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Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Le vacanze romane del “Mago” Helenio Herrera

di Alessandro IACOBELLI

Estate 1968. L’A.S. Roma è da poco una società per azioni. Il Presidente Franco Evangelisti, ormai pronto ai saluti, vuole regalare un sogno ai tifosi. Un sogno per ambire alla grandezza del successo. Dal cilindro esce un nome: Helenio Herrera. Prima dell’approdo in riva al Tevere ha vinto di tutto e di più. L’Inter planetaria è opera sua: due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e un tris di scudetti. Gloria anche in Spagna, sulle panchine di Barcellona e Atletico Madrid.

Roma è bella, languida, mondana e attraente. Herrera se la gode eccome. Donne e auto le sue debolezze. Tre mogli, otto figli (di cui una piccola adottata) e una lista indecifrabile di amanti. Mettiamoci pure un pauroso incidente stradale, dal quale rimane incredibilmente illeso.

Il Vangelo di HH è sempre lo stesso: catenaccio e pressing asfissiante. Nella capitale trovano casa due allievi fidati: Santarini e Bet. L’idolatrata bandiera Giacomo Losi, dopo appena otto turni, viene messo alla porta. L’ombra più grande irrompe nel marzo del 1969. La punta Giuliano Taccola muore, per un arresto cardiocircolatorio, nello spogliatoio dello stadio di Cagliari in circostanze mai totalmente chiarite. C’è però una luce: la Coppa Italia. Fabio Capello e l’asso spagnolo Peirò firmano la finalissima contro il Foggia. Grande entusiasmo in città, nonostante l’ottavo posto al termine della prima stagione. L’annata successiva è povera di acuti, con un anonimo undicesimo posto in campionato e l’eliminazione in Coppa delle Coppe in semifinale.

Intanto Marchini rileva la presidenza della società. Il rapporto tra il patron e il tecnico non è dei migliori. Il bicchiere si rovescia all’alba della stagione 1970-1971 con i talentuosi, Spinosi, Capello e Landini ceduti alla Juventus in cambio di tre vecchie volpi come Zigoni, Vieri e Del Sol. C’è turbolenza e contestazione. I giallorossi però viaggiano e bene. Cordova e soci partono a razzo per poi calare nel corso dei mesi. Discreta comunque la sesta piazza a quota 32. Nel mese di aprile Marchini, furibondo dopo alcune dichiarazioni al vetriolo del mister, esonera Herrera ed affida la squadra a Tessari. In sessanta giorni cambia il mondo. Marchini lascia il timone a Gaetano Anzalone e HH torna in sella.

Il secondo trofeo giunge con la Coppa Anglo-Italiana nella stagione ’71-’72. In avanti Vieri, Zigoni, Cordova e soprattutto Amarildo offrono sprazzi funambolici. Cappellini, Scaratti e lo stesso Zigoni timbrano il match contro il Blackpool.

Sembra il paradiso, ma è l’inizio di un incubo sportivo. Si congedano in blocco Del Sol, Vieri, Petrelli e Amarildo. Valerio Spadoni è il nuovo centravanti. Cominciano a farsi largo due giovani promesse: Agostino Di Bartolomei e Francesco Rocca. Nelle prime cinque giornate il popolo romanista si illude. Il capolavoro balistico di Nanni, nel derby con la Lazio, e il poker servito dalla Ternana di Corrado Viciani compromettono l’esperienza capitolina del “Mago”. Anzalone ora non può più difenderlo e opta per l’esonero in luogo di Trebiciani. I giallorossi si salvano per il rotto della cuffia chiudendo undicesimi.

Amaro epilogo di un amore mai sbocciato. Herrera e Roma: così vicini, così lontani.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Calciatori Fabio Belli

Giuliano Taccola: una morte senza spiegazioni

di Fabio BELLI

La vicenda si svolge a metà degli anni Sessanta, con premesse apparentemente comuni a molte altre storie calcistiche. Nel 1966 Giuliano Taccola è un attaccante di 23 anni, classe 1943, possente nel fisico per gli standard dell’epoca ma soprattutto velocissimo. Corre i cento metri in 11 secondi netti e nel campionato di Serie C 1965/66 ha realizzato 13 gol con la maglia del Savona, che in quegli anni lancerà giocatori come Giuseppe Furino e Pierino Prati. Taccola è il primo a fare le valige: l’occhio lungo di Fulvio Bernardini lo porta in quota Roma, e l’attaccante nativo della provincia di Pisa veste la maglia giallorossa dopo un altro anno di svezzamento al Genoa.

Il 24 settembre del 1967 Taccola fa il suo esordio in Serie A nella partita che permetterà alla Roma di strappare un buon pari in casa dell’Inter. 10 gol nella prima stagione, buon bottino per gli attaccanti dell’epoca, poi altri 7 nella stagione 1968/69, quando il rendimento di Taccola ha un crollo verticale. Febbre, malesseri vari, improvvisamente il giocatore sembra non reggersi più in piedi, ma il tecnico della Roma, Helenio Herrera, non ne vuole sapere: ha bisogno di Taccola e continua a schierarlo, ma ogni allenamento sembra infliggergli un colpo in più.

Si sospetta un’infezione batterica e, a febbraio del 1969 Taccola viene operato per la rimozione delle tonsille. Un intervento di routine anche alla fine degli anni Sessanta, ma è a questo punto che il mistero sulla salute dell’attaccante si infittisce, visto che durante l’operazione il calciatore subirà numerose emorragie. Sembra che i vasi sanguigni non funzionino al meglio, l’operazione riesce ma Taccola ha perso molto sangue, ha bisogno di riposo assoluto.

