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Nazionali Valerio Fabbri

13 maggio 1990: la rivalità infinita tra Serbia e Croazia e la “miccia” del Maksimir

di Valerio Fabbri

Croazia e Serbia sono tornate ad affrontarsi per le qualificazioni al Mondiale del 2014 in una partita ufficiale dopo una pausa che durava dal 1999, quando la Serbia era ancora Jugoslavia, e sia Montenegro che Kosovo erano ancora ufficialmente parte del paese. Ma la memoria non può che andare al 13 maggio del 1990, quando nello stesso stadio Maksimir di Zagabria, stracolmo, la partita tra Dinamo Zagabria (Croazia) e Stella Rossa di Belgrado (Serbia) certificò al mondo intero, distratto dalla unificazione della Germania e dalla incipiente dissoluzione dell’Unione Sovietica, che la Jugoslavia era sul punto di esplodere. Quel giorno prese il largo, in maniera inarrestabile, la rabbia nazionalista, mentre gli ultrà distruggevano tutto, Zvonimir Boban, asso dei croati e futuro protagonista del calcio italiano (Bari e soprattutto Milan) prese a calci un poliziotto per difendersi. Violenti scontri tra le due tifoserie, guidate da capitifosi – forse pilotati dall’alto – che sarebbero diventati capi paramilitari, anticiparono il conflitto che si sarebbe scatenata di lì a poco. Quella volta non si giocò. Poi, la guerra civile.

zvonimir-bobanForse non esiste un esempio più calzante di questo quando si dice che “non è solo un gioco/solo una partita”, perché quel Dinamo Zagabria-Stella Rossa è la sintesi del significato del calcio: un gioco capace di accendere, ingigantire, a volte anticipare rivalità profonde, ma capace anche di restituire normalità alle relazioni dei gruppi che esso rappresenta. E nella recente partita, pur mantenendo intatto il valore simbolico dell’evento, l’ordine pubblico è stato rispettato, grazie ad un massiccio dispiegamento di forze di polizia e al divieto ai tifosi serbi di partecipare all’incontro. Ma il rancore profondo rimane. Nei giorni precedenti alla sfida tra Croazia e Serbia fu arrestato il direttore esecutivo della Dinamo Zagabria, Zdravko Mamic, per incitamento all‘odio etnico, dopo aver lanciato pesantissime accuse al ministro croato dello Sport, Zeljko Jovanovic, di etnia serba. Ha definito la sua nomina «un insulto al cervello dei croati».

È un peccato che si parli di quella partita per i violenti scontri, perché la storia di Croazia – Serbia è anche la storia della “generazione d’oro” jugoslava, della nazionale locale più forte di tutti i tempi – Boban, Šuker, Prosinečki, Mijatović, per citarne alcuni – quando gli jugoslavi era considerati i brasiliani d’Europa, e la Stella Rossa arrivava sul tetto del mondo, pur simbolo di un Paese che si stava sgretolando. Da qualche anno sta emergendo una nuova generazione di talenti che gioca sotto bandiere diverse, pur essendo nati, molto spesso, nello stesso paese.

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Club Fabio Belli

Rayo Vallecano, i Matagigantes

di Fabio BELLI

Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanti sono i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del football è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid ma, alle spalle delle merengues, il cammino dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa. Tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di decine e decine di titoli nazionali e internazionali conquistati dalle due formazioni, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.

Schermata 03-2456374 alle 19.08.39Il Rayo Vallecano è la terza squadra di Madrid per risultati, ma probabilmente la prima per determinazione e forza di volontà. Il soprannome dei giocatori del Rayo da sempre è “Matagigantes“, ammazzagrandi, coniato nell’anno della prima promozione nella Liga, stagione 1977/78. I giganti del calcio spagnolo cominciarono infatti a fare i conti con quella squadra che, con una maglia che si dice sia un omaggio a quella del River Plate ed il segno distintivo di un’ape disegnata sul petto (a volte anche grandissima, come negli anni ’80), con un budget mostruosamente inferiore a quello delle big, riusciva spesso ad ottenere risultati sbalorditivi. Come negli anni ’90, quando la squadra che vantava gioielli come Toni Polster e Hugo Sanchez, ex leggenda del Santiago Bernabeu, si divertiva ad impallinare Barcellona e Real Madrid. Storiche sono le vittorie casalinghe contro il Real, 2-0 nel 1992/93 e di misura il 19 febbraio del 1997, 1-0, fino al successo nell’ultimo scontro finora disputato in campionato contro le merengues, sempre per 1-0 nel 2019. Ancor di più lo fu però la prima vittoria di sempre al Bernabeu, stagione 1995/96, 2-1 per il Rayo, con gol decisivo rimasto nella storia del brasiliano Guilherme. Il Camp Nou venne invece espugnato per la prima ed ultima volta alla terzultima giornata del campionato 1999/00, il migliore della storia del Rayo con la qualificazione in Coppa UEFA, 2-0 e blaugrana ammutoliti.

Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è poi risollevato tornando a giocare nella Liga, per poi retrocedere di nuovo in “Segunda” nella scorsa stagione. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madrepadrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi siano stati costretti nella loro carriera farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.

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Fabio Belli Nazionali

Le mille suggestioni del derby del fiume Congo

di Fabio Belli

La Coppa d’Africa regala sempre suggestioni importanti, spesso capaci di creare incroci che non hanno nulla da invidiare a quelli che, ad esempio, hanno fatto la storia dei Mondiali.

Così come nel 1974 due mondi si tesero idealmente la mano nella sfida tra Germania Est e Ovest, nell’edizione 2015 del trofeo in Guinea Equatoriale le due anime del fiume Congo si sono ritrovate di fronte. La Repubblica del Congo (capitale Brazzaville) contro la Repubblica Democratica del Congo (capitale Kinshasa), che una volta si chiamava Zaire. E che proprio in quel Mondiale, Monaco ’74, ha partecipato come prima squadra dell’Africa Nera a essere presente in una rassegna iridata, con le pressioni del regime che fecero saltare i nervi a Mwepu Ilunga che spazzò via la palla ancor prima che il Brasile, con lo specialista Rivelino, potesse battere un calcio di punizione.

L’Africa è un gioiello bellissimo vista dall’alto sorvolando il fiume Congo, che divide due Nazioni che si portano dietro però tutti i problemi, le contraddizioni e le sofferenze del Continente Nero. La divisione è puramente coloniale: francesi da una parte, belgi dall’altra, ma un filo sottile continua a unire le due popolazioni, tanto che prima dello scontro in Guinea Claude Le Roy, allenatore del Congo “Brazzaville”, si era detto comunque felice che il Congo, in un modo o nell’altro, in semifinale ci sarebbe stato.

La partita è stata folle e imprevedibile come solo in Coppa d’Africa può avvenire: Repubblica del Congo, sfavorita alla vigilia, avanti di due reti in apertura di ripresa dopo un primo tempo chiuso sullo zero a zero. Quindi si scatena la Repubblica Democratica del velocissimo Yannick Bolasie e del bomber Mbokani e, in meno di mezz’ora, il risultato passa sul 2-4. Quanto basta per assistere all’incredibile esultanza di Muteba Kidiaba, il portiere del Mazembe, l’unica squadra africana che abbia mai giocato una finale del Mondiale per Club (nel 2010, contro l’Inter). Kidiaba si siede e inizia a saltellare trascinandosi sul sedere, come se avesse il… didietro a molla.

