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Fabio Belli Presidenti

Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Boxing Day, il giorno del destino di Brian Clough

di Fabio BELLI

Di Brian Clough, l’allenatore senza peli sulla lingua che portò la classe operaia inglese in Paradiso grazie alle vittorie ottenute alla guida di Derby County e Nottingham Forest, si è detto e scritto davvero molto. In parecchi da tempo lo giudicano l’antesignano di Josè Mourinho negli atteggiamenti, anche se “Cloughie” era profondamente diverso in molti aspetti, soprattutto era molto più rude e ruvido pur essendo stato il primo, alla stregua di quanto poi perfezionato dal portoghese, a comprendere l’importanza e il ruolo dei media e della comunicazione nel calcio.

clougMeno si conosce però del Clough calciatore, autentico flagello divino in linea con le sue caratteristiche fisiche, piccolo attaccante dalla grande rapidità e reattività e soprattutto dal controllo di palla sullo stretto capace di fare impazzire qualsiasi difensore. Del Clough calciatore Bill Shankly, il manager che diede vita alla leggenda del Liverpool, diceva: “E’ peggio della pioggia di Manchester, quella almeno ogni tanto smette.” Sotto porta Clough invece non conosceva soluzione di continuità: con la maglia del Middlesbrough arrivò a segnare 197 reti in 212 apparizioni in campionato e si assestò su quelle medie anche dopo il suo passaggio al Sunderland all’inizio degli anni ’60.

Ma la sua carriera da calciatore si spezzò di fatto quando non aveva ancora compiuto ventotto anni: Clough subì un gravissimo incidente nel giorno di Santo Stefano del 1962, il cosiddetto Boxing Day. Chiamato così perché in Inghilterra è tradizionalmente legato all’usanza, nata nell’Ottocento. di regalare doni ai dipendenti o ai membri delle classi sociali più povere. In particolare, era consuetudine delle famiglie agiate britanniche preparare delle apposite scatole con all’interno alcuni doni e avanzi del ricco pranzo di Natale, da destinare al personale di servizio a cui era concesso libero il giorno successivo al Natale, per far visita alle proprie famiglie. Il 26 dicembre segna ormai da decenni l’inizio della maratona calcistica che gli appassionati di calcio in Gran Bretagna possono gustarsi nel periodo delle feste, quando qualche giorno di ferie aiuta a pensare più spensieratamente al football. Un’atmosfera sempre festosa ma che nel Boxing Day del 1962 segnò la fine del talento di Clough che molti ritenevano avrebbe potuto trovare compimento negli imminenti Mondiali in Cile. Pur considerando che il futuro leggendario allenatore rimase sempre ai margini dei Leoni Bianchi, collezionando solo due apparizioni in Nazionale in carriera, vuoi per la feroce concorrenza dell’epoca, vuoi per un carattere già ai tempi sin troppo schietto.

Ad ogni modo in quel 26 dicembre 1962 era programmata la sfida tra Sunderland e Bury: uno scontro con il portiere della squadra dei sobborghi di Manchester e il legamento crociato salta, un infortunio che segna la fine della carriera, a quei tempi, nella maggior parte dei casi. E Clough non fa eccezione: dopo un anno e mezzo di tentativi andati a vuoto, l’idea del rientro in campo per lui si fa da parte. L’Inghilterra perde un formidabile, astuto attaccante, ma trova nel contempo un allenatore destinato a lasciare sui tempi un segno indelebile. Le rivincite per Clough saranno molteplici, dal portare il Derby County dal fondo della Seconda Divisione alla vetta d’Inghilterra, ed il Nottingham Forest per due volte consecutive sul trono d’Europa. Ma il cerchio col Boxing Day si chiuderà solo ventidue anni dopo, quando Clough farà esordire proprio in occasione del Santo Stefano in campo, alla guida di un Forest ormai affermatissimo, il figlio Nigel appena diciottenne. Il quale inizierà nel 1984 una brillante carriera che lo porterà a partecipare agli Europei del 1992 con la maglia dell’Inghilterra, per seguire infine le orme paterne come allenatore. Un classico, perfetto caso di giustizia poetica.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Le vacanze romane del “Mago” Helenio Herrera

di Alessandro IACOBELLI

Estate 1968. L’A.S. Roma è da poco una società per azioni. Il Presidente Franco Evangelisti, ormai pronto ai saluti, vuole regalare un sogno ai tifosi. Un sogno per ambire alla grandezza del successo. Dal cilindro esce un nome: Helenio Herrera. Prima dell’approdo in riva al Tevere ha vinto di tutto e di più. L’Inter planetaria è opera sua: due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e un tris di scudetti. Gloria anche in Spagna, sulle panchine di Barcellona e Atletico Madrid.

Roma è bella, languida, mondana e attraente. Herrera se la gode eccome. Donne e auto le sue debolezze. Tre mogli, otto figli (di cui una piccola adottata) e una lista indecifrabile di amanti. Mettiamoci pure un pauroso incidente stradale, dal quale rimane incredibilmente illeso.

Il Vangelo di HH è sempre lo stesso: catenaccio e pressing asfissiante. Nella capitale trovano casa due allievi fidati: Santarini e Bet. L’idolatrata bandiera Giacomo Losi, dopo appena otto turni, viene messo alla porta. L’ombra più grande irrompe nel marzo del 1969. La punta Giuliano Taccola muore, per un arresto cardiocircolatorio, nello spogliatoio dello stadio di Cagliari in circostanze mai totalmente chiarite. C’è però una luce: la Coppa Italia. Fabio Capello e l’asso spagnolo Peirò firmano la finalissima contro il Foggia. Grande entusiasmo in città, nonostante l’ottavo posto al termine della prima stagione. L’annata successiva è povera di acuti, con un anonimo undicesimo posto in campionato e l’eliminazione in Coppa delle Coppe in semifinale.

