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Club Fabio Belli

Una squadra di un pub sta facendo strada nelle Coppe Europee

L’incredibile storia dei Bruno’s Magpies di Gibilterra, al secondo turno preliminare di Conference League

Dopo tre edizioni, le perplessità che molti hanno avuto sull’istituzione della Conference League sono state in parte smentite, in parte confermate. Una terza competizione Europea si è dimostrata un’ottima idea sul piano della partecipazione popolare, basti vedere la risposta di pubblico avuta negli stadi di Nazioni che col tempo erano finite tagliate fuori dal grande giro della Champions e dell’Europa League. Sul piano qualitativo, è stato invece inevitabile trovarsi di fronte a una competizione di terzo livello, come l’ultima finale tra Olympiakos e Fiorentina ha confermato sul piano del livello del gioco.

Per gli amanti di un certo tipo di calcio però, la Conference è già stata nell’ultimo triennio una vera e propria fucina di storia davvero particolari. L’anno scorso il KI Klaksvik è stata la prima squadra delle Far Oer a disputare una fase a gironi di una competizione UEFA e questa estate stanno arrivando risultati sorprendenti dalle squadre di San Marino: La Fiorita ha ottenuto contro i bielorussi dell’Isloch la prima vittoria europea della sua storia e affronterà nel secondo turno preliminare i turchi del Basaksehir, che hanno giocato recentemente la Champions League. La Virtus Acquaviva, dopo la storica sfida di Champions contro la Steaua Bucarest (ora FCSB) ha fermato sul pari gli estoni del Flora Tallinn e potrebbe puntare a uno storico accesso al terzo turno. Ma la storia più particolare di questa estate di Conference League arriva senza ombra di dubbio da Gibilterra.

Storia che parte da un pub chiamato “Da Bruno“, con Gibilterra che abbonda inevitabilmente di questo tipo di esercizi essendo discendente della cultura anglosassone. Pub che viene rilevato da un ragazzo di nome Louis: il “Bruno” del locale era probabilmente il vecchio esercente, resta di fatto che ora non c’è più. Al pub di Bruno però vengono a bere e a guardare calcio molti ragazzi, tanto che Louis si vanta del fatto che il locale sarebbe “l’unico posto che vale la pena visitare a Gibilterra“. Quantomeno per trovare un po’ di vita.

Un pub è il luogo ideale per socializzare e Louis fa amicizia con Mick, ragazzo inglese tifosissimo del Newcastle che si vanta dei suoi trascorsi da allenatore. Come accade in molti altri bar, pub o anche ristoranti del mondo, si decide di organizzare una squadra di calcio: per iscriverla ai campionati di Gibilterra bastano 500 sterline, il nome lo sceglie Mick ed è un omaggio alla sua squadra del cuore: nascono così i Bruno’s Magpies.

Louis Perry, proprietario del pub Bruno’s, diventa presidente del neonato club, mentre Mick Embleton, come detto, è l’allenatore. Nelle prime due stagioni i Bruno’s Magpies iniziano a distinguersi come la squadra degli expats inglesi a Gibilterra, mentre gli altri club hanno in maggioranza giocatori di origine spagnola tra le loro fila. Chi gioca con i Magpies ha birra a volontà come ingaggio, niente di più. Il ruolo di Mick è decisivo per organizzare una realtà del tutto amatoriale, poi nel 2016 il salto di qualità con l’ingaggio di David Wilson, allenatore dei Lions Gibraltar che giocano nella massima serie locale, che gli amici del pub di Bruno raggiungono per la prima volta nel 2019.

In pratica i Bruno’s Magpies sono la microrealtà di una microrealtà: a Gibilterra il campionato dal 2008 viene vinto invariabilmente dalla squadra più prestigiosa, il Lincoln Red Imps (che nel 2016 fece la storia battendo nel secondo turno preliminare di Champions League il Celtic Glasgow con un gol di Lee Casciaro) con qualche sporadica interruzione da parte dell’Europa FC. Queste due squadre sono le uniche ad affacciarsi nelle competizioni continentali ma l’istituzione della Conference League apre una porta in più nella quale i Magpies si inseriscono nel 2022 grazie al quarto posto in campionato e al primo trofeo della loro storia, la Rock Cup di Gibilterra vinta nel 2023 ai rigori proprio contro il Lincoln.

I Bruno’s Magpies chiudono al terzo posto il campionato 2023/24 e si ripresentano ai nastri di partenza della Conference League: qui arriva l’appuntamento con la storia. Nell’unico impianto omologato di Gibilterra, il Victoria’s Stadium, i Magpies (che per le competizioni europee su indicazione dell’UEFA omettono il nome del locale) hanno battuto 2-0 gli irlandesi del Derry City. Altra squadra dalla storia notevole visto che si tratta dell’unico club nordirlandese a giocare nel campionato della Repubblica d’Irlanda: la città della “Bloody Sunday” e di altri racconti purtroppo drammatici.

I marcatori sono stati il gallese Ash Taylor e il messicano Francisco Zuniga ma il gol della storia l’ha segnato nel match di ritorno del 18 luglio scorso Evan De Haro, nativo di Gibilterra e capace nei supplementari di insaccare il 2-1 decisivo, su tiro che, da distanza siderale, il numero 7 Juan Jesus aveva mandato a sbattere sulla traversa. E così per la prima volta una squadra di un pub, che fa riferimento a un locale di mescita e ristorazione, ha fatto strada in una competizione UEFA.

Non è la prima volta invece che Gibilterra avanza nelle Coppe: il Lincoln Red Imps in Champions perse 3-0 il ritorno contro il Celtic dopo la storica vittoria sopra citata, ma resta la prima squadra del luogo ad aver partecipato ad una fase a gironi, nella Conference League 2022/23, la prima edizione. Difficile che i Bruno’s Magpies riescano ad eguagliare questa impresa visto che nel secondo turno preliminare dovranno affrontare il Copenaghen: un regalo meraviglioso per i ragazzi del pub di Gibilterra, considerando che solo nel febbraio scorso il “Parken” è stato teatro della sfida degli ottavi di finale di Champions League tra i danesi e il Manchester City di Guardiola. Una passerella straordinaria da festeggiare al ritorno con qualche pinta di birra in più.

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Club Fabio Belli

La Champions arriva a San Marino. Davvero.