Se non lo si vede, non ci si può credere: una partita comunque giocata a mille all’ora, con l’allegria tattica che potenzia la prestanza fisica di giocatori che nel calcio che conta arrivano a militare nella Serie B inglese, al Terek Grozny in Russia o al massimo alla Dinamo Kiev, come il centravanti della Repubblica Democratica, Dieumerci Mbokani. Proprio così, in francese Mbokani si chiama “grazie a Dio”. Inoltre il talento più cristallino della squadra, Kebano, numero dieci classe ’92 cresciuto nel Paris Saint Germain e passato tra le fila del Charleroi in Belgio, di nome di battesimo si chiama Neeskens. Chiaro omaggio all’asso dell’Olanda degli anni ’70, di cui Neeskens Kebano ricalca in parte le movenze. Mille storie in una insomma, come solo l’Africa sa riservare col suo calcio folle e in parte ancora spensierato.

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Club Fabio Belli

Un gol ogni due minuti: i record di scarto di Estonia, Micronesia e il 149-0 che finì nel Guinness dei Primati

di Fabio Belli

Il calcio di oggi sembra andare decisamente in due direzioni: da una parte, un livellamento che, soprattutto in Europa, porta le qualificazioni mondiali ed europee a mettere in mostra partite vere e muscolari anche quando squadre importanti si trovano opposte ai cosiddetti “microstati”. Le ultime imprese di San Marino, Lichtenstein e soprattutto Far Oer (doppia vittoria contro la Grecia), dimostrano come le cosiddette scampagnate contro elettricisti o falegnami di turno appartengano ormai ad un lontano passato. Dall’alta, la massiccia globalizzazione che ha portato moltissimi esordienti in ogni angolo del mondo a cimentarsi col football, stanno causando un continuo ritocco dei record di maggiore scarto di gol in incontri ufficiali.

Negli ultimi giorni, qualcosa di strano è accaduto nella Coppa di Estonia, e ripetutamente. E’ vero che nel paese baltico i primi turni della competizione vedono club della massima serie opposti a squadre di onesti dopolavoristi, ma in alcune partite si è andati avanti ad un ritmo superiore ad un gol ogni 3 minuti. E’ accaduto nel 31-0 con cui il Paide Linnameeskond si è sbarazzato del Raudteetoolised, ma ancora peggio è andato ai ragazzi del Virtsu Jalgpalliklubi, che contro il club di Serie A locale del Tallinna Infonet è stato costretto a raccogliere per ben 36 volte il pallone in fondo al sacco.

Eventi che sono stati il preludio al nuovo record mondiale stabilito in Oceania pochi giorni fa: nella sfida valevole per i giochi del Pacifico (utile anche come qualificazione ai giochi olimpici di Rio), le Fiji hanno battuto la Micronesia con un clamoroso 38-0. Considerando che praticamente nel match in questione non c’è stato recupero (per bontà dell’arbitro…) si è andati avanti ad un ritmo di un gol ogni 2 minuti e 22 secondi. E’ vero che la nazionale della Micronesia, arcipelago dove il pallone non ha mai fatto parte delle passioni e delle tradizioni degli sportivi locali, è una di quelle di più giovani costituzione e con un movimento neppure paragonabile a quelli dilettantistici. Ma lo scarto contro un avversario comunque a sua volta quasi amatoriale come le Fiji ha stupito il mondo, e soprattutto ha ricavato per la piccola nazionale un posto nella storia.

In un match ufficiale infatti il 38-0 è un record che cancella il 31-0 con cui l’Australia aveva piegato le Samoa Americane nel 2001, e che rappresentava il massimo scarto in un impegno ufficiale tra due Nazionali di calcio. C’è da dire che la Micronesia è recidiva, in quanto ha incassato un clamoroso 0-46 dalla Nazionale di Vanuatu in una sfida che non era però considerata ufficiale. A livello di club, la Coppa di Estonia sopra citata ha raggiunto la leggendaria sfida di Coppa di Scozia del 1885, in cui l’Arbroath (club ancora attivo nelle serie professionistiche scozzesi) travolse 36-0 il Bon Accord, club di Aberdeen.

Il record dei record spetta però a una partita del campionato del… Madagascar: AS Adema – SO de l’Emyrne 149-0. Un risultato incredibile che fa ancora parte del Guinness dei Primati, visto che venne omologato dalla federazione locale nonostante fosse il frutto di un incredibile protesta del So de l’Emyrne, che ad ogni calcio d’inizio buttava sistematicamente il pallone nella propria rete. Protesta che era legata ad una decisione arbitrale nella partita precedente, che era costata alla squadra la possibilità di lottare per il titolo. Una singolare iniziativa che valse un posto nel libro dei record, ma anche la squalifica fino a fine stagione per i giocatori, e per tre anni per il tecnico.

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Calciatori Marco Piccinelli

Re Giorgio Corona e gli altri decani del calcio professionistico

di Marco Piccinelli

(tratto dalla Gazzetta del Lazio di venerdì 6 febbraio 2015)

In Lega Pro, nel girone della Lupa Roma, sono presenti i giallorossi del Messina, annaspando tra playout e salvezza.
La stagione non è certo facile e il girone unico non aiuta le squadre che si sono lasciate da poco alle spalle l’ultimo scoglio del dilettantismo italiano: la Lupa Roma, dopo un avvio costellato di vittorie e pareggi contro squadre ben più blasonate, si trova ora a metà della classifica seguita a un poco confortante +2 dal Messina.
Perché dovrebbe interessare una squadra siciliana al lettore di un periodico che è rintracciabile nelle edicole di Roma e del Lazio e che, non a caso, si chiama ‘La Gazzetta del Lazio’?
Perché in realtà parlare del Messina è un pretesto per scrivere di uno dei simboli della rinascita della squadra, dopo essere piombata dalla massima serie alla Serie D: si tratta di Giorgio Corona.
Attaccante, soprannominato ‘Re Giorgio’, non si è fatto molto benvolere – a dirla tutta – dal pubblico romano: nella sua lunga carriera, ancora in corso, ha vestito la maglia della Juve Stabia e il gol del 2 a 0 contro l’Atletico Roma – precisamente all’88’ – ha bruciato per non poco tempo sulla pelle dei tifosi capitolini, sebbene di lì a poco la compagine bianco blu sarebbe fallita e avrebbe cessato di esistere.
Tuttavia, Giorgio Corona ha una notevole carriera alle spalle, anche se qualcuno potrebbe obiettare che non ha mai vestito la maglia della Nazionale, né si è mai distinto per un così alto numero di reti in serie A (solo sette e con la maglia del Catania).