Intanto Marchini rileva la presidenza della società. Il rapporto tra il patron e il tecnico non è dei migliori. Il bicchiere si rovescia all’alba della stagione 1970-1971 con i talentuosi, Spinosi, Capello e Landini ceduti alla Juventus in cambio di tre vecchie volpi come Zigoni, Vieri e Del Sol. C’è turbolenza e contestazione. I giallorossi però viaggiano e bene. Cordova e soci partono a razzo per poi calare nel corso dei mesi. Discreta comunque la sesta piazza a quota 32. Nel mese di aprile Marchini, furibondo dopo alcune dichiarazioni al vetriolo del mister, esonera Herrera ed affida la squadra a Tessari. In sessanta giorni cambia il mondo. Marchini lascia il timone a Gaetano Anzalone e HH torna in sella.

Il secondo trofeo giunge con la Coppa Anglo-Italiana nella stagione ’71-’72. In avanti Vieri, Zigoni, Cordova e soprattutto Amarildo offrono sprazzi funambolici. Cappellini, Scaratti e lo stesso Zigoni timbrano il match contro il Blackpool.

Sembra il paradiso, ma è l’inizio di un incubo sportivo. Si congedano in blocco Del Sol, Vieri, Petrelli e Amarildo. Valerio Spadoni è il nuovo centravanti. Cominciano a farsi largo due giovani promesse: Agostino Di Bartolomei e Francesco Rocca. Nelle prime cinque giornate il popolo romanista si illude. Il capolavoro balistico di Nanni, nel derby con la Lazio, e il poker servito dalla Ternana di Corrado Viciani compromettono l’esperienza capitolina del “Mago”. Anzalone ora non può più difenderlo e opta per l’esonero in luogo di Trebiciani. I giallorossi si salvano per il rotto della cuffia chiudendo undicesimi.

Amaro epilogo di un amore mai sbocciato. Herrera e Roma: così vicini, così lontani.

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Calciatori Fabio Belli

Germano: l’amore proibito del nuovo Garrincha nell’Italia degli anni Sessanta

di Fabio BELLI

Estate del 1962: il boom economico in Italia sta iniziando a scaldare i motori, nel Paese si respira un’aria più fresca, nuova, forse anche un po’ ingenua. A neanche venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il paese non è ancora molto più ricco, ma ha ripreso a sperare e, soprattutto, a sognare. Il calcio è un importantissimo veicolo di divertimento e aggregazione ma, nell’era della vertiginosa crescita industriale, sono le grandi del Nord a comandare. La Nazionale agli ultimi Mondiali in Cile ha subito lo scandaloso arbitraggio dell’inglese Aston contro i padroni di casa. Una vergogna, ma nel calcio in cui gli echi della comunicazione, soprattutto da oltreoceano, arrivano ancora distorti, sono cose che capitano anche con una certa frequenza.

germano1La stella indiscussa di Cile 1962 doveva essere Pelè ma gli infortuni non hanno permesso alla Perla Nera di essere protagonista. Al suo posto, il Brasile ha celebrato Amarildo per la conquista del suo secondo titolo mondiale. Ma il fascino dei calciatori esotici, pieni di talento ed estro, diversi da quelli che in Italia praticano il catenaccio sistematico, comincia a farsi largo tra i tifosi e in un campionato come la Serie A che comincia a potersi permettere l’ingaggio di calciatori esteri. Così il primo club a cavalcare la suggestione del Brasile di Pelè è il Milan del patron Rizzoli, che porta in Italia Josè Germano de Sales, sgusciante ala piena di guizzi e dribbling tanto da essere paragonato a Manè Garrincha. Allora appena ventenne, Germano faceva parte dei preselezionati per Cile ’62, ma alla fine non ha partecipato alla spedizione.

Da Germano i tifosi del Milan si aspettano grandi cose e soprattutto volano con la fantasia immaginando giochi di prestigio palla al piede, dribbling a ripetizione su un fazzoletto di campo, gol pescati direttamente dal cilindro di un mago. Quello che non sanno è che, soprattutto all’epoca, l’adattamento di un calciatore brasiliano in una realtà estremamente ordinata, grigia e fredda come quella milanese è molto complicato. Ed iniziano a sentir parlare di un termine misterioso, “saudade“, che significa più di nostalgia: è voglia di respirare un’aria diversa da quella delle ciminiere milanesi, è voglia di sentirsi circondati da tutt’altro rispetto a quella che è la realtà che diventa una prigione dalle sbarre di malinconia dalla quale si può solo evadere.

Germano comincia bene, gioca e segna in Coppa dei Campioni contro l’Union Luxembourg e in campionato contro il Venezia. Ma il suo stile svagato e la svogliatezza negli allenamenti non piacciono al Paròn Nereo Rocco che in quella stagione porterà per la prima volta la Coppa dei Campioni in Italia. Il suo Milan, a caccia dell’obiettivo più grande, dev’essere una macchina perfettamente oliata e Germano a novembre viene spedito al Genoa dove colleziona presenze ad intermittenza (solo dodici in campionato), qualche intemperanza e la frattura della mandibola, riportata in un incidente stradale una volta tornato a Milano a fine stagione.