Virtus-FCSB apre una nuova era per le squadre del Titano nelle Coppe Europee

Martedì 9 luglio la nuovissima e discussa Champions League, che culminerà con la fase a “campionato” considerata da molti un vero e proprio surrogato della Superlega, aprirà i battenti. Si giocheranno le gare del primo turno preliminare, un programma in cui spicca un appuntamento impossibile da non notare per gli appassionati di un certo tipo di calcio di “nicchia”.

Il cambio di formula infatti ha portato alla cancellazione di quel “preliminare del preliminare” che portava i club campioni nazionali degli ultimi quattro paesi del ranking UEFA a contendersi l’unico posto disponibile per il primo preliminare vero e proprio. Un ragionamento arzigogolato ma chi conosce la situazione sa di cosa stiamo parlando. Sul fondo del ranking, inevitabilmente, c’erano le squadre di San Marino che nella loro storia dunque hanno formalmente disputato sempre una sorta di anticamera della Champions, vivendo come un appuntamento prestigioso gli scontri con squadre nordirlandesi o armene.

Da quest’anno però, come detto, la musica cambia: tutte le squadre partono dall’inizio senza preamboli, nel lungo cammino verso la fase “a campionato” che l’anno scorso (quando si rincorrevano ancora ai gironi) ha portato ad esempio alla ribalta le imprese del KI Klaksvik, capace di eliminare club svedesi e ungheresi per poi accedere alla fine alla fase a gironi di Conference League, traguardo straordinario per un minuscolo club delle Far Oer.

Difficile pensare che per i campioni di San Marino possa succedere lo stesso, ma il sorteggio del primo turno preliminare della Champions League 2024/25 ha regalato comunque una grande soddisfazione agli appassionati del Titano. A Serravalle scenderà infatti in campo, martedì prossimi, l’FCSB, al secolo la Steaua Bucarest a sua volta colpita da un rocambolesco cambio di denominazione negli ultimi anni. Il 31 marzo 2017 il tribunale supremo della Romania ha accolto un ricorso del Ministero della Difesa, obbligando la società a rinunciare anche alla denominazione Steaua (riavocata all’esercito): la società ha cambiato dunque ufficialmente nome in Fotbal Club FCSB, continuando però ad utilizzare informalmente il nome di Steaua Bucarest (avallata in tal senso da UEFA e federcalcio rumena).

Al San Marino Stadium arriverà dunque per una partita ufficiale contro un club locale, per la prima volta nella storia, una squadra Campione d’Europa, con la Steaua che vinse lo storico titolo del 1986 a Siviglia contro il Barcellona grazie alle parate a ripetizione di Helmut Duckadam nella crudele lotteria dei calci di rigore. Ad affrontare la Steaua/FCSB, in maniera altrettanto suggestiva, sarà la Virtus del Castello di Acquaviva, reduce dalla conquista del suo primo Scudetto in assoluto a San Marino.

L’FCSB ha conquistato nella stagione appena trascorsa il suo ventisettesimo titolo di Romania e sembra voler compiere qualche passo verso il suo blasone perduto, considerando che dal 2018 non fa strada nelle Coppe Europee oltre le fasi preliminari (sedicesimi di Europa League persi contro la Lazio). Il punto però è che mai un avversario di tale blasone è sceso in campo a San Marino per un’impresa europea e il fatto che a vivere questo appuntamento sarà un’esordiente assoluta in Champions rende il tutto ancor più suggestivo.

Un’altra curiosità è legata alla presenza di Federico Piovaccari tra le fila della Virtus: il club sammarinese si è rinforzata con il bomber classe 1984, che a 40 anni si rimette in gioco sul palcoscenico della Champions League che ha già calcato proprio con la maglia della Steaua Bucarest, nella stagione 2013/14 che fu l’ultima per il club romeno con la storica denominazione. La Steaua raggiunse partendo dai preliminari la fase a gironi della massima competizione europea e Piovaccari giocò 12 partite segnando anche 4 gol. Ora ci riproverà giocando contro l’FCSB da avversario, con l’appuntamento di martedì 9 luglio 2024 alle ore 21.00 al San Marino Stadium che si preannuncia come la più importante sfida di club mai disputata da un club del Titano.

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Calciatori Club Fabio Belli

Giuliano Fiorini ed il gol che salvò la vita alla Lazio… e non solo

di Fabio BELLI

Le storie di tutte le squadre di calcio del mondo sono costellate di gol importanti, alcuni fondamentali, pietre miliari nella vita del club. Reti che hanno regalato scudetti, trofei internazionali, derby, salvezze e promozioni, o sensazioni uniche a chi era allo stadio. Pochissimi club però possono legare una storia, al momento ultracentenaria, all’esito fortunato di una singola partita. Uno scenario questo più consono ad un film che a una competizione sportiva, ma la romanzesca e tormentata storia della Lazio, spesso e volentieri proprio ad una pellicola da Oscar ha finito con l’assomigliare.

Nell’estate del 1986 il sodalizio biancoceleste si ritrova ad affrontare l’ennesima tempesta: non è la prima e non sarà l’ultima, ma in quel particolare caso è in gioco l’esistenza stessa della società. Schiacciata dai debiti dopo la sciagurata gestione-Chinaglia e implicata in un secondo scandalo delle scommesse dopo quello del 1980, la Lazio viene retrocessa in serie C/1 il 5 di Agosto, a causa degli illeciti contestati all’allora tesserato Vinazzani. Il punto è che i nuovi proprietari Calleri e Bocchi, già alle prese con un durissimo piano di risanamento e rilancio finanziario, sono chiari: se gli organi competenti non rivedranno la loro decisione, il loro impegno verrà meno, e la Lazio cesserà di esistere.

Ne segue un lungo mese di proteste e passione per i tifosi laziali, che culmina con la sentenza della CAF che mantiene la squadra allora allenata da Eugenio Fascetti in cadetteria, ma con 9 punti di penalità da scontare. Nell’epoca dei due punti a vittoria, ha quasi il sapore di una condanna posticipata, ma la squadra parte a razzo facendo addirittura pensare ad un’incredibile promozione: illusione che svanisce presto sotto i colpi di stress e stanchezza, che portano i biancocelesti a giocarsi la permanenza in B in un’infuocata domenica di Giugno, allo stadio Olimpico contro il Vicenza, allora ancora “Lanerossi”.

