Per andare più in basso nel calcio, bisogna salire in alto: per la precisione arrampicarsi su una rocca, fin su il monte Titano, davvero non molto lontano da casa nostra, anzi, praticamente a casa nostra. Quella di San Marino è infatti la nazionale più scarsa del pianeta: certo, a pari merito con le selezioni di altri microstati come Anguilla, Montserrat, Papupa Nuova Guinea e Samoa Americane. Ma negli ultimi anni è capitato spesso di vedere la Nazionale sammarinese all’ultimo posto del ranking FIFA, soprattutto quando qualcuna delle altre piccole selezioni riusciva a vincere in maniera estemporanea una partita.
La prima partita ufficiale dei Titani risale al 14 Novembre del 1990: San Marino-Svizzera 0-4 allo stadio Olimpico di Serravalle, “Wembley” putativo della selezione sammarinese e divenuto “San Marino Stadium” dopo la ristrutturazione che l’ha reso un impianto d’avanguardia, seppur di dimensioni ridotte. Da allora, in 32 anni di onorata militanza nel ranking internazionale, i risultati utili sono stati solamente 7: due amichevoli e una sfida di UEFA Nations League contro il Lichtenstein (due pari e una vittoria in amichevole, l’unico successo in una partita ufficiale), un match con la Lettonia, i più recenti pareggi contro Estonia (primo punto di sempre nelle qualificazioni agli Europei) e Gibilterra ed il risultato che resta ancora il più prestigioso, il pari casalingo contro la Turchia nelle qualificazioni per i Mondiali del 1994.
Lo strano caso di San Marino, a scorrere il ranking FIFA fino agli ultimissimi posti, infatti, è facilmente individuabile: la nazionale del Titano, al contrario di samoani e compagnia bella, è costretta a confrontarsi con autentiche leggende del calcio mondiale, e non certo in accesi derby della Micronesia, nei quali in fondo può accadere di tutto. Nelle qualificazioni ufficiali San Marino si è trovato di fronte squadre come l’Inghilterra, la Germania e l’Olanda dovendo spesso digerire sconfitte epocali. Il 2 Settembre 2011 al PSV Stadion di Eindhoven, Andy Selva e compagni hanno incassato undici gol, con quaterna di Van Persie e doppiette di Huntelaar e Sneijder. Nel 2006 contro la Germania il passivo più pesante, 0-13, in un contesto in cui San Marino è abituato a viaggiare alla media di quattro gol e mezzo incassati a partita. Il bis nel 2015, per le qualificazioni agli Europei 2016, vide i tedeschi vincere 0-8 scendendo in campo da Campioni del Mondo contro la squadra in fondo al ranking FIFA, un evento più unico che raro. Ma i biancazzurri non rinuncerebbero mai a ritrovarsi di fronte l’elite del calcio mondiale, anche a fronte di brucianti sconfitte, proprio per il sapore unico di questi appuntamenti.
Basti pensare che nel match d’andata delle qualificazione a Euro 2012 contro l’Olanda, a marcare Sneijder fresco vincitore della Champions League con l’Inter c’era Maicol (scritto proprio così) Berretti, mediano internazionale per hobby, ma di professione studente. D’altronde i professionisti sono sempre stati pochini: la maggior parte dei calciatori della nazionale a San Marino gioca nel campionato locale, il centravanti Andy Selva ha un passato rispettabile in Lega Pro, ed il giocatore più rappresentativo della storia resta l’ex juventino Massimo Bonini, che giocò da capitano nell’unico confronto ufficiale contro l’Italia, allora allenata da Arrigo Sacchi, a Cesena. La perla? Resta il gol di David Gualtieri all’Inghilterra nel ’93, San Marino in vantaggio dopo 8 secondi. Poi finì 1-7: ma vuoi mettere la soddisfazione?
Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talentobrasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.
Schierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.
Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionalebrasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.
La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.
Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.
Le figurine dei calciatori per i bambini restano il feticcio per eccellenza per tutti coloro che in tenera età si sono avvicinati alla magia del football. In Italia da oltre mezzo secolo la Panini di Modena rappresenta il totem attorno al quale tanti piccoliappassionati hanno vissuto campionati paralleli fatti di scambi e sogni, e inevitabilmente nell’immaginario collettivo certi personaggi sono entrati più degli altri, magari per una nota nel look più stravagante, soprattutto dalla seconda metà degli anni settanta in poi, quando l’immagine dei calciatori ha iniziato a divenire col tempo sempre menoimpersonale.
Quella delle figurine è un’abitudine estesa non soltanto al territorio italiano e, in quasi tutti i paesi europei, le stelle del calcio venivano immortalate e poi scambiate per finire negli album sulle pagine delle rispettive squadre. E mentre in Italia Pizzaballa diventava la figurina rara per eccellenza, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta in Olanda un personaggio stuzzicava la fantasia dei ragazzini dei Paesi Bassi. Si trattava di Abe Van Den Ban, centrocampista di grande grinta ma modestospessore, capace però di diventare, per la lunga militanza nel club, una leggenda dell’Haarlemsche Football Club, meglio conosciuto semplicemente come Haarlem dalla città di appartenenza. Van Den Ban aveva una particolarità incredibile nel suo ritratto: due lunghissimi baffi stile anni venti, assolutamente anacronistici anche per i tardi ’70, in cui pure barba, baffi e capelli lunghi avevano cominciato a diventare d’ordinanza anche tra i calciatori.
Il look di Van Den Ban non aveva nulla a che vedere con il retaggio della contestazione giovanile sessantottina, con i volti volutamente trasandati di Gigi Meroni, Paul Breitner o tanti altri. Il modello di Abe poteva essere al limite l’investigatore Hercule Poirot, ma neppure il personaggio nato dalla fantasia di Agata Christie, pur provvisto di lunghi mustacchi, si sarebbe spinto a tanto. I baffi di Van Den ban erano oversize e lo sono stati per tutta la durata della sua carriera, consumatasi dopo un’ottantina di presenze tra del fila del FC Amsterdam (con tanto in incrocio in Coppa UEFA contro l’Inter) nell’Haarlem, formazione nella quale arrivò a collezionare quasi 150 presenze in Eredivisie. All’alba degli anni ’80, il ritiro che coincise con l’età d’oro del club, della quale fece parte come allenatore delle giovanili.