Nel capoluogo lombardo l’aspirante Garrincha resterà altri due anni senza scendere mai più in campo fino al 1965, quando tornerà in Brasile al Palmeiras. Troppo, per una frattura della mandibola. Si scoprirà in seguito che i problemi di Germano a Milano erano puramente extracalcistici: il giocatore infatti iniziò una relazione clandestina con la figlia del potente Conte Agusta, l’industriale delle motociclette. La ragazza, per giunta allora minorenne, riempirà le cronache dei rotocalchi rosa per la sua fuga in Belgio, nel 1967, proprio per raggiungere Germano, che nel frattempo si era accasato allo Standard Liegi. Nascerà anche una figlia, Lulù. Troppo tutto insieme, per l’allora bigotta moralità italiana: e se di lì a poco i giocatori di colore conquisteranno grandi vette sportive (Jair nell’Inter, Nenè nel Cagliari), l’avvento di Germano ebbe l’effetto dirompente di un terremoto nel calcio italiano, che scoprì gloria, pazzie e miserie dei protagonisti del “futbol bailado”.

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Calciatori Fabio Belli

Mike Summerbee, che giocò con un casco da poliziotto in testa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio inglese non mancano i personaggi estrosi, anzi essi sono forse presenti in misura maggiore rispetto a qualunque altro paese. Calciatori spesso sopra le righe, a volte afflitti da problemi anche molto gravi, sfociati nell’alcolismo, nella solitudine, nello spreco del proprio talento. Da George Best a Paul Gascoigne fino a Tony Adams gli esempi sono innumerevoli; in altri casi invece l’essere eccentrici non andava di pari passo con la rovina, ed anzi quel che resta di tanti comportamenti curiosi non è altro che un mucchio di aneddoti da ricordare con vero piacere.

Nella stagione appena trascorsa il Manchester City si è nuovamente laureato Campione d’Inghilterra al culmine di un ciclo vincente avviato dalla proprietà degli sceicchi. Ma per ogni tifoso dei “Citizens” il titolo indimenticabile e più romantico è quello del 1968, quando la squadra di Malcom Allison e Joe Mercer, resa immortale dal capolavoro letterario “Manchester United Ruined my Life” di Colin Shindler, si issò sul tetto del calcio britannico partendo da presupposti del tutto differenti rispetto alla squadra attuale. Si trattava di una formazione “fatta in casa“, partita dalla conquista del campionato di Seconda Divisione e giunta a piccoli ma decisi passi alla conquista del titolo nazionale. La micidiale coppia d’attacco composta da Francis Lee e Colin Bell, il carismatico capitano Tony Book, il rapidissimo Neil Young erano solo alcuni tra gli elementi di spicco di una formazione davvero ben costruita e che conquisterà nei due anni successivi anche la FA Cup e la Coppa delle Coppe.

Tra di loro però l’idolo incontrastato dei tifosi era senz’altro Mike Summerbee, astutissimo e tecnicamente dotato centrocampista di destra che proprio con Young aveva il compito di sostenere la temibile linea d’attacco degli sky blues. Summerbee era stato pescato da Allison appena ventitreenne dallo Swindon Town, possedendo le qualità ideali per esaltare con idee e palloni giocabili la vena realizzativa in particolare di Bell. Ma fu il carattere istrionico del ragazzo di Preston a conquistare i tifosi che allora affollavano Maine Road, prima ancora delle sue eccellenti doti che lo portarono a far parte della Nazionale inglese bronzo a Roma ’68 negli Europei vinti dagli azzurri, proprio nell’anno dello scudetto del Manchester City.

L’altra parte della città era in preda al delirio per George Best, fenomeno anche mediatico di impatto planetario e proprio in quegli anni capace di conquistare il Pallone d’Oro e di portare per la prima volta la Coppa dei Campioni in Inghilterra con il suo United. I tifosi del City allora si coccolavano Summerbee e le sue imprevedibili invenzioni. Nelle interruzioni di gioco dava il meglio di sé, mettendosi ironicamente a massaggiare la gamba infortunata di un avversario, quando riteneva simulasse, oppure inscenando siparietti memorabili con gli arbitri. Ma il massimo lo toccò quando, battendo una rimessa laterale, rubò ad un poliziotto il tipico casco da “Bobby” inglese, continuando a giocare con quell’affare in testa per qualche minuto buono tra l’ilarità generale. Ai tempi in cui anelli e catenine indosso ai giocatori erano ancora tollerati, fu un irripetibile tocco di nonsense. Le doti da mattatore a fine carriera valsero a Summerbee anche una parte in “Fuga per la vittoria” e neanche oggi, da fresco settantenne, ha dimenticato i tanti tiri mancini giocati con il suo sorriso a salvadanaio.

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Calciatori Fabio Belli

Giuliano Taccola: una morte senza spiegazioni

di Fabio BELLI

La vicenda si svolge a metà degli anni Sessanta, con premesse apparentemente comuni a molte altre storie calcistiche. Nel 1966 Giuliano Taccola è un attaccante di 23 anni, classe 1943, possente nel fisico per gli standard dell’epoca ma soprattutto velocissimo. Corre i cento metri in 11 secondi netti e nel campionato di Serie C 1965/66 ha realizzato 13 gol con la maglia del Savona, che in quegli anni lancerà giocatori come Giuseppe Furino e Pierino Prati. Taccola è il primo a fare le valige: l’occhio lungo di Fulvio Bernardini lo porta in quota Roma, e l’attaccante nativo della provincia di Pisa veste la maglia giallorossa dopo un altro anno di svezzamento al Genoa.