Una partita per la sopravvivenza: al di là dell’onta della terza serie, la Lazio deve evitare una retrocessione che comporterebbe il definitivo dissesto finanziario, con i nuovi azionisti di maggioranza che, a causa dei minori introiti della C, non potrebbero più far fronte agli impegni presi nella stagione 1987/88. Un incubo, un thriller in piena regola anche perchè il Vicenza con un pari si garantirebbe almeno gli spareggi per non retrocedere. E per i tifosi laziali la nemesi si materializza nelle fattezze del portiere dei veneti Ennio Dal Bianco, che para l’impossibile di fronte agli attacchi di una Lazio per nove undicesimi protesa in avanti, fatta eccezione per il portiere Terraneo ed il libero Marino.

Ma come in tutti i film a lieto fine, c’è sempre un eroe a portare la vittoria e la catarsi. Un eroe anticonvenzionale, con i capelli lunghi, un fisico non asciuttissimo e dedito fuori dal campo a tre passioni non strettamente legate fra di loro: famiglia, whisky e sigarette. “Il più forte attaccante del mondo senza fuorigioco“, lo definivano i compagni di squadra con un pizzico di ironia ma anche con tanta ammirazione per la sua generosità: Giuliano Fiorini, che a meno di dieci minuti dalla fine, consente alla Lazio di superare il muro-Dal Bianco e continuare a vivere, anche se la salvezza finale dovrà passare attraverso gli spareggi contro Taranto e Campobasso, all’inizio di Luglio.

Ma come in quei film che riservano ancora una scena dopo i titoli di coda, anche questa storia ha un’appendice sorprendente e commovente: l’eroe mancato della partita per il Vicenza, Dal Bianco, il portiere arrivato oltre i propri limiti, rientra a casa da Roma con la retrocessione che ancora brucia sulla pelle. Ma c’è poco tempo per pensarci: trova il figlioletto (oggi 32enne) in preda ad un malore, la corsa all’ospedale è provvidenziale. Un soccorso che sarebbe mancato senza il gol di Fiorini, visto che il Vicenza in caso di risultato positivo sarebbe andato subito in ritiro per gli spareggi, senza far passare da casa i calciatori. “Sono emotivamente legato a Lazio-Vicenza perché a volte le grandi delusioni si trasformano in grandi gioie. Era previsto, infatti, che se avessimo pareggiato con i biancocelesti avremmo partecipato agli spareggi a Napoli, rimanendo quindi a Roma per una settimana senza tornare a Vicenza. Tornai invece a casa, mio figlio piccolo ebbe dei problemi fisici ed io, nonostante il parere di tutti, decisi di farlo ricoverare nonostante. Ciò gli salvò la vita. Una sconfitta in campo si trasformò in un evento salvifico.” E allora quel gol di Giuliano sembra una volta di più scritto nel destino.

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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Allenatori Club Fabio Belli

Il Real Torino di Emiliano Mondonico

di Fabio Belli

Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.

Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.

Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia 1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.

Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.

Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.

 

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Calciatori Club Fabio Belli

Washington Cacciavillani: la “meteora” con un leone al guinzaglio

di Fabio BELLI

Anni ’50: il periodo in cui l’infatuazione del calcio italiano verso quello sudamericano tocca i massimi storici. La promessa di talenti “tanto al chilo” che giungono via nave da oltreoceano è troppo allettante e produrrà quella che, fino al ’66, l’anno dell’ignominiosa Corea per la nazionale azzurra, sarà ricordata come l’invasione degli oriundi. Nel 1955 tra di essi c’è anche un quasi ventiduenne “punteiro” uruguaiano di buone speranze, tanto che l’Inter decide di scommettere su di lui: Washington Cacciavillani.

I nerazzurri, dopo il settimo scudetto della loro storia conquistato nel ’54, non hanno saputo ripetersi concludendo la stagione 1954-55 con un deludente ottavo posto. C’è dunque la necessità di un rinnovamento che passa attraverso l’ascesa alla presidenza di Angelo Moratti, il quale avvierà un ciclo lungo ben 13 stagioni. Ma la storia di Cacciavillani sembra ricalcare, con 40 anni di anticipo, quella delle meteore che dalla seconda metà degli anni ’90 in poi contraddistingueranno la presidenza del figlio Massimo.

I tifosi che possono leggere sui quotidiani dell’ingaggio di “Cacciavillani dal River Plate” fanno voli pindarici per un brevissimo lasso di tempo: nelle pagine interne è specificato che il giocatore non arriva dai mitici “Millionarios” di Buenos Aires bensì dal meno blasonato River Plate di Montevideo, Uruguay.

Ad ogni modo la maglia nerazzurra Cacciavillani la vedrà in pratica solo col binocolo: in due anni in prestito alla Pro Patria “El Chico” (questo il suo soprannome) realizzerà la miseria di tre gol. L’Inter nel frattempo alterna quattro allenatori (Campatelli, Meazza – due volte – Ferrero e Frossi) in un parallelismo nella gestione Angelo-Massimo Moratti che col senno di poi ha dello sbalorditivo. L’unica presenza in campionato di Cacciavillani nell’Inter arriva nella stagione 1957/58 con Jesse Carver allenatore, poi un altro giro in Coppa Italia e l’addio definitivo a Milano, in un lungo pellegrinaggio verso sud: Ravenna prima e Casertana poi ma dal 1957 al 1960 “El Chico” realizza (con i romagnoli) un solo gol in partite ufficiali. Carattere sudamericano DOC, la disciplina del Nord ne mortifica l’estro e l’incedere in campo sbilenco, per quanto abbastanza rapido per l’epoca, non aiuta.

Il colpo di fulmine però arriva nel 1960: a Siracusa, in Serie C, trova la sua dimensione non tanto dentro il campo (in quattro stagioni e 107 presenze, solo 6 gol), ma fuori. Cacciavillani si stabilisce in Sicilia e non la lascerà mai più: chiude la carriera tra i dilettanti del Floridia, quindi inizia un’avventura lunga più di vent’anni da allenatore nell’isola: giovanili del Siracusa, Canicattì, Trapani, Modica in ordine sparso. Sempre nelle serie inferiori ma con la possibilità di essere sé stesso, dimenticando le nevrosi milanesi: la leggenda narra di alcune sue passeggiate per il lungomare di Siracusa con un cucciolo di leone (simbolo degli aretusei) al guinzaglio.

Nato il 1 Gennaio del 1934, Cacciavillani muore nel 1999 sempre nel giorno di Capodanno: un percorso circolare per un personaggio che ha riversato la sua estrosità più fuori che dentro il campo.