All’Harleem Van Den Ban aveva, anche per il suo carattere gioviale ed istrionico, un grandissimo ascendente e così rimase ad allenare i ragazzi di quello che all’epoca era un fiorente settore giovanile. E così nel 1982 il club arrivò fino alla ribalta europea del secondo turno di Coppa UEFA disputato contro lo Spartak Mosca, mentre Van Den Ban iniziava a curare la crescita calcistica di alcuni talenti cristallini del calcio olandese. Uno di essi, Ruud Gullit, era destinato a raggiungere i vertici massimi del calcio mondiale. Già conquistato dalla pettinatura afro con le caratteristiche treccine, Gullit si ritrovò a farsi crescere anche un paio di baffi, forse in contrasto con la sua capigliatura, ma in omaggio al suo maestro Van Den Ban, che ancora oggi è un’icona di stile in Olanda. Sono state prodotte maglie con la sua effige, è stato protagonista di “un venerdì coi baffi“, campagna che esortava gli uomini ad esibire i baffi come segnale di consapevolezza riguardo il cancro alla prostata ed ha allenato una squadra di blogger che portavano nello stemma sulla maglia la sua faccia baffuta. Che resiste nel tempo, con qualche ciuffo grigio in più.
Il Mondiale del 1990 è stato un evento indimenticabile per gli appassionati di calcio. Un football all’epoca pieno zeppo di campioni, Maradona nell’Argentina, Roberto Baggio nell’Italia, l’Olanda di Van Basten e Gullit, i tedeschi, il Brasile dell’astro nascente Romario… insomma, un’epoca d’oro che andava a chiudere un decennio pieno di fantasia e di colori come gli anni ’80. E proprio al Pibe de Oro, in qualità di calciatore più forte del mondo e di campione iridato in carica, toccò aprire le danze del mondiale italiano nella partita inaugurale disputata al Meazza di Milano contro il Camerun.
Il calcio africano iniziava appena ad uscire dall’aspetto “pittoresco” che ne aveva contraddistinto la sua permanenza nelle competizioni internazionali dei precedenti vent’anni. Il Camerun era alla seconda partecipazione ai Mondiali e nel 1982 fece tremare gli azzurri poi Campioni del Mondo, uscendo imbattuto dal girone eliminatorio di Vigo dopo un 1-1 da batticuore contro l’Italia. Ma le prime vere squadre-sensazione del continente africano ai Mondiali furono l’Algeria nel 1982, trascinata dal “tacco di Allah” Madjer ed estromessa da un vero “biscotto” tra Austria e Germania ed il Marocco nel 1986, esaltato dai numeri degli estrosi Timoumi e Bouderbala nonché prima squadra del Continente Nero capace di superare il primo turno in un Campionato del Mondo. Il Camerun, sempre guidato in campo dall’ormai trentottenne Roger Milla, sembrava dunque la vittima sacrificale contro l’Argentina di Dieguito e Caniggia poi destinata ad arrivare di nuovo all‘atto finale della competizione.
Eppure proprio da quella partita gli sportivi di tutto il mondo inizieranno ad amare e sostenere i “Leoni Indomabili“, una generazione di calciatori che trovò le sue espressioni più talentuose nel portiere Tomas N’Kono, forgiato da anni passati nella Liga spagnola, e dallo stesso Milla, uno dei più forti attaccanti africani di tutti i tempi. Ma saranno anche tutti gli altri elementi in rosa a farsi conoscere e a conquistare le folle. A partire da quella di San Siro assolutamente incredula, dopo il fischio d’inizio, nel vedere Maradona e compagni stentare di fronte alla straripante forza atletica e alle accelerazioni devastanti del Camerun. Il tifo si schiera ben presto a favore dei “leoni indomabili”, ma la legge del più forte e del pronostico sembra compiersi inesorabilmente quando André Kana-Biyik si fa espellere lasciando il Camerun in inferiorità numerica.
Ma è a questo punto che si compie uno di quei miracoli che rendono unico il calcio: Makanaky scodella un pallone in area sul quale Francois Omam-Biyik si avventa saltando oltre le umane possibilità, come sembra evidente agli spettatori che in tutto il mondo seguono l’evento. Il portiere Pumpido, sorpreso quando ormai pensava che l’avversario non sarebbe mai arrivato all’impatto sul pallone, si lascia beffare ed il pallone si insacca in rete. E’ il gol che cambia il calcio internazionale e che apre una nuova frontiera nella quale il Camerun diverrà la prima squadra africana a piazzarsi tra le prime otto del mondo e che, soprattutto, rende la Coppa del Mondo un evento di massa anche in Africa. Nella capitale del Camerun, Yaoundè, il delirio provocato dal gol di Omam-Biyik proseguirà tutta la notte visto che i Leoni Indomabili, nonostante la chiusura del match in nove contro undici, portano a casa la vittoria contro i campioni del mondo in carica.
I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.
Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.
Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.
Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.
La Coppa d’Africa regala sempre suggestioni importanti, spesso capaci di creare incroci che non hanno nulla da invidiare a quelli che, ad esempio, hanno fatto la storia dei Mondiali.
Così come nel 1974 due mondi si tesero idealmente la mano nella sfida tra Germania Est e Ovest, nell’edizione 2015 del trofeo in Guinea Equatoriale le due anime del fiume Congo si sono ritrovate di fronte. La Repubblica del Congo (capitale Brazzaville) contro la Repubblica Democratica del Congo (capitale Kinshasa), che una volta si chiamava Zaire. E che proprio in quel Mondiale, Monaco ’74, ha partecipato come prima squadra dell’Africa Nera a essere presente in una rassegna iridata, con le pressioni del regime che fecero saltare i nervi a MwepuIlunga che spazzò via la palla ancor prima che il Brasile, con lo specialista Rivelino, potesse battere un calcio di punizione.
L’Africa è un gioiello bellissimo vista dall’alto sorvolando il fiume Congo, che divide due Nazioni che si portano dietro però tutti i problemi, le contraddizioni e le sofferenze del Continente Nero. La divisione è puramente coloniale: francesi da una parte, belgi dall’altra, ma un filo sottile continua a unire le due popolazioni, tanto che prima dello scontro in Guinea Claude Le Roy, allenatore del Congo “Brazzaville”, si era detto comunque felice che il Congo, in un modo o nell’altro, in semifinale ci sarebbe stato.
La partita è stata folle e imprevedibile come solo in Coppa d’Africa può avvenire: Repubblica del Congo, sfavorita alla vigilia, avanti di due reti in apertura di ripresa dopo un primo tempo chiuso sullo zero a zero. Quindi si scatena la Repubblica Democratica del velocissimo Yannick Bolasie e del bomber Mbokani e, in meno di mezz’ora, il risultato passa sul 2-4. Quanto basta per assistere all’incredibile esultanza di Muteba Kidiaba, il portiere del Mazembe, l’unica squadra africana che abbia mai giocato una finale del Mondiale per Club (nel 2010, contro l’Inter). Kidiaba si siede e inizia a saltellare trascinandosi sul sedere, come se avesse il… didietro a molla.
