di Padova per vedere una sua partita, lui fermò il pallone con le mani ed decise di interrompere d’imperio la partita per rendergli il giusto tributo. Perché, come spiegò in un’intervista: “Il gioco del calcio diventa una cosa volgarissima di fronte ad un poeta come Piero.”

A Vendrame le convenzioni legate al mondo del calcio bigotto, conservatore, ipocrita non sono mai andate giù. E la poesia diventava una via di fuga dalla realtà: non è un caso che una volta lui, originario di Casarsa della Delizia in Friuli, scelse come location per farsi intervistare la tomba di Pier Paolo Pasolini, seppellito in quella che era la terra natia della madre, definendolo “il mio compaesano più vivo“. L’amicizia con Ciampi fu l’approdo finale per questa esigenza di andare oltre la realtà precotta del mondo del calcio, anche se a volte esigeva un prezzo molto alto, col poeta/cantautore ormai alla deriva. “Certe sere”, raccontava Vendrame su Ciampi, “si doveva andarlo cercare, perché magari era qualche giorno che non tornava. Lo cercavamo nei luoghi più assurdi, tra le vie sperdute, o in chissà quali posti: poi te lo trovavi seduto su di un marciapiede che beveva dell’alcol denaturato, circondato dai topi”. Ma era in quei frangenti che l’artista livornese dava il meglio di sé e sapeva insegnare tutto sulla vita, l’amore e la morte, come spiegò il fantasista del Vicenza: “La definizione che mi diede Piero Ciampi sull’amore è capire la sofferenza di chi ti sta vicino. Talmente grande che ho quasi paura a dire di amare qualcuno. Di solito siamo egoisti quando amiamo”.

Ancora parole di Vendrame: “A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi sconvolse“. Si conobbero a Roma, nel ristorante di Marcello Micci, e litigarono furiosamente la notte prima della sua scomparsa. Ciampi morì nel gennaio del 1980, assistito da un altro cantautore che era però anche medico, Mimmo Locasciulli. Lo uccise un cancro alla gola, “dopo essersi preparato per tutta la vita a una morte per cirrosi epatica”, dissero. E appena prima di morire, come raccontato da Vendrame in uno dei suoi libri, era andato a casa sua in cerca di rifugio. Ma cominciò a bere, a sbraitare, con i suoi deliri non fece chiudere occhio per tutta la notte al calciatore che sbottò, cacciandolo via, insultandolo, dicendo che non aveva rispetto per gli amici. Ciampi non poté far altro che rispondere con una frase lapidaria, innocente e spiazzante al tempo stesso: “Ma Ezio, io sono un poeta!“.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Beniamino Vignola: il furetto di scorta

di Alessandro IACOBELLI

Beniamino Vignola: il nuovo “abatino”. Così Gianni Brera etichettò il furetto in maglia bianconera. Il talento mancino, senza nulla togliere all’immensità dell’irraggiungibile cronista, è stato anche altro.

Correva l’anno 1959. Il 12 giugno Beniamino nasce a Verona. Se fosse venuto alla luce a Rio de Janeiro o Buenos Aires, magari con un nome più afrodisiaco, probabilmente avrebbe conseguito maggior gloria. Mingherlino, debole muscolarmente e poco tosto nei contrasti. Ecco, chissà quante volte il buon Ben ha dovuto ascoltare questa cantilena.

La passione, però, distrugge ogni muro. Lui allora aguzza l’ingegno. Sforna tecnica e fantasia. Il piede sinistro non necessita di potenziamento. I filmati disponibili sul web testimoniano la virtuosità di questo folletto dalle misure non certo colossali. 1,72 cm distribuiti in 64 kg. Un po’ come Maradona per intenderci.

I consumistici anni ’80 sono alle porte ed il giovane Vignola si lascia notare ripetutamente nel settore giovanile del Verona. Nelle due annate con la prima squadra scaligera confeziona oltre 40 gettoni conditi da un paio di reti. Beniamino vuole sfondare nel gotha del pallone italiano. In quel fantasmagorico periodo il calcio dello stivale non ha eguali il tutto il pianeta. Da Nord a Sud si può sognare senza limiti. In Campania, oltre il Napoli, c’è un altro popolo che amoreggia con quella misteriosa sfera. Stiamo parlando della gente irpina. Il frizzante veneto sposa il progetto dell’Avellino. Il Presidente Fausto Maria Sara adora la sua creatura che però, l’anno successivo, passerà nelle mani di Antonio Sibilia. La riapertura delle frontiere spedisce all’ombra del “Partenio” la punta brasiliana Juary. Il balletto intorno alla bandierina, per festeggiare un goal, diventa un vero e proprio cult. Il resto del gruppo è assolutamente rispettabile. I giovani Tacconi, Beruatto e Carnevale viaggiano a mille. Senza dimenticare capitan Di Somma, Pellegrino Valente, Salvatore Campilongo e Guido Ugolotti.

Vignola, in tale complesso, è la ciliegina sulla torta. Segna e fa segnare. Commuove il caloroso pubblico biancoverde domenica dopo domenica. La zona del mister Luis Vinicio è un’orchestra intonatissima. In tre stagioni 88 presenze e 16 marcature. Per l’Avellino si materializza in sequenza un decimo, un ottavo ed un nono posto. Passano in rassegna diversi allenatori. Dal già citato Vinicio a Tobia, passando per Marchioro e Veneranda.

Nel 1983 i tempi sono ormai maturi per sbarcare il lunario. Beniamino non può far altro che accettare le lusinghe della Juventus. Nelle prime due annate con la Vecchia Signora il furetto cresce con ottima costanza alle spalle del genio assoluto chiamato Michel Platini. Di tanto in tanto viene gettato nella mischia, dove risponde con invidiabili prestazioni. Mette a referto 52 apparizioni accompagnate da 6 reti. Numeri più che soddisfacenti, considerando anche le complessità tattiche del calcio d’epoca. Il 16 maggio 1984 a Basilea, nella Finale di Coppa delle Coppe, scrive la sua pagina più emozionante. Un suo splendido diagonale mancino fulmina il guardiano del Porto per il momentaneo vantaggio. Gli avversari pareggiano i conti ma, nel corso della ripresa, di nuovo Vignola lancia al bacio Boniek che insacca per il definitivo raddoppio. Nella medesima primavera contribuisce da assoluto protagonista anche allo scudetto bianconero. Deliziosa pure la successiva annata, con l’accoppiata Coppa Campioni (nella tragica notte dell’Heysel) e Supercoppa europea.

Nel momento in cui la carriera poteva esplodere, paradossalmente, Vignola entra in un limbo senza acuti. Torna al primo amore Verona per una sola corsa sulla giostra gialloblu (19 caps e 2 goal). Tra il 1986 ed il 1988 brilla poco nella seconda esperienza juventina. Appende gli scarpini al chiodo nel 1992, dopo aver rappresentato i colori di Empoli e Mantova (in Serie C2).

Beniamino Vignola: il furetto di scorta. Una favola, in fondo, a lieto fine.