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Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Club Fabio Belli

Lazio, da una pallonata in testa nacque il mito della Rondinella

Per i 120 anni della Lazio, riproponiamo un’inchiesta dedicata al calcio dei pionieri. Terzo capitolo dedicato al campo che ha segnato i primi storici passi del club e del calcio romano in generale.

di Fabio BELLI

In casa Lazio il mito del campo della Rondinella nacque per… una pallonata. Per la precisione scagliata sulla testadella signora Annaratone, allora moglie del prefetto di Roma che in una giornata del 1912, vicina all’inizio del primo campionato di Prima Categoria, stazionava dalle parti del Parco dei Daini dove i biancocelesti si stavano allenando. Botta poderosa, scagliata da Saraceni, che mandò addirittura la fragile signora in ospedale priva di sensi. In tempi di poca comprensione per chi praticava il football, lo sfratto da parte del Comune arrivò per la Lazio in maniera fulminea e Saraceni e compagni si ritrovarono senza campo proprio alla vigilia dell’esordio del torneo federale più importante, dopo quasi sei anni di partite al Parco dei Daini.

Fu il presidente Fortunato Ballerini a doversi prodigare per trovare di nuovo una soluzione ai guai combinati dai suoi ragazzi scapestrati: arrivò la concessione per alcuni terreni nel quartiere Flaminio e lì nacque il mito della Rondinella. In anni in cui è partita la corsa forsennata agli stadi di proprietà fa specie pensare come, all’inizio del ventesimo secolo, tutte le formazioni romane che partecipavano ad un campionato di Prima Divisione avessero un quartier generale che ne alimentava storia e senso di appartenenza. La Lazio non fece eccezione nel rendere la Rondinella la sua casa: i lavori per costruire il campo nella sua fisionomia finale vennero garantiti dagli investimenti di un socio biancoceleste che aveva fatto fortuna in Sudamerica, per la precisione in Uruguay: Goffredo Magistrelli. Nel frattempo la Lazio già si allenava nella sua nuova casa, giocando però le partite ufficiali al campo della Farnesina, futuro quartier generale della Juventus Romana. Arrivarono però per Roma e i romani le angustie del primo conflitto mondiale: il campo della Rondinella venne trasformato in orto di guerra, un gesto che varrà alla Lazio, combinato all’eroismo dei soci e dei giocatori partiti per il fronte, la proclamazione ad Ente Morale.

La Rondinella tornò ad ospitare calcio dalla ripresa dell’attività, nel 1919, e lo fece in grande stile: Olindo Bitetti aveva supervisionato dei lavori che portarono l’impianto a sfoggiare una lussuosissima, per i tempi, tribuna con poltroncine in vimini e un parterre capace di ospitare fino a 10.000 tifosi. Per i laziali era consuetudine salire sul tram numero 15, il “tram sportivo” come era chiamato all’epoca, a piazza del Popolo e farsi condurre fino alla Rondinella. Il terreno sorgeva nella zona che oggi si trova tra lo stadio Flaminio e il Palasport di viale Tiziano. Divenne ben presto uno dei campi più eleganti e ambiti di tutta Italia: la progettata fusione nell’AS Roma, che doveva riguardare inizialmente anche la Lazio, vedeva come fondamentale l’acquisizione della Rondinella per le sfide della neonata società. I giallorossi ripiegarono sul Motovelodromo Appio prima della costruzione di campo Testaccio: le prime partite della Serie A a girone unico nel 1929 vennero disputate da entrambe le formazioni capitoline alla Rondinella, con la Lazio che ospitò i cugini prima che la loro nuova casa venisse ultimata.

Esistono filmati dell’Istituto Luce (molto interessante in particolare una sfida tra Lazio e Napoli) che rendono bene l’idea dell’ambiente che si respirava nel fortino della Rondinella. Calcio di altri tempi ma incredibilmente affascinante. Anche nel secondo dopoguerra la Lazio continuò ad utilizzare la Rondinella per l’attività delle giovanili, fino allo spaventoso incendio del 1957 che rese l’impianto praticamente inservibile. La Lazio giocava ormai da tempo allo stadio Nazionale, poi divenuto Torino e quindi Flaminio, poi avvenne il trasferimento all’Olimpico e, con le Olimpiadi del ’60, quel che restava della Rondinella fu spazzato via. La memoria del primo, vero e unico nido delle Aquile non è andata persa: sarebbe un sogno vedere un giorno, in qualche modo, questo patrimonio della storia dello sport cittadino riportato in vita.

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Club Fabio Belli

La Capitale del Calcio: se la Roma del football fosse come Londra

Per i 120 anni della Lazio, riproponiamo un’inchiesta dedicata al calcio dei pionieri. Da quando, dal 9 gennaio 1900 la Lazio mosse i primi passi nel mondo del football e si aggiunsero gli altri club che, prima della fusione, formavano al completo le anime della Capitale del Calcio.

Se Roma fosse come la Londra del Football: quali erano (e quali sarebbero) le squadre che rappresentano le diverse zone della città. Prima della fusione nell’AS Roma, i club che contendevano alla Lazio il primato nei campionati del centro sud, dal periodo antecedente alla Prima Guerra Mondiale fino al 1927. Lazio e Roman squadre della “Roma bene” tra Prati e Parioli, la Fortitudo dalle forti radici cattoliche, nata per donazione di Pio X. L’Alba “popolare” del quartiere Flaminio, la Juventus nata per emulare i bianconeri di Torino e l’Audace del “teatro dei sogni” degli anni ‘20, il Velodromo Appio. La mappa completa.  

di Fabio BELLI

SS Lazio

Da una panchina di piazza della Libertà al campo della “Rondinella”

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I risultati parlano di quattro secondi posti ottenuti nei tempi antecedenti al girone unico e al dualismo con la Roma per i biancocelesti. Nel periodo antecedente alla Prima Guerra Mondiale, la formazione biancoceleste era la regina incontrastata del centro-sud. Nel 1913 e nel 1914 al titolo di Campione dell’Italia Meridionale, fecero seguito le sconfitte nelle finali scudetto contro Pro Vercelli e Casale. Troppo grande il divario con le grandi del nord, così come enorme era la differenza nelle sfide nella Capitale. Il secondo posto del 1915 arriva senza poter disputare la finale per il titolo del centro-sud con l’Internapoli a causa della guerra: lo scudetto verrà assegnato d’ufficio al Genoa. Grifoni che conquistano il loro ottavo scudetto nel 1923 proprio in finale contro la Lazio. Nel bilancio dei derby capitolini di Prima Categoria e poi Prima Divisione, la Lazio è in largo vantaggio su tutte le altre compagini, fatta eccezione per l’Alba, il primo club che riuscì a sfruttare al 100% il coinvolgimento popolare che il football stava spandendo nel primo dopoguerra, adattandosi nel contempo alla perfezione all’esplosione del professionismo. Questo il bilancio completo dei derby tra la Lazio e le altre sette formazioni capitoline di massima serie, dal 1912 al 1926.  [table id=9 /]

