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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Boxing Day, il giorno del destino di Brian Clough

di Fabio BELLI

Di Brian Clough, l’allenatore senza peli sulla lingua che portò la classe operaia inglese in Paradiso grazie alle vittorie ottenute alla guida di Derby County e Nottingham Forest, si è detto e scritto davvero molto. In parecchi da tempo lo giudicano l’antesignano di Josè Mourinho negli atteggiamenti, anche se “Cloughie” era profondamente diverso in molti aspetti, soprattutto era molto più rude e ruvido pur essendo stato il primo, alla stregua di quanto poi perfezionato dal portoghese, a comprendere l’importanza e il ruolo dei media e della comunicazione nel calcio.

clougMeno si conosce però del Clough calciatore, autentico flagello divino in linea con le sue caratteristiche fisiche, piccolo attaccante dalla grande rapidità e reattività e soprattutto dal controllo di palla sullo stretto capace di fare impazzire qualsiasi difensore. Del Clough calciatore Bill Shankly, il manager che diede vita alla leggenda del Liverpool, diceva: “E’ peggio della pioggia di Manchester, quella almeno ogni tanto smette.” Sotto porta Clough invece non conosceva soluzione di continuità: con la maglia del Middlesbrough arrivò a segnare 197 reti in 212 apparizioni in campionato e si assestò su quelle medie anche dopo il suo passaggio al Sunderland all’inizio degli anni ’60.

Ma la sua carriera da calciatore si spezzò di fatto quando non aveva ancora compiuto ventotto anni: Clough subì un gravissimo incidente nel giorno di Santo Stefano del 1962, il cosiddetto Boxing Day. Chiamato così perché in Inghilterra è tradizionalmente legato all’usanza, nata nell’Ottocento. di regalare doni ai dipendenti o ai membri delle classi sociali più povere. In particolare, era consuetudine delle famiglie agiate britanniche preparare delle apposite scatole con all’interno alcuni doni e avanzi del ricco pranzo di Natale, da destinare al personale di servizio a cui era concesso libero il giorno successivo al Natale, per far visita alle proprie famiglie. Il 26 dicembre segna ormai da decenni l’inizio della maratona calcistica che gli appassionati di calcio in Gran Bretagna possono gustarsi nel periodo delle feste, quando qualche giorno di ferie aiuta a pensare più spensieratamente al football. Un’atmosfera sempre festosa ma che nel Boxing Day del 1962 segnò la fine del talento di Clough che molti ritenevano avrebbe potuto trovare compimento negli imminenti Mondiali in Cile. Pur considerando che il futuro leggendario allenatore rimase sempre ai margini dei Leoni Bianchi, collezionando solo due apparizioni in Nazionale in carriera, vuoi per la feroce concorrenza dell’epoca, vuoi per un carattere già ai tempi sin troppo schietto.

Ad ogni modo in quel 26 dicembre 1962 era programmata la sfida tra Sunderland e Bury: uno scontro con il portiere della squadra dei sobborghi di Manchester e il legamento crociato salta, un infortunio che segna la fine della carriera, a quei tempi, nella maggior parte dei casi. E Clough non fa eccezione: dopo un anno e mezzo di tentativi andati a vuoto, l’idea del rientro in campo per lui si fa da parte. L’Inghilterra perde un formidabile, astuto attaccante, ma trova nel contempo un allenatore destinato a lasciare sui tempi un segno indelebile. Le rivincite per Clough saranno molteplici, dal portare il Derby County dal fondo della Seconda Divisione alla vetta d’Inghilterra, ed il Nottingham Forest per due volte consecutive sul trono d’Europa. Ma il cerchio col Boxing Day si chiuderà solo ventidue anni dopo, quando Clough farà esordire proprio in occasione del Santo Stefano in campo, alla guida di un Forest ormai affermatissimo, il figlio Nigel appena diciottenne. Il quale inizierà nel 1984 una brillante carriera che lo porterà a partecipare agli Europei del 1992 con la maglia dell’Inghilterra, per seguire infine le orme paterne come allenatore. Un classico, perfetto caso di giustizia poetica.

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Calciatori Club Fabio Belli

La maglia numero 7 del Manchester United: la più carica di gloria, di storie e di storia

di Fabio BELLI

C’è una maglia rossa, appoggiata in un angolo in uno spogliatoio, che significa per il calcio più di quanto possa mai immaginare un ragazzino dell’Academy che, in una piovosa giornata tipica di Mancester, la riceve per il primo allenamento all’inizio della prima stagione con lo United.

E’ una maglia indossata da un bel nordirlandese con gli occhi verdi che a fine carriera amava dire, andando in giro per i pub, che se fosse stato più brutto nessuno si sarebbe mai ricordato di quell’altro tizio, quel Pelè. Un calciatore talmente completo e talmente carico di classe ed intelligenza calcistica che forse cominciò a complicarsi la vita da solo perché non c’era nessun avversario che potesse dargli soddisfazione. Un giocherellone che, quando arrivò a disputare la finale di Coppa dei Campioni, quella che avrebbe regalato la prima Coppa in assoluto all’Inghilterra, segnando il gol decisivo dribblò anche il portiere avversario e pensò di fermare la palla sulla linea, sdraiarsi ed appoggiarla in rete con la testa. Non lo fece per non far venire un infarto al suo vecchio Manager che era come un padre per lui, Matt Busby, e quel ragazzo di Belfast un po’ pazzo e un po’ triste era George Best.

E’ una maglia indossata da un colosso francese, spalle larghe e sguardo fiero che rese altrettanto fiero anche quello dei tifosi che andavano all’Old Trafford da 25 anni e che, dai tempi del bel nordirlandese, non avevano più vissuto emozioni di quel tipo. Era sempre un francese in terra inglese e, se lo facevano arrabbiare, spesso perdeva il controllo, come quella volta che prese a calci quasi volando un tifoso in tribuna. Ma i tifosi gli perdonavano tutto, perché quel francese faceva quello che voleva fuori ma soprattutto dentro il campo e si chiamava Eric Cantona.

E’ una maglia indossata da un ragazzo londinese coi capelli biondi e l’aria un po’ distante e trasognata che, ogni due settimane, andava con il papà al Teatro dei Sogni ed ogni tanto restava dietro le grate dei cancelli dell’uscita dei giocatori per vederli più da vicino. Qualcuno si incuriosì di questa presenza abituale e venne fuori che il ragazzo era stato nominato da poco miglior giocatore Under 15 del paese e che giocava in un club di dilettanti, i Brimsdown Rovers. Passò allo United e se ne andò solo dopo aver vinto di nuovo quella Coppa che il nordirlandese aveva portato per la prima volta a Manchester 31 anni prima di lui. Questo dopo essere diventato un’icona di stile proprio grazie al taglio di capelli e a quello sguardo liquido, cosa che in verità non piaceva molto al suo di Manager che una volta su quegli occhioni ci stampò sopra uno scarpino. E David Beckham salutò la fredda Manchester per il cielo di Madrid.

E’ una maglia indossata da un moretto portoghese, che aveva una madre molto devota ed un padre che, quando nacque, era un grande ammiratore del Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan che seguiva da quando faceva l’attore. Dopo quello scarpino lanciato con rabbia il vecchio Manager scozzese, che risponde al nome di Alex Ferguson, si era ripromesso che avrebbe consegnato quella maglia ad un nuovo talento di caratura mondiale. Lo individuò in quel diciottenne dello Sporting Lisbona che divenne un teenager da quasi tredici milioni di sterline. Quando cinque anni dopo, anche grazie ad un suo gol in finale, la Coppa dei Campioni tornò per la terza volta nella bacheca dello United, Ferguson capì di aver compiuto la missione di averne fatto il più grande calciatore del mondo. E poco prima di morire consumato dalla sua passione per la bottiglia, il nordirlandese chiuse il cerchio dicendo di lui, Cristiano Ronaldo: “Ci sono stati tanti calciatori segnalati come “il nuovo George Best”, ma questa è la prima volta che è un complimento per me.