Se non lo si vede, non ci si può credere: una partita comunque giocata a mille all’ora, con l’allegria tattica che potenzia la prestanza fisica di giocatori che nel calcio che conta arrivano a militare nella Serie B inglese, al Terek Grozny in Russia o al massimo alla Dinamo Kiev, come il centravanti della Repubblica Democratica, Dieumerci Mbokani. Proprio così, in francese Mbokani si chiama “grazie a Dio”. Inoltre il talento più cristallino della squadra, Kebano, numero dieci classe ’92 cresciuto nel Paris Saint Germain e passato tra le fila del Charleroi in Belgio, di nome di battesimo si chiama Neeskens. Chiaro omaggio all’asso dell’Olanda degli anni ’70, di cui Neeskens Kebano ricalca in parte le movenze. Mille storie in una insomma, come solo l’Africa sa riservare col suo calcio folle e in parte ancora spensierato.
Un figlio dei tulipani ideatore e promotore di una enciclopedia sulla tecnica calcistica. Il manuale è dedicato ai bambini che si approcciano con il mondo del pallone. Stiamo parlando di Wiel Coerver.
Venerato nei Paesi Bassi come una scatenata rockstar, il buon Wiel vanta svariate e rilevanti esperienze. Da giocatore ricopre, con risultati più che discreti, il ruolo di terzino conquistando un campionato olandese con la maglia del Roda. Dalla seconda metà degli anni sessanta, appesi gli scarpini al chiodo, opta per la carriera da allenatore. Interlocutorie un paio di fermate al timone dello Sparta Rotterdam e del N.E.C. Nijmegen. La vera svolta giunge nel 1973 con la chiamata di una big a tinte biancorosse: il Feyenoord. In due stagioni i tifosi dimenticano presto la nostalgia per Ernst Happel, grazie ai trionfi in Campionato e Coppa Uefa. Il 29 maggio del 1974, dopo il 2-2 del match di andata in trasferta, Rijsbergen e Ressel stendono il Tottenham Hotspur nella bolgia di Rotterdam.
In quel momento storico il calcio orange esprime una generazione perfetta nell’estetica del collettivo e, per questo, stupendamente effimera. I Mondiali in Germania sono lo specchio di un dream team senza precedenti con Cruijff al centro dell’universo e tutto il resto della compagnia. Prima di Sacchi, Zeman e tanti altri amanti della zona. Rinus Michels estrae dal cilindro tattico un copione pazzesco, folle e smisuratamente rivolto in attacco.
Torniamo dunque al maestro nativo di Kerkrade. La strada sembra tracciata nel vecchio continente, ma Wiel decide di riempire la valigie verso l’ignoto. La meta è l’Indonesia. Siamo nel 1975 e la locale Federazione affida senza esitazioni la guida della Nazionale maggiore al trainer olandese. La rassegna continentale del sud est asiatico sarà un giubilo.
Quel successo diventerà il prologo per nuovi rivoluzionari progetti. Partendo dai più piccoli per coltivare potenziali campioncini in ottica futura. Coerver pensa e produce il suo metodo dalla struttura piramidale. Sei concetti semplici come una filastrocca: dominio della palla, passaggio e ricezione, uno contro uno, velocità, conclusione a rete e gioco in gruppo. Dettami immediati da irradiare ai piccoli gioiellini allenati sui campi. Le regole si espandono a macchia d’olio in Asia, Oceania arrivando poi in Europa prima nelle zone della Scandinavia.
A partire dal 2009 anche il calcio italiano annovera il metodo Coerver Coaching nelle sedute dei vivai di numerose società professionistiche e non solo. Uno dei promotori più attivi è certamente Paolo Tramezzani, ex difensore dell’Inter ed ora allenatore, che ricopre la veste di testimonial della metodologia nel nostro stivale.
La morte di Wiel Coerver, avvenuta nel 2011,lascia un’eredità pesante ma da conservare gelosamente dall’intero universo calcistico.
Oltre le gelide statistiche, le guerre vinte e le battaglie lasciate al nemico, i numeri di unica eleganza e straordinaria complessità, esistono calciatori per cui non esiste un’epoca, perché figli di qualsiasi tempo. Se volessimo spiegare cosa è stato per il calcio – e per ogni tifoso di questo sport – Marco Van Basten, non potremmo che partire dalla fine, dal 17 agosto 1995. Una data triste, in cui illusione e disincanto lasciarono il posto a una crudele consapevolezza, riassunta in poche parole dal titolo della Gazzetta dello Sport del giorno successivo: “Dove troveremo un altro come lui?”. Adriano Galliani disse che “il calcio aveva perso il suo Leonardo”, e perfino Diego Maradona, uno storicamente poco incline ad elargire facili complimenti, disse di “non aver mai visto un giocatore più elegante di Van Basten; una macchina perfetta che si è rotta, quando stava per diventare la migliore di tutte”. Costretto ad appendere gli scarpini al chiodo a soli 30 anni, questo cigno meraviglioso aveva cantato per l’ultima volta oramai tre anni prima, in una gelida notte di Champions League contro il Goteborg a San Siro. E sempre a San Siro, quel 17 agosto, non con la maglia rossonera, ma con un paio di jeans chiari e una camicia rosa nascosta sotto ad una giacca di renna, uno straziante e lento giro di campo ne annunciava la sconfitta più dolorosa. I vari tentativi di rimettere in sesto cartilagini deteriorate non avevano dato l’esito sperato; così, il suo pubblico adorante era costretto a salutare commosso il figlio prediletto. Una brusca e definitiva frenata sul più bello, dopo appena 10 di carriera, quasi la metà rispetto alla media di qualsiasi altro calciatore. Sufficienti, comunque, a fargli vincere tutto e forse anche di più. A riuscire in imprese che nessun altro aveva compiuto, biglietto utile a raggiungere di diritto l’olimpo dei semidèi. Dopo essere partiti dalla fine, possiamo riavvolgere il nastro del tempo e iniziare la sua storia. Una galleria di perle e diamanti da vedere e rivedere, capaci di mettere d’accordo tifosi e spettatori, giornalisti e semplici appassionati, così perfette da ubriacare di meraviglia il palato del più severo tra gli esteti.