E invece viene convinto a forzare, per rientrare in campo il prima possibile. Ad ogni allenamento corrisponde una perdita di peso e la febbre a fine giornata. Gli antibiotici che deve assumere dopo la tonsillectomia peggiorano considerevolmente la situazione: per riprendere forma, viene schierato tra le riserve della Roma in un match del campionato De Martino e sviene in campo: una settimana dopo però è in campo a Genova contro la Sampdoria, ma la sorte non gli dà tregua e si infortuna al malleolo.

Per 10 giorni Taccola si ferma, e il 15 marzo del 1969, prima della partita col Cagliari, Taccola sviene di nuovo nella rifinitura. A questo punto la Roma lo esclude dalla partita: dopo un nuovo attacco febbrile, il giorno dopo Taccola è in tribuna allo stadio Amsicora di Cagliari, e dopo la vittoria scende a festeggiare coi compagni negli spogliatoi. Poi inizia a tremare, sviene. I medici della Roma e della società sarda provano a rianimarlo, ormai privo di sensi sdraiato su un lettino, ma da quello spogliatoio Taccola uscirà solo da morto.

Da quel momento in poi, attorno alla vicenda calerà un gran silenzio, a partire da quello di Herrera che non voleva clamore attorno alla vicenda, anche molti giocatori seppero solo dopo, in aeroporto, quanto accaduto. In questi 50 anni di ipotesi sulla morte di Taccola ne sono state fatte molte: l’autopsia indicherà un arresto cardio-circolatorio, senza ulteriori particolari. La ricostruzione più plausibile, per quanto ufficiosa e mai confermata, parlerà di un’endocardite, una rara infezione batterica al cuore, aggravata dall’operazione subita e dai continui tentativi di recupero, che in molti temevano fossero alimentati da strane iniezioni. La morte di Taccola è stata spesso accostata a quella di altri calciatori, come Bruno Beatrice, Carlo Tagnin, Mauro Bicicli e Ferdinando Miniussi, scomparsi prematuramente e accostati a pratiche legate al doping che pare fossero molto diffuse nel calcio di decenni fa. Voci sinistre mai confermate ma insistenti nel corso degli anni.

Tre le testimonianze chiave riguardo i tragici fatti dell’Amsicora. Marzia Nannipieri, rimasta vedova di Taccola a 24 anni con due figli piccoli, da 50 anni prova a far luce sulla vicenda. E raccontò: La società fece di tutto per recuperarlo più in fretta possibile, anche perché stava valutando un’offerta della Fiorentina. A Giuliano quelle voci che lo volevano a Firenze non piacevano, lui stava bene a Roma. Dopo l’operazione alle tonsille ci dissero che prima andava ripulita l’infezione. Perciò continuava ad avere disturbi e la temperatura saliva subito come metteva piede in campo. Non ho mai smesso di pensare, di arrovellarmi su quanto accadde quella domenica, a tutta quella robaccia che gli davano per farlo giocare”

Augusto Frongia, medico sociale del Cagliari che si ritrovò di fronte Taccola praticamente già privo di vita nello spogliatoio, testimoniò: “Il problema non furono le cure fatte, ma quelle non fatte. Certo, anch’io ho sentito dire che lo dopavano per farlo giocare. Anche se così fosse non ci sarebbe un nesso con la sua morte. Posso confermare che la mattina della partita Herrera portò anche Taccola sulla spiaggia del Poetto per la rifinitura pre partita. A fine allenamento il Mago si rese conto che il calciatore non ce la faceva più e accettò di mandarlo in tribuna. Secondo testimonianze affidabili, il ragazzo avrebbe seguito tutta la partita tremando come una foglia. Continuava a ripetere: ‘Non mi credono, ma io sto morendo. Sto morendo e non mi credono.”

Infine Francesco “Ciccio” Cordova, calciatore della Roma che seguì da vicino la vicenda del suo compagno di squadra: “Taccola non stava bene ma il mister lo voleva in campo a tutti i costi, gli serviva. Così adottò il ricatto: la divisione dei premi partita secondo chi giocava. Taccola aveva fatto grossi investimenti in quel periodo, aveva bisogno di denaro e Herrera lo sapeva bene: ‘Niente partita? Niente dinero’ gli diceva sempre. Il medico della Roma lottò fino all’ultimo per tenere Taccola a riposo. Ma nemmeno l’intervento del presidente Marchini cambiò le cose, quando al povero Giuliano saliva la febbre, gli faceva fare certe punture e lo risbatteva in campo.”

Durante Spal-Roma di poche settimane fa, i tifosi giallorossi hanno ricordato Giuliano Taccola a 50 anni dalla sua scomparsa: è tornata anche a farsi sentire sui giornali la voce della moglie Marzia, che ha atteso mezzo secolo senza avere mai il conforto della verità.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Vita e opere di Manlio Scopigno: un filosofo in panchina

di Alessandro IACOBELLI

Il 20 novembre 1925 in quel di Paularo, nella provincia del Friuli, nasce un ‘filosofo’. Il suo nome è Manlio Scopigno.

Calcio e università sono le costanti che dominano nella sua mente. Con la famiglia si trasferisce a Rieti, luogo amato fino in fondo. Nella quiete dei territori della sabina Manlio indossa casacca e scarpini. Tre anni intensi e poi, con il prolungato intervallo alla Salernitana, il salto in Serie A nel Napoli. L’esperienza partenopea però è di fatto il culmine del sogno da calciatore. Nel bel mezzo di un roboante 7-1 sul povero Como il ginocchio di Scopigno fa crack. L’inferno del dolore, delle visite e di troppe sofferenze. Manlio prende la drastica decisione di lasciare il rettangolo verde.