Al momento quella maglia è ancora lì, quando si gioca la indossa un talentuoso ed ormai esperto cileno, Alexis Sanchez, ma non ce ne voglia se diciamo che ogni appassionato di calcio sa che si tratta solo di un passaggio verso un nuovo capitolo del mito: perché certe storie, semplicemente, sono già scritte nel destino.

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Calciatori Fabio Belli

Germano: l’amore proibito del nuovo Garrincha nell’Italia degli anni Sessanta

di Fabio BELLI

Estate del 1962: il boom economico in Italia sta iniziando a scaldare i motori, nel Paese si respira un’aria più fresca, nuova, forse anche un po’ ingenua. A neanche venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il paese non è ancora molto più ricco, ma ha ripreso a sperare e, soprattutto, a sognare. Il calcio è un importantissimo veicolo di divertimento e aggregazione ma, nell’era della vertiginosa crescita industriale, sono le grandi del Nord a comandare. La Nazionale agli ultimi Mondiali in Cile ha subito lo scandaloso arbitraggio dell’inglese Aston contro i padroni di casa. Una vergogna, ma nel calcio in cui gli echi della comunicazione, soprattutto da oltreoceano, arrivano ancora distorti, sono cose che capitano anche con una certa frequenza.

germano1La stella indiscussa di Cile 1962 doveva essere Pelè ma gli infortuni non hanno permesso alla Perla Nera di essere protagonista. Al suo posto, il Brasile ha celebrato Amarildo per la conquista del suo secondo titolo mondiale. Ma il fascino dei calciatori esotici, pieni di talento ed estro, diversi da quelli che in Italia praticano il catenaccio sistematico, comincia a farsi largo tra i tifosi e in un campionato come la Serie A che comincia a potersi permettere l’ingaggio di calciatori esteri. Così il primo club a cavalcare la suggestione del Brasile di Pelè è il Milan del patron Rizzoli, che porta in Italia Josè Germano de Sales, sgusciante ala piena di guizzi e dribbling tanto da essere paragonato a Manè Garrincha. Allora appena ventenne, Germano faceva parte dei preselezionati per Cile ’62, ma alla fine non ha partecipato alla spedizione.

Da Germano i tifosi del Milan si aspettano grandi cose e soprattutto volano con la fantasia immaginando giochi di prestigio palla al piede, dribbling a ripetizione su un fazzoletto di campo, gol pescati direttamente dal cilindro di un mago. Quello che non sanno è che, soprattutto all’epoca, l’adattamento di un calciatore brasiliano in una realtà estremamente ordinata, grigia e fredda come quella milanese è molto complicato. Ed iniziano a sentir parlare di un termine misterioso, “saudade“, che significa più di nostalgia: è voglia di respirare un’aria diversa da quella delle ciminiere milanesi, è voglia di sentirsi circondati da tutt’altro rispetto a quella che è la realtà che diventa una prigione dalle sbarre di malinconia dalla quale si può solo evadere.

Germano comincia bene, gioca e segna in Coppa dei Campioni contro l’Union Luxembourg e in campionato contro il Venezia. Ma il suo stile svagato e la svogliatezza negli allenamenti non piacciono al Paròn Nereo Rocco che in quella stagione porterà per la prima volta la Coppa dei Campioni in Italia. Il suo Milan, a caccia dell’obiettivo più grande, dev’essere una macchina perfettamente oliata e Germano a novembre viene spedito al Genoa dove colleziona presenze ad intermittenza (solo dodici in campionato), qualche intemperanza e la frattura della mandibola, riportata in un incidente stradale una volta tornato a Milano a fine stagione.

Nel capoluogo lombardo l’aspirante Garrincha resterà altri due anni senza scendere mai più in campo fino al 1965, quando tornerà in Brasile al Palmeiras. Troppo, per una frattura della mandibola. Si scoprirà in seguito che i problemi di Germano a Milano erano puramente extracalcistici: il giocatore infatti iniziò una relazione clandestina con la figlia del potente Conte Agusta, l’industriale delle motociclette. La ragazza, per giunta allora minorenne, riempirà le cronache dei rotocalchi rosa per la sua fuga in Belgio, nel 1967, proprio per raggiungere Germano, che nel frattempo si era accasato allo Standard Liegi. Nascerà anche una figlia, Lulù. Troppo tutto insieme, per l’allora bigotta moralità italiana: e se di lì a poco i giocatori di colore conquisteranno grandi vette sportive (Jair nell’Inter, Nenè nel Cagliari), l’avvento di Germano ebbe l’effetto dirompente di un terremoto nel calcio italiano, che scoprì gloria, pazzie e miserie dei protagonisti del “futbol bailado”.

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Calciatori Fabio Belli

Mike Summerbee, che giocò con un casco da poliziotto in testa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio inglese non mancano i personaggi estrosi, anzi essi sono forse presenti in misura maggiore rispetto a qualunque altro paese. Calciatori spesso sopra le righe, a volte afflitti da problemi anche molto gravi, sfociati nell’alcolismo, nella solitudine, nello spreco del proprio talento. Da George Best a Paul Gascoigne fino a Tony Adams gli esempi sono innumerevoli; in altri casi invece l’essere eccentrici non andava di pari passo con la rovina, ed anzi quel che resta di tanti comportamenti curiosi non è altro che un mucchio di aneddoti da ricordare con vero piacere.

Nella stagione appena trascorsa il Manchester City si è nuovamente laureato Campione d’Inghilterra al culmine di un ciclo vincente avviato dalla proprietà degli sceicchi. Ma per ogni tifoso dei “Citizens” il titolo indimenticabile e più romantico è quello del 1968, quando la squadra di Malcom Allison e Joe Mercer, resa immortale dal capolavoro letterario “Manchester United Ruined my Life” di Colin Shindler, si issò sul tetto del calcio britannico partendo da presupposti del tutto differenti rispetto alla squadra attuale. Si trattava di una formazione “fatta in casa“, partita dalla conquista del campionato di Seconda Divisione e giunta a piccoli ma decisi passi alla conquista del titolo nazionale. La micidiale coppia d’attacco composta da Francis Lee e Colin Bell, il carismatico capitano Tony Book, il rapidissimo Neil Young erano solo alcuni tra gli elementi di spicco di una formazione davvero ben costruita e che conquisterà nei due anni successivi anche la FA Cup e la Coppa delle Coppe.

Tra di loro però l’idolo incontrastato dei tifosi era senz’altro Mike Summerbee, astutissimo e tecnicamente dotato centrocampista di destra che proprio con Young aveva il compito di sostenere la temibile linea d’attacco degli sky blues. Summerbee era stato pescato da Allison appena ventitreenne dallo Swindon Town, possedendo le qualità ideali per esaltare con idee e palloni giocabili la vena realizzativa in particolare di Bell. Ma fu il carattere istrionico del ragazzo di Preston a conquistare i tifosi che allora affollavano Maine Road, prima ancora delle sue eccellenti doti che lo portarono a far parte della Nazionale inglese bronzo a Roma ’68 negli Europei vinti dagli azzurri, proprio nell’anno dello scudetto del Manchester City.