Il 24 settembre del 1967 Taccola fa il suo esordio in Serie A nella partita che permetterà alla Roma di strappare un buon pari in casa dell’Inter. 10 gol nella prima stagione, buon bottino per gli attaccanti dell’epoca, poi altri 7 nella stagione 1968/69, quando il rendimento di Taccola ha un crollo verticale. Febbre, malesseri vari, improvvisamente il giocatore sembra non reggersi più in piedi, ma il tecnico della Roma, Helenio Herrera, non ne vuole sapere: ha bisogno di Taccola e continua a schierarlo, ma ogni allenamento sembra infliggergli un colpo in più.

Si sospetta un’infezione batterica e, a febbraio del 1969 Taccola viene operato per la rimozione delle tonsille. Un intervento di routine anche alla fine degli anni Sessanta, ma è a questo punto che il mistero sulla salute dell’attaccante si infittisce, visto che durante l’operazione il calciatore subirà numerose emorragie. Sembra che i vasi sanguigni non funzionino al meglio, l’operazione riesce ma Taccola ha perso molto sangue, ha bisogno di riposo assoluto.

E invece viene convinto a forzare, per rientrare in campo il prima possibile. Ad ogni allenamento corrisponde una perdita di peso e la febbre a fine giornata. Gli antibiotici che deve assumere dopo la tonsillectomia peggiorano considerevolmente la situazione: per riprendere forma, viene schierato tra le riserve della Roma in un match del campionato De Martino e sviene in campo: una settimana dopo però è in campo a Genova contro la Sampdoria, ma la sorte non gli dà tregua e si infortuna al malleolo.

Per 10 giorni Taccola si ferma, e il 15 marzo del 1969, prima della partita col Cagliari, Taccola sviene di nuovo nella rifinitura. A questo punto la Roma lo esclude dalla partita: dopo un nuovo attacco febbrile, il giorno dopo Taccola è in tribuna allo stadio Amsicora di Cagliari, e dopo la vittoria scende a festeggiare coi compagni negli spogliatoi. Poi inizia a tremare, sviene. I medici della Roma e della società sarda provano a rianimarlo, ormai privo di sensi sdraiato su un lettino, ma da quello spogliatoio Taccola uscirà solo da morto.

Da quel momento in poi, attorno alla vicenda calerà un gran silenzio, a partire da quello di Herrera che non voleva clamore attorno alla vicenda, anche molti giocatori seppero solo dopo, in aeroporto, quanto accaduto. In questi 50 anni di ipotesi sulla morte di Taccola ne sono state fatte molte: l’autopsia indicherà un arresto cardio-circolatorio, senza ulteriori particolari. La ricostruzione più plausibile, per quanto ufficiosa e mai confermata, parlerà di un’endocardite, una rara infezione batterica al cuore, aggravata dall’operazione subita e dai continui tentativi di recupero, che in molti temevano fossero alimentati da strane iniezioni. La morte di Taccola è stata spesso accostata a quella di altri calciatori, come Bruno Beatrice, Carlo Tagnin, Mauro Bicicli e Ferdinando Miniussi, scomparsi prematuramente e accostati a pratiche legate al doping che pare fossero molto diffuse nel calcio di decenni fa. Voci sinistre mai confermate ma insistenti nel corso degli anni.

Tre le testimonianze chiave riguardo i tragici fatti dell’Amsicora. Marzia Nannipieri, rimasta vedova di Taccola a 24 anni con due figli piccoli, da 50 anni prova a far luce sulla vicenda. E raccontò: La società fece di tutto per recuperarlo più in fretta possibile, anche perché stava valutando un’offerta della Fiorentina. A Giuliano quelle voci che lo volevano a Firenze non piacevano, lui stava bene a Roma. Dopo l’operazione alle tonsille ci dissero che prima andava ripulita l’infezione. Perciò continuava ad avere disturbi e la temperatura saliva subito come metteva piede in campo. Non ho mai smesso di pensare, di arrovellarmi su quanto accadde quella domenica, a tutta quella robaccia che gli davano per farlo giocare”

Augusto Frongia, medico sociale del Cagliari che si ritrovò di fronte Taccola praticamente già privo di vita nello spogliatoio, testimoniò: “Il problema non furono le cure fatte, ma quelle non fatte. Certo, anch’io ho sentito dire che lo dopavano per farlo giocare. Anche se così fosse non ci sarebbe un nesso con la sua morte. Posso confermare che la mattina della partita Herrera portò anche Taccola sulla spiaggia del Poetto per la rifinitura pre partita. A fine allenamento il Mago si rese conto che il calciatore non ce la faceva più e accettò di mandarlo in tribuna. Secondo testimonianze affidabili, il ragazzo avrebbe seguito tutta la partita tremando come una foglia. Continuava a ripetere: ‘Non mi credono, ma io sto morendo. Sto morendo e non mi credono.”

Infine Francesco “Ciccio” Cordova, calciatore della Roma che seguì da vicino la vicenda del suo compagno di squadra: “Taccola non stava bene ma il mister lo voleva in campo a tutti i costi, gli serviva. Così adottò il ricatto: la divisione dei premi partita secondo chi giocava. Taccola aveva fatto grossi investimenti in quel periodo, aveva bisogno di denaro e Herrera lo sapeva bene: ‘Niente partita? Niente dinero’ gli diceva sempre. Il medico della Roma lottò fino all’ultimo per tenere Taccola a riposo. Ma nemmeno l’intervento del presidente Marchini cambiò le cose, quando al povero Giuliano saliva la febbre, gli faceva fare certe punture e lo risbatteva in campo.”