ALBA

Due finali scudetto per l’anima popolare di Roma, dal quartiere Flaminio all’Aurelio

ss-alba-roma_fE’ il 1907 quando nell’osteria di Umberto Farneti, nel cuore del quartiere Flaminio, si affollano i clienti per brindare a vino dei Castelli Romani: è nata l’Alba, che da piazzale Flaminio fino a Trastevere vuole regalare una grande squadra di football alla gente, per emulare Lazio e Virtus che si sfidano nei derby fin dal 1904. E proprio alle spalle del Lungotevere Flaminio, dove ora c’è il Maxxi e non molto lontano dall’Auditorium, c’era il campo di piazza Melozzo da Forlì dove le casacche bianche con banda orizzontale verde dell’Alba davano battaglia. E’ solo nel primo dopoguerra però che l’Alba riesce a raggiungere significativi risultati nel girone capitolino di Prima Divisione. Per ben tre volte consecutive tra il 1924 e il 1926 raggiunge la finalissima per il titolo di campione del Centro-Sud. Perde nel 1924 contro il Savoia, l’anno successivo batte l’Anconitana e si gioca lo scudetto contro il Bologna. I felsinei vincono 4-0 allo “Sterlino” e passano 2-0 a Roma, aggiudicandosi il primo titolo della loro storia. Il bis nel 1926: l’Alba è campione centro-meridionale battendo l’Internaples, ma subisce nel doppio confronto con la Juventus per lo scudetto un bruciante 1-12. Le due finali tricolori si giocano allo Stadio Nazionale: nel frattempo l’Alba, dopo la fusione con l’Audace, si sposta al Motovelodromo Appio, e come Alba Audace partecipa al campionato di Divisione Nazionale 1926/27. Al momento della fusione nell’AS Roma, rappresenta con la Fortitudo l’anima popolare del club. Quella più aristocratica, saltata l’inclusione della Lazio nell’operazione, viene incarnata dal Roman, che offre al nuovo club un’organizzazione dirigenziale d’avanguardia. L’Alba offre invece alla nuova Roma un parco giocatori di assoluto rispetto, come Bianchi, Degni, Mattei, Fasanelli, Ziroli, Luduena e il portiere Ballante.

FORTITUDO

Radici cattoliche e lo scudetto conteso al Bologna: un omaggio alla Roma dei Papi

Schermata 04-2457507 alle 17.56.17Sarebbe stata la squadra vicina alla comunità cattolica capitolina, dunque con una base dall’enorme forza. Nata nel rione Borgo, a due passi da San Pietro e grazie ad una donazione di Papa Pio X, la Fortitudo assieme all’Alba rappresentava l’anima popolare del calcio a Roma, così come Lazio e Roman erano esponenti dei ceti più alti. Sanguigna e “trasteverina” l’Alba, popolare e cattolica, apostolica e romana la Fortitudo, che giocava nel campo Aurelio – Madonna del Riposo, sempre sotto gestione sacerdotale. Esordisce in Seconda Divisione nei campionati FIGC, poi due quarti posti nel girone romano prima del conflitto mondiale. Dopo la guerra il boom: nel 1920 la finale di Lega Sud persa 3-2 contro il Livorno, poi nel 1922 il titolo di Campione dell’Italia Centro-Meridionale: 2-0 alla Puteolana con gol di Bramante e autorete di Lo Bianco. E’ storia, anche se la finale scudetto come da pronostico se la aggiudica la Pro Vercelli con un 8-2 complessivo tra andata e ritorno. Nel 1926 assorbe la Pro Roma, e si guadagna l’accesso alla Divisione Nazionale 1926/27, ultima classificata con soli 5 punti in 18 partite in un girone con Torino, Bologna e Milan. Poi la fusione nell’AS Roma con la figura del presidente fortitudino Italo Foschi assolutamente preponderante, e tanti giocatori rossoblu (colori sociali in omaggio alla Roma dei Papi) in giallorosso come Attilio Ferraris, Giuseppe Rapetti, Giovanni Corbjons, Mario De Micheli, Enrico Cappa, Corrado Scocco e Carlo Zamporlini.

JUVENTUS ROMA

Gli emuli dei bianconeri di Torino, di base al campo della Farnesina per tanti derby storici

A dirlo oggi sembra strano, ma c’era una Juventus anche a Roma, nata per diretta emulazione dei bianconeri di Torino. La Juventus Romana è uno dei primi club capitolini attivi nel football dopo la Lazio, e con i biancocelesti condivide l’utilizzo pionieristico del campo di Piazza d’Armi. Raccoglieva i suoi tifosi nell’attuale zona alle spalle della Stazione Termini, fra i rioni Monti e Testaccio. Fece parte del gruppo che diede vita al girone romano del campionato di Prima Categoria, dopo essersi rinforzata dalla diaspora dell’ex Virtus, che fornì alla Juventus molti giocatori. Proprio nel campionato 1912/13 arrivò un secondo posto nel girone alle spalle della Lazio, miglior risultato nella massima serie della Juventus Romana. Nel periodo post Prima Guerra Mondiale, arriva la fusione con un piccolo club, l’Audax: ne deriva il cambio di denominazione in Juventus Audax e lo spostamento al Campo della Farnesina, con la zona dell’attuale Foro Italico-Corso Francia che diventa la base del tifo bianconero romano. Nei campionati del ’21 e del ’22 arrivano due terzi posti nel girone capitolino, poi la retrocessione in Seconda Divisione che fa da preludio alla fusione con la Fortitudo nel 1924. Il fiore all’occhiello resta la vittoria nel torneo romano di guerra dell’aprile 1919, con sei delle otto rivali storiche capitoline del massimo campionato (mancavano all’appello Alba e Roman). La Juventus Romana trionfò piegando nella finalissima la Fortitudo.