L’altra parte della città era in preda al delirio per George Best, fenomeno anche mediatico di impatto planetario e proprio in quegli anni capace di conquistare il Pallone d’Oro e di portare per la prima volta la Coppa dei Campioni in Inghilterra con il suo United. I tifosi del City allora si coccolavano Summerbee e le sue imprevedibili invenzioni. Nelle interruzioni di gioco dava il meglio di sé, mettendosi ironicamente a massaggiare la gamba infortunata di un avversario, quando riteneva simulasse, oppure inscenando siparietti memorabili con gli arbitri. Ma il massimo lo toccò quando, battendo una rimessa laterale, rubò ad un poliziotto il tipico casco da “Bobby” inglese, continuando a giocare con quell’affare in testa per qualche minuto buono tra l’ilarità generale. Ai tempi in cui anelli e catenine indosso ai giocatori erano ancora tollerati, fu un irripetibile tocco di nonsense. Le doti da mattatore a fine carriera valsero a Summerbee anche una parte in “Fuga per la vittoria” e neanche oggi, da fresco settantenne, ha dimenticato i tanti tiri mancini giocati con il suo sorriso a salvadanaio.

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Allenatori Fabio Belli

Solo Brian Clough costruì Roma in un giorno

di Fabio BELLI

Rome wasn’t build in a day” è un detto molto popolare oltremanica. Quando lo riferirono a Brian Clough in merito alla pazienza necessaria per costruire un progetto vincente, lui aggiunse a modo suo: “E’ vero, Roma non fu costruita in un giorno: è anche vero però che nessuno mi chiese di prendere parte al progetto.” Perché altrimenti…

Il 20 settembre del 2004, dieci anni fa, “Cloughie” lasciava questo mondo, cedendo alla sofferenza fisica che doveva subire in seguito all’abuso di alcol, che lo costrinse anche ad un trapianto di fegato. Un vizio, quello della bottiglia, che era peggiorato in vecchiaia, in un mondo che cambiava troppo velocemente, e nel quale stentava a riconoscersi, proprio lui che per primo fra tutti aveva intuito certi mutamenti del calcio: l’importanza dei media, e quella dei soldi, due demoni che lui sfruttò a suo favore, per portare la provincia al potere.

Clough e Peter Taylor riuscirono nell’impresa di far vincere al Nottingham Forest più Coppe dei Campioni che scudetti nella sua storia. Non a caso, la biografia del tecnico, chiamata “Walking on water“, si riferiva proprio alla sua capacità di “fabbricare” miracoli, e di ripetere un’esperienza come quella di Derby, che sembrava unica nel suo genere, a Nottingham. Anzi, più che ripeterla completarla, perché al Derby County di Clough mancò la gloria europea, sogno infranto in una semifinale contro la Juventus che, inevitabilmente, segnò la fine dell’idillio col presidente di quella che era stata la sua creatura.

Nonostante a Nottingham la Coppa dei Campioni divenne quasi un’abitudine, il rimpianto più grande della carriera di Brian Clough, almeno stando a quanto disse lui stesso, resta aver lasciato il Derby County. Taylor non lo avrebbe mai fatto: fu la crepa che portò i due a non parlarsi mai più dopo l’ennesimo litigio a Nottingham, quando la gloria, più che i quattrini, non riuscì più a tenere insieme la coppia di tecnici meglio assortita della storia d’Inghilterra.

L’ambizione e l’abilità mediatica di Clough, oltre all’estrema lucidità tattica e alla capacità manageriale, si sposavano perfettamente con le straordinarie qualità di talent scout di Taylor, che trovava sempre nella realtà quei giocatori che l’altro aveva immaginato nella sua mente per fare grandi piccole squadre di provincia. Così arrivarono i fedelissimi come McGovern e O’Hare che seguirono Brian anche a Leeds e a Nottingham, così arrivò l’intuizione di portare Archie Gemmill e soprattutto Trevor Francis al City Ground. Francis è stato l’esempio evidente di come Clough operasse per plasmare le sue creature: spingere i bilanci di club fuori dall’aristocrazia del calcio al limite, al massimo delle loro potenzialità. L’azzardo di investire un milione di sterline, record per l’epoca, su un giocatore che, per le regole di allora, avrebbe potuto scendere in campo solo nell’eventuale finalissima di Coppa dei Campioni. Che il Nottingham giocò, e vinse, con un gol di…? Esatto, neanche a dirlo.

Se Dio avesse voluto che giocassimo per aria, avrebbe messo dell’erba lassù“, è un’altra sua famosissima citazione, emblema della sua predilezione per il gioco palla a terra, quasi un’eresia nel calcio inglese degli anni ’70. Segno che oltre che per quanto riguarda soldi e dichiarazioni a stampa e televisioni, Clough aveva capito in che direzione stava andando il calcio prima di molti altri. Dopo il divorzio da Taylor, l’alba degli anni novanta ne fiaccò lo spirito con una triplice delusione, quasi consecutiva. L’approdo mancato sulla panchina del Galles, lui che era convinto di poter portare la nazionale di Mark Hughes a Ian Rush a Italia ’90; la tragedia di Hillsborough, che spezzò il suo cuore di proletario di Middlesbrough, abituato alle folle oceaniche che vivevano il calcio come un rito in armonia, estranee alla follia degli hooligans; infine, la delusione della finale di FA Cup, l’unico trofeo che gli è sempre sfuggito, perduta contro il Tottenham nel giorno dell’infortunio di Paul Gascoigne.

Guidare una nazionale è il massimo obiettivo per un allenatore“, aveva detto più volte, convinto che il suo anticonformismo, dai e dai, insisti e insisti, non gli avrebbe precluso la panchina dell’Inghilterra. Non arrivò nemmeno quella gallese, e la storia praticamente finì lì. Finché ha potuto, è rimasto a parlare alla radio e alla televisione, con quel tono di chi la sapeva lunga, e la sapeva davvero, non solo a chiacchiere: Brian Clough, se voleva, Roma te la tirava su con una giornata di duro lavoro e un doppio whisky a cose fatte.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Marco Van Basten, il Cigno di Utrecht

di Enrico D’AMELIO

Oltre le gelide statistiche, le guerre vinte e le battaglie lasciate al nemico, i numeri di unica eleganza e straordinaria complessità, esistono calciatori per cui non esiste un’epoca, perché figli di qualsiasi tempo. Se volessimo spiegare cosa è stato per il calcio – e per ogni tifoso di questo sport – Marco Van Basten, non potremmo che partire dalla fine, dal 17 agosto 1995. Una data triste, in cui illusione e disincanto lasciarono il posto a una crudele consapevolezza, riassunta in poche parole dal titolo della Gazzetta dello Sport del giorno successivo: “Dove troveremo un altro come lui?”. Adriano Galliani disse che “il calcio aveva perso il suo Leonardo”, e perfino Diego Maradona, uno storicamente poco incline ad elargire facili complimenti, disse di “non aver mai visto un giocatore più elegante di Van Basten; una macchina perfetta che si è rotta, quando stava per diventare la migliore di tutte”. Costretto ad appendere gli scarpini al chiodo a soli 30 anni, questo cigno meraviglioso aveva cantato per l’ultima volta oramai tre anni prima, in una gelida notte di Champions League contro il Goteborg a San Siro. E sempre a San Siro, quel 17 agosto, non con la maglia rossonera, ma con un paio di jeans chiari e una camicia rosa nascosta sotto ad una giacca di renna, uno straziante e lento giro di campo ne annunciava la sconfitta più dolorosa. I vari tentativi di rimettere in sesto cartilagini deteriorate non avevano dato l’esito sperato; così, il suo pubblico adorante era costretto a salutare commosso il figlio prediletto. Una brusca e definitiva frenata sul più bello, dopo appena 10 di carriera, quasi la metà rispetto alla media di qualsiasi altro calciatore. Sufficienti, comunque, a fargli vincere tutto e forse anche di più. A riuscire in imprese che nessun altro aveva compiuto, biglietto utile a raggiungere di diritto l’olimpo dei semidèi. Dopo essere partiti dalla fine, possiamo riavvolgere il nastro del tempo e iniziare la sua storia. Una galleria di perle e diamanti da vedere e rivedere, capaci di mettere d’accordo tifosi e spettatori, giornalisti e semplici appassionati, così perfette da ubriacare di meraviglia il palato del più severo tra gli esteti.