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Il ritorno a Rieti apre le pagine del diario da allenatore. Intanto, per l’impossibilità di conciliare libri e lavoro, l’università di Roma saluta il pensatore friulano. La gavetta non manca di certo tra Rieti ed Ortona. Mister Lerici nel 1959 lo accoglie a Vicenza offrendo al tecnico emergente il ruolo da vice-allenatore.

Da allievo a maestro l’attesa non è eterna. Nel 1962 infatti Scopigno conduce la truppa biancorossa alla meta della salvezza da comandante. Il ‘filosofo’ Manlio sperimenta idee e schemi riflettendo sul tema della tattica esistenziale. Un autentico precursore del calcio totale olandese. Un personaggio mai banale con il Whisky in una mano e la sigaretta nell’altra.

Il Bologna, per il campionato 1965-1966, lo corteggia sperando di rivivere le recenti emozioni. La tenerezza resiste la penuria di cinque giornate. Il ben servito arriva con una lettera in cui Scopigno sottolinea alcuni errori grammaticali da censura.

Il ‘filosofo’ quindi riparte da un esilio che si rivelerà magnifico. La Sardegna si trasforma nell’oasi felice per traguardi strepitosi. Lo stadio Amsicora di Cagliari si trasforma in una bolgia. Capitan Cera, il difensore Niccolai, il brasiliano Nené, il dinamico centrocampista Domenghini. Poi lui, il Bronzo di Riace del calcio italiano. Gigi Riva sogna e fa sognare il popolo rosso-blu. Le lezioni del Professor Scopigno sono stimolanti e mai noiose. Nel 1969-1970 la storia sportiva e sociale dello stivale viene riscritta con caratteri cubitali ed indelebili. Per il ‘filosofo’ il rito domenicale nell’anno di grazia si materializza non in panchina ma sugli spalti gremiti della tribuna.

Per un comportamento poco spensierato posto in essere nei confronti del guardalinee impegnato nel match con il Palermo. Cinque lunghi mesi di punizione. Manlio resta lucido alla guida dei suoi ragazzi. L’odore del riscatto del sud si avverte già dall’alba del torneo. Il testa a testa chiama in causa la Juventus di Anastasi e l’Inter di Facchetti e Suarez. La partita decisiva, il 15 marzo, estrae un pareggio non privo di polemiche con l’arbitro Lo Bello. Riva timbra una doppietta. Tempo un mese e lo scudetto si stampa sul petto del Cagliari. Ancora Riva, capocannoniere del campionato, e Gori regolano il Bari. L’arena Amsicora celebra il tricolore. Un’overdose di gioia. Nella stagione successiva l’infortunio del pezzo forte Riva interrompe l’incantesimo del bis tricolore e della Coppa dei Campioni.

La sponda giallorossa della capitale si appella al ‘filosofo’ per aspirare ad una rinascita. Scopigno allora lascia la Sardegna. Il sodalizio con il patron Anzalone dura un batter d’occhio con l’unica consolazione di aver lanciato un timido ma talentuosissimo Agostino Di Bartolomei.

L’ultima pagina del manuale filosofico di Manlio Scopigno narra del ritorno al Lanerossi Vicenza. Sostituisce l’uruguagio Hector Puricelli senza riuscire a compiere il miracolo della salvezza. In cadetteria viene rapito da una prolungata malattia. Il brasiliano Cinesinho subentra all’altezza del ventesimo turno.

Scopigno si rifugia nel silenzio spensierato di Rieti. Nel 1993 il cuore ferma la sua corsa lasciando un vuoto nella quotidianità di molti appassionati della sfera inseguita dai simboli del calcio.

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Andrea Rapino Club

La Serie A del 1944: quando a Roma c’era anche la Mater

di Andrea Rapino

L’ipotesi di un derby della capitale in Serie A che non sia Roma-Lazio oggi è fantascienza, ma stava per diventare realtà se la guerra non avesse impedito lo svolgimento della stagione 1943-44 come era stata programmata dalla Figc. A causa dell’incalzare del conflitto, la Federazione aveva infatti stabilito di mettere temporaneamente da parte la formula del girone unico, varata a partire dal 1929-30, e di strutturare la massima categoria su più gironi, rimescolando A e B.

Lo potremmo definire grossomodo un ritorno alla Divisione Nazionale 1928-29, anche se stavolta i gironi non erano due ma tre: da questi sarebbero uscite le sei finaliste chiamate a sfidarsi per lo scudetto in un ulteriore raggruppamento finale.

Roma-Mater del 03-01-1944
Roma-Mater del 03-01-1944

Per tentare di organizzare un campionato nazionale, con le bombe che tuonavano in casa, non c’erano troppe alternative. Muoversi in lungo e in largo per la Penisola diventava sempre più difficile, se non proibitivo. Oltre alle vicissitudini strettamente belliche, bisognava fare i conti con carenza di mezzi e problemi delle infrastrutture.

Per agevolare gli spostamenti per ragioni sportive, si optò così per i tre raggruppamenti da una dozzina di squadre l’uno, includendo nella massima divisione anche le formazioni cadette, ad esclusione del Palermo, in quanto in Sicilia erano già sbarcati gli Alleati.