Quando il predestinato si affaccia sul palcoscenico del professionismo è il 1981. Il movimento calcistico olandese ha visto passare la più bella nazionale che si ricordi, spintasi a raggiungere le finali del 1974 e 1978, ma non in grado di battere Germania Ovest ed Argentina nei due atti conclusivi del Mondiale. In parallelo, a sancire l’epilogo di quel ciclo irripetibile, anche la carriera del simbolo di quella squadra, Johan Cruijff, sta per imboccare il viale del tramonto. Il nome di Marco Van Basten figura per la prima volta in una partita del campionato dei Paesi Bassi il 3 aprile del 1982, in una gara contro il Nec Nijmegen. La maglia è ovviamente quella dell’Ajax e il futuro campione subentra al posto del vecchio numero 14. Gol all’esordio e, a fine stagione, primo titolo nazionale conquistato con la maglia dei lancieri. Ne arriva un altro l’anno successivo, quando i gol diventano 9 e le partite giocate 20, ma è nella stagione 1983/84 che il tulipano sboccia definitivamente, e il mondo intero si accorge che l’Olanda ha partorito un nuovo fuoriclasse. Un calciatore che possiede i colpi del numero 10 e la media realizzativa del numero 9, visto che è capace di segnare 28 volte in 26 partite ad appena 19 anni. Non più il modello Ajax in blocco a far parlare di sé, ma il singolo calciatore ad emergere rispetto ad un collettivo organizzato ad arte. Parallelamente arrivano le prime apparizioni con la casacca arancione, ma sono anni di apprendistato prima del Grande Evento, visto che gli eredi della compagine degli anni ’70 non riescono a qualificarsi per il mondiale in Messico del 1986. I titoli olandesi abituano a vincere il giovane campione, ma sono le ultime due stagioni all’Ajax che lo proiettano nella dimensione di una caratura internazionale. Il 1986 è l’anno della Scarpa d’oro, frutto di ben 37 reti in 26 presenze, e, nell’ultima stagione in biancorosso, arriva la conquista della Coppa delle Coppe. E’ sua la marcatura in finale ai danni della Lokomotive Lipsia, per una consacrazione europea giunta sotto la direzione tecnica proprio di Johan Cruijff. Il primo trofeo continentale di una lunga serie, che gli apre le porte al campionato più competitivo al mondo.
Una colonia olandese di nome Milanello
2 milioni di franchi svizzeri, quasi 2 miliardi di lire. Questa è la cifra imposta dai parametri UEFA che il Milan deve sborsare per assicurarsi le prestazioni del nuovo fuoriclasse, nell’estate 1987. Un affare per quello che sembra essere il più forte centravanti europeo in prospettiva, se non nell’immediato. Valutazione di gran lunga al ribasso, probabilmente, per la poca fiducia che altre società – più blasonate del Milan di allora – avevano riposto nelle sue condizioni fisiche, dopo l’infortunio ad una caviglia avvenuto durante una sfida contro il Groeningen. In effetti, già dopo la gara di Coppa Uefa persa in casa contro l’Espanyol – che poteva far morire sul nascere le ambizioni di rivoluzione tattica di Arrigo Sacchi -, Van Basten è costretto a fermarsi. E’ l’altra caviglia a costringerlo al riposo forzato e alla conseguente operazione, con sei mesi di inattività dai campi di gioco. I rossoneri sono impegnati in una rincorsa che sembra impossibile contro il Napoli di Maradona, lanciato a bomba verso il secondo scudetto consecutivo. Per chi ha memoria di quella stagione, una delle più avvincenti nella storia del calcio italiano, capace di vivere un decennio di primavera ininterrotta, ricorderà che sarà quasi esclusivamente il gemello olandese Ruud Gullit ad occupare le prime pagine dei giornali. Dopo la vittoria nello scontro diretto nella gara d’andata a San Siro – uno schiacciante 4-1 per l’undici di Sacchi – alcuni giornalisti sportivi iniziarono ad avanzare l’ipotesi che il 10 rossonero potesse essere addirittura più completo del rivale argentino. Van Basten era diventato oramai l’altro olandese. Il fuoriclasse solo nella potenzialità, ma non nella sostanza; teoria supportata da una marcia trionfale di Baresi e compagni, laureatisi Campioni d’Italia con soli 3 gol portati in dote dal centravanti di Utrecht. A 24 anni la carriera inizia ad essere di fronte a un bivio, con i detrattori pronti ad emettere il timbro della sentenza. Ma è nell’estate del 1988, a metà strada tra Milano e l’Olanda, che il cigno ritorna a cantare.
Germania 1988. L’Europa intera ai suoi piedi
O l’anonimato assoluto, per via di problemi fisici, o il proscenio conquistato da numero uno con gol ai limiti dell’impossibile. Così si è sviluppata, fino a questo punto, la carriera della punta fiamminga. “Il più raffinato ed elegante centravanti del calcio moderno, l’unico che sapesse danzare sulle punte di un fisico ciclopico”. Lo descrive così, su Repubblica, Emanuele Gamba, giornalista sportivo e noto tifoso granata. E’ questa frase, probabilmente, a evidenziare meglio di qualsiasi altra la diversità di Van Basten. Un calciatore che non sente il peso dei suoi 188 centimetri di altezza, ma che li mette a servizio di piedi con una tecnica fuori dal comune. Agli Europei in Germania non è la sua Olanda a partire con i favori del pronostico, tanto che la prima partita viene persa per 1-0 contro l’Unione Sovietica. Si pensa a una competizione di rodaggio, per gli oranje, in vista del Mondiale da disputare in Italia due anni dopo. C’è da dire, però, che la formula a sole 8 squadre, con le prime 2 di ogni girone qualificate direttamente per le semifinali, può dare adito a qualsiasi tipo di impresa. Infatti, con 4 punti conquistati in 3 partite, i ragazzi di Michels accedono alla semifinale contro i padroni di casa della Germania Ovest, favoriti di diritto alla vittoria finale. Una rivincita a distanza di 14 anni dalla finale mondiale del 1974. Questa volta, però, nell’undici arancione c’è più consapevolezza e meno inesperienza, più voglia di arrivare al risultato oggettivo e meno interesse nei riguardi della perfezione estetica. Dopo il vantaggio di Matthaus su calcio di rigore, c’è la risposta, sempre dal dischetto, da parte di Ronny Koeman. Poi, a due minuti dalla fine, il cigno timbra il sorpasso, con un gol più da attaccante di rapina che da Michelangelo del calcio. Manca solo il muro sovietico da demolire in finale prima della gloria, in una gara che verrà ricordata come quella del gesto tecnico proibito. Un gol, quello di Van Basten, che oltre a suggellare il 2-0 di una sfida mai in discussione, si inserisce di diritto nelle classifiche delle reti più belle di sempre per bellezza del gesto e coefficiente di difficoltà. L’Unione Sovietica si sarebbe dissolta, a livello politico, due anni e mezzo dopo, mentre quella parabola paradisiaca segnerà la fine della Nazionale con la scritta CCCP sulla maglia. Ma, in quel momento, non solo nessuno lo poteva immaginare, ma nessuno se ne sarebbe potuto o voluto accorgere, perché rapito da troppa meraviglia.