Il passaggio di consegne e il laboratorio Ajax

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Quando il predestinato si affaccia sul palcoscenico del professionismo è il 1981. Il movimento calcistico olandese ha visto passare la più bella nazionale che si ricordi, spintasi a raggiungere le finali del 1974 e 1978, ma non in grado di battere Germania Ovest ed Argentina nei due atti conclusivi del Mondiale. In parallelo, a sancire l’epilogo di quel ciclo irripetibile, anche la carriera del simbolo di quella squadra, Johan Cruijff, sta per imboccare il viale del tramonto. Il nome di Marco Van Basten figura per la prima volta in una partita del campionato dei Paesi Bassi il 3 aprile del 1982, in una gara contro il Nec Nijmegen. La maglia è ovviamente quella dell’Ajax e il futuro campione subentra al posto del vecchio numero 14. Gol all’esordio e, a fine stagione, primo titolo nazionale conquistato con la maglia dei lancieri. Ne arriva un altro l’anno successivo, quando i gol diventano 9 e le partite giocate 20, ma è nella stagione 1983/84 che il tulipano sboccia definitivamente, e il mondo intero si accorge che l’Olanda ha partorito un nuovo fuoriclasse. Un calciatore che possiede i colpi del numero 10 e la media realizzativa del numero 9, visto che è capace di segnare 28 volte in 26 partite ad appena 19 anni. Non più il modello Ajax in blocco a far parlare di sé, ma il singolo calciatore ad emergere rispetto ad un collettivo organizzato ad arte. Parallelamente arrivano le prime apparizioni con la casacca arancione, ma sono anni di apprendistato prima del Grande Evento, visto che gli eredi della compagine degli anni ’70 non riescono a qualificarsi per il mondiale in Messico del 1986. I titoli olandesi abituano a vincere il giovane campione, ma sono le ultime due stagioni all’Ajax che lo proiettano nella dimensione di una caratura internazionale. Il 1986 è l’anno della Scarpa d’oro, frutto di ben 37 reti in 26 presenze, e, nell’ultima stagione in biancorosso, arriva la conquista della Coppa delle Coppe. E’ sua la marcatura in finale ai danni della Lokomotive Lipsia, per una consacrazione europea giunta sotto la direzione tecnica proprio di Johan Cruijff. Il primo trofeo continentale di una lunga serie, che gli apre le porte al campionato più competitivo al mondo.

Una colonia olandese di nome Milanello

2 milioni di franchi svizzeri, quasi 2 miliardi di lire. Questa è la cifra imposta dai parametri UEFA che il Milan deve sborsare per assicurarsi le prestazioni del nuovo fuoriclasse, nell’estate 1987. Un affare per quello che sembra essere il più forte centravanti europeo in prospettiva, se non nell’immediato. Valutazione di gran lunga al ribasso, probabilmente, per la poca fiducia che altre società – più blasonate del Milan di allora – avevano riposto nelle sue condizioni fisiche, dopo l’infortunio ad una caviglia avvenuto durante una sfida contro il Groeningen. In effetti, già dopo la gara di Coppa Uefa persa in casa contro l’Espanyol – che poteva far morire sul nascere le ambizioni di rivoluzione tattica di Arrigo Sacchi -, Van Basten è costretto a fermarsi. E’ l’altra caviglia a costringerlo al riposo forzato e alla conseguente operazione, con sei mesi di inattività dai campi di gioco. I rossoneri sono impegnati in una rincorsa che sembra impossibile contro il Napoli di Maradona, lanciato a bomba verso il secondo scudetto consecutivo. Per chi ha memoria di quella stagione, una delle più avvincenti nella storia del calcio italiano, capace di vivere un decennio di primavera ininterrotta, ricorderà che sarà quasi esclusivamente il gemello olandese Ruud Gullit ad occupare le prime pagine dei giornali. Dopo la vittoria nello scontro diretto nella gara d’andata a San Siro – uno schiacciante 4-1 per l’undici di Sacchi – alcuni giornalisti sportivi iniziarono ad avanzare l’ipotesi che il 10 rossonero potesse essere addirittura più completo del rivale argentino. Van Basten era diventato oramai l’altro olandese. Il fuoriclasse solo nella potenzialità, ma non nella sostanza; teoria supportata da una marcia trionfale di Baresi e compagni, laureatisi Campioni d’Italia con soli 3 gol portati in dote dal centravanti di Utrecht. A 24 anni la carriera inizia ad essere di fronte a un bivio, con i detrattori pronti ad emettere il timbro della sentenza. Ma è nell’estate del 1988, a metà strada tra Milano e l’Olanda, che il cigno ritorna a cantare.

Germania 1988. L’Europa intera ai suoi piedi

O l’anonimato assoluto, per via di problemi fisici, o il proscenio conquistato da numero uno con gol ai limiti dell’impossibile. Così si è sviluppata, fino a questo punto, la carriera della punta fiamminga. “Il più raffinato ed elegante centravanti del calcio moderno, l’unico che sapesse danzare sulle punte di un fisico ciclopico”. Lo descrive così, su Repubblica, Emanuele Gamba, giornalista sportivo e noto tifoso granata. E’ questa frase, probabilmente, a evidenziare meglio di qualsiasi altra la diversità di Van Basten. Un calciatore che non sente il peso dei suoi 188 centimetri di altezza, ma che li mette a servizio di piedi con una tecnica fuori dal comune. Agli Europei in Germania non è la sua Olanda a partire con i favori del pronostico, tanto che la prima partita viene persa per 1-0 contro l’Unione Sovietica. Si pensa a una competizione di rodaggio, per gli oranje, in vista del Mondiale da disputare in Italia due anni dopo. C’è da dire, però, che la formula a sole 8 squadre, con le prime 2 di ogni girone qualificate direttamente per le semifinali, può dare adito a qualsiasi tipo di impresa. Infatti, con 4 punti conquistati in 3 partite, i ragazzi di Michels accedono alla semifinale contro i padroni di casa della Germania Ovest, favoriti di diritto alla vittoria finale. Una rivincita a distanza di 14 anni dalla finale mondiale del 1974. Questa volta, però, nell’undici arancione c’è più consapevolezza e meno inesperienza, più voglia di arrivare al risultato oggettivo e meno interesse nei riguardi della perfezione estetica. Dopo il vantaggio di Matthaus su calcio di rigore, c’è la risposta, sempre dal dischetto, da parte di Ronny Koeman. Poi, a due minuti dalla fine, il cigno timbra il sorpasso, con un gol più da attaccante di rapina che da Michelangelo del calcio. Manca solo il muro sovietico da demolire in finale prima della gloria, in una gara che verrà ricordata come quella del gesto tecnico proibito. Un gol, quello di Van Basten, che oltre a suggellare il 2-0 di una sfida mai in discussione, si inserisce di diritto nelle classifiche delle reti più belle di sempre per bellezza del gesto e coefficiente di difficoltà. L’Unione Sovietica si sarebbe dissolta, a livello politico, due anni e mezzo dopo, mentre quella parabola paradisiaca segnerà la fine della Nazionale con la scritta CCCP sulla maglia. Ma, in quel momento, non solo nessuno lo poteva immaginare, ma nessuno se ne sarebbe potuto o voluto accorgere, perché rapito da troppa meraviglia.