Il primo luglio del 1943 la Figc diramò il comunicato ufficiale che fissava l’inizio del campionato al 3 ottobre, e disegnò i gironi. Nel gruppo I, che andava dall’Emilia al Nordest, includendo una parte di Lombardia, c’erano Ambrosiana, Bologna, Cremonese, Fanfulla, Gorizia, Modena, Padova, Parma, Triestina, Udinese e Venezia.

Parte della Lombardia era destinata al raggruppamento II, dove si trovavano Alessandria, Atalanta, Brescia, Genova, Juventus, Liguria, Milano, Novara, Pro Patria, Spezia, Torino e Varese. Ci sarebbe stato quindi il derby della Lanterna, ma non quello della Madonnina.

Nel girone III, riservato ai club che avevano sede tra la Toscana e le Puglie, erano invece sistemate le tre formazioni romane: lo componevano Ancona, Bari, Fiorentina, Lazio, Livorno, Mater Roma, Napoli, Pisa, Siena, Roma e Salernitana. All’ombra del cupolone ci sarebbero quindi state altre due stracittadine.

Questa scelta non entusiasmò i grandi club del Nord, per i quali il “rimescolamento” con la B poteva significare una riduzione dell’interesse del pubblico, e quindi degli incassi, in tempi già di vacche magrissime, e nei quali lo spazio per l’entusiasmo sportivo era incalzato da ben altre contingenze. I primi a protestare furono proprio i milanesi, che perdevano la partita di maggior richiamo.

Di contro la cosa piaceva molto ai vertici delle squadre minori, per prima volta ammesse al massimo livello del calcio nazionale, e che in alcuni casi neanche negli anni seguenti avrebbero militato in A, vale a dire Gorizia, Fanfulla e Spezia, o la Mater che sarebbe stata sciolta di lì a poco. Avrebbero invece esordito anzitempo in A Ancona, Cremonese, Parma, Pescara, Pisa, Salernitana, Siena e Udinese. Tuttavia, il tempo per entusiasmarsi e protestare durò poco, perché quel campionato 1943-44 restò solo sulla carta.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (seconda parte)

di Fabio Belli

La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.

La Juventus del quinquennio d'oro
La Juventus del quinquennio d’oro

Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.

La "prima" europea del Napoli
La “prima” europea del Napoli

In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.

Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934
Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934

L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.

Meazza capocannoniere d'Europa
Meazza capocannoniere d’Europa

Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.

Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.

Polemiche dopo la partita d'andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937
Polemiche dopo la partita d’andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937

La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.

La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese
La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese

Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.

La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (prima parte)

di Fabio Belli

Il calcio europeo ha vissuto uno sviluppo di ampio respiro una volta placatisi definitivamente i venti di guerra. L’UEFA nasce nel 1954 per iniziativa italo-belga-francese e, a cent’anni dai primi passi mossi in Inghilterra, rende realtà i sogni di tutti i pionieri del football del novecento: creare competizioni che rappresentino un metro di misura tra i club a livello internazionale. Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa UEFA animeranno i sogni di decine di milioni di sportivi continentali per decenni, fino alle attuali trasformazioni in Champions League ed Europa League.

La Coppa dell'Europa Centrale
La Coppa dell’Europa Centrale

Quando però negli anni ’30 un nuovo ordine mondiale sembrava andare prefigurandosi, poi sconvolto dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale diretta conseguenza dell’ascesa del nazifascismo, si era lavorato per mettere a confronto realtà di club di paesi diversi: la Coppa della Mittel-Europa, proprio lei, la Mitropa Cup, è stata la prima vera competizione europea per club. All’epoca era più facile vederla chiamata sui giornali col suo nome di “Coppa dell’Europa Centrale”, che col senno di poi le dava il sapore di una Champions League d’antan.

Troppo instabile la penisola iberica, troppo disorganizzate (nel football) Francia e Germania, troppo altera l’Inghilterra: il resto d’Europa si sentiva però pronta al confronto, e non bisogna credere che fosse una discriminante negative. All’epoca le squadre di club austriache e ceke avevano ben altra forza rispetto alle realtà emergenti nei paesi attualmente leader del calcio mondiale. Chi trionfava nella Mitropa poteva ben dirsi Campione d’Europa: di una sola parte di essa, certo, ma quella che più contava, all’epoca, a livello di club, ovviamente escluse le leggende inglesi.

L’evoluzione del torneo va di pari passo con quello che poteva essere e non è stato, all’epoca, del Vecchio Continente. Inizio in sordina dal 1927 al 1933 con un torneo, per quanto prestigioso, ad 8 squadre, poi il boom con le 5 edizioni a 16 e 20 squadre che possono essere considerate la versione embrionale di quella che vent’anni dopo sarà la Coppa dei Campioni. Poi l’improvviso declino, con la finale del 1939 mai disputata a causa dell’invasione della Polonia: in Europa non sarà tempo di pallone per un bel po’.

Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa
Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa

L’Italia è assente dalle prime due edizioni vinte da Sparta Praga e Ferencvaros: ceki e ungheresi hanno la meglio in entrambe le occasioni in finale sul Rapid Vienna. La riforma dei campionati vede l’Italia presentare, in attesa del girone unico, due rappresentanti uscite da un girone di spareggi nel 1929. Sono Genoa e Juventus le prime squadre a misurarsi in campo europeo a livello di club: entrambe escono subito ai quarti di finale, con gli ungheresi dell’Ujpest che alzeranno il trofeo ai danni dello Slavia Praga.