ROMAN

Gli aristocratici, i primi del centrosud a sfoggiare uno stadio di calcio: il “Due Pini” proprietà: il “Due Pini”

Schermata 04-2457507 alle 18.19.40Il primo club a potersi fregiare di uno stadio di proprietà a Roma: il Roman era l’espressione dell’aristocrazia capitolina, e scendeva in campo allo stadio “Due Pini”, situato dove sorge l’attuale Tennis Club Parioli. Giocò ininterrottamente nel campionato di Prima Divisione dal 1912 al 1923. Resta storico il campionato 1914/15: nel girone laziale ottenne il primo posto sopravanzando la Lazio. Nella seconda fase del torneo centro/sud furono però i biancocelesti ad ottenere l’accesso alla finale contro l’Internazionale di Napoli, mai disputata per la sospensione bellica. Dopo la Prima Guerra Mondiale, la struttura dirigenziale del club si rinforzò con l’ingresso di facoltosi membri della Comunità Ebraica. Dopo due stagioni in Seconda Divisione, arriva la promozione, ma nel 1926 il Roman mancò l’accesso alla Divisione Nazionale, antesignana dell’attuale Serie A. Al momento della fusione nell’AS Roma, il Roman fornì un contributo più di natura amministrativa che sportiva. I giocatori migliori infatti erano quelli impegnati nella Divisione Nazionale con Alba e Fortitudo. Il Roman vantava però una robusta organizzazione societaria, dirigenti ricchi e capaci tra i quali spiccava Renato Sacerdoti, detto “il banchiere di Testaccio”, passato alla storia come uno dei presidenti più importanti della storia dell’AS Roma. Particolare di grande rilevanza storica, è stato il Roman a fornire alla Roma i colori sociali. Nonostante la costruzione di una tribuna per gli spettatori, una autentica novità per l’epoca, non fu il “Due Pini” il primo stadio della Roma, bensì il Motovelodromo Appio, ereditato dall’Audace, incorporata dall’Alba proprio in previsione dell’utilizzo del campo.

US ROMANA

Piccoli e popolari, ospitarono al “Degli Olmi” le storiche capitoline della Prima Divisione

Schermata 04-2457507 alle 18.19.48La “piccola” della compagnia, con maglia a strisce biancoverdi e l’orgoglio di non essere mai retrocessa nei cinque campionati di massima divisione disputati dopo la Prima Guerra Mondiale, tra il 1919 e il 1924. L’US Romana aveva il suo quartier generale presso il Campo dell’Olmo, nei pressi dell’attuale Piazza Maresciallo Giardino. Una squadra di cui non si conosce moltissimo in termini storici anche perché nacque in un contesto calcistico capitolino ormai fuori dall’epoca pionieristica, con Lazio, Fortitudo, Roman e Audace (e l’aumento enorme di popolarità nel periodo post-bellico dell’Alba) che già catalizzavano le attenzioni degli appassionati di football. Eppure soprattutto nei primissimi anni venti, l’US Romana riuscì a farsi valere in molti infuocati derby del girone romano di Prima Divisione. Spicca il quarto posto del campionato 1922/23, al quale però fece seguito la peggiore stagione in termini di risultati per i biancoverdi. Al momento dell’esplosione del primo conflitto mondiale, l’US Romana raccolse l’eredità dello storico club della Società Ginnastica Roma, diventandone di fatto il proseguimento della sezione calcistica. Nel 1924 arrivò la fusione con la Pro Roma e il trasferimento al Campo Flaminio, dove l’US Pro Roma disputò due campionati prima della successiva, ulteriore fusione con la Fortitudo.

PRO ROMA

Quelli della Piramide, con le leggendarie sfide con la Fortitudo tra don Toncker e fra’ Ciprari

Schermata 04-2457507 alle 18.04.08L’esordio della Pro Roma nel calcio romano è datato 1911: sconfitta 0-7 in un derby contro la Lazio. Il club nasce dall’Ardor, che cessò la sua attività passando il testimone a una società che nasce come presidio di un’altra popolosa e storica zona romana, quella della via Ostiense e della Piramide Cestia. E proprio al campo Piramide le maglie bianche con i risvolti rosso e neri della Pro Roma fanno il loro esordio nella Prima Categoria. I risultati però scarseggiano, e dopo il quarto posto del 1921, miglior risultato nella massima serie, arriva la retrocessione. Il ritorno in Prima Divisione (dopo la fusione con l’US Romana) è solo il preludio alla fusione con la Fortitudo, che come Fortitudo Pro Roma partecipa al campionato di Divisione Nazionale 1926/27, con pochissimi risultati positivi, ma anche una vittoria storica contro il Torino, poi Campione d’Italia. Tra le fila dei proromani giocò per diversi anni Silvio Sensi, padre del presidente del terzo scudetto giallorosso Franco Sensi e architetto di Campo Testaccio. Come la Fortitudo anche la Pro Roma aveva una forte matrice cattolica, e nei match tra le due squadre si scontravano in panchina due sacerdoti: don Toncker nella Pro Roma e frate Ciprari nella Fortitudo. E come il campo della Madonna del Riposo della Fortitudo, il campo della Piramide non aveva tribune né spogliatoi. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il club si spostò dalla Piramide al Campo Flaminio messo a punto da don Toncker in persona, anche se la base del seguito proromano restò sempre sulla via Ostiense fino alla fusione con la Fortitudo.

AUDACE

Eroi di periferia, titolari del “Teatro dei Sogni” degli anni ‘20 a Roma, il Motovelodromo Appio

Schermata 04-2457507 alle 18.12.24Il calcio romano agli inizi del ventesimo secolo si sviluppava soprattutto nei rioni del centro. Se c’è un club che può essere indicato come portabandiera delle periferie, è senza dubbio l’Audace che, pur nascendo in Corso Umberto Primo come società podistica (per poi diventare Audace – Esperia assorbendo il suddetto club nel 1912), negli anni ruggenti del calcio capitolino gioca i suoi match al Motovelodromo Appio, dove non si poteva arrivare se non dopo una camminata di quattro chilometri, una volta scesi con il tram al capolinea di Porta San Giovanni. Club di culto anche se non tecnicamente all’altezza dei migliori, la sua maglia biancorossa a scacchi è altrettanto mitizzata: ne esiste anche una riproduzione per il Subbuteo (vedi foto). Dopo la prima guerra mondiale, nel girone romano della rinnovata Prima Divisione arrivò un sorprendente secondo posto alle spalle della Fortitudo, che portò l’Audace alle “final-six” per il titolo di campione del centro-sud. Nel successivo girone a tre la spuntò il Livorno, ma resta questa la migliore stagione calcistica dei biancorossi a scacchi. Dal 1922 al 1924 in Seconda Divisione, arrivarono poi due quarti posti in Prima Divisione prima della fusione con l’Alba. La polisportiva Audace è ancora attiva a Roma, ha festeggiato quest’anno i 114 anni di età ed è principalmente attiva nella boxe e nelle arti marziali.