La nebbia di Belgrado nella nascita degli Invincibili

Agli albori di quelle che diventano pagine di Storia, il più delle volte, c’è sempre un punto di svolta senza il quale nulla sarebbe accaduto. Momenti in cui è il caso a farla da padrone, con le circostanze che si rivelano complici o nemiche dei personaggi in commedia. Se lo Scudetto del 1988 è stato il primo passo di una squadra che voleva scalare il mondo, il gradino successivo doveva essere, per forza di cose, la conquista dell’Europa che conta. Berlusconi e Galliani avevano costruito un gruppo troppo perfetto perché si potesse accontentare di vincere soltanto. I ragazzi di Sacchi dovevano per forza di cose aprire un ciclo, e farlo in un modo arrogante e inoppugnabile. La Coppa dei Campioni del 1988, però, non era la Champions League odierna con la formula a gironi. Allora bastava sbagliare una semplice partita per ritrovarsi estromessi già in autunno dall’obiettivo principale di stagione. Dopo un primo turno fin troppo agevole contro il Vitosha Sofia, che vide una quaterna di Van Basten nella gara di ritorno, i rossoneri dovettero spostarsi un’altra volta ad est della Cortina di ferro, per essere contrapposti alla Stella Rossa di Belgrado nel doppio confronto degli ottavi di finale. Il pareggio per 1-1 nell’andata di San Siro era un mezzo passo falso che non lasciava moltissime speranze per il ritorno, da giocare nell’inferno del Marakana. Le cose non si mettono bene per il Milan, visto che il primo tempo si chiude sull’1-0 per Savicevic e compagni, e, ad inizio ripresa, viene espulso Virdis per un fallo visto solo da un guardalinee. L’arbitro tedesco Pauli, però, a causa della nebbia fittissima che avvolge lo stadio jugoslavo, è costretto a sospendere il match e a rimandarlo al giorno successivo. Si ripartirà dallo 0-0 e dal primo minuto – allora le regole dicevano questo -, e, nonostante una direzione di gara non proprio favorevole, i rossoneri porteranno a casa la qualificazione ai calci di rigore grazie a un Giovanni Galli in stato di grazia. Da lì, una cavalcata trionfale fino alla finale di Barcellona, con uno stadio quasi totalmente rossonero, e un 4-0 ai danni della Steaua Bucarest, firmato dalle doppiette di Gullit e Van Basten. C’è il marchio indelebile del cigno in questa Coppa dei Campioni tornata a Milano dopo tanti anni, grazie alle 10 reti messe a segno nella massima competizione continentale per club che gli valgono il titolo di capocannoniere del torneo. L’anno dopo arriva il bis, nella finale di Vienna decisa dalla rete del terzo olandese, il centrocampista Frank Rijkaard, in una stagione macchiata solamente da un campionato perso al fotofinish, nell’assurda trasferta di Verona. Il Milan di Sacchi e degli olandesi, in ogni caso, a prescindere da uno Scudetto in più o in meno in bacheca, è diventato una squadra già leggendaria nel mondo. Capace di essere considerato uno spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, nella storia di un calcio, quello italiano, storicamente incline a un’impostazione tattica speculativa, più che di aggressività e pressing nella metà campo avversaria. In tutta questa serie di trionfi c’è la meraviglia di Van Basten. Un campione in continua evoluzione, che, anno dopo anno, migliora come il più pregiato dei vini d’annata. Come tutti i cicli, però, anche quello sacchiano giunge a conclusione. Forse per incapacità, da parte di giocatori troppo perfetti, di reggere allenamenti troppo maniacali per più anni consecutivi. Così, nella buia e controversa notte di Marsiglia, in cui Galliani ‘ritira’ la squadra dal campo a causa di un black-out momentaneo, c’è la definitiva crisi di rigetto. La società rossonera, a causa di questa decisione, viene squalificata per un anno dalle Coppe europee. Van Basten e il Diavolo, ancora una volta, si ritrovano a ripartire da zero.

L’arrivo di Capello e le ultime due stagioni da numero uno

Uno dei tanti luoghi comuni che gli addetti ai lavori utilizzano per identificare le caratteristiche di alcuni atleti è etichettarli come “il prototipo del calciatore moderno”. Una semplificazione dialettica spesso poco pertinente, visto che i fuoriclasse lo sono a prescindere dal periodo storico di riferimento. Nel caso di Van Basten, però, questo giudizio di forma assume i connotati della sostanza. Non necessariamente classico numero 9 da area di rigore, ma giocatore totale in omaggio alle proprie radici fiamminghe. Nell’estate del 1991, quando l’olandese è all’apice della maturità calcistica con i suoi 27 anni, Silvio Berlusconi sceglie Fabio Capello per riprovare a scalare il mondo. Giornalisti e addetti ai lavori, quasi all’unanimità, ritengono non più rianimabile una squadra che ha vinto per due volte consecutive Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale, il massimo per un club. La squadra appare arrivata alla fine di un ciclo con la naturalezza dello scorrere del tempo. Invece è proprio il fatto di trovare un tecnico non esasperato dal pressing e dalla difesa altissima, ma soltanto abilissimo gestore di spogliatoio, che consente di vivere una seconda giovinezza a calciatori ritenuti dai più sul viale del tramonto. Lo stesso Van Basten, in una recente intervista rilasciata proprio a Capello, ha dichiarato che fu importantissimo per il gruppo avere finalmente un allenatore che fosse stato calciatore, e che potesse così capire, a differenza di Sacchi, le esigenze dei singoli. Così, nemmeno a dirlo, il campionato 1991/92 vide il Milan conquistare lo Scudetto, e Van Basten mettere a segno 25 reti in 31 partite giocate, che gli valsero il titolo di capocannoniere per la seconda volta in Italia, dopo le 19 marcature nella stagione 1989/90. Sembrava il preludio ad una nuova ascesa, grazie a una società in grado di comprare giocatori per il solo gusto di sottrarli alle rivali. Lo fu per il Milan, in effetti, ma non per Van Basten. Durante il 1992/93, dopo il terzo Pallone d’Oro assegnatogli, a seguito dei due consecutivi del 1988 e del 1989, la caviglia comincia a dare nuovi segnali allarmanti, tanto da indurre il calciatore a sottoporsi ad una nuova operazione di pulizia. Due o al massimo tre mesi i tempi di recupero prospettati da parte dell’equipe medica di St. Moritz, dove il campione – in disaccordo con il Milan – decide di operarsi. Purtroppo le cose non vanno per il verso giusto, e, a giugno del 1993, si sottopone al quarto ed ultimo intervento, per tentare l’ennesima riabilitazione. Non sa che la finale di Coppa dei Campioni giocata contro l’Olympique Marsiglia, disputata in condizioni precarie e persa per il gol di Boli, è stata la sua ultima apparizione non solo con la maglia del Milan, ma da calciatore professionista in senso assoluto. La stessa squadra, quella francese, ironia del destino, che due anni prima aveva interrotto il dominio europeo del Milan di Sacchi. Nel medesimo stadio – quello di Monaco di Baviera -, peraltro, dove soltanto 5 anni prima Van Basten aveva portato al trionfo la Nazionale Olandese all’Europeo di Germania. Se per i ragazzi di Capello questa finale persa rappresenta soltanto un incidente di percorso, visto che dodici mesi dopo ci sarà l’epico 4-0 contro il Barcellona di Cruijff nella finale di Atene, per il calcio in generale si tratta di un punto di non ritorno. Per trasmettere alle nuove generazioni cosa abbia significato questa fine improvvisa e dolorosa, è sufficiente citare una frase di Carmelo Bene: “Il lutto per il ritiro di Van Basten non si è mai estinto e mai si estinguerà”. Non possiamo sapere se avrebbe potuto salire l’ultimo gradino che conduce alla perfezione e trascinare la Nazionale Olandese alla conquista del Mondiale che le manca; o se avrebbe incontrato, invece, un fisiologico declino sopraggiunto con l’avanzare dell’età. Quel che è certa è l’eredità di bellezza lasciata, a distanza di più di 20 anni da quel 17 agosto. Restano impresse in modo indelebile le immagini di giocate immortali, oltre al rammarico di essersi persi chissà quanta meraviglia rimasta ancora inespressa. E rimane anche, probabilmente, la consapevolezza che “uno come lui” ancora non lo abbiamo trovato.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (prima parte)