La nebbia di Belgrado nella nascita degli Invincibili
Agli albori di quelle che diventano pagine di Storia, il più delle volte, c’è sempre un punto di svolta senza il quale nulla sarebbe accaduto. Momenti in cui è il caso a farla da padrone, con le circostanze che si rivelano complici o nemiche dei personaggi in commedia. Se lo Scudetto del 1988 è stato il primo passo di una squadra che voleva scalare il mondo, il gradino successivo doveva essere, per forza di cose, la conquista dell’Europa che conta. Berlusconi e Galliani avevano costruito un gruppo troppo perfetto perché si potesse accontentare di vincere soltanto. I ragazzi di Sacchi dovevano per forza di cose aprire un ciclo, e farlo in un modo arrogante e inoppugnabile. La Coppa dei Campioni del 1988, però, non era la Champions League odierna con la formula a gironi. Allora bastava sbagliare una semplice partita per ritrovarsi estromessi già in autunno dall’obiettivo principale di stagione. Dopo un primo turno fin troppo agevole contro il Vitosha Sofia, che vide una quaterna di Van Basten nella gara di ritorno, i rossoneri dovettero spostarsi un’altra volta ad est della Cortina di ferro, per essere contrapposti alla Stella Rossa di Belgrado nel doppio confronto degli ottavi di finale. Il pareggio per 1-1 nell’andata di San Siro era un mezzo passo falso che non lasciava moltissime speranze per il ritorno, da giocare nell’inferno del Marakana. Le cose non si mettono bene per il Milan, visto che il primo tempo si chiude sull’1-0 per Savicevic e compagni, e, ad inizio ripresa, viene espulso Virdis per un fallo visto solo da un guardalinee. L’arbitro tedesco Pauli, però, a causa della nebbia fittissima che avvolge lo stadio jugoslavo, è costretto a sospendere il match e a rimandarlo al giorno successivo. Si ripartirà dallo 0-0 e dal primo minuto – allora le regole dicevano questo -, e, nonostante una direzione di gara non proprio favorevole, i rossoneri porteranno a casa la qualificazione ai calci di rigore grazie a un Giovanni Galli in stato di grazia. Da lì, una cavalcata trionfale fino alla finale di Barcellona, con uno stadio quasi totalmente rossonero, e un 4-0 ai danni della Steaua Bucarest, firmato dalle doppiette di Gullit e Van Basten. C’è il marchio indelebile del cigno in questa Coppa dei Campioni tornata a Milano dopo tanti anni, grazie alle 10 reti messe a segno nella massima competizione continentale per club che gli valgono il titolo di capocannoniere del torneo. L’anno dopo arriva il bis, nella finale di Vienna decisa dalla rete del terzo olandese, il centrocampista Frank Rijkaard, in una stagione macchiata solamente da un campionato perso al fotofinish, nell’assurda trasferta di Verona. Il Milan di Sacchi e degli olandesi, in ogni caso, a prescindere da uno Scudetto in più o in meno in bacheca, è diventato una squadra già leggendaria nel mondo. Capace di essere considerato uno spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, nella storia di un calcio, quello italiano, storicamente incline a un’impostazione tattica speculativa, più che di aggressività e pressing nella metà campo avversaria. In tutta questa serie di trionfi c’è la meraviglia di Van Basten. Un campione in continua evoluzione, che, anno dopo anno, migliora come il più pregiato dei vini d’annata. Come tutti i cicli, però, anche quello sacchiano giunge a conclusione. Forse per incapacità, da parte di giocatori troppo perfetti, di reggere allenamenti troppo maniacali per più anni consecutivi. Così, nella buia e controversa notte di Marsiglia, in cui Galliani ‘ritira’ la squadra dal campo a causa di un black-out momentaneo, c’è la definitiva crisi di rigetto. La società rossonera, a causa di questa decisione, viene squalificata per un anno dalle Coppe europee. Van Basten e il Diavolo, ancora una volta, si ritrovano a ripartire da zero.
L’arrivo di Capello e le ultime due stagioni da numero uno
Uno dei tanti luoghi comuni che gli addetti ai lavori utilizzano per identificare le caratteristiche di alcuni atleti è etichettarli come “il prototipo del calciatore moderno”. Una semplificazione dialettica spesso poco pertinente, visto che i fuoriclasse lo sono a prescindere dal periodo storico di riferimento. Nel caso di Van Basten, però, questo giudizio di forma assume i connotati della sostanza. Non necessariamente classico numero 9 da area di rigore, ma giocatore totale in omaggio alle proprie radici fiamminghe. Nell’estate del 1991, quando l’olandese è all’apice della maturità calcistica con i suoi 27 anni, Silvio Berlusconi sceglie Fabio Capello per riprovare a scalare il mondo. Giornalisti e addetti ai lavori, quasi all’unanimità, ritengono non più rianimabile una squadra che ha vinto per due volte consecutive Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale, il massimo per un club. La squadra appare arrivata alla fine di un ciclo con la naturalezza dello scorrere del tempo. Invece è proprio il fatto di trovare un tecnico non esasperato dal pressing e dalla difesa altissima, ma soltanto abilissimo gestore di spogliatoio, che consente di vivere una seconda giovinezza a calciatori ritenuti dai più sul viale del tramonto. Lo stesso Van Basten, in una recente intervista rilasciata proprio a Capello, ha dichiarato che fu importantissimo per il gruppo avere finalmente un allenatore che fosse stato calciatore, e che potesse così capire, a differenza di Sacchi, le esigenze dei singoli. Così, nemmeno a dirlo, il campionato 1991/92 vide il Milan conquistare lo Scudetto, e Van Basten mettere a segno 25 reti in 31 partite giocate, che gli valsero il titolo di capocannoniere per la seconda volta in Italia, dopo le 19 marcature nella stagione 1989/90. Sembrava il preludio ad una nuova ascesa, grazie a una società in grado di comprare giocatori per il solo gusto di sottrarli alle rivali. Lo fu per il Milan, in effetti, ma non per Van Basten. Durante il 1992/93, dopo il terzo Pallone d’Oro assegnatogli, a seguito dei due consecutivi del 1988 e del 1989, la caviglia comincia a dare nuovi segnali allarmanti, tanto da indurre il calciatore a sottoporsi ad una nuova operazione di pulizia. Due o al massimo tre mesi i tempi di recupero prospettati da parte dell’equipe medica di St. Moritz, dove il campione – in disaccordo con il Milan – decide di operarsi. Purtroppo le cose non vanno per il verso giusto, e, a giugno del 1993, si sottopone al quarto ed ultimo intervento, per tentare l’ennesima riabilitazione. Non sa che la finale di Coppa dei Campioni giocata contro l’Olympique Marsiglia, disputata in condizioni precarie e persa per il gol di Boli, è stata la sua ultima apparizione non solo con la maglia del Milan, ma da calciatore professionista in senso assoluto. La stessa squadra, quella francese, ironia del destino, che due anni prima aveva interrotto il dominio europeo del Milan di Sacchi. Nel medesimo stadio – quello di Monaco di Baviera -, peraltro, dove soltanto 5 anni prima Van Basten aveva portato al trionfo la Nazionale Olandese all’Europeo di Germania. Se per i ragazzi di Capello questa finale persa rappresenta soltanto un incidente di percorso, visto che dodici mesi dopo ci sarà l’epico 4-0 contro il Barcellona di Cruijff nella finale di Atene, per il calcio in generale si tratta di un punto di non ritorno. Per trasmettere alle nuove generazioni cosa abbia significato questa fine improvvisa e dolorosa, è sufficiente citare una frase di Carmelo Bene: “Il lutto per il ritiro di Van Basten non si è mai estinto e mai si estinguerà”. Non possiamo sapere se avrebbe potuto salire l’ultimo gradino che conduce alla perfezione e trascinare la Nazionale Olandese alla conquista del Mondiale che le manca; o se avrebbe incontrato, invece, un fisiologico declino sopraggiunto con l’avanzare dell’età. Quel che è certa è l’eredità di bellezza lasciata, a distanza di più di 20 anni da quel 17 agosto. Restano impresse in modo indelebile le immagini di giocate immortali, oltre al rammarico di essersi persi chissà quanta meraviglia rimasta ancora inespressa. E rimane anche, probabilmente, la consapevolezza che “uno come lui” ancora non lo abbiamo trovato.