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Alessandro Iacobelli Club

Sora 2001: un’impresa di Provincia che ha fermato il tempo

di Alessandro IACOBELLI

17 giugno 2001: il tempo si è fermato. Avevo 6 anni. Ricordo solo a sprazzi i caroselli e la gioia irrefrenabile di un popolo. La favola bianconera scritta con inchiostro e calamaio. Quando il calcio in riva al Liri era un vanto. Il canto del cigno nel paradiso che, qualche anno dopo, avrebbe conosciuto l’onta del fallimento.

Ero ancora piccolo appunto. All’alba del nuovo millennio mio padre decide di battezzarmi allo stadio. Le domeniche al “Tomei” erano tipiche e consuete. La comitiva si completava con zii, cugini e nonno. Sì proprio lui, che aveva i colori bianconeri nelle vene, ed ora osserva tutti dal cielo. Si va rigorosamente in curva “ferrovia”, lato sinistro, con sciarpe e bandiere al seguito. Ricordo l’odore irrespirabile dei fumogeni al momento dell’ingresso in campo delle squadre. Puzza che toglie il respiro, ma che carica il contesto del tifo di un fascino stupendo.

In estate, a dire il vero, lo scetticismo regnava sovrano. Si giungeva da una stagione a dir poco tribolata con la salvezza acciuffata a tempo ormai scaduto in quel di Tempio Pausania con la rete di Campanile. Tante, troppe le difficoltà palesate da una squadra che appare inadeguata e scadente per la C2. Ci danno per spacciati a destra e a manca. Il “maestro” Claudio Di Pucchio non si scompone. Rimane sempre concentrato, languido e tranquillo. Lui ed il patron Lillo Annunziata hanno creato una favolosa creatura che mai più si ripeterà. Ogni cittadino volsco dovrebbe perciò inchinarsi e baciare i piedi al Cavaliere.

Sul mercato, con il direttore sportivo Frasca, ci si muove con sagacia e senza eccessi. Il mister disegna un 3-5-2, mutabile all’occorrenza in un 3-4-3. I nuovi donano linfa e qualità. Ulisse Di Pietro è un vero artista del pallone. Testa alta e classe pura al servizio dei compagni. Sulle fasce arrivano due treni ad alta velocità come Cunti e Di Fiordo. In mediana ecco la grinta di Mortari che formerà con Battisti una linea coriacea e tecnica all’unisono. L’innesto che risulterà decisivo è quello di Erbini. Una punta considerata erroneamente di scorta, ma che sarà uno dei protagonisti dell’apoteosi. Il resto dell’orchestra lo conosciamo già come una filastrocca. In porta c’è Pantaleo Roca. Pugliese, un po’ pazzo, ma capace di prodezze da uomo ragno. Conoscete i tre amici della difesa? Tre ragazzacci simpatici e disponibili. Stiamo parlando ovviamente di Terra, Ferretti e Cavola. Mancano all’appello le firme in attacco. “Ce l’abbiamo solo noi, Campanile gooool… Campanile gooool”. Luca Campanile e il suo sinistro. Magia e chirurgica precisione. C’era a Tempio e c’era pure a Catanzaro. Lui con Lucchini e Semplici. Cianfarani, Cirelli, Tomei e Pistolesi sono giovani promesse che faranno strada.

Il girone C è un vortice infernale con corazzate temibili e prestigiose. Taranto, Campobasso e Catanzaro su tutte. Senza dimenticare Gela, Igea Virtus, Foggia e Juve Stabia. Partiamo il 3 settembre con la vittoria di misura sul S. Anastasia. I due successi consecutivi contro Gela e Foggia ci donano una consapevolezza bella e strana al tempo stesso. Pieghiamo anche il Catanzaro per 2-1 e tutto sembra un’effimera illusione. Nel girone di andata cadiamo solo con Gugliano, Campobasso e Taranto. Il ritorno è nel complesso positivo. Archiviamo la regular season al quinto posto con 52 punti all’attivo, quattro lunghezze di vantaggio sull’Igea Virtus.

Gonfi di orgoglio ed un pizzico di incredulità ci prepariamo per le sfide play-off. In semifinale c’è il fortissimo Campobasso (secondo a quota 61). Il 27 maggio, giorno di Santa Restituta, il “Tomei” è un mix pazzesco di colori tra bianconero e rossoblu. I molisani giungono alla contesa privi di tre pezzi da novanta: Corona, Righi e Piccioni. Le squadre si studiano ma non mordono. Termina 0-0 e per noi la situazione diventa quasi impossibile. Passa una settimana e siamo pronti per il ritorno. Il “Nuovo Romagnoli” sembra già in festa. Noi, zitti zitti, pizzichiamo con un rigore di Campanile. 1-0 a domicilio e la finalissima è nostra. All’orizzonte c’è il Catanzaro (terzo del girone con 54 punti). La gara di andata ricopia esattamente la semifinale. I nostri sprecano tanto tra le mura amiche. Un altro pareggio a reti bianche che pare condannarci senza appello.

Domenica 17 giugno 2001. Stadio “Ceravolo” gremito e convinto di bere un semplice bicchier d’acqua. Loro gongolano e passano in vantaggio con Di Corcia su penalty al tramonto del primo tempo. I caroselli giallorossi sono pronti ad impazzare. Nella ripresa però loro decidono di suicidarsi sportivamente. Il dodicesimo Agostino Di Dio si trova catapultato tra i pali ignaro della tragedia che accadrà poco dopo. Al minuto 39 della seconda frazione va in scena un’azione confusa. La difesa calabrese è un colabrodo. Ne approfitta Erbini che di testa anticipa il guardiano avversario ed insacca. Ai supplementari accadono cose grottesche e magnifiche per noi. Quel folletto colmo di furbizia di nome Luca Campanile raddoppia con una punizione beffarda che stimola le imprecazioni del pubblico locale per la papera del povero tizio con i guantoni. Lo stesso Campanile ci manda al manicomio al quarto d’ora del secondo tempo supplementare. Di Dio gli frana addosso e l’arbitro indica il dischetto. Il numero 11 cala il tris definitivo.