di Fabio Belli

Il calcio europeo ha vissuto uno sviluppo di ampio respiro una volta placatisi definitivamente i venti di guerra. L’UEFA nasce nel 1954 per iniziativa italo-belga-francese e, a cent’anni dai primi passi mossi in Inghilterra, rende realtà i sogni di tutti i pionieri del football del novecento: creare competizioni che rappresentino un metro di misura tra i club a livello internazionale. Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa UEFA animeranno i sogni di decine di milioni di sportivi continentali per decenni, fino alle attuali trasformazioni in Champions League ed Europa League.

La Coppa dell'Europa Centrale
La Coppa dell’Europa Centrale

Quando però negli anni ’30 un nuovo ordine mondiale sembrava andare prefigurandosi, poi sconvolto dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale diretta conseguenza dell’ascesa del nazifascismo, si era lavorato per mettere a confronto realtà di club di paesi diversi: la Coppa della Mittel-Europa, proprio lei, la Mitropa Cup, è stata la prima vera competizione europea per club. All’epoca era più facile vederla chiamata sui giornali col suo nome di “Coppa dell’Europa Centrale”, che col senno di poi le dava il sapore di una Champions League d’antan.

Troppo instabile la penisola iberica, troppo disorganizzate (nel football) Francia e Germania, troppo altera l’Inghilterra: il resto d’Europa si sentiva però pronta al confronto, e non bisogna credere che fosse una discriminante negative. All’epoca le squadre di club austriache e ceke avevano ben altra forza rispetto alle realtà emergenti nei paesi attualmente leader del calcio mondiale. Chi trionfava nella Mitropa poteva ben dirsi Campione d’Europa: di una sola parte di essa, certo, ma quella che più contava, all’epoca, a livello di club, ovviamente escluse le leggende inglesi.

L’evoluzione del torneo va di pari passo con quello che poteva essere e non è stato, all’epoca, del Vecchio Continente. Inizio in sordina dal 1927 al 1933 con un torneo, per quanto prestigioso, ad 8 squadre, poi il boom con le 5 edizioni a 16 e 20 squadre che possono essere considerate la versione embrionale di quella che vent’anni dopo sarà la Coppa dei Campioni. Poi l’improvviso declino, con la finale del 1939 mai disputata a causa dell’invasione della Polonia: in Europa non sarà tempo di pallone per un bel po’.

Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa
Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa

L’Italia è assente dalle prime due edizioni vinte da Sparta Praga e Ferencvaros: ceki e ungheresi hanno la meglio in entrambe le occasioni in finale sul Rapid Vienna. La riforma dei campionati vede l’Italia presentare, in attesa del girone unico, due rappresentanti uscite da un girone di spareggi nel 1929. Sono Genoa e Juventus le prime squadre a misurarsi in campo europeo a livello di club: entrambe escono subito ai quarti di finale, con gli ungheresi dell’Ujpest che alzeranno il trofeo ai danni dello Slavia Praga.

Nel 1930, di nuovo fuori ai quarti il Genoa, è l’Inter la prima squadra a passare un turno in Europa. Per domare i campioni uscenti dell’Ujpest serviranno 4 partite. Vittoria 4-2 a Milano, sconfitta con lo stesso pareggio in Ungheria, poi spareggio in parità (1-1) e alla fine vittoria di quella che nel frattempo è già diventata Ambrosiana. In semifinale sarà lo Sparta Praga ad estromettere i nerazzurri, ma a conquistare la Coppa, dopo due finali perse, sarà il Rapid Vienna.

Resoconto d'epoca della sfida tra Roma e First Vienna
Resoconto d’epoca della sfida tra Roma e First Vienna

L’anno successivo farà registrare la migliore performance della Roma, semifinalista battuta dai futuri campioni del First Vienna dopo aver piegato lo Slavia Praga nei quarti, fatali invece alla Juventus che non riuscirà nemmeno nel 1932 ad arrivare in finale. I bianconeri saranno però diretti responsabili del primo trionfo europeo italiano, quello del Bologna. I bianconeri infatti termineranno in una rissa furibonda la semifinale contro lo Slavia Praga: entrambe le squadre saranno squalificate e i felsinei, vincenti sul First Vienna, saranno proclamati campioni d’ufficio.

L'Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l'Inter
L’Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l’Inter

Nonostante la vittoria del Bologna, dunque la prima squadra italiana a giocare la finale della competizione sarà l’Inter nel 1933: Juventus ancora fuori in semifinale, sarà l’Austria Vienna a vedersela con l’Ambrosiana. A Milano il 3 settembre del 1933 un micidiale uno-due di Levratto e Meazza permette ai nerazzurri di prendere il largo, ma un gol di Viertl nel finale suona come un sinistro presagio. Cinque giorni dopo una tripletta della leggenda del calcio austriaco, Matthias Sindelar, manda in delirio i 58.000 del Prater di Vienna, e nega all’Inter la possibilità di alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale.

(continua…)

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Club Fabio Belli

20 aprile 1986, Roma-Lecce: indagine su una partita al di sopra di ogni sospetto

di Fabio Belli

Il fascino del calcio rispetto agli altri sport di squadra, è cosa abbastanza nota, consiste nella sua imprevedibilità. Difficilmente il pronostico può essere sovvertito quando il divario tecnico è troppo ampio: e così nel basket, nella pallavolo, nell’hockey e in tutte le altre discipline, si può assistere a finali olimpiche o lotte per il titolo all’ultimo sangue, ma difficilmente si può arrivare a vedere sciupare occasioni le squadre di testa opposte a formazioni destinate alla retrocessione.

Il 20 aprile del 1986 il calcio italiano ha fatto registrare uno dei più clamorosi testacoda della sua ormai ultracentenaria storia. L’Italia amante del pallone era sintonizzata sulle frequenze di “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con lo stesso stato d’animo di un lettore di gialli pronto a scoprire il nome dell’assassino. Il thrilling era garantito dall’incredibile rimonta che la Roma aveva messo in piedi ai danni della Juventus di Trapattoni. Un campionato a due strappi, quello della stagione 1985/86. La Juventus, inarrestabile, chiude il girone d’andata a 26 punti sui 30 disponibili. Secondo è il Napoli a -6, a otto punti di distanza seguono Inter e Roma. Già, i giallorossi: spettacolari e poco concreti come erano già stati sotto la guida di Sven Goran Eriksson nella precedente stagione, la questione-scudetto in inverno non sembrava proprio aperta.