E’ vero: non ha mai alzato Coppe del Mondo né analoghi trofei per club ma i suoi gol sono più importanti sono quelli segnati negli ultimi anni con la maglia del Messina e, dunque, non in Serie A.
Dopo essere tornato al Taranto, concluso il periodo di prestito alla Juve Stabia, decide di rescindere il contratto coi pugliesi e di andare a giocare nella squadra peloritana.
 Corona torna a militare nel Messina nel periodo peggiore e dopo dodici anni che non indossava quella divisa: i giallorossi sono stati appena scaraventati in Serie D con quattro punti di penalizzazione, ma a ‘Re Giorgio’ non importa molto e, anzi, si carica la squadra sulle spalle traghettandola fino ai playoff.
 Nella stagione 2011/2012 il Messina verrà fermato alle fasi eliminatorie dei playoff e alla squadra siciliana sarebbe successivamente toccata un’altra stagione in serie D, così come stava analogamente succedendo al Venezia, fermata dal 3 a 2 contro il Sandonà Jesolo nella seconda stagione in D nel girone C degli arancioneroverdi. 
L’attaccante, nella stagione di ritorno al Messina e alla serie D, disputerà 34 presenze e collezionando 16 centri.

L’anno dopo sarà quello dello scontro con ‘l’altro Messina’ (il ‘Città di Messina’) tra le cui fila militava anche quel Saraniti che ora veste la casacca della Viterbese Castrense: nella stagione 2012/2013 le presenze saranno 33 e i gol 17. L’anno è quello buono e il Messina compie il grande balzo approdando, nuovamente, al professionismo. Facilmente si sarebbe potuto pensare come le strade di Re Giorgio e quelle del Messina fossero destinate a separarsi. Neanche per sogno: a 39 anni gioca per altre 34 partite e mette a segno 11 gol.
Finita? Nient’affatto: nella stagione attuale, a quarant’anni, l’attaccante palermitano ha fatto gol per 7 volte in venti presenze. E il campionato non è ancora terminato.

Questa storia può, senza dubbio, far tornare alla mente qualche altro calciatore che ha appeso gli scarpini al chiodo solo una volta arrivato agli ‘–anta’: Hubner, Vierchowod, Zoff, Oliveira sono solo alcuni esempi.
Dino Zoff, arrivato ai quarant’anni, indossava ancora la maglia della Nazionale mentre Vierchowod contribuiva alle due salvezze del Piacenza tra il 1997 e il 1999; dall’altra parte Hubner, dopo aver militato in Brescia e Piacenza, torna in C1 nel Mantova di Poggi per poi concludere la carriera a 44 anni a Cavenago d’Adda (Prima Categoria bresciana).
C’è, poi, Luis Airton Barroso Oliveira, il brasiliano naturalizzato belga che, dopo aver vestito le maglie di Cagliari e Fiorentina in Serie A, gioca con il Foggia, con il Catania e infine con Venezia e Lucchese.
Lulù, così come lo chiamavano i tifosi della Fiorentina, torna per due anni in Sardegna con la neo promossa Nuorese e finisce la carriera vestendo i colori del Muravera di cui, ora, è allenatore.

Un percorso analogo, infine, l’ha intrapreso Marco Ballotta, il quale è volutamente posto alla fine di questo scritto, perché la sua carriera, a poco più di cinquant’anni, è ancora ‘in fieri’ e fa da contraltare a quella di ‘Re Giorgio’: dopo aver abbandonato la Lazio nel 2008 (43 anni, età in cui stabilisce il primato di calciatore più anziano ad aver mai disputato una partita di Champions League) disputerà un intero campionato come centravanti al Calcara Samoggia centrando 24 reti in 37 presenze. Ma non è tutto, anzi, è solo l’inizio: dopo aver rescisso il contratto con i biancocelesti è iniziata, se è consentito a chi scrive, la seconda vita di Ballotta in cui non c’è soltanto la difesa dei pali della propria squadra, ma anche la messa a segno di gol, posizionandosi in ruoli che lo vedono nella trequarti di campo.
Nel 2011, dopo due stagioni con il Calcara Samoggia, approda al San Cesario, dividendosi fra porta e attacco, così come tornerà a fare tra 2012 e 2014 – nuovamente – al Calcara. Sembra finita e Ballotta decide di assumersi l’incarico da dirigente del settore giovanile della neopromossa Castelvetro (Eccellenza Emiliana) ma vuole tornare fra i pali e ora è il primo portiere, a cinquant’anni e dieci mesi, della compagine modenese.

 

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Marco Piccinelli Nazionali

Groenlandia, l’ultima frontiera del football

di Marco Piccinelli

Partiamo dall’inizio: Groenlandia. Dice “e dov’è la Groenlandia?”, giusto: la domanda potrebbe non essere scontata. La Groenlandia è la lingua di terra che negli atlanti giganti delle scuole elementari compariva di striscio in Europa, solo per la parte orientale, mentre se lo si apriva dal lato del nord America, solo per quella occidentale. Per essere visualizzata tutta bisognerebbe avere una di quelle cartine della terra tipo questa.

Qui ci si accorge che la Groenlandia è, sostanzialmente, una lingua di terra ghiacciata e, per chi non lo sapesse, è abitata soltanto sulle coste frastagliate del Paese. La Groenlandia, dunque, è una nazione semi-autonoma che, alla pari delle Isole Faroer, era compresa nel regno di Danimarca: dopo vari tentativi, il referendum per l’autodeterminazione è stato vinto ed ora la Groenlandia è autonomia in ogni campo eccetto quello della difesa. Così come, d’altra parte, nelle Faroer: le due nazioni in questione, dunque, fanno ancora parte del Regno di Danimarca, tuttavia è solo una formalità.

Per capire al meglio la realtà Groenlandese (in lingua locale Groenlandia si traduce con Kalaallit Nunaat ovvero Terra degli Uomini) bisognerebbe astrarsi per un attimo da tutto quello che si conosce della propria realtà quotidiana: ogni aspetto della società è notevolmente differente da ciò che un occidentale potrebbe immaginare. Lo sport, ad esempio: il calcio in Groenlandia dovrebbe essere considerato uno sport nazionale e, nei fatti, lo è ma la condizione climatica è fortemente avversa allo sviluppo del gioco così come la si potrebbe intendere comunemente.

Si gioca indoor per quasi tutto l’anno praticando calcio a 11, a 5, handball (pallamano) e altri sport: solo per tre mesi l’anno il clima consente di disputare partite all’esterno e i campi sono completamente di terra. Il giornale anglosassone ‘the Guardian’ ha riportato, però, come nella sola Qaqortoq (1) sia presente, in effetti, un campo di erba sintetica: «In recent years, with an artificial turf pitch built in Qaqortoq, football has progressed steadily. The Greenland national team have been competing at the Island Games since 1989».

Cito ancora il recente articolo (novembre 2014) del Guardian per far inquadrare meglio la situazione a chi legge, stavolta traducendo lo stralcio: «Tuttavia, giocare a calcio in Groenlandia è più difficile di quanto possa apparire. Coperta di ghiaccio del paese per la maggior parte dell’anno  il calcio può essere praticato solo per circa tre mesi all’anno». Le squadre, però, molte volte devono sobbarcarsi dei costi di spostamento in aereo o in barca perché le strade che collegano una città all’altra, o un villaggio all’altro, non esistono e, dunque, questo rende difficoltoso lo svolgimento dell’unico campionato di calcio Groenlandese: la Coca Cola – Championship.