Durante Spal-Roma di poche settimane fa, i tifosi giallorossi hanno ricordato Giuliano Taccola a 50 anni dalla sua scomparsa: è tornata anche a farsi sentire sui giornali la voce della moglie Marzia, che ha atteso mezzo secolo senza avere mai il conforto della verità.

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Calciatori Fabio Belli

Gordon Banks e la parata su Pelé: la più bella di sempre

di Fabio BELLI

Il periodo alla fine degli anni ’60 è stato sicuramente il più florido di successi per la nazionale inglese. Dopo le storiche umiliazioni degli anni ’50, col mondiale brasiliano e le sconfitte contro la leggendaria Ungheria che fecero scendere definitivamente gli inventori del football dal loro piedistallo, la Football Association si era messa al lavoro per eliminare quell’alone grigio che aveva resto il calcio d’oltremanica quantomeno antiquato. L’arrivo di Alf Ramsey alla guida della selezione dei Tre Leoni cambiò la storia e la vittoria nel Mondiale disputato in casa nel 1966 riportò gli inglesi al livello delle grandi potenze calcistiche. Di quella nazionale ricchissima di talenti, da Charlton a Moore, da Hurst a Peters, l’Inghilterra conserva anzi un ricordo che sfocia nel rimpianto visto che, al di là dell’exploit iridato, quella formidabile generazione non venne sfruttata per mietere ulteriori successi.

Agli Europei del ’68 in Italia, risoltisi con un ulteriore trionfo di chi ospitava la manifestazione, arrivò solo un terzo posto che, attualmente, è ancora il miglior risultato in assoluto per gli inglesi nella rassegna continentale. Ma il rammarico maggiore si concentra sulla successiva partecipazione in un Campionato del Mondo destinato a restare nella leggenda, quello del 1970 in Messico. L’Inghilterra subì la vendetta da parte dei tedeschi, battuti in finale quattro anni prima, che si imposero nei quarti di finale rimontando da 0-2 a 3-2. Fu il match che segnò il passo d’addio di Ramsey in un “Mundial” comunque costellato di episodi destinati a rimanere a lungo nella memoria dei britannici. Su tutti quella che viene ancora considerata la più incredibile parata di tutti i tempi.Venne effettuata da Gordon Banks su Pelé nel match vinto di misura dal Brasile contro gli inglesi nella fase eliminatoria.

Il numero uno di Sheffield resta assieme a Peter Shilton il più grande estremo difensore inglese di sempre. Curioso che entrambi abbiano speso gli anni migliori della loro carriera al Leicester City e che, ai tempi del Mondiale 1970, Banks giocasse già nello Stoke City dove si era trasferito proprio perché la dirigenza del Leicester aveva deciso di lanciare Shilton come titolare. Banks era comunque sulla cresta dell’onda anche dopo aver lasciato Leicester e si era presentato in Messico con le credenziali di miglior portiere del pianeta assieme al russo Jascin. I Campioni del Mondo in carica vennero sorteggiati nel girone eliminatorio contro il fortissimo Brasile di Pelé che raccoglierà la loro eredità, imponendosi come detto nello scontro diretto, anche se poi inglesi e brasiliani approderanno a braccetto ai quarti di finale.

Di quella partita, disputata il 7 Giugno del 1970 a Guadalajara, i tifosi inglesi ricorderanno però per sempre la prodezza di Banks su un colpo di testa a botta sicura di O Rey. Jairzinho, che segnerà poi il gol partita, si liberò sulla destra pennellando un cross irresistibile per quello che allora era unanimemente considerato il più forte giocatore del mondo. Pelé schiacciò di testa con potenza da posizione ravvicinata e praticamente a colpo sicuro, con Banks lanciato in un tuffo “coast to coast”, costretto com’era stato dall’azione di Jairzinho a coprire sul primo palo. Il gol sembrava inevitabile, ma lo slancio di Banks ebbe del soprannaturale: nonostante la palla avesse rimbalzato praticamente sotto il suo naso, con la mano di richiamo riuscì a deviare il pallone sopra la traversa. Lo stesso Pelé, mentre il Brasile si apprestava a battere il conseguente calcio d’angolo, si avvicinò a Banks con l’indice puntato dicendo, come testimoniato dal portiere: “Non è possibile quello che hai fatto”. Di sicuro si trattò di un gesto atletico forse irripetibile, incastonato tra gli episodi che hanno immortalato nella storia quella magica estate messicana.

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Calciatori Club Fabio Belli

Ezio Vendrame: se lo mandi in tribuna, gode

di Fabio BELLI

Ma è proprio vero che una volta Ezio puntò la propria porta per protestare contro un pareggio già scritto in una partita contro la Cremonese e si fermò sulla linea di porta, causando però un infarto ad uno spettatore in tribuna? Ed è accaduto anche che quando i compagni di squadra non si smarcavano in zona d’attacco,polemicamente saltava a due piedi sopra il pallone e in quell’equilibrio precario scrutava l’orizzonte davanti a sé per capire dove lanciare, con la mano sopra la fronte tipo vedetta? Ed è vero che nella stagione trascorsa a Napoli approfittava delle mancate convocazioni del tecnico Vinicio per sgattaiolare via nei bagni, durante l’intervallo, per consumare un amplesso con qualche signora in vista della tribuna centrale del San Paolo?

