Josep Guardiola: vincente, mai banale

di Enrico D’Amelio

Un suo storico rivale, Josè Mourinho, ha sempre sostenuto che “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”. Una frase sicuramente appropriata e calzante per far capire come anche in uno sport popolare, strumenti come cultura, apertura mentale ed esperienze di vita facciano la differenza per potersi distinguere dagli altri e raggiungere risultati superiori. In altre circostanze, il tecnico di Setùbal affermava che Pep Guardiola fosse capace di vincere “solo nel giardino di casa propria”, riferendosi ai successi ottenuti dallo stesso unicamente nella roccaforte catalana del Camp Nou. Meno male che il tempo è galantuomo, e che l’allenatore spagnolo stia iniziando a dimostrare quanto non sia stato tanto il Barcellona ad essere la sua fortuna, quanto l’opposto. Perché se arrivare primo al traguardo con la macchina più veloce può essere la norma per un pilota, riuscire a oltrepassarlo senza speculare sul risultato, ma fornendo ai propri interpreti dei mezzi basilari per essere migliori degli altri ad altissimi livelli, è un merito innegabile.


Un predestinato della panchina, come tutti quei professori del centrocampo, che vivono per dare fosforo e geometria davanti alla difesa. Pochi i km percorsi negli anni da calciatore, meglio farli fare al pallone in tutte le zone del campo, con la mente che viaggia agli anni a venire, quando verrà il tempo di trasmettere ai più giovani tutto quello che hai maturato nel tempo. Dopo un finale di carriera non degno di una bandiera blaugrana, complici l’esilio in Italia a Brescia e Roma, e spiccioli di calcio inferiore tra Qatar e Messico, l’inizio di ciò che da sempre era scritto nel futuro. A 36 anni una stagione di apprendistato con la squadra B del Barcellona, ad attendere la conclusione fisiologica del quinquennio sotto l’egida di Frank Rijkaard (2003/2008). Poi, a soli 37 anni, la scommessa più rischiosa. Tornare ad essere profeta in patria con la squadra potenzialmente più forte al mondo. Da Rijkaard a Guardiola, da Ronaldinho a Messi. Rifondare una squadra che solo 2 anni prima era diventata Campione d’Europa, e farlo da giovane tecnico che deve imporre idee innovative, impedendo a fenomeni indiscussi di vincere con la sola anarchia. Non straordinari solisti, ma il Gruppo alla base dei successi, oltre al categorico rifiuto della banalizzazione delle vittorie. In un solo anno Guardiola è riuscito nella prima impresa impossibile conquistando il triplete, culminato con il trionfo all’Olimpico di Roma contro il Manchester United nella finale di Champions League 2009. Anche qui la distinzione dell’uomo speciale prestato al calcio, nei momenti della gloria: “Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e soprattutto a Paolo Maldini, un esempio per tutti. So che ha avuto qualche problema nel giorno dell’addio, ma sappia che ha l’ammirazione di tutta Europa da venticinque anni, e che per lui le porte del Barcellona sono aperte in qualsiasi momento”. Da lì in poi, la nascita di un ciclo straordinario che profuma ancora di presente per poter essere giudicato dalla Storia. Tutto quello che c’era da vincere dal 2008 al 2012 è finito nella bacheca di Avinguda Aristides. Non sono stati, però, principalmente i trofei conquistati (14) a dare la dimensione di una squadra stellare, quanto la perfezione con cui si è arrivati allo scopo. Storica la risposta a chi gli chiedeva quale fosse il terminale offensivo di una squadra senza ‘numero 9’: “il nostro centravanti è lo spazio”. Nel moderno e consumistico calcio di oggi, però, anche nelle storie d’amore più belle è contemplata la parola fine. Prima che si potesse incrinare qualcosa, dopo un’ultima stagione in cui Liga e Champions League non erano arrivate, Guardiola dice addio (arrivederci?) alla Casa Madre. Troppo stress accumulato e una minor fame di vittorie gli hanno suggerito che era meglio staccare la spina per un anno, prima del nuovo monolite da costruire nel cuore del Vecchio Continente.

A Monaco di Baviera è riuscito addirittura a superare l’impossibile, andando a vincere una sfida ancora più improba. Dopo il triplete di Jupp Heynckes del 2012/13, ha ereditato una squadra ‘sazia’, spostandosi dal suo habitat naturale, ed è riuscito in poco più di un anno a costruire qualcosa di migliore dell’insuperabile. Nella prima stagione la vittoria in Bundesliga è stata una formalità, macchiata soltanto dall’umiliazione patita in semifinale di Champions League contro il Real Madrid di Carlo Ancelotti. Il punto più basso della sua carriera da allenatore, che già dava adito a detrattori un po’ prevenuti di non giudicarlo idoneo a vincere lontano dalla Spagna, e, soprattutto, in un calcio fisico come quello tedesco. I primi mesi della stagione in corso hanno dimostrato, qualora ce ne fosse stato bisogno, che questo Bayern Monaco è già diventato migliore di quello del 2013, e che può seriamente candidarsi ad insidiare il Barcellona migliore di sempre. La Coppa dalle grandi orecchie ritornerà sicuramente in Baviera, probabilmente già da quest’anno, e, cosa più importante, verrà vinta in modo diverso, perché diverse sono le squadre di Guardiola. E allora Mourinho dovrà rassegnarsi. Fino a riconoscere l’oggettiva grandezza di un allenatore speciale, destinato a prendersi in più Nazioni svariati “giardini di casa propria”. Come un vero cittadino del mondo, mai sazio di cercare nuove sfide.