E pensare che al 30’st avevo chiuso la radio per disperazione. Sulle frequenze di Nuova Rete quei pochi sorani rimasti a casa ascoltavano ormai rassegnati le voci di Tonino Bernardelli in studio e Maurizio Simonelli inviato nel profondo Sud. Ricordo i festeggiamenti irrefrenabili in città. Quel 17 giugno il corso principale di Sora era decorato dalle infiorate. La solennità del Corpus Domini, Dio ci perdoni, fu surclassata dall’oceanica sfilata in salsa bianconera. L’ultima immensa gioia prima dell’inferno calcistico.

Avevo 6 anni e sognavo. Avevo 6 anni e ed ero felice. Oggi, nel pieno delle 25 primavere, mi mancano tutte le cose di quell’epoca. Sì perché, quel 17 giugno 2001, il tempo si è fermato.

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Allenatori Club Fabio Belli

La leggenda di Sir Alex Ferguson iniziò da Aberdeen

di Fabio BELLI

Sir Alex Ferguson si è congedato da Old Trafford nel 2013 facendo calare il sipario su una autentica leggenda per il Manchester United e il calcio inglese e internazionale in generale. L’ultima Premier League vinta è stato il tredicesimo titolo della Premier League portato a casa dall’allenatore e manager scozzese,che ha chiuso una carriera per certi versi impareggiabile, soprattutto considerando la longevità del suo mandato sulla panchina dei Red Devils.

Soccer - UEFA Cup Winners Cup - Final - Aberdeen v Real Madrid - Nya Ullevi Stadium, Goteborg, SwedenPrima di approdare in terra mancuniana però, e parliamo ormai del lontano 1986, Ferguson si era abbondantemente fatto le ossa in patria, arrivando anche a guidare la Scozia nei Mondiali messicani. In un campionato però da sempre dominato da Rangers e Celtic, le squadre di Glasgow eternamente ai vertici del football scozzese, gli anni ’80 fecero registrare gli ultimi successi di squadre al di fuori dell’Old Firm. Il Dundee United e soprattutto l’Aberdeen, che sotto la guida di Ferguson aprì un ciclo in Scozia e in Europa, straordinariamente vincente per un club di così piccole dimensioni.

Negli ultimi anni Aberdeen ha vissuto un periodo di rinascita culturale importante: terza città della Scozia per estensione e popolazione dopo la capitale Edimburgo e Glasgow, ha una media di iscritti all’università di gran lunga superiore a quella nazionale ed è animata da diverse iniziative culturali e, rarità per le frastagliate coste scozzesi, anche da una spiaggia punto di ritrovo per molti giovani. Ma quando il manager alle prime armi Ferguson vi approda, nel 1979, lo scenario è quello un po’ ruvido e grigio della provincia della Scozia che trova nel calcio occasioni di riscatto sociale. Opportunità abbastanza rare a dire il vero visto che fino ad allora in bacheca per l’Aberdeen c’erano solo due Coppe di Scozia ed il titolo del 1955.

Ferguson da calciatore aveva giocato nell’Aberdeen e conosceva bene l’ambiente e, soprattutto, sapeva perfettamente una cosa: per battere i colossi di Glasgow bisognava giocare d’anticipo, assicurandosi i migliori giocatori scozzesi prima che le loro quotazioni salissero alle stelle. E le scelte di Ferguson dimostrano la lungimiranza che lo contraddistinguerà anche nella quasi trentennale esperienza allo United. In porta, Jim Leighton che difenderà i pali della nazionale scozzese fin oltre i quarant’anni. In difesa, il roccioso Willie Miller, un mito dell’Aberdeen, 558 presenze in vent’anni in biancorosso. A centrocampo Alex McLeish davanti alla difesa e Gordon Strachan a fare gioco. Non è un caso che, con Ferguson come mentore, i quattro diventeranno tutti allenatori. Di sicuro c’è che nel 1980 l’Aberdeen vince, sotto la guida di Fergie, il suo secondo titolo scozzese al primo colpo ma il meglio, è proprio il caso di dirlo, deve ancora venire.

Grazie a Ferguson infatti, il nome di Aberdeen inizia a girare per l’Europa. Soprattutto, tra l’82 e l’84, la squadra delle Highlands vincerà tre Coppe nazionali di fila che spalancheranno le porte della Coppa delle Coppe. Nel 1983, l’anno più esaltante della storia dell’Aberdeen, la squadra ha trovato un equilibrio perfetto e fila dritta verso la finalissima di Goteborg contro il Real Madrid di Santillana, Stielike e Camacho. Partita a pronostico chiuso, tanto che i tifosi delle merengues in buona parte snobbano la trasferta scozzese, con lo stadio Ullevi per tre quarti riempito dai colori biancorossi. L’Aberdeen scende in campo con questa formazione: Leighton, Rougvie, McLeish, Miller, McMaster, Cooper, Strachan, Simpson, Weir, McGhee, Black. Una filastrocca che ogni tifoso di Aberdeen sa ancora ripetere a memoria.

Eh sì, perché dopo sette minuti Eric Black fa esplodere la festa scozzese portando subito in vantaggio i suoi. Il Real capisce che non si tratterà di una passeggiata e, pur trovando al quarto d’ora il pari grazie ad un rigore di Juanito, soffre la grinta e la concretezza scozzese, esaltata dalle rapide trame di gioco disegnate da Ferguson. Ma l’eroe della partita non fa parte dell’undici iniziale dell’Aberdeen. Si va ai supplementari e poco prima del fischio finale Ferguson getta nella mischia John Hewitt al posto di Black. Nel secondo overtime sarà lui a realizzare una rete che è ancora incastonata nella storia del calcio scozzese. Il potente Real Madrid è battuto, l’esultanza sugli spalti è sfrenata, l’Aberdeen dal freddo e grigio Nord della Scozia è catapultato nel caldo cuore d’Europa. Una potenza continentale, confermata dalla successiva vittoria nella Supercoppa Europea, contro l’Amburgo battuto 2-0 nel match di ritorno a Pittodrie, che permetterà di raggiungere il tetto d’Europa ai biancorossi. L’impresa più incredibile di Ferguson, pronto poi a scrivere la leggenda del Manchester United.