E invece: nelle successive tredici sfide, la Roma ottiene 23 punti su 26, vincendone 11 (compreso lo scontro diretto contro la Juve con uno spettacolare 3-0 all’Olimpico), pareggiando a Firenze e perdendo solo a Verona. La Juventus avanza invece alla sconcertante media di un punto a partita. Un calo certificato anche dall’eliminazione in Coppa dei Campioni per mano del Barcellona. Si arriva alla penultima giornata con gli otto punti completamente rimontati. Il calendario recita: Roma-Lecce e Como-Roma per i giallorossi, Juventus-Milan e Lecce-Juventus per i bianconeri. Parlare di Lecce arbitro dello scudetto è però quasi roba da ridere: i salentini, al loro primo campionato in assoluto in Serie A della loro storia, di punti ne hanno messi insieme in tutto 14, e sono mestamente già retrocessi in cadetteria. Secondo gli esperti, non ci sono dubbi: saranno il Milan e il Como a decidere le sorti del titolo.

Il fattore psicologico però è da non sottovalutare: mentre la Roma è lanciatissima e col morale alle stelle per l’aggancio, la Juventus è evidentemente in affanno e affronta un Milan pronto a iniziare l’era-Berlusconi e a riacquistare quarti di nobiltà perduti ormai da oltre 15 anni di bocconi amari e cadute in B. Se sarà sorpasso, difficilmente i giallorossi perderanno l’occasione al “Sinigaglia” contro un Como coriaceo ma già salvo. Come detto, in questi calcoli della vigilia il Lecce non viene neppure considerato. Gli uomini di Fascetti scendono in campo in un Olimpico pavesato a festa: il Sindaco DC Nicola Signorello e il presidente giallorosso Dino Viola si esibiscono in un giro di campo quasi preludio di festeggiamenti ancora da conquistare. Chi in tribuna fa gli scongiuri, lo fa con la mente rivolta esclusivamente alla Juventus: se i bianconeri battessero il Milan, lo spareggio poi sarebbe comunque da giocare. Ma altri scenari funesti non vengono evocati, anzi anche uno spareggio, con la Roma in tali condizioni, da molti viene visto come una formalità, anche alla luce del 3-0 di poche settimane prima.

Graziani dopo 7′ porta in vantaggio la Roma, e non potrebbe essere altrimenti. L’Olimpico non esplode, si limita a proseguire nelle feste e nelle esultanze del prepartita, sperando di ricevere buone notizie dal “Comunale” di Torino. Impossibile preoccuparsi neanche quando Alberto Di Chiara, cresciuto nel settore giovanile giallorosso (al contrario del fratello Stefano, ex Lazio e anche lui presente in campo con la maglia del Lecce) beffa il fuorigioco di Eriksson e sigla il pareggio. Poco dopo, uno scellerato passaggio in orizzontale di Giannini, di quelli che fanno infuriare il Cruyff allenatore, regala il via libera a Pasculli atterrato da Tancredi. Barbas, dal dischetto, non sbaglia.

Cosa accada nell’intervallo non è dato sapere: c’è chi parla, ovviamente senza che mai arrivino conferme ufficiali, di ammiccamenti tra i due spogliatoi, col Lecce che se “incentivato”, non ci terrebbe a guastare la festa. Il pensiero indecente, se mai balenato nella mente di qualcuno, viene subito cancellato: troppo forte la Roma per non ribaltare comodamente il risultato, sugli spalti c’è chi è sicuro di una vittoria finale con vantaggio almeno doppio, come accaduto nella trasferta di Pisa una settimana prima, nella partita dell’aggancio. Parlando di scommesse però, il Totocalcio successivamente farà balenare un particolare quantomeno curioso: i tredici saranno 128 quella domenica, un’enormità se si pensa a quanto improbabile era considerata nel sentore popolare la vittoria del Lecce all’Olimpico.

Al rientro in campo, la Juventus sta comunque pur sempre pareggiando contro il Milan. La Roma riparte completamente proiettata all’attacco, e puntualmente la zona di Eriksson regala quegli spazi che permettono a Barbas, ancora lui, di firmare il 3-1. Impossibile ma vero: al “Comunale” i tifosi spingono letteralmente la Juventus verso la vittoria, e quando Laudrup porta in vantaggio i bianconeri, all’Olimpico inizia a consumarsi il dramma. La Roma spreca tanto, trova finalmente il gol a 8′ dalla fine con Pruzzo, ma ormai i cavalli sono proverbialmente scappati dal recinto.

Il Lecce, re per una notte, andrà ko all’ultima giornata, stavolta come previsto, contro la Juventus, mentre una Roma agghiacciata da quanto accaduto la settimana precedente sarà sconfitta anche dal Como. A distanza di quasi 30 anni, è davvero difficile ipotizzare cosa sia accaduto quel giorno. La storia di Davide e Golia stavolta è poco plausibile, considerando l’enorme differenza di motivazioni che intercorreva tra le due squadre, al di là dello scalino tecnico altrettanto ampio. Come sempre gossip, voci e veleni si rincorsero alla fine di una stagione che fu funestata dal secondo scandalo del calcioscommesse.

Nel libro di Oliviero Beha e Andrea Di Caro “Indagine sul Calcio”, il figlio del presidente giallorosso Viola, Ettore, dichiarò: ” Mio padre alla fine della partita era distrutto, incredulo, ma non sospettò mai nulla. Ai giocatori della Roma conveniva vincere. Mio padre aveva messo in palio per lo scudetto un premio clamoroso. La verità mai rivelata è che ci arrivarono voci insistenti di un premio a vincere o a pareggiare, che fu promesso al Lecce dalla Juventus. Giocarono la partita con una vis agonistica insolita per una squadra già retrocessa”. Ma nello stesso volume il bomber della Roma, Roberto Pruzzo, propone un’analisi che resterà per sempre quella ufficiale: “So che girarono voci, ma erano stronzate. Io ero un leader dello spogliatoio, non passava nulla che io non sapessi. E se qualcuno si fosse giocato la partita io l’avrei saputo. La verità è che nello spogliatoio non si giocava. Il Lecce rappresentò un incubo che può essere compreso solo se si considera quella partita come una follia isolata. Quella rincorsa ci causò un incredibile dispendio di energie fisiche e nervose. Avevamo finito la benzina,ecco la verità. Il calcio è bello anche perché esistono gare come quella. Purtroppo capitò a noi viverla”.

 

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Club Enrico D'Amelio

Roma-Liverpool: una notte di Coppe e di Campioni che per i tifosi giallorossi non è esistita davvero

di Enrico D’Amelio

C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.

Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.

Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.

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Calciatori Fabio Belli

7 febbraio 1970, Manchester United – Northampton 6-0: sei volte the Best

di Fabio Belli

7 febbraio 1970: un turno di FA Cup come ce ne sono stati tanti, e come tanti ce ne saranno in futuro. Il Manchester United sicuramente in quegli anni ha vissuto sfide e storie più emozionanti: dalle ceneri del disastro aereo di Monaco, Matt Busby ha saputo costruire una squadra da leggenda, la prima capace di portare la Coppa dei Campioni in Inghilterra, la seconda in assoluto in Gran Bretagna dopo il Celtic. Una partita col Northampton Town, in un Old Trafford massacrato dal fango a causa del maltempo tipico dei primi giorni di febbraio, non ha esattamente il massimo dell’appeal.

Tuttavia, c’è il pubblico delle grandi occasioni a seguire i Red Devils. Il fascino della FA Cup che in Inghilterra è sempre forte, certo, ma c’è anche un’altra motivazione a spingere i tifosi. George Best, a poco più di un anno dal riconoscimento più ambito per un calciatore a livello individuale, il Pallone d’Oro, torna in campo da titolare dopo uno stop disciplinare di sei settimane. Disciplinare, esatto, ma non dovuto al giudice sportivo: è stato il club a fermare il numero sette nordirlandese, come sanzione per le sue continue intemperanze dentro e fuori dal campo.