D’altronde il titolo del suo primo libro autobiografico, “Se mi mandi in tribuna, godo“, è piuttosto eloquente in questo senso. Ma con i personaggi come Ezio Vendrame, poeta del gol ma non alla maniera di Claudio Sala perché lui la poesia la concentrava prevalentemente fuori dal campo, non capisci mai dove finisca la realtà ed inizi la leggenda. Da ex calciatore, dopo la grande amicizia consumata con Piero Ciampi (raccontò: “L’ultima volta che lo vidi litigammo furiosamente. Lui non voleva smettere di bere e pretendeva che rimanessi alzato con lui fino all’alba inoltrata.Alla fine, quasi per scusarsi del suo comportamento, mi disse: “Ma Ezio… io sono un poeta!” Purtroppo l’alcol era ormai per Piero fuori controllo … ma rimane pur sempre la persona migliore che io abbia mai incontrato“), oltre alla sua biografia calcistica si è prodotto nella composizione di poesie.

Al pallone ci ha pensato solo per allenare i ragazzini della Sanvitese, in Friuli, a pochi passi da dove è nato. Ovvero Casarsa della Delizia, terra materna di Pier Paolo Pasolini. La frase “Vorrei allenare una squadra di orfani” è sua, figlia dell’insofferenza verso le esasperazioni dei genitori dei piccoli calciatori. Lo stesso libro sopra citato è permeato da aneddoti reali mischiati a racconti che sconfinano nella barzelletta riadattata. Questo Vendrame lo sa e ci gioca sopra. Per lui il calcio non è mai stata una cosa da prendere sul serio.

Tutto il resto, donne comprese, assolutamente sì, invece: quando era una giovanissima promessa il presidente della Spal, Paolo Mazza, gliela giurò perché preferiva trascorrere il tempo con un'”amichetta” piuttosto che ad allenarsi. Andò al Vicenza e stupì tutti con una classe cristallina assolutamente naturale ed imprevedibile. Gli appiccicarono addosso l’etichetta di “George Best italiano” per la convergenza storica con il fenomeno del Manchester United che si abbinava ad una somiglianza fisica quasi perfetta. Ma Ezio si esaltava più per la perfetta incompiutezza di un gol sbagliato che per una sequela di palloni in fondo al sacco, tutti uguali. Una volta raccontò: “Nereo Rocco mi dava del pazzo e la cosa, non lo nego, mi faceva enormemente piacere. Più semplicemente io amavo giocare a pallone ma non mi piaceva fare il calciatore. Mi sentivo stretto, risucchiato, prigioniero anche perché i vincoli, non solo societari ma anche se vogliamo chiamarli così, ‘morali‘, erano ancora molto forti in quegli anni ’70. Hai voglia a dire che c’era stato il ‘68 e che la contestazione giovanile aveva cambiato il mondo… L’Italia era ancora un paese retrogrado e bigotto e il mondo del calcio lo era ancor di più“.

Nel 1969 a Siena regalò un cappotto da 70.000 lire, appena comprato, a uno zingarello che chiedeva la carità: “Aveva più freddo di me,” spiegò lapidario. Vicenza fu la sua pagina migliore: il suo più grande rimpianto? Non aver mancato il passaggio ad una grande del calcio italiano, come la Juventus o l’Inter, ma non aver resistito alla tentazione di rifilare un tunnel a Gianni Rivera: “L’ho vissuta come una mancanza di rispetto nei confronti di quello che era un mio idolo ma me lo ritrovai lì, mi venne incontro e aveva la gambe aperte. Subito dopo mi scusai con lui … anche se quando apri troppo le gambe qualche rischio lo corri sempre!

All’apice della carriera passò al Napoli ma Luis Vinicio, allenatore azzurro nella stagione 1974/75, gli concesse solo tre presenze in quel campionato, allergico alla sua totale inaffidabilità. A soli 28 anni iniziò il declino di una carriera mai davvero sbocciata. Fino ad arrivare al Padova in C dove avvenne il fattaccio con la Cremonese: ribellatosi alla “torta” col punto a fine stagione che stava bene a entrambe le squadre dribblò la sua intera squadra da un lato all’altro del campo senza che nessuno potesse fermarlo. Fino a fintare il tiro davanti al proprio portiere che si tuffò inutilmente su di lui cercando di togliergli il pallone dai piedi. Vendrame lo scartò per poi fermarsi in prossimità della linea di porta e ritornare indietro. In quell’occasione un tifoso sugli spalti morì d’infarto e quando questo gli fu riferito, Vendrame rispose: “Mi chiedo come sia possibile che qualcuno debole di cuore ancora decida di venirmi a vedere giocare.”

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Vita e opere di Manlio Scopigno: un filosofo in panchina

di Alessandro IACOBELLI

Il 20 novembre 1925 in quel di Paularo, nella provincia del Friuli, nasce un ‘filosofo’. Il suo nome è Manlio Scopigno.

Calcio e università sono le costanti che dominano nella sua mente. Con la famiglia si trasferisce a Rieti, luogo amato fino in fondo. Nella quiete dei territori della sabina Manlio indossa casacca e scarpini. Tre anni intensi e poi, con il prolungato intervallo alla Salernitana, il salto in Serie A nel Napoli. L’esperienza partenopea però è di fatto il culmine del sogno da calciatore. Nel bel mezzo di un roboante 7-1 sul povero Como il ginocchio di Scopigno fa crack. L’inferno del dolore, delle visite e di troppe sofferenze. Manlio prende la drastica decisione di lasciare il rettangolo verde.