Il 18 gennaio del 1977 Luciano Re Cecconi, una delle anime dello scudetto laziale del 1974, restava ucciso al culmine di un tragico scherzo. I racconti di quel tardo pomeriggio romano nella gioielleria Tabocchini si sono susseguiti senza che emergessero mai aspetti in grado di chiudere una volta per tutte la vicenda. La versione ufficiale parlano di uno scherzo al gioielliere sicuramente inopportuno visto che ci si trovava all’apice degli anni di piombo, ma assolutamente innocente nella sua dinamica. Una rapina simulata con due dita che facevano sporgere il bavero della giacca, come i bambini. E un solo colpo di pistola, fatale, dalla mira incredibilmente precisa per un gioielliere che già aveva subito altre (vere) rapine, ma non aveva certo l’attitudine di un giustiziere della notte.
Destino. E per quanto Re Cecconi era benvoluto non solo dai suoi cari, ma da tutto l’ambiente biancoceleste e del calcio nazionale, la perdita umana risulta ancora incalcolabile. Ma la vicenda anche dal punto calcistico nasconde una morale amarissima: il nome di Re Cecconi viene indissolubilmente, inevitabilmente legato alla grottesca vicenda della sua morte, quando il giocatore in sé avrebbe meritato ben altra considerazione nell’immaginario collettivo. Re Cecconi rappresentava infatti il prototipo del centrocampista moderno, una delle creature più belle della macchina costruita da Tommaso Maestrelli, scomparso per ironia macabra di quel destino cinico e beffardo che ha avvolto quella squadra, poco più di un mese prima dell’angelo biondo.
All’epoca, la Lazio del 1974 visse il suo massimo splendore di pari passo con l’apogeo dell’esplosione del calcio atletico olandese e tedesco. La finale di Monaco ’74 assunse agli occhi di tutti i contorni di una svolta epocale, nel passaggio tecnico-tattico da quelli che erano stati i contenuti del Mondiale messicano di quattro anni prima. In molti trovarono analogie tra la Lazio e quell’Olanda, ma il modello vincente che si impose in quel periodo, proprio per le vittorie conseguite sul campo, fu quello teutonico. Il Bayern Monaco tre volte campione d’Europa si contrapponeva all’altra grande del periodo, il Borussia Monchengladbach. Che a centrocampo schierava una sorta di fotocopia di Re Cecconi, Gunter Netzer: stessi capelli biondi, stessa fisionomia, stesse movenze.
O meglio, quasi: il dinamismo di Re Cecconi, Netzer non lo ha mai avuto. Piedi più “nobili” sì, e questo ne compensava alcune carenze nella corsa. Tanto che il tedesco, pur soffrendo in Nazionale la rivalità con i colossi del Bayern, arrivò alla maglia del Real Madrid. In Italia “Cecconetzer”, come fu ribatezzato da alcuni, restava il fulcro di una Lazio che si giovava delle sue particolarità, uomo ovunque del centrocampo capace di siglare anche gol eroici come quello contro il Milan che fece esplodere l’Olimpico all’ultimo minuto, negli anni d’oro dell’epoea di Maestrelli. In quell’inizio di 1977 la Nazionale azzurra era in piena rifondazione, pronta a vivere una rinascita che dai Mondiali argentini sarebbe culminata nel titolo del 1982. Nonostante essere fuori dal circuito delle grandi squadre del Nord avesse sempre penalizzato Re Cecconi, difficile pensare che nella rifondazione di Bearzot non ci sarebbe stato spazio per “Cecconetzer”. L’orologio della sorte si fermò però per sempre su quel maledetto 18 gennaio del 1977, e l’immagine di Re Cecconi finì incatenata a quell’assurdo, tragico scherzo, mettendo in secondo piano le straordinarie qualità del calciatore, addirittura epocali a livello tattico.
Un genere musicale, un intero movimento nato praticamente all’interno di una curva: un fenomeno culturale piuttosto raro, perché se è vero che il calcio ha sempre rappresentato un formidabile strumento di aggregazione per i giovani, sotto bandiere spesso anche non sportive (su tutte, la politica), la musica spesso è stato un accessorio da usare per cori di battaglia, e non un tratto distintivo di una firm, in quelli che possono essere considerati gli anni d’oro del fenomeno hooligans.
Eppure per anni, le brigate che in casa e in trasferta sentivano avvicinarsi minaccioso il canto “Rotterdam, Hooligans”, sapevano a cosa andavano incontro. Lo sapevano perché la curva del Feyenoord era famosa per arrivare da lunghi rave party durati tutta la notte, freschi freschi allo stadio e carichi come molle, senza un minuto di sonno ma con qualche additivo chimico in corpo in più. I passi mossi all’interno della curva del “De Kuip” dal movimento gabber e dalla musica techno hardcore sono stati incredibilmente significativi. Il paziente zero di questa storia si chiama Paul Elstak, in arte DJ Paul, conosciuto a livello internazionale come uno dei padri della musica hardcore, e questo è risaputo.
Quello che molti non sanno è che un balzo significativo nella carriera di DJ Paul coincide, all’inizio degli anni novanta, con l’incisione di una canzone intitolata “Amsterdam Waar Lech dat Dan?” (Amsterdam dove sta?) che è diventata un vero e proprio inno da stadio sull’antagonismo tra le due principali città olandesi, Rotterdam, casa del Feyenoord, e appunto Amsterdam, terra dei lancieri dell’Ajax. DJ Paul all’incirca venti anni fa era popolare nelle discoteche di Rotterdam, quanto nel cuore dello stadio De Kuip: e al grido di “Rotterdam, Hooligans!”, la curva del Feyenoord ha vissuto momenti di autentica gloria ultras.