E’ soprattutto in allenamento che Best riesce a dare il peggio (o il meglio, dipende dai punti di vista) di sé: si presenta in pelliccia o non si presenta proprio, ha l’indolenza di un pensionato al bar, e qualcuno ha anche riferito ai manager come abbia pagato i giocatori delle giovanili per guardarlo in performance all’interno dello spogliatoio con signorine di che sportivo non avevano poi molto. Gli eccessi di Best sono leggendari, e chi conosce la sua storia sa bene come lo porteranno ad una chiusura della carriera incredibilmente precoce, soprattutto se commisurata al talento a disposizione. Ne è consapevole lo stesso “Georgie”, che tuttavia non ha preso bene la sanzione in questione. Anzi, l’ha presa malissimo, come se il Manchester United, in cui Bobby Charlton contava come un dirigente, lo volesse sfruttare come capro espiatorio in seguito al caso fisiologico dopo i tanti trofei conquistati alla fine degli anni sessanta.

Bene, Manchester United-Northampton è forse una delle pochissime testimonianze sul campo di ciò che Best avrebbe potuto fare spingendo sempre sull’acceleratore sul campo, e mai nella vita. Il “sette” si presenta tirato a lucido al cospetto di un avversario modesto, ma quanti mediocri terzini in fondo erano riusciti ad annullare il talento di Best se in giornata no, soprattutto se reduce da una sbronza o da una fuga romantica con qualche miss da copertina? Ecco, quel 7 febbraio del 1970, esattamente 45 anni fa, il Northampton ebbe un assaggio del Best atleta: nulla a che vedere neppure col Best genio, che piegò il Benfica in Coppa dei Campioni dribblando tutti ma rinunciando a sdraiarsi sulla linea di porta e spingere il pallone in rete di testa “per non far venire un infarto a Busby”, come da lui stesso narrato.

Il risultato finale dirà: Manchester United-Northampton Town 6-0. Marcatori: Best, Best, Best, Best, Best, Best. Esatto, il Best inedito è quello che segna sei reti lottando su tutti i palloni, sfruttando tutti gli spazi e rinunciando a servire le valanghe di assist che regalavano gloria ai compagni, poi pronti subito a scaricarlo di fronte alle sue debolezze. Un gol per ogni settimana di sospensione: un altro paio se li mangia per puro egoismo, per il gusto di far vedere che certe partite, volendo, avrebbe potuto giocarle anche da solo. E al sesto pallone in fondo al sacco, Best abbraccia il palo esausto, al culmine di una perfomance irripetibile per chiunque altro: a osservarlo, l’esultanza si riduce in uno sguardo pieno di malinconia che si trasforma in un ghigno beffardo. La conferma, nella sua mente, che sei gol su un campo di calcio non valevano la felicità, e che non c’era motivo di avere rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. Sei gol in una partita non erano quello che Best cercava dalla vita, ed è stata questa consapevolezza a renderlo unico.

 

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

[https://www.youtube.com/watch?v=iQx6Za_XzG4]

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Club Fabio Belli

Lazio-Bayern Monaco del 1974: Chinaglia contro Muller in una Coppa dei Campioni mai disputata

di Fabio Belli

Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico da una parte. Maier, Hanser, Rohr, Schwarzenbeck, Beckenbauer, Kappelmann, Hadewicz, Durnberger, Muller, Hoeness e Wunder dall’altra. La prima è una formazione ben conosciuta dai tifosi della Lazio, quella dello storico primo scudetto del ’74. Il secondo è un gruppo entrato a pieno diritto nella leggenda del calcio, quello che ha sdoganato il calcio tedesco di club ai massimi livelli a livello internazionale. Ovvero, il Bayern Monaco per tre volte Campione d’Europa tra il ’74 ed il ’76. Si tratta solo di un’amichevole, giocata all’Olimpico di fronte ad oltre 50.000 spettatori, ma il match assumerà una valenza simbolica importantissima, perché sarà l’unica passerella europea di un certo spessore da parte della “Banda del ’74”.

Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki - Vincenzo Cerracchio)
Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki – Vincenzo Cerracchio)

La partita si disputa di martedì il 17 settembre del 1974, una data scelta non a caso, perché il giorno dopo la Lazio, fresca del trionfo in campionato del 12 maggio, avrebbe dovuto esordire nella massima competizione continentale. Per giocare la prima sfida in Coppa dei Campioni la Lazio dovrà invece attendere altri 25 anni, quando il torneo si è già trasformato in Champions League, nella sua prima sfavillante edizione a 32 squadre. Questo perché i biancocelesti pagarono salatissimi gli incidenti dell’anno prima in Coppa UEFA, nel match di ritorno dei sedicesimi di finale contro l’Ipswich Town. Una situazione che portò alla squalifica dalle Coppe Europee la Lazio, che contava però sull’intercessione di Artemio Franchi, all’epoca potentissimo dirigente calcistico italiano e soprattutto presidente dell’UEFA, per vedersi rivolto un atto di clemenza, e poter essere presente all’appuntamento con la storia.

Probabilmente è stata però proprio la politica a chiudere l’ultimo portone tra la Lazio e l’Europa: la squadra di Maestrelli era vista come una magnifica meteora, e al momento degli incidenti contro l’Ipswich, nell’autunno del 1973, in pochi in Italia pensavano che l’exploit della stagione precedente, con lo scudetto perduto per il gol di Damiani a Napoli a 2 minuti dalla fine del campionato, avrebbe potuto essere ripetuto. L’assenza di una formazione italiana nella Coppa dei Campioni 1974/75 era vista come un danno di immagine anche dai vertici federali, che non si adoperarono da subito sul caso Lazio-Ipswich, proprio perché pensavano che al massimo i biancocelesti sarebbero stati assenti dalla Coppa UEFA dell’anno successivo.

E invece, verso l’aprile del 1974 fu chiaro che il miracolo sfiorato l’anno precedente, si sarebbe compiuto: un’ingerenza pesante di Franchi a quel punto sarebbe stata vista come ad uso e consumo della federazione italiana, e il tempo giocò semplicemente a sfavore di Chinaglia e compagni. Quell’amichevole del settembre ’74 fu dunque solo un flash di quello che poteva essere e non è stato. All’epoca la leggenda del Bayern era appena iniziata, con la conquista della prima Coppa dei Campioni dei bavaresi nell’incredibile finale di Bruxelles contro l’Atletico Madrid, e con il titolo Mondiale nella finale, disputata proprio a Monaco, contro l’Olanda di Crujyff. Proprio il modello al quale era accostata la Lazio di Maestrelli, capace di portare in Italia dinamismo, squadra corta, diagonali degli esterni difensivi e particolarità fino a quel momento sconosciute alla tattica della Serie A.

Quella squadra, ansiosa di confrontarsi contro formazioni come il Leeds di Bremner e Lorimer (poi finalista in quell’edizione proprio contro il Bayern), il Barcellona di Crujyff, il Borussia Monchengladbach di Gunter Netzer e con lo stesso Bayern, dovette accontentarsi di quella passerella con Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Schwarzenbeck, l’uomo che aveva strappato con il suo gol nel recupero dei supplementari la Coppa all’Atletico Madrid garantendo la ripetizione del match al Bayern, portò in vantaggio i tedeschi, ma la Lazio rispose nel finale con Franzoni, attaccante di riserva ricordato soprattutto per un suo gol nel derby d’andata nella stagione dello scudetto. Rimase un flash, un rimpianto, forse la conferma della consapevolezza di potersi giocare qualcosa di importante al gran ballo delle Grandi d’Europa: ma l’invito, alla fine, non arrivò mai per quella squadra pazza e meravigliosa.