Il campionato di calcio è strutturato in tre fasi: locale, regionale e finale, quest’ultima raggruppa due gironi, due gruppi di 6 squadre, le due prime in classifica si contenderanno la vittoria del campionato stesso. Non esistono ‘spalti’ nel campionato groenlandese e il luogo dove si può osservare la partita sono le imponenti rocce al lato del campo e capita, in alcuni campi di alcune cittadine più piccole, che il pallone finisca in acqua.

Le squadre che si contendono il titolo, da qualche anno a questa parte, sono il B-67 di Nuuk, il G-44 di Qeqertarsuaq, il Malamuk di Ummannaq e il Nagdlunguaq-48 di Ilulissat e, a riprova del fatto di quello che si diceva prima, cioè che per comprendere questa realtà è meglio se ci si astrae il più possibile dalle proprie sovrastrutture, non ci sono limiti di età per entrare a far parte della rosa titolare di una squadra del campionato. Ovvero: gli undici titolari possono vedere calciatori di 26/27 anni e portieri o difensori di 40: John Edelvig, difensore del B-67, ne è la prova vivente. Il dato curioso è che le prime squadre, o comunque società sportive groenlandesi, sono iniziate a sorgere attorno agli anni ’60 dove, in buona sostanza, neanche Nuuk (2) era una città poi così sviluppata dal punto di vista urbanistico da essere considerata capitale. E invece capita che Tasiilaq, villaggio di mille e settecento anime sulla costa orientale, la più selvaggia e con dei problemi enormi di alcolismo, dispersione scolastica e disoccupazione, possegga una delle squadre più longeve del campionato: l’A.T.A. (Ammassalimmi Timersogatigiffiq Ammassak) è nata nel 1960 e partecipa, come tutte le società sportive della Groenlandia, ai campionati di calcio, handball e badminton.

La nazionale groenlandese, come molte altre nazioni e ‘nazioni senza Stato’, non è riconosciuta dalla Fifa ma partecipa, attivamente ad un contromondiale, se così di può chiamare: la Viva World Cup, sorta dalle ceneri dell’ELF (Equality, Liberty, Fraternity) disputata nel solo anno 2006 a Cipro Nord. La Viva, comunque, comprende: Cipro Nord, Groenlandia, Principato di Monaco, Zanzibar, Camerun meridionale, Occitania, Kurdistan, Lapponia, Kurdistan, Provenza, Rezia, Aramea, Sahara occidentale, Darfur Padania (sic!) e Regno delle due Sicile (sic!).

In mezzo a questo lungo post, che spero qualcuno abbia letto fino alla fine, sono presenti due video-esempio riguardo il calcio Groenlandese su cui c’è da fare l’ultima postilla: nel controcampionato mondiale di nazioni senza stato di calcio femminile, la Groenlandia è arrivata terza (si parla del 2009) superando l’Isola di Man luogo in cui, per altro, si svolgeva la competizione.

1) Qaqortoq – città tra le più grandi insieme a Nuuk, Ilulissat, Maniitsoq e Ummannaq,

2) Nuuk, in lingua locale, o Gothab, in danese, è la capitale della Groenlandia

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Allenatori Enrico D'Amelio

Josep Guardiola: vincente, mai banale

di Enrico D’Amelio

Un suo storico rivale, Josè Mourinho, ha sempre sostenuto che “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”. Una frase sicuramente appropriata e calzante per far capire come anche in uno sport popolare, strumenti come cultura, apertura mentale ed esperienze di vita facciano la differenza per potersi distinguere dagli altri e raggiungere risultati superiori. In altre circostanze, il tecnico di Setùbal affermava che Pep Guardiola fosse capace di vincere “solo nel giardino di casa propria”, riferendosi ai successi ottenuti dallo stesso unicamente nella roccaforte catalana del Camp Nou. Meno male che il tempo è galantuomo, e che l’allenatore spagnolo stia iniziando a dimostrare quanto non sia stato tanto il Barcellona ad essere la sua fortuna, quanto l’opposto. Perché se arrivare primo al traguardo con la macchina più veloce può essere la norma per un pilota, riuscire a oltrepassarlo senza speculare sul risultato, ma fornendo ai propri interpreti dei mezzi basilari per essere migliori degli altri ad altissimi livelli, è un merito innegabile.

Un predestinato della panchina, come tutti quei professori del centrocampo, che vivono per dare fosforo e geometria davanti alla difesa. Pochi i km percorsi negli anni da calciatore, meglio farli fare al pallone in tutte le zone del campo, con la mente che viaggia agli anni a venire, quando verrà il tempo di trasmettere ai più giovani tutto quello che hai maturato nel tempo. Dopo un finale di carriera non degno di una bandiera blaugrana, complici l’esilio in Italia a Brescia e Roma, e spiccioli di calcio inferiore tra Qatar e Messico, l’inizio di ciò che da sempre era scritto nel futuro. A 36 anni una stagione di apprendistato con la squadra B del Barcellona, ad attendere la conclusione fisiologica del quinquennio sotto l’egida di Frank Rijkaard (2003/2008). Poi, a soli 37 anni, la scommessa più rischiosa. Tornare ad essere profeta in patria con la squadra potenzialmente più forte al mondo. Da Rijkaard a Guardiola, da Ronaldinho a Messi. Rifondare una squadra che solo 2 anni prima era diventata Campione d’Europa, e farlo da giovane tecnico che deve imporre idee innovative, impedendo a fenomeni indiscussi di vincere con la sola anarchia. Non straordinari solisti, ma il Gruppo alla base dei successi, oltre al categorico rifiuto della banalizzazione delle vittorie. In un solo anno Guardiola è riuscito nella prima impresa impossibile conquistando il triplete, culminato con il trionfo all’Olimpico di Roma contro il Manchester United nella finale di Champions League 2009. Anche qui la distinzione dell’uomo speciale prestato al calcio, nei momenti della gloria: “Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e soprattutto a Paolo Maldini, un esempio per tutti. So che ha avuto qualche problema nel giorno dell’addio, ma sappia che ha l’ammirazione di tutta Europa da venticinque anni, e che per lui le porte del Barcellona sono aperte in qualsiasi momento”. Da lì in poi, la nascita di un ciclo straordinario che profuma ancora di presente per poter essere giudicato dalla Storia. Tutto quello che c’era da vincere dal 2008 al 2012 è finito nella bacheca di Avinguda Aristides. Non sono stati, però, principalmente i trofei conquistati (14) a dare la dimensione di una squadra stellare, quanto la perfezione con cui si è arrivati allo scopo. Storica la risposta a chi gli chiedeva quale fosse il terminale offensivo di una squadra senza ‘numero 9’: “il nostro centravanti è lo spazio”. Nel moderno e consumistico calcio di oggi, però, anche nelle storie d’amore più belle è contemplata la parola fine. Prima che si potesse incrinare qualcosa, dopo un’ultima stagione in cui Liga e Champions League non erano arrivate, Guardiola dice addio (arrivederci?) alla Casa Madre. Troppo stress accumulato e una minor fame di vittorie gli hanno suggerito che era meglio staccare la spina per un anno, prima del nuovo monolite da costruire nel cuore del Vecchio Continente.