Nel 1930, di nuovo fuori ai quarti il Genoa, è l’Inter la prima squadra a passare un turno in Europa. Per domare i campioni uscenti dell’Ujpest serviranno 4 partite. Vittoria 4-2 a Milano, sconfitta con lo stesso pareggio in Ungheria, poi spareggio in parità (1-1) e alla fine vittoria di quella che nel frattempo è già diventata Ambrosiana. In semifinale sarà lo Sparta Praga ad estromettere i nerazzurri, ma a conquistare la Coppa, dopo due finali perse, sarà il Rapid Vienna.

Resoconto d'epoca della sfida tra Roma e First Vienna
Resoconto d’epoca della sfida tra Roma e First Vienna

L’anno successivo farà registrare la migliore performance della Roma, semifinalista battuta dai futuri campioni del First Vienna dopo aver piegato lo Slavia Praga nei quarti, fatali invece alla Juventus che non riuscirà nemmeno nel 1932 ad arrivare in finale. I bianconeri saranno però diretti responsabili del primo trionfo europeo italiano, quello del Bologna. I bianconeri infatti termineranno in una rissa furibonda la semifinale contro lo Slavia Praga: entrambe le squadre saranno squalificate e i felsinei, vincenti sul First Vienna, saranno proclamati campioni d’ufficio.

L'Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l'Inter
L’Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l’Inter

Nonostante la vittoria del Bologna, dunque la prima squadra italiana a giocare la finale della competizione sarà l’Inter nel 1933: Juventus ancora fuori in semifinale, sarà l’Austria Vienna a vedersela con l’Ambrosiana. A Milano il 3 settembre del 1933 un micidiale uno-due di Levratto e Meazza permette ai nerazzurri di prendere il largo, ma un gol di Viertl nel finale suona come un sinistro presagio. Cinque giorni dopo una tripletta della leggenda del calcio austriaco, Matthias Sindelar, manda in delirio i 58.000 del Prater di Vienna, e nega all’Inter la possibilità di alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale.

(continua…)

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Club Marco Piccinelli

Venezia, la favola lagunare: i gol di Recoba e l’Intertoto rifiutato. Poi, i fallimenti e la D

di Marco Piccinelli

Sessantaquattro punti collezionati in trentotto giornate, secondo posto e Stefan Schwoch capocannoniere degli arancioneroverdi. L’accostamento cromatico, inaccettabile per i più e stupefacente per una cerchia ristretta di persone nell’ambito della penisola italica,  ha subito fatto scattare i più attenti sibilando ‘Venezia’ tra le labbra di chi sta fissando lo schermo del proprio computer. Grazie ai gol dell’attaccante nato a Bolzano, i lagunari riescono a conquistare il secondo posto, dietro un’imprendibile Salernitana, assicurandosi la promozione: 1997-1998, il Venezia torna in serie A.

L’anno successivo squadra di Salerno sarebbe stata retrocessa dalla Serie A e costretta a ‘scendere’ nel limbo della B ma la squadra di Venezia non era fatta per essere nuovamente sbattuta in fondo alla classifica della massima serie italiana. La favola veneziana comincia, per la verità, soltanto nel girone di ritorno e, per sintetizzarla brevemente, si potrebbe così scandire: arrivo di Recoba, il Venezia inizia a vincere, Intertoto sfiorato. Anzi, rinunciato, per viltà magari, come il Celestino V dantesco (colui che fece per viltade il gran rifiuto) ma forse anche per restare ben coi piedi per terra. Ma questo si vedrà più avanti, con la speranza che non sia un post interminabile e che il lettore non riesca a leggere.

Tutto comincia, in buona sostanza, con la promozione del Venezia in serie A: stagione 1998-1999, una delle maglie più belle mai viste, ma il girone di andata non è dei migliori. Tuttavia, a gennaio arriva Alvaro Recoba in prestito dall’Inter. Walter Novellino può contare, ora, su un attacco niente male: Recoba, Maniero e Fabian Natale Valtolina, quello stesso Valtolina che aveva segnato il gol del 3 a 3 contro la Roma vestendo la maglia del Piacenza, siglando la terza rete con una rovesciata degna di nota e imbeccata da un lancio di Tramezzani dalle retrovie.

Nel girone di andata il Venezia inizia subito a perdere e a scavare, più che scalare, la classifica della serie A: prima giornata, sconfitta col Bari; seconda giornata, pareggio col Parma fino ad una lunga sequela di sconfitte con Roma, Fiorentina, Milan, Perugia e Bologna. Le uniche due vittorie arancioneroverdi del girone di andata, praticamente, sono contro la Lazio e contro il Cagliari, anch’essa neopromossa come il Venezia. La classifica si mette male, la situazione non è affatto rosea e Novellino deve fare qualcosa per invertire la rotta: a gennaio, come giù detto, arriva Alvaro Recoba in prestito dall’Inter.

La situazione muta del tutto e i lagunari iniziano a vincere con la quasi totalità delle squadre con cui avevano perso; il Pierluigi Penzo, il vecchio stadio sull’isolotto di Sant’Elena (Fondamenta Sant’Elena, per la precisione) s’era appena ricominciato ad usufruire con la promozione in A e ad ogni vittoria pareva che si facesse più arancioneroverde. Uno degli stadi più antichi, dopo il Ferraris di Genova, sembrava avere avuto una seconda gioventù e sembrava quasi venire giù alle due punizioni che Recoba aveva rifilato a Toldo nella casalinga contro la Fiorentina: finì 4 a 1 contro la terza in classifica. Quattro a uno, tripletta di Recoba, aprendo le danze con un gol à la Ali Karimi, battendo la Fiorentina di Trapattoni, Batistuta, Rui Costa e di quel Luis Airton Barroso Oliveira che poi aveva contribuito alla salvezza dei lagunari in uno dei tantissimi momenti difficili che la squadra ha passato. Quattro a uno contro una Fiorentina ai limiti della leggenda e concludendo il campionato inanellando una vittoria contro l’Inter per 3 a 2, dopo aver subito l’onta di sei gol all’andata. Il Venezia finirà la serie A del 98-99 con 42 punti: – 2 dal Bologna e rifiutando il posto nell’Intertoto, affidandolo, così, ad un Perugia che concluse il proprio campionato pericolosamente vicino alla zona salvezza.