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Il ritorno a Rieti apre le pagine del diario da allenatore. Intanto, per l’impossibilità di conciliare libri e lavoro, l’università di Roma saluta il pensatore friulano. La gavetta non manca di certo tra Rieti ed Ortona. Mister Lerici nel 1959 lo accoglie a Vicenza offrendo al tecnico emergente il ruolo da vice-allenatore.

Da allievo a maestro l’attesa non è eterna. Nel 1962 infatti Scopigno conduce la truppa biancorossa alla meta della salvezza da comandante. Il ‘filosofo’ Manlio sperimenta idee e schemi riflettendo sul tema della tattica esistenziale. Un autentico precursore del calcio totale olandese. Un personaggio mai banale con il Whisky in una mano e la sigaretta nell’altra.

Il Bologna, per il campionato 1965-1966, lo corteggia sperando di rivivere le recenti emozioni. La tenerezza resiste la penuria di cinque giornate. Il ben servito arriva con una lettera in cui Scopigno sottolinea alcuni errori grammaticali da censura.

Il ‘filosofo’ quindi riparte da un esilio che si rivelerà magnifico. La Sardegna si trasforma nell’oasi felice per traguardi strepitosi. Lo stadio Amsicora di Cagliari si trasforma in una bolgia. Capitan Cera, il difensore Niccolai, il brasiliano Nené, il dinamico centrocampista Domenghini. Poi lui, il Bronzo di Riace del calcio italiano. Gigi Riva sogna e fa sognare il popolo rosso-blu. Le lezioni del Professor Scopigno sono stimolanti e mai noiose. Nel 1969-1970 la storia sportiva e sociale dello stivale viene riscritta con caratteri cubitali ed indelebili. Per il ‘filosofo’ il rito domenicale nell’anno di grazia si materializza non in panchina ma sugli spalti gremiti della tribuna.

Per un comportamento poco spensierato posto in essere nei confronti del guardalinee impegnato nel match con il Palermo. Cinque lunghi mesi di punizione. Manlio resta lucido alla guida dei suoi ragazzi. L’odore del riscatto del sud si avverte già dall’alba del torneo. Il testa a testa chiama in causa la Juventus di Anastasi e l’Inter di Facchetti e Suarez. La partita decisiva, il 15 marzo, estrae un pareggio non privo di polemiche con l’arbitro Lo Bello. Riva timbra una doppietta. Tempo un mese e lo scudetto si stampa sul petto del Cagliari. Ancora Riva, capocannoniere del campionato, e Gori regolano il Bari. L’arena Amsicora celebra il tricolore. Un’overdose di gioia. Nella stagione successiva l’infortunio del pezzo forte Riva interrompe l’incantesimo del bis tricolore e della Coppa dei Campioni.

La sponda giallorossa della capitale si appella al ‘filosofo’ per aspirare ad una rinascita. Scopigno allora lascia la Sardegna. Il sodalizio con il patron Anzalone dura un batter d’occhio con l’unica consolazione di aver lanciato un timido ma talentuosissimo Agostino Di Bartolomei.

L’ultima pagina del manuale filosofico di Manlio Scopigno narra del ritorno al Lanerossi Vicenza. Sostituisce l’uruguagio Hector Puricelli senza riuscire a compiere il miracolo della salvezza. In cadetteria viene rapito da una prolungata malattia. Il brasiliano Cinesinho subentra all’altezza del ventesimo turno.

Scopigno si rifugia nel silenzio spensierato di Rieti. Nel 1993 il cuore ferma la sua corsa lasciando un vuoto nella quotidianità di molti appassionati della sfera inseguita dai simboli del calcio.

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Calciatori Fabio Belli

7 febbraio 1970, Manchester United – Northampton 6-0: sei volte the Best

di Fabio Belli

7 febbraio 1970: un turno di FA Cup come ce ne sono stati tanti, e come tanti ce ne saranno in futuro. Il Manchester United sicuramente in quegli anni ha vissuto sfide e storie più emozionanti: dalle ceneri del disastro aereo di Monaco, Matt Busby ha saputo costruire una squadra da leggenda, la prima capace di portare la Coppa dei Campioni in Inghilterra, la seconda in assoluto in Gran Bretagna dopo il Celtic. Una partita col Northampton Town, in un Old Trafford massacrato dal fango a causa del maltempo tipico dei primi giorni di febbraio, non ha esattamente il massimo dell’appeal.

Tuttavia, c’è il pubblico delle grandi occasioni a seguire i Red Devils. Il fascino della FA Cup che in Inghilterra è sempre forte, certo, ma c’è anche un’altra motivazione a spingere i tifosi. George Best, a poco più di un anno dal riconoscimento più ambito per un calciatore a livello individuale, il Pallone d’Oro, torna in campo da titolare dopo uno stop disciplinare di sei settimane. Disciplinare, esatto, ma non dovuto al giudice sportivo: è stato il club a fermare il numero sette nordirlandese, come sanzione per le sue continue intemperanze dentro e fuori dal campo.

E’ soprattutto in allenamento che Best riesce a dare il peggio (o il meglio, dipende dai punti di vista) di sé: si presenta in pelliccia o non si presenta proprio, ha l’indolenza di un pensionato al bar, e qualcuno ha anche riferito ai manager come abbia pagato i giocatori delle giovanili per guardarlo in performance all’interno dello spogliatoio con signorine di che sportivo non avevano poi molto. Gli eccessi di Best sono leggendari, e chi conosce la sua storia sa bene come lo porteranno ad una chiusura della carriera incredibilmente precoce, soprattutto se commisurata al talento a disposizione. Ne è consapevole lo stesso “Georgie”, che tuttavia non ha preso bene la sanzione in questione. Anzi, l’ha presa malissimo, come se il Manchester United, in cui Bobby Charlton contava come un dirigente, lo volesse sfruttare come capro espiatorio in seguito al caso fisiologico dopo i tanti trofei conquistati alla fine degli anni sessanta.