A Monaco di Baviera è riuscito addirittura a superare l’impossibile, andando a vincere una sfida ancora più improba. Dopo il triplete di Jupp Heynckes del 2012/13, ha ereditato una squadra ‘sazia’, spostandosi dal suo habitat naturale, ed è riuscito in poco più di un anno a costruire qualcosa di migliore dell’insuperabile. Nella prima stagione la vittoria in Bundesliga è stata una formalità, macchiata soltanto dall’umiliazione patita in semifinale di Champions League contro il Real Madrid di Carlo Ancelotti. Il punto più basso della sua carriera da allenatore, che già dava adito a detrattori un po’ prevenuti di non giudicarlo idoneo a vincere lontano dalla Spagna, e, soprattutto, in un calcio fisico come quello tedesco. I primi mesi della stagione in corso hanno dimostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che questo Bayern Monaco è già diventato migliore di quello del 2013, e che può seriamente candidarsi ad insidiare il Barcellona migliore di sempre. La Coppa dalle grandi orecchie ritornerà sicuramente in Baviera, probabilmente già da quest’anno, e, cosa più importante, verrà vinta in modo diverso, perché diverse sono le squadre di Guardiola. E allora Mourinho dovrà rassegnarsi. Fino a riconoscere l’oggettiva grandezza di un allenatore speciale, destinato a prendersi in più Nazioni svariati “giardini di casa propria”. Come un vero cittadino del mondo, mai sazio di cercare nuove sfide.

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Club Fabio Belli

Hekari United, i migliori dei peggiori

di Fabio Belli

Il 2010 è stato l’anno dei sogni per chi tifa Inter. A coronamento del leggendario “triplete”, con Coppa Italia, Scudetto e Champions League conquistati dai nerazzurri allora allenati a José Mourinho nel mese di maggio, arrivarono i sigilli della Supercoppa Italiana e soprattutto nel Mondiale per Club, quando il testimone di quella squadra passò, solo per pochi mesi, a Rafa Benitez. Quella del 2010, disputata negli Emirati Arabi, fu un’edizione dell’ex Coppa Intercontinentale molto particolare. Per la prima volta lo scontro per la vittoria finale non fu tra l’Europa e il Sudamerica: una delle squadre di club con maggiore tradizione del continente africano, i congolesi del Mazembe, riuscì nell’impresa di eliminare l’Internacional de Porto Alegre in semifinale. La riforma fortemente voluta dalla FIFA andò a compimento, e quella che era fino ad allora considerata una mera formalità, divenne un torneo davvero aperto a tutte le confederazioni. L’Inter conquistò facilmente il titolo, ma una strada era stata aperta.

L'Hekari United, campione d'Oceania nel 2010
L’Hekari United, campione d’Oceania nel 2010

A ben vedere, però, quell’edizione del Mondiale per Club fu contrassegnata anche da una clamorosa prima volta. Alla competizione partecipò infatti, come da regolamento, anche la squadra campione di Oceania: la grande novità era che non si trattava di un club neozelandese, nazione che dominava la scena da quando l’Australia era passata, sia con la Nazionale che con i suoi club, alla confederazione asiatica. A sbarcare ad Abu Dhabi infatti era l’Hekari United, la prima (e finora l’unica) formazione a vincere la Champions League asiatica, proveniente da Papua Nuova Guinea.

Papua Nuova Guinea è stata a lungo la nazione più popolosa del mondo nella posizione più bassa del ranking FIFA: questo primato ultimamente le è stato scippato dalla Somalia, paese però che risente della grave situazione politica interna, che in alcuni casi non ha permesso alla federazione locale neppure di organizzare un campionato nazionale. In un continente come l’Oceania in cui il calcio è surclassato dal rugby, Papua Nuova Guinea vive poi particolarità tutte sue. Lo sport più praticato (addirittura dal 50% dei giovani locali secondo una recente indagine) è il Rugby a 13, variante di quello classico con 15 giocatori (chiamato Rugby Union, mentre in questo caso si tratta di Rugby League), nel quale Papua Nuova Guinea è addirittura al quarto posto nel ranking mondiale.

Il calcio è abbastanza in fondo nei cuori e nei pensieri della gente, tanto che un campionato semi-professionistico viene organizzato solamente dal 2006, e prima di allora l’attività era considerata puramente amatoriale. Eppure, in una nazione legata alla terra e ricca ancora di fascino e di mistero, in cui le tribù di nativi sono spesso ancora legate a tradizioni quasi millenarie, nella capitale Port Moresby l’Hekari United rappresenta quanto di più vicino a un club professionistico possa esserci nel mondo del football. La squadra è di giovanissima costituzione, ed è stata fondata proprio per regalare alla nazione un club capace di fare da traino per la costituzione del nuovo campionato nazionale, vinto sette volte dall’Hekari dalla sua costituzione, appunto nel 2006.

Ma l’incredibile exploit avvenne nel 2010, quando il 17 aprile a Port Moresby nella finale di andata della Champions League dell’Oceania, l’Hekari travolse con un clamoroso 3-0 i favoriti neozelandesi del Waitakere United. L’1-2 al ritorno non cambiò un pezzo di storia: una squadra a fortissima caratterizzazione indigena si era imposta nel più prestigioso torneo continentale. Accolti tra gli onori della nazione con le caratteristiche corone di fiori, i ragazzi dell’Hekari erano probabilmente consapevoli di aver scritto una pagina di storia, pur nell’applauso smorzato del pubblico neozelandese: benché fu una scena quasi commovente vedere i vincitori intonare “campeones, campeones” alla stregua del Real Madrid, lo scenario dello stadio del Waitakere dimostrava benissimo quale fosse il reale impatto del calcio, a livello di popolarità, nel continente oceanico.

L’Hekari United ha comunque raggiunto gli Emirati Arabi, anche se l’avventura al fianco dei campioni d’Europa e del Sudamerica è durata il tempo della sfida preliminare contro i padroni di casa dell’Al Wahda, persa 3-0. Ma nel paese delle mille tribù e degli stregoni, c’è stato un anno in cui il calcio si è guadagnato le prime pagine dei giornali. E all’Hekari United hanno assaporato la gioia di essere finalmente i migliori… dei peggiori.

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Club Fabio Belli

Dundee, il derby dei vicini di casa

di Fabio Belli

Nella mappa infinita dei derby del mondo, quello di Dundee, nonostante una storia ultracentenaria, viene spesso snobbato. Eppure, la sfida tra il Dundee Football Club, fondato nel 1893, ed il Dundee United, costituito sedici anni dopo nel 1909, racchiude in sé una quantità di particolarità assolutamente considerevole.

Dundee è la quarta città della Scozia: dopo Glasgow, Edimburgo e Aberdeen, e nella stagione in corso è l’unico centro che può vantare un derby nella Scottish Premier League, con i Rangers ancora impegnati nella loro scalata post-fallimento, per tornare a disputare l’Old Firm contro il Celtic, e le formazioni della capitale rovinare a braccetto in First Division l’anno scorso. Ma le due squadre locali sono anche le uniche a poter vantare una particolarità assoluta a livello internazionale: gli stadi delle due squadre sorgono ai rispettivi estremi della stessa via (sono ad Avellaneda, in Argentina, Racing e Independiente sono vicini “di stadio” in questo modo).