L’anno successivo sarà quello dell’ingresso del giapponese Nanami – noto ai più per la sua inconsistenza a centrocampo – e di Spalletti in panchina, dopo che Novellino aveva optato per Napoli, seguito da Schwoch, ma il Venezia non era più lo stesso: retrocessione e discesa nel limbo. Perché, stavolta, non c’era Recoba a salvare il Venezia. La tradizione veneziana, vuole, che il leone di San Marco, simbolo della città, fosse raffigurato brandente una spada se in guerra con qualche Nazione o città, con il Vangelo e con le parole “Pax tibi, Marce, evangelista meus” se in pace.

A chi batte queste righe, affezionato non poco ai colori arancioneroverdi, piace pensare che durante la stagione 98-99 l’emblema del leone fosse quello con la spada ma gli anni successivi avrebbero segnato la pace e la resa, verrebbe da dire, prima ancora che le battaglie potessero aver luogo. E quasi non serve recriminare quel 2 a 2 galeotto contro la Roma, che tanto fece parlare i tifosi giallorossi, perché “quel punto avrebbe potuto consegnarci un altro scudetto”: il Venezia subì fallimenti su fallimenti e ben presto si sarebbe ritrovata con un’altra icona tra le proprie fila (Paolo Poggi) a lottare per la salvezza in C1. Anche quell’illusione durò poco perché la permanenza nel professionismo venne minata del tutto quando l’SSC Venezia, sorto dalle ceneri dell’AC Venezia, dovette cambiare nome in FBC Unione Venezia e ripartire dalla serie D. In sovrannumero, peraltro, nel girone del nordest (C).

Giovanni Volpato, Jacopo Molin, Mirco Tessaro, Matteo Nichele, Simone Corazza, Marco Masiero, Mattia Collauto: una parte dell’organico in D della squadra di Venezia del 2009, compreso l’ultimo citato che, una volta approdato in laguna in serie B, ha vissuto una rapida discesa verticale fino al fallimento in D.

E tant’è, a dire che quella era stata una squadra raffazzonata, preparata all’ultimo e senza maglie fino al girone di ritorno, la favola veneziana era anche quella: senza niente ma con uno stadio centenario che cullava una società incerta, fragile e che si affacciava, perfino, all’azionariato popolare quando si sarebbe completata la ‘cordata’ comunale.

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Club Fabio Belli

Blackburn Rovers, ovvero: Tim Sherwood meglio di Zidane

di Fabio Belli

In molti ritengono che le radici del calcio moderno, così come quelle del calcio antico, abbiano origine in Inghilterra. Di sicuro il football d’oltremanica, all’inizio degli anni novanta, è stato il primo che ha saputo riformarsi e trasformarsi in una vera e propria macchina da soldi: parliamo di ricavi, e non i miliardi investiti dai tanti che hanno usato il pallone come vetrina o, perché no, anche come sfizio personale. E non è un caso che a vincere nell’ultimo anno della vecchia Football League sia stato il Leeds United: il passaggio di Eric Cantona dallo Yorkshire agli odiati rivali del Manchester United, e con esso anche lo scettro di squadra padrona d’Inghilterra, ha rappresentato un vero e proprio cambio di epoca.

A quelli a cui il calcio moderno non piace, viene facile individuare questo momento come quello della morte dei tempi più romantici e avventurosi del football. Eppure, anche nel rigidissimo scacchiere della Premier League, dal 1993 ad oggi vinta da sole quattro squadre, due di Londra (Arsenal e Chelsea) e due di Manchester (United e City), c’è stata l’eccezione che conferma la regola. E di eccezione si può parlare a tutti gli effetti, visto che negli ultimi 25 anni i titoli nazionali dei campionati di primo livello, quando non sono finiti tra le mani di grandi canoniche, hanno premiato club che avevano effettuato investimenti enormi sulla loro crescita. Lazio e Roma in Italia, ma anche Deportivo La Coruna e Valencia in Spagna, oppure il Wolfsburg in Germania, sono squadre arrivate al titolo allestendo formazioni con fior di campioni, e potendo contare su una potenza economica non indifferente.

Agli occhi di oggi appare incredibile quindi che nel 1995 il titolo sia stato festeggiato dal Blackburn Rovers: espressione di una cittadina di appena centomila abitanti nel cuore del Lancashire, e club passato alla storia per aver posto le basi della nascita del “sistema”, proponendo un 2-3-5 chiamato fantasiosamente “Piramide di Cambridge”. Piccolo particolare, era il 1893: anni ruggenti del calcio inglese, nei quali il Blackburn aggiunse a cinque FA Cup conquistate prima dell’avvento del ventesimo secolo, anche due titoli d’Inghilterra datati 1911 e… 1914. Ritrovare ottantun anni dopo ai vertici del calcio i Rovers non era certo nei piani degli ideatori della ricchissima Premier League, ma quella del 1995 fu una squadra che fece della normalità un lusso.