Momenti controversi, sia chiaro, e questo racconto non vuole certo trasformarsi in un inno al teppismo: ma è chiaro che l’input lanciato da DJ Paul, abbinando la cultura rave a quella da stadio, ha rappresentato negli anni una vera e propria pietra miliare nel cammino del movimento “casual”, che tanti proseliti ha fatto anche in Inghilterra. Il sabato a ballare, poi direttamente allo stadio, perché andando a dormire dopo una nottata passata a saltare su un ritmo a 175 bpm (minimo), non ci si sarebbe mai svegliati in tempo per la partita. Paul Elstak ha suonato spesso, e lo fa ancora, nella pancia dello stadio del Feyenoord, incidendo peraltro altre canzoni techno hardcore a tema ultras. Di gran voga sono stati anche gli “afterparty” dopo le partite vinte, con tutta squadra a ballare sotto la curva e DJ Paul in console a sparare hardcore dagli altoparlanti, soprattutto i pezzi happy hardcore come “Love U More”, divenuta a metà anni novanta un eurohit ballata nelle discoteche di tutto il continente.
La cultura hooligans, ricca di notti in bianco, discoteche, droghe e imprese ben oltre i limiti della legalità, ha vissuto una tappa importantissima dunque a Rotterdam, partendo dalla creatività di un DJ che aveva capito come i due grandi amori della sua vita, la musica hardcore e il Feyenoord, potevano dare vita a una scintilla contro-culturale senza precedenti. E così è stato, e chi in Europa sente avvicinarsi il coro “Rotterdam, Hooligans”, evita ancora di girarsi dall’altra parte. Se può.
Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico da una parte. Maier, Hanser, Rohr, Schwarzenbeck, Beckenbauer, Kappelmann, Hadewicz, Durnberger, Muller, Hoeness e Wunder dall’altra. La prima è una formazione ben conosciuta dai tifosi della Lazio, quella dello storico primo scudetto del ’74. Il secondo è un gruppo entrato a pieno diritto nella leggenda del calcio, quello che ha sdoganato il calcio tedesco di club ai massimi livelli a livello internazionale. Ovvero, il Bayern Monaco per tre volte Campione d’Europa tra il ’74 ed il ’76. Si tratta solo di un’amichevole, giocata all’Olimpico di fronte ad oltre 50.000 spettatori, ma il match assumerà una valenza simbolica importantissima, perché sarà l’unica passerella europea di un certo spessore da parte della “Banda del ’74”.
La partita si disputa di martedì il 17 settembre del 1974, una data scelta non a caso, perché il giorno dopo la Lazio, fresca del trionfo in campionato del 12 maggio, avrebbe dovuto esordire nella massima competizione continentale. Per giocare la prima sfida in Coppa dei Campioni la Lazio dovrà invece attendere altri 25 anni, quando il torneo si è già trasformato in Champions League, nella sua prima sfavillante edizione a 32 squadre. Questo perché i biancocelesti pagarono salatissimi gli incidenti dell’anno prima in Coppa UEFA, nel match di ritorno dei sedicesimi di finale contro l’Ipswich Town. Una situazione che portò alla squalifica dalle Coppe Europee la Lazio, che contava però sull’intercessione di Artemio Franchi, all’epoca potentissimo dirigente calcistico italiano e soprattutto presidente dell’UEFA, per vedersi rivolto un atto di clemenza, e poter essere presente all’appuntamento con la storia.
Probabilmente è stata però proprio la politica a chiudere l’ultimo portone tra la Lazio e l’Europa: la squadra di Maestrelli era vista come una magnifica meteora, e al momento degli incidenti contro l’Ipswich, nell’autunno del 1973, in pochi in Italia pensavano che l’exploit della stagione precedente, con lo scudetto perduto per il gol di Damiani a Napoli a 2 minuti dalla fine del campionato, avrebbe potuto essere ripetuto. L’assenza di una formazione italiana nella Coppa dei Campioni 1974/75 era vista come un danno di immagine anche dai vertici federali, che non si adoperarono da subito sul caso Lazio-Ipswich, proprio perché pensavano che al massimo i biancocelesti sarebbero stati assenti dalla Coppa UEFA dell’anno successivo.
E invece, verso l’aprile del 1974 fu chiaro che il miracolo sfiorato l’anno precedente, si sarebbe compiuto: un’ingerenza pesante di Franchi a quel punto sarebbe stata vista come ad uso e consumo della federazione italiana, e il tempo giocò semplicemente a sfavore di Chinaglia e compagni. Quell’amichevole del settembre ’74 fu dunque solo un flash di quello che poteva essere e non è stato. All’epoca la leggenda del Bayern era appena iniziata, con la conquista della prima Coppa dei Campioni dei bavaresi nell’incredibile finale di Bruxelles contro l’Atletico Madrid, e con il titolo Mondiale nella finale, disputata proprio a Monaco, contro l’Olanda di Crujyff. Proprio il modello al quale era accostata la Lazio di Maestrelli, capace di portare in Italia dinamismo, squadra corta, diagonali degli esterni difensivi e particolarità fino a quel momento sconosciute alla tattica della Serie A.
Quella squadra, ansiosa di confrontarsi contro formazioni come il Leeds di Bremner e Lorimer (poi finalista in quell’edizione proprio contro il Bayern), il Barcellona di Crujyff, il Borussia Monchengladbach di Gunter Netzer e con lo stesso Bayern, dovette accontentarsi di quella passerella con Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Schwarzenbeck, l’uomo che aveva strappato con il suo gol nel recupero dei supplementari la Coppa all’Atletico Madrid garantendo la ripetizione del match al Bayern, portò in vantaggio i tedeschi, ma la Lazio rispose nel finale con Franzoni, attaccante di riserva ricordato soprattutto per un suo gol nel derby d’andata nella stagione dello scudetto. Rimase un flash, un rimpianto, forse la conferma della consapevolezza di potersi giocare qualcosa di importante al gran ballo delle Grandi d’Europa: ma l’invito, alla fine, non arrivò mai per quella squadra pazza e meravigliosa.
128. La “finalina” per il terzo posto dei Mondiali è una strana bestia: in nessuna altra competizione sportiva il ko in semifinale lascia tanto amaro in bocca, e infatti alla vigilia nessuno sembra voglia giocare quella che appare come un’inutile passerella. Poi invece, in campo la sfida si riaccende, e almeno quella medaglia di bronzo si vuol provare ad afferrarla. Solitamente, chi arriva più scarico perde: accadde in tempi recenti a Bulgaria, Corea del Sud e Portogallo, già paghe della semifinale, è successo anche stavolta al Brasile, ma per motivi opposti. Dopo la più grande umiliazione di sempre per la Selecao, è arrivato un nuovo disastro di fronte agli orange alleggeriti dalla tensione della semifinale, e di nuovo micidiali in contropiede. L’immagine del portiere Cillessen seduto in stile giardini pubblici col supporto del palo, è indice di quel poco che è riuscito a creare il Brasile nelle due partite decisive, quelle che dovevano portarlo sulla strada dell’Hexa.