Dens Park (per il Dundee Fc) e Tannadice Park (per il Dundee United) sono praticamente l’uno di fianco all’altro in linea d’aria. In tempi recenti è capitato che le due squadre giocassero in contemporanea (soprattutto quando il Dundee Fc era impegnato in First Division) e che le rispettive tifoserie si lanciassero qualche coro a poche centinaia di metri di distanza, soprattutto quando i rispettivi tabelloni luminosi portavano divertenti notizie sul risultato dell'”altra”.

D’altra parte va sottolineato come la rivalità tra i due club sia un po’ anomala per gli standard della Gran Bretagna, e soprattutto della Scozia, dove la divisione calcistica delle tifoserie si rispecchia anche il quella politica e religiosa (vedi l’Old Firm, ma anche la sfida tra Hearts e Hibs a Edimburgo). Quella tra i due club di Dundee nasce e finisce nel calcio, e non ci sono motivazioni di gruppo, e neanche di quartiere (essendo appunto i due stadi dislocati nello stesso identico punto della città), e dunque capita che nelle famiglie di Dundee al sabato ci si divida: padre e figlio minore a Tannadice, zio e figlio maggiore al Dens, tanto per dirne una.

Una rivalità che non ha nulla a che vedere con quella di Glasgow, dunque, e che in Italia può essere accostata a quella tra Genoa e Sampdoria. Sul piano sportivo, solitamente a Dens Park la fanno da padrone la nostalgia e l’orgoglio di essere nati quasi vent’anni prima dei rivali, oltre alla rievocazione del titolo (unico nella storia del club) del 1963, al quale fece seguito anche il raggiungimento della finale di Coppa dei Campioni. A Tannadice Park invece, oltre a vantare una presenza molto più costante in Premier League degli ultimi venti anni, possono vivere di ricordi più recenti, con l’epoca d’oro che risale agli anni 80: Jim McLean in panchina, il titolo del 1983, le vittorie nelle coppe nazionali e la finale di Coppa dei Campioni sfiorata nel celebre doppio confronto contro la Roma nel 1984. Ora resta l’orgoglio di rappresentare l’unico derby di Scozia ai massimi livelli: con passione e orgoglio per i propri colori, ma senza mai scordare le regole del buon vicinato.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 20: #Olanda, #Brasile, #Cillessen, #Germania, #Argentina, #Messi, #Götze, #Klose, #Rihanna, #Maradona, #GER

di Fabio Belli

Brasile – Olanda 0-3

La "tensione" di Cillessen per gli attacchi del Brasile
La “tensione” di Cillessen per gli attacchi del Brasile

128. La “finalina” per il terzo posto dei Mondiali è una strana bestia: in nessuna altra competizione sportiva il ko in semifinale lascia tanto amaro in bocca, e infatti alla vigilia nessuno sembra voglia giocare quella che appare come un’inutile passerella. Poi invece, in campo la sfida si riaccende, e almeno quella medaglia di bronzo si vuol provare ad afferrarla. Solitamente, chi arriva più scarico perde: accadde in tempi recenti a Bulgaria, Corea del Sud e Portogallo, già paghe della semifinale, è successo anche stavolta al Brasile, ma per motivi opposti. Dopo la più grande umiliazione di sempre per la Selecao, è arrivato un nuovo disastro di fronte agli orange alleggeriti dalla tensione della semifinale, e di nuovo micidiali in contropiede. L’immagine del portiere Cillessen seduto in stile giardini pubblici col supporto del palo, è indice di quel poco che è riuscito a creare il Brasile nelle due partite decisive, quelle che dovevano portarlo sulla strada dell’Hexa.

Trovate Waldo ancora una volta
Trovate Waldo ancora una volta

129. Non è stato “Maracanazo”, ma un’umiliazione ben diversa, che paradossalmente ha solleticato l’orgoglio della torcida, che per il senso del dramma tipicamente sudamericano, digerirà sempre meglio una profonda umiliazione che una sconfitta stile 1950, quando le mani erano già sulla coppa. E così al Maracanà, nonostante i tedeschi avessero inflitto loro la peggior sconfitta della storia, non ci sono stati dubbi. Il “nemico” era e restava l’Argentina, come testimoniato dal tifoso che non ha avuto paura di scatenarsi in mezzo agli “hinchas” dell’albiceleste.

Olanda di nuovo sul podio
Olanda di nuovo sul podio

130. L’Olanda ha piazzato un primato, facendo giocare tutti e 23 i convocati, prima squadra a mettere in atto una soluzione simile ai Mondiali. La squadra di Van Gaal partiva a fari spenti, l’impressione è che forse il bersaglio grosso si poteva afferrare più questa volta che 4 anni fa, quando la Spagna dava una sensazione di superiorità generale difficile da smentire. Ma un secondo e un terzo posto tra 2010 e 2014 dimostrano come la scuola dei Paesi Bassi sia sempre all’avanguardia. Da 40 anni il sogno è però sempre uno, e continua a sfuggire come una saponetta bagnata. Vedremo se dove non sono arrivati Cruijff, Van Basten e Robben, riusciranno finalmente ad arrivare i giovani fenomeni del futuro.

Germania – Argentina 1-0 dts

Deutschland Weltmeister
Deutschland Weltmeister

131. Come avviene ormai da Francia 1998, dire “ha vinto la squadra migliore” è consuetudine della finale. Dopo un secondo e due terzi posti, la Germania conquista il quarto titolo Mondiale, raggiungendo l’Italia e dando finalmente un senso a dodici anni di straordinaria continuità nella competizione. I tedeschi arrivavano in Brasile tra le favoritissime, ma hanno giocato un Mondiale un po’ col freno a mano tirato. Due strepitose prestazioni, contro il Portogallo (favorita però da un arbitraggio oltremodo severo con i lusitani) e soprattutto Brasile, la Partita della Storia di questo Mondiale, e un’eccellente prova contro la Francia. Ma il balbettare già visto contro Ghana ed Algeria si è ripetuto al cospetto degli argentini, in tre diverse occasioni capaci di graziare Neuer a tu per tu. Ha vinto quella che nell’ultimo decennio si è imposta come una scuola capace di arrivare sempre tra le prime quattro tra Mondiali ed Europei, dal 2006 in poi. Mancava la vittoria, ed è arrivata. Facendo cadere anche l’ultimo tabù: mai un’europea aveva vinto nel continente americano.

L'ha decisa Mario Gotze
L’ha decisa Mario Gotze

132. A decidere la partita, Mario Gotze, classe ’92, talento della new wave tedesca quest’anno passato dal Borussia Dortmund al Bayern Monaco, un po’ discontinuo, ma l’unico forse in grado di spezzare l’equilibrio che gli argentini avevano imposto al match. Ha deciso la partita su un assist di Schurrle, anche lui subentrato dalla panchina: segno che chi ha le alternative e le fa valere, spesso mette le mani sul piatto.

Klose ora è a tutti gli effetti una Leggenda
Klose ora è a tutti gli effetti una Leggenda

133. Dopo una stagione opaca nella Lazio, in molti pensavano che Miroslav Klose sarebbe stato un’alternativa di lusso per la Germania del “falso nueve” Muller. Invece il centravanti di origini polacche si è imposto da titolare, con la sua presenza come riferimento in avanti capace di far girare tutta la squadra. E’ arrivato anche il record di gol nei Mondiali, una storia fantastica se ci si pensa. Nel 2002, l’ultima finale giocata e persa dalla Germania, Klose era in campo. Quella partita fu vinta dal Brasile con doppietta di Ronaldo, lanciato a sua volta verso il sorpasso a Gerd Muller. Nel 2014, Klose si prende il primato come marcatore di tutti i tempi del Mondiale segnando il gol del sorpasso in semifinale al Brasile sotto gli occhi di Ronaldo… e in finale, conquista anche la Coppa, chiudendo un cerchio lungo dodici anni.