Nel 1992 il Blackburn si era classificato sesto in seconda divisione: la promozione nella neonata Premier arrivò grazie ad una vittoria da outsider assoluta nei play off. Ma quella squadra era pronta ad esplodere: dal Chelsea arrivò in prestito un diavolo della fascia, feroce progressista e mente geniale, Graeme Le Saux. In attacco, il club aveva speso cinque milioni di sterline per affiancare ad Alan Shearer il quotatissimo Tim Sutton del Norwich City, e alle loro spalle c’era il fantasioso Tim Sherwood, nel quale Kenny Dalglish in panchina riponeva una fiducia cieca. Tanto che per puntare su di lui, il club evitò la stagione successiva al titolo di versare quattro milioni di sterline nelle casse del Bordeaux per un certo… Zinedine Zidane. Roba che probabilmente avrebbero spedito nel Lancashire dalla Francia anche una cassa di vini omaggio per chiudere l’affare.

Tornando alla stagione del titolo, dietro alle imprese del Blackburn c’era il magnate dell’acciaio Jack Walker, tutt’altro che un Berlusconi per l’epoca, soprattutto rispetto alle grandi che spendevano e spandevano, Manchester United in testa. Ferguson diede una bella ripassata a Dalglish sia all’andata che al ritorno, ma contro le cosiddette piccole il Blackburn non perdeva un colpo né in casa né in trasferta. Era la normalità al potere: Alan Shearer segnava come nessun altro in Europa (chiuse il campionato con 34 reti!), e nelle interviste indicava salsicce e fagioli come suo piatto preferito. Era una squadra che non faceva sognare nessuno, tranne i suoi tifosi e i migliaia di simpatizzanti che in Europa ne seguivano l’impassibile scalata.

All’ultima giornata, i Rovers avevano 2 punti di vantaggio sullo United, e dovevano giocare ad Anfield contro il Liverpool. Lo United andava sul campo del West Ham con la certezza di vincere il titolo in caso di arrivo a pari punti, per la migliore differenza reti. Gli Hammers passarono in vantaggio mentre Shearer buttava nel sacco il suo ultimo pallone della stagione. Un lieto fine annunciato? Macché: il Manchester United prese a dominare contro un West Ham senza più obiettivi in campionato, e pareggiò facilmente, bombardando letteralmente il portiere avversario Miklosko, mentre Barnes e Redknapp (al 93′) ribaltano la situazione a Liverpool. I tifosi del Blackburn impallidiscono, mentre la tv inglese negli ultimi 30 secondi tiene la telecamera fissa su Kenny Dalglish, che appare quasi rassegnato a ricevere la notizia più temuta: grazie a Miklosko la beffa però non arriverà mai, e dopo aver assaggiato cos’era un vero thriller, i super-normali festeggiarono un titolo atteso 81 anni. Incredibile ma vero: e con Zidane la storia probabilmente sarebbe continuata, ma in fondo in un angolo del Lancashire sanno bene che non sono loro ad essersi persi Zizou, ma il resto del mondo a non aver ammirato da vicino Tim Sherwood al massimo della sua forma.

 

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Club Fabio Belli

20 aprile 1986, Roma-Lecce: indagine su una partita al di sopra di ogni sospetto

di Fabio Belli

Il fascino del calcio rispetto agli altri sport di squadra, è cosa abbastanza nota, consiste nella sua imprevedibilità. Difficilmente il pronostico può essere sovvertito quando il divario tecnico è troppo ampio: e così nel basket, nella pallavolo, nell’hockey e in tutte le altre discipline, si può assistere a finali olimpiche o lotte per il titolo all’ultimo sangue, ma difficilmente si può arrivare a vedere sciupare occasioni le squadre di testa opposte a formazioni destinate alla retrocessione.

Il 20 aprile del 1986 il calcio italiano ha fatto registrare uno dei più clamorosi testacoda della sua ormai ultracentenaria storia. L’Italia amante del pallone era sintonizzata sulle frequenze di “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con lo stesso stato d’animo di un lettore di gialli pronto a scoprire il nome dell’assassino. Il thrilling era garantito dall’incredibile rimonta che la Roma aveva messo in piedi ai danni della Juventus di Trapattoni. Un campionato a due strappi, quello della stagione 1985/86. La Juventus, inarrestabile, chiude il girone d’andata a 26 punti sui 30 disponibili. Secondo è il Napoli a -6, a otto punti di distanza seguono Inter e Roma. Già, i giallorossi: spettacolari e poco concreti come erano già stati sotto la guida di Sven Goran Eriksson nella precedente stagione, la questione-scudetto in inverno non sembrava proprio aperta.

E invece: nelle successive tredici sfide, la Roma ottiene 23 punti su 26, vincendone 11 (compreso lo scontro diretto contro la Juve con uno spettacolare 3-0 all’Olimpico), pareggiando a Firenze e perdendo solo a Verona. La Juventus avanza invece alla sconcertante media di un punto a partita. Un calo certificato anche dall’eliminazione in Coppa dei Campioni per mano del Barcellona. Si arriva alla penultima giornata con gli otto punti completamente rimontati. Il calendario recita: Roma-Lecce e Como-Roma per i giallorossi, Juventus-Milan e Lecce-Juventus per i bianconeri. Parlare di Lecce arbitro dello scudetto è però quasi roba da ridere: i salentini, al loro primo campionato in assoluto in Serie A della loro storia, di punti ne hanno messi insieme in tutto 14, e sono mestamente già retrocessi in cadetteria. Secondo gli esperti, non ci sono dubbi: saranno il Milan e il Como a decidere le sorti del titolo.