Bene, Manchester United-Northampton è forse una delle pochissime testimonianze sul campo di ciò che Best avrebbe potuto fare spingendo sempre sull’acceleratore sul campo, e mai nella vita. Il “sette” si presenta tirato a lucido al cospetto di un avversario modesto, ma quanti mediocri terzini in fondo erano riusciti ad annullare il talento di Best se in giornata no, soprattutto se reduce da una sbronza o da una fuga romantica con qualche miss da copertina? Ecco, quel 7 febbraio del 1970, esattamente 45 anni fa, il Northampton ebbe un assaggio del Best atleta: nulla a che vedere neppure col Best genio, che piegò il Benfica in Coppa dei Campioni dribblando tutti ma rinunciando a sdraiarsi sulla linea di porta e spingere il pallone in rete di testa “per non far venire un infarto a Busby”, come da lui stesso narrato.

Il risultato finale dirà: Manchester United-Northampton Town 6-0. Marcatori: Best, Best, Best, Best, Best, Best. Esatto, il Best inedito è quello che segna sei reti lottando su tutti i palloni, sfruttando tutti gli spazi e rinunciando a servire le valanghe di assist che regalavano gloria ai compagni, poi pronti subito a scaricarlo di fronte alle sue debolezze. Un gol per ogni settimana di sospensione: un altro paio se li mangia per puro egoismo, per il gusto di far vedere che certe partite, volendo, avrebbe potuto giocarle anche da solo. E al sesto pallone in fondo al sacco, Best abbraccia il palo esausto, al culmine di una perfomance irripetibile per chiunque altro: a osservarlo, l’esultanza si riduce in uno sguardo pieno di malinconia che si trasforma in un ghigno beffardo. La conferma, nella sua mente, che sei gol su un campo di calcio non valevano la felicità, e che non c’era motivo di avere rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. Sei gol in una partita non erano quello che Best cercava dalla vita, ed è stata questa consapevolezza a renderlo unico.

 

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Club Fabio Belli

Dundee, il derby dei vicini di casa

di Fabio Belli

Nella mappa infinita dei derby del mondo, quello di Dundee, nonostante una storia ultracentenaria, viene spesso snobbato. Eppure, la sfida tra il Dundee Football Club, fondato nel 1893, ed il Dundee United, costituito sedici anni dopo nel 1909, racchiude in sé una quantità di particolarità assolutamente considerevole.

Dundee è la quarta città della Scozia: dopo Glasgow, Edimburgo e Aberdeen, e nella stagione in corso è l’unico centro che può vantare un derby nella Scottish Premier League, con i Rangers ancora impegnati nella loro scalata post-fallimento, per tornare a disputare l’Old Firm contro il Celtic, e le formazioni della capitale rovinare a braccetto in First Division l’anno scorso. Ma le due squadre locali sono anche le uniche a poter vantare una particolarità assoluta a livello internazionale: gli stadi delle due squadre sorgono ai rispettivi estremi della stessa via (sono ad Avellaneda, in Argentina, Racing e Independiente sono vicini “di stadio” in questo modo).

Dens Park (per il Dundee Fc) e Tannadice Park (per il Dundee United) sono praticamente l’uno di fianco all’altro in linea d’aria. In tempi recenti è capitato che le due squadre giocassero in contemporanea (soprattutto quando il Dundee Fc era impegnato in First Division) e che le rispettive tifoserie si lanciassero qualche coro a poche centinaia di metri di distanza, soprattutto quando i rispettivi tabelloni luminosi portavano divertenti notizie sul risultato dell'”altra”.

D’altra parte va sottolineato come la rivalità tra i due club sia un po’ anomala per gli standard della Gran Bretagna, e soprattutto della Scozia, dove la divisione calcistica delle tifoserie si rispecchia anche il quella politica e religiosa (vedi l’Old Firm, ma anche la sfida tra Hearts e Hibs a Edimburgo). Quella tra i due club di Dundee nasce e finisce nel calcio, e non ci sono motivazioni di gruppo, e neanche di quartiere (essendo appunto i due stadi dislocati nello stesso identico punto della città), e dunque capita che nelle famiglie di Dundee al sabato ci si divida: padre e figlio minore a Tannadice, zio e figlio maggiore al Dens, tanto per dirne una.

Una rivalità che non ha nulla a che vedere con quella di Glasgow, dunque, e che in Italia può essere accostata a quella tra Genoa e Sampdoria. Sul piano sportivo, solitamente a Dens Park la fanno da padrone la nostalgia e l’orgoglio di essere nati quasi vent’anni prima dei rivali, oltre alla rievocazione del titolo (unico nella storia del club) del 1963, al quale fece seguito anche il raggiungimento della finale di Coppa dei Campioni. A Tannadice Park invece, oltre a vantare una presenza molto più costante in Premier League degli ultimi venti anni, possono vivere di ricordi più recenti, con l’epoca d’oro che risale agli anni 80: Jim McLean in panchina, il titolo del 1983, le vittorie nelle coppe nazionali e la finale di Coppa dei Campioni sfiorata nel celebre doppio confronto contro la Roma nel 1984. Ora resta l’orgoglio di rappresentare l’unico derby di Scozia ai massimi livelli: con passione e orgoglio per i propri colori, ma senza mai scordare le regole del buon vicinato.