Messi ha visto sfilare via il treno della storia
Messi ha visto sfilare via il treno della storia

134. Non ci siamo dimenticati naturalmente di uno dei leit-motiv di questa rassegna iridata. Messi vs Maradona, un cavallo di battaglia che è venuto spontaneo cavalcare dopo l’eccellente girone eliminatorio disputato dalla “pulga”. Mai il quattro volte Pallone d’Oro aveva avuto un tale approccio ai Mondiali, e si era pensato che la prospettiva di riportare l’Argentina sul tetto del mondo nella tana del Brasile fosse troppo ghiotta per non sfruttarla. E invece, dopo la giocata ammazza-Svizzera nei supplementari degli ottavi, l’asso del Barcellona si è eclissato, sprecando il match-ball col Belgio, facendosi imbrigliare dalla gabbia di Van Gaal in semifinale, ed infine senza prendere per mano la squadra nell’appuntamento decisivo, con tanto di clamorosa occasione fallita a tu per tu con Neuer. L’occasione irripetibile è perduta: in Russia Messi potrà provare di nuovo, con ogni probabilità, a diventare campione del Mondo, ma difficilmente le porte dell’Olimpo, quello vero, dove solo cinque-sei calciatori sono stati finora ammessi, si apriranno per lui.

I media brasiliani possono vendicarsi
I media brasiliani possono vendicarsi

135. All’Argentina lo “scherzetto” di festeggiare al Maracanà non è riuscito davvero d’un soffio. Le occasioni mancate da Higuain, Messi e soprattutto Palacio agiteranno a lungo i sogni dei tifosi dell’albiceleste. Che si erano presentati dall’inizio dei Mondiali con questo irriverente coro verso i rivali di sempre: «Brasil, decime qué se siente; tener en casa a tu papá. Te juro que aunque pasen los años; nunca nos vamos a olvidar… Que el Diego te gambeteó, que Canni te vacunó; que estás llorando desde Italia hasta hoy. A Messi lo vas a ver, la Copa nos va a traer; Maradona es más grande que Pelé» (traduzione “Brasile, dimmi cosa senti ad avere in casa tuo papà / Ti giuro che anche se passano gli anni, non ci dimenticheremo mai / Che Diego ti ha dribblato, che Canni (Caniggia, ndr) ti ha infilzato, che stai piangendo da Italia ’90 / Ora vedrai Messi, la Coppa ci porterà, Maradona è più grande di Pelè“). Un tormentone che i giornali argentini hanno utilizzato anche dopo l’1-7 in semifinale: ovvio che dopo il gol di Gotze, sia arrivata la vendetta…

A Rihanna piace vincere facile
A Rihanna piace vincere facile

136. A proposito di tifo, cosa avrà mai fatto l’Argentina a Rihanna? In semifinale avevamo segnalato come la popstar si fosse schierata in favore degli olandesi, con un esperimento di photoshop riuscito solo in parte. I colori della bella cantante sono cambiati per la finale: presente al Maracanà, Rihanna ha tifato in maniera sfrenata per la Germania, con tanto di festeggiamenti finali con i giocatori. Difficile capire il perché, sono le stranezze della febbre-Mondiale.

"22 men chase a ball for 90 minutes and at the end, the Germans always win.".
“22 men chase a ball for 90 minutes and at the end, the Germans always win.”.

137. Alla fine comunque, ha vinto questo signore qua. Grazie a tutti voi che avete seguito il “Contromondiale” di Storie Fuorigioco! Appuntamento in Russia, dai che tra 1419 giorni ci risiamo!

 

 

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 19: #Argentina, #Olanda, #Romero, #Mascherano, #Maschefacts, #GermaniaArgentina, #Robben, #SanPaolo, #Fellaini

di Fabio Belli

Argentina – Olanda 4-2 dcr

Entusiasmo popolare sfrenato in Argentina
Entusiasmo popolare sfrenato in Argentina

122. Dal “San Paolo” a… San Paolo: l’Argentina torna a giocarsi il titolo Mondiale a 24 anni di distanza da quello del 1990, e l’avversaria sarà la stessa, la Germania. Corsi e ricorsi continui della storia, visto che dopo quella volta, l’albiceleste non aveva più superato i quarti di finale, e soprattutto non aveva più vinto ai rigori dalla semifinale in Italia che rappresenta uno dei ricordi più amari della storia azzurra. Eliminata nel 2006 proprio dai tedeschi, che anche nel 2010 sono stati giustizieri della squadra allora allenata da Diego Armando Maradona. Germania-Argentina è una delle superclassiche dei Mondiali, e sarà per la terza volta l’atto conclusivo della competizione. Nel 1986 il gol di Burruchaga ha regalato il secondo titolo agli argentini, nel 1990 il rigore di Brehme il terzo ai tedeschi.

La Gazzetta riassume Argentina-Olanda in 5 parole
La Gazzetta riassume Argentina-Olanda in 5 parole

123. E allora come ora, ai rigori è stato decisivo un “underdog”, un portiere che di certo non era atteso tra i protagonisti del ventesimo Mondiale, e che di nome fa Sergio. Per la precisione, Sergio Romero, numero uno della Sampdoria che raccoglie ufficialmente l’eredità di Sergio Goycoechea, che ventiquattro anni fa salvò l’Argentina ai rigori prima nei quarti di finale contro la Jugoslavia, e poi nella sopra citata semifinale contro l’Italia. Stesso nome di battesimo, stesse prodezze dagli undici metri (la parata su Sneijder è stata a dir poco strepitosa), stessa scarsa considerazione alla vigilia: a Buenos Aires sperano solo che la storia dei Mondiali, così circolare e ricca di ricorsi, non nasconda il presagio di un’altra delusione finale.

Romero ripassa prima dell'interrogazione
Romero ripassa prima dell’interrogazione

124. Romero non deve comunque essersi dimenticato gli anni di scuola: durante i rigori è stato “pizzicato” a sbirciare un foglietto nel quale probabilmente c’erano appuntate le abitudini dei rigoristi olandesi. E chissà se le parate su Vlaar e Sneijder non siano state figlie dello studio, più che dell’istinto. Non è la prima volta che un portiere si aiuta con gli appunti: Jens Lehmann nel 2006 aveva ripassato lo stile dei tiratori argentini proprio nello stile di un compito in classe tra i banchi del liceo.