Il fattore psicologico però è da non sottovalutare: mentre la Roma è lanciatissima e col morale alle stelle per l’aggancio, la Juventus è evidentemente in affanno e affronta un Milan pronto a iniziare l’era-Berlusconi e a riacquistare quarti di nobiltà perduti ormai da oltre 15 anni di bocconi amari e cadute in B. Se sarà sorpasso, difficilmente i giallorossi perderanno l’occasione al “Sinigaglia” contro un Como coriaceo ma già salvo. Come detto, in questi calcoli della vigilia il Lecce non viene neppure considerato. Gli uomini di Fascetti scendono in campo in un Olimpico pavesato a festa: il Sindaco DC Nicola Signorello e il presidente giallorosso Dino Viola si esibiscono in un giro di campo quasi preludio di festeggiamenti ancora da conquistare. Chi in tribuna fa gli scongiuri, lo fa con la mente rivolta esclusivamente alla Juventus: se i bianconeri battessero il Milan, lo spareggio poi sarebbe comunque da giocare. Ma altri scenari funesti non vengono evocati, anzi anche uno spareggio, con la Roma in tali condizioni, da molti viene visto come una formalità, anche alla luce del 3-0 di poche settimane prima.

Graziani dopo 7′ porta in vantaggio la Roma, e non potrebbe essere altrimenti. L’Olimpico non esplode, si limita a proseguire nelle feste e nelle esultanze del prepartita, sperando di ricevere buone notizie dal “Comunale” di Torino. Impossibile preoccuparsi neanche quando Alberto Di Chiara, cresciuto nel settore giovanile giallorosso (al contrario del fratello Stefano, ex Lazio e anche lui presente in campo con la maglia del Lecce) beffa il fuorigioco di Eriksson e sigla il pareggio. Poco dopo, uno scellerato passaggio in orizzontale di Giannini, di quelli che fanno infuriare il Cruyff allenatore, regala il via libera a Pasculli atterrato da Tancredi. Barbas, dal dischetto, non sbaglia.

Cosa accada nell’intervallo non è dato sapere: c’è chi parla, ovviamente senza che mai arrivino conferme ufficiali, di ammiccamenti tra i due spogliatoi, col Lecce che se “incentivato”, non ci terrebbe a guastare la festa. Il pensiero indecente, se mai balenato nella mente di qualcuno, viene subito cancellato: troppo forte la Roma per non ribaltare comodamente il risultato, sugli spalti c’è chi è sicuro di una vittoria finale con vantaggio almeno doppio, come accaduto nella trasferta di Pisa una settimana prima, nella partita dell’aggancio. Parlando di scommesse però, il Totocalcio successivamente farà balenare un particolare quantomeno curioso: i tredici saranno 128 quella domenica, un’enormità se si pensa a quanto improbabile era considerata nel sentore popolare la vittoria del Lecce all’Olimpico.

Al rientro in campo, la Juventus sta comunque pur sempre pareggiando contro il Milan. La Roma riparte completamente proiettata all’attacco, e puntualmente la zona di Eriksson regala quegli spazi che permettono a Barbas, ancora lui, di firmare il 3-1. Impossibile ma vero: al “Comunale” i tifosi spingono letteralmente la Juventus verso la vittoria, e quando Laudrup porta in vantaggio i bianconeri, all’Olimpico inizia a consumarsi il dramma. La Roma spreca tanto, trova finalmente il gol a 8′ dalla fine con Pruzzo, ma ormai i cavalli sono proverbialmente scappati dal recinto.

Il Lecce, re per una notte, andrà ko all’ultima giornata, stavolta come previsto, contro la Juventus, mentre una Roma agghiacciata da quanto accaduto la settimana precedente sarà sconfitta anche dal Como. A distanza di quasi 30 anni, è davvero difficile ipotizzare cosa sia accaduto quel giorno. La storia di Davide e Golia stavolta è poco plausibile, considerando l’enorme differenza di motivazioni che intercorreva tra le due squadre, al di là dello scalino tecnico altrettanto ampio. Come sempre gossip, voci e veleni si rincorsero alla fine di una stagione che fu funestata dal secondo scandalo del calcioscommesse.

Nel libro di Oliviero Beha e Andrea Di Caro “Indagine sul Calcio”, il figlio del presidente giallorosso Viola, Ettore, dichiarò: ” Mio padre alla fine della partita era distrutto, incredulo, ma non sospettò mai nulla. Ai giocatori della Roma conveniva vincere. Mio padre aveva messo in palio per lo scudetto un premio clamoroso. La verità mai rivelata è che ci arrivarono voci insistenti di un premio a vincere o a pareggiare, che fu promesso al Lecce dalla Juventus. Giocarono la partita con una vis agonistica insolita per una squadra già retrocessa”. Ma nello stesso volume il bomber della Roma, Roberto Pruzzo, propone un’analisi che resterà per sempre quella ufficiale: “So che girarono voci, ma erano stronzate. Io ero un leader dello spogliatoio, non passava nulla che io non sapessi. E se qualcuno si fosse giocato la partita io l’avrei saputo. La verità è che nello spogliatoio non si giocava. Il Lecce rappresentò un incubo che può essere compreso solo se si considera quella partita come una follia isolata. Quella rincorsa ci causò un incredibile dispendio di energie fisiche e nervose. Avevamo finito la benzina,ecco la verità. Il calcio è bello anche perché esistono gare come quella. Purtroppo capitò a noi viverla”.