129. Non è stato “Maracanazo”, ma un’umiliazione ben diversa, che paradossalmente ha solleticato l’orgoglio della torcida, che per il senso del dramma tipicamente sudamericano, digerirà sempre meglio una profonda umiliazione che una sconfitta stile 1950, quando le mani erano già sulla coppa. E così al Maracanà, nonostante i tedeschi avessero inflitto loro la peggior sconfitta della storia, non ci sono stati dubbi. Il “nemico” era e restava l’Argentina, come testimoniato dal tifoso che non ha avuto paura di scatenarsi in mezzo agli “hinchas” dell’albiceleste.
130. L’Olanda ha piazzato un primato, facendo giocare tutti e 23 i convocati, prima squadra a mettere in atto una soluzione simile ai Mondiali. La squadra di Van Gaal partiva a fari spenti, l’impressione è che forse il bersaglio grosso si poteva afferrare più questa volta che 4 anni fa, quando la Spagna dava una sensazione di superiorità generale difficile da smentire. Ma un secondo e un terzo posto tra 2010 e 2014 dimostrano come la scuola dei Paesi Bassi sia sempre all’avanguardia. Da 40 anni il sogno è però sempre uno, e continua a sfuggire come una saponetta bagnata. Vedremo se dove non sono arrivati Cruijff, Van Basten e Robben, riusciranno finalmente ad arrivare i giovani fenomeni del futuro.
Germania – Argentina 1-0 dts
131. Come avviene ormai da Francia 1998, dire “ha vinto la squadra migliore” è consuetudine della finale. Dopo un secondo e due terzi posti, la Germania conquista il quarto titolo Mondiale, raggiungendo l’Italia e dando finalmente un senso a dodici anni di straordinaria continuità nella competizione. I tedeschi arrivavano in Brasile tra le favoritissime, ma hanno giocato un Mondiale un po’ col freno a mano tirato. Due strepitose prestazioni, contro il Portogallo (favorita però da un arbitraggio oltremodo severo con i lusitani) e soprattutto Brasile, la Partita della Storia di questo Mondiale, e un’eccellente prova contro la Francia. Ma il balbettare già visto contro Ghana ed Algeria si è ripetuto al cospetto degli argentini, in tre diverse occasioni capaci di graziare Neuer a tu per tu. Ha vinto quella che nell’ultimo decennio si è imposta come una scuola capace di arrivare sempre tra le prime quattro tra Mondiali ed Europei, dal 2006 in poi. Mancava la vittoria, ed è arrivata. Facendo cadere anche l’ultimo tabù: mai un’europea aveva vinto nel continente americano.
132. A decidere la partita, Mario Gotze, classe ’92, talento della new wave tedesca quest’anno passato dal Borussia Dortmund al Bayern Monaco, un po’ discontinuo, ma l’unico forse in grado di spezzare l’equilibrio che gli argentini avevano imposto al match. Ha deciso la partita su un assist di Schurrle, anche lui subentrato dalla panchina: segno che chi ha le alternative e le fa valere, spesso mette le mani sul piatto.
133. Dopo una stagione opaca nella Lazio, in molti pensavano che Miroslav Klose sarebbe stato un’alternativa di lusso per la Germania del “falso nueve” Muller. Invece il centravanti di origini polacche si è imposto da titolare, con la sua presenza come riferimento in avanti capace di far girare tutta la squadra. E’ arrivato anche il record di gol nei Mondiali, una storia fantastica se ci si pensa. Nel 2002, l’ultima finale giocata e persa dalla Germania, Klose era in campo. Quella partita fu vinta dal Brasile con doppietta di Ronaldo, lanciato a sua volta verso il sorpasso a Gerd Muller. Nel 2014, Klose si prende il primato come marcatore di tutti i tempi del Mondiale segnando il gol del sorpasso in semifinale al Brasile sotto gli occhi di Ronaldo… e in finale, conquista anche la Coppa, chiudendo un cerchio lungo dodici anni.
134. Non ci siamo dimenticati naturalmente di uno dei leit-motiv di questa rassegna iridata. Messi vs Maradona, un cavallo di battaglia che è venuto spontaneo cavalcare dopo l’eccellente girone eliminatorio disputato dalla “pulga”. Mai il quattro volte Pallone d’Oro aveva avuto un tale approccio ai Mondiali, e si era pensato che la prospettiva di riportare l’Argentina sul tetto del mondo nella tana del Brasile fosse troppo ghiotta per non sfruttarla. E invece, dopo la giocata ammazza-Svizzera nei supplementari degli ottavi, l’asso del Barcellona si è eclissato, sprecando il match-ball col Belgio, facendosi imbrigliare dalla gabbia di Van Gaal in semifinale, ed infine senza prendere per mano la squadra nell’appuntamento decisivo, con tanto di clamorosa occasione fallita a tu per tu con Neuer. L’occasione irripetibile è perduta: in Russia Messi potrà provare di nuovo, con ogni probabilità, a diventare campione del Mondo, ma difficilmente le porte dell’Olimpo, quello vero, dove solo cinque-sei calciatori sono stati finora ammessi, si apriranno per lui.
135. All’Argentina lo “scherzetto” di festeggiare al Maracanà non è riuscito davvero d’un soffio. Le occasioni mancate da Higuain, Messi e soprattutto Palacio agiteranno a lungo i sogni dei tifosi dell’albiceleste. Che si erano presentati dall’inizio dei Mondiali con questo irriverente coro verso i rivali di sempre: «Brasil, decime qué se siente; tener en casa a tu papá. Te juro que aunque pasen los años; nunca nos vamos a olvidar… Que el Diego te gambeteó, que Canni te vacunó; que estás llorando desde Italia hasta hoy. A Messi lo vas a ver, la Copa nos va a traer; Maradona es más grande que Pelé» (traduzione “Brasile, dimmi cosa senti ad avere in casa tuo papà / Ti giuro che anche se passano gli anni, non ci dimenticheremo mai / Che Diego ti ha dribblato, che Canni (Caniggia, ndr) ti ha infilzato, che stai piangendo da Italia ’90 / Ora vedrai Messi, la Coppa ci porterà, Maradona è più grande di Pelè“). Un tormentone che i giornali argentini hanno utilizzato anche dopo l’1-7 in semifinale: ovvio che dopo il gol di Gotze, sia arrivata la vendetta…
136. A proposito di tifo, cosa avrà mai fatto l’Argentina a Rihanna? In semifinale avevamo segnalato come la popstar si fosse schierata in favore degli olandesi, con un esperimento di photoshop riuscito solo in parte. I colori della bella cantante sono cambiati per la finale: presente al Maracanà, Rihanna ha tifato in maniera sfrenata per la Germania, con tanto di festeggiamenti finali con i giocatori. Difficile capire il perché, sono le stranezze della febbre-Mondiale.
137. Alla fine comunque, ha vinto questo signore qua. Grazie a tutti voi che avete seguito il “Contromondiale” di Storie Fuorigioco! Appuntamento in Russia, dai che tra 1419 giorni ci risiamo!