Ancora una delusione per l'Olanda
Ancora una delusione per l’Olanda

125. Dopo lo straordinario spettacolo di Belo Horizonte, a San Paolo si è assistito ad una partita bloccata come forse se ne videro, nella storia recente dei Mondiali, solo nel mondiale italiano, e a tratti in quello americano nel quale però il caldo recitò un ruolo ben più preponderante dei tatticismi di quattro anni prima nel frenare le squadre. Louis Van Gaal ha tagliato fuori Leo Messi, che dopo l’opaca prova contro il Belgio, si è giocato il secondo bonus nella strada verso la storia, mai pericoloso e soffocato dalle asfissianti marcature degli oranje. La partita si è rivelata però un paradossale scontro all’ok corral tra il tecnico olandese e Sabella, che ha rinunciato a sua volta ad esporsi al micidiale contropiede olandese. E il disappunto finale di Robben è quello di chi sapeva di poter in fondo fare di più: e invece la sua sarà l’ennesima generazione di fenomeni olandesi incompiuti.

Mascherano su Robben: una gemma di Brasile 2014
Mascherano su Robben: una gemma di Brasile 2014

126. Un filo conduttore tra le due finaliste è individuabile anche nell’anima delle rispettive zone di centrocampo. Nella storia vittoria della Germania, è riuscito a spiccare Sami Khedira, che ha giganteggiato dopo un inizio di Mondiale difficile. Nella bloccatissima sfida di San Paolo, a parte i balzi di Romero, l’unico gesto atletico da tramandare ai posteri sarà quello di Mascherano che ha salvato un gol fatto di Robben praticamente allo scadere. Un intervento strepitoso, per scelta di tempo e cuore, ciliegina sulla torta di una prestazione maiuscola.

Rimasugli di Argentina – Belgio 1-0

Fellaini come Sansone
Fellaini come Sansone

127. Basta la foto, non servono parole: Marouane Fellaini si è tagliato i capelli! Crolla in borsa l’industria delle parrucche per tifosi: migliaia e migliaia di capi ormai inutilizzabili tra Manchester e Bruxelles.

 

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 18: #Maraca-Nazi, #Mineirazo, #Brasile, #Germania, #Klose, #BrasileGermania, #BRAGER, #Scolari, #Maracanà

di Fabio Belli

Brasile – Germania 1-7

Scene mai viste sulle tribune del Mineirao
Scene mai viste sulle tribune del Mineirao

117. Tanta carne al fuoco, e non potrebbe essere altrimenti. Peggiore sconfitta nella storia del calcio brasiliano, maggiore scarto nel punteggio tra due semifinaliste (superato il record del 1930, quando entrambe le semifinali terminarono 1-6), record individuale di gol nella storia dei Mondiali. Soprattutto, l’incubo di una nuova umiliazione casalinga che si avvera a 64 anni di distanza dal Maracanazo. Evocato, temuto, un’ossessione per i brasiliani nonostante dopo quella tragedia sportiva siano arrivati cinque titoli mondiali. Tanto che il Brasile esce di scena da un Mondiale in casa atteso ben più di mezzo secolo senza averci mai giocato, al Maracanà: una scelta di calendario impensabile, e forse sarebbe stato meglio togliersi il dente subito, invece di aspettare una vendetta in finale, un eccesso di ottimismo considerando lo spessore tecnico della Selecao di quest’anno. E invece quel Brasile-Uruguay resterà l’ultima partita giocata dai verdeoro in un Mondiale nel tempio del calcio di Rio de Janeiro, e per chissà quanto tempo.

"Noi tedeschi non siamo tutti grandi sorrisi e allegria"
“Noi tedeschi non siamo tutti grandi sorrisi e allegria”

118. Le ironie in rete si sono sprecate, e qualcuno ha sfoderato un irriverente, splendido “Maraca-Nazi”. I tedeschi, sonnacchiosi seppur sempre efficaci per tutto il Mondiale, dopo due pareggi contro Ghana e Algeria e due vittorie di misura contro Stati Uniti e Francia, hanno sprigionato tutta la loro potenza. L’impressione è che dopo il 2-0 di Klose, gli avversari abbiano avuto un tracollo psicologico senza eguali nella storia del calcio, e dunque in vista della finale andranno soppesati gli eccessi d’entusiasmo. Ma i tedeschi sono in finale per l’ottava volta nella loro storia, e la quarta stella potrebbe far cadere un tabù: quella della prima squadra Europea vincente nel continente americano. Se l’avversario sarà l’Olanda sarà storia in ogni caso, altrimenti l’Argentina potrebbe mantenere in piedi un tabù considerato eterno.

Il miglior marcatore di tutti i tempi nella storia dei Mondiali
Il miglior marcatore di tutti i tempi nella storia dei Mondiali

119. Già, parliamo di Miroslav Klose. In questo Mondiale, di fatto, si è visto all’opera il più grande cannoniere di sempre della storia della Coppa del Mondo. Meglio di Pelé, meglio di Gerd Muller, soprattutto meglio di quel Ronaldo quasi in lacrime come commentatore sulla tribuna del Mineirao di Belo Horizonte, non certo per il record passato di mano, ma per la storica umiliazione della Selecao. Un primato del genere che viene tramandato tra le due Nazionali dei due protagonisti, uno sotto gli occhi dell’altro: basterebbe questo per rendere eterna la serata del “Mineirazo”. Ma c’è incredibilmente di più, perché in questo incredibile 1-7 è andato a segno anche colui che potrebbe venire nella linea di successione del record dopo Ronaldo e Klose: Thomas Muller, 24 anni e già dieci gol in Coppa del Mondo: salvo sorprese, difficile pensare che il record prima o poi non finirà nelle sue mani.

Scolari invita Bernard a guardare in faccia la realtà
Scolari invita Bernard a guardare in faccia la realtà

120. Analizzare le cifre tedesche è sicuramente più facile rispetto a quelle brasiliane. Mai la Selecao aveva perso con tale scarto, neanche in amichevole. Averlo fatto in una semifinale in casa è una macchia che accompagnerà i componenti di questa squadra a vita, come avvenne per gli sfortunati protagonisti del 1950. Scolari, finora considerato uno degli attuali “grandi vecchi” degli allenatori nel mondo, si è visto ridicolizzato dagli avversari con azione stile calcetto, che ad un Mondiale non si vedevano dai tempi di Polonia-Haiti 7-0, Jugoslavia-Zaire 9-0 e il record assoluto, Ungheria-El Salvador 10-1. Appunto, Haiti, Zaire, El Salvador: il fatto che a questa allegra combriccola si sia aggiunto il nome della squadra con più titoli mondiali, è al limite del paradosso.

Come i tedeschi hanno preso casa nell'area brasiliana per tutto il primo tempo
Come i tedeschi hanno preso casa nell’area brasiliana per tutto il primo tempo

121. L’assenza di Thiago Silva, il vero fuoriclasse di una difesa nella quale il grintoso David Luiz è stato forse sopravvalutato (oppure è stato lui a giocare un paio di partite al di sopra delle sue possibilità), la scelta di sostituire Neymar con l’idolo di Belo Horizonte Bernard, acerbo e poco propenso alla copertura, sono fattori tecnici che sicuramente pesano. Ma come detto all’inizio, la peggior disfatta del calcio brasiliano e forse mondiale è figlia di un fattore psicologico troppo contrario: arrivati in semifinale, sembrava impossibile ai brasiliani che si materializzassero i fantasmi di 64 anni fa, a meno di perdere la finale all’ultimo minuto contro l’Argentina. Mai stuzzicare gli dèi del calcio, sempre pronti a lasciare senza parole i poveri mortali che pensano di sapere ormai già tutto.