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Calciatori Fabio Belli

Branco: tre punizioni nella storia

di Fabio BELLI

Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talento brasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.

brancoSchierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.

Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionale brasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.

La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.

Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.

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Allenatori Club Fabio Belli

Il Real Torino di Emiliano Mondonico

di Fabio Belli

Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.

Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.

Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia 1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.

Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.

Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.

 

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Calciatori Fabio Belli

Abe Van Den Ban: i baffi più esagerati della storia del calcio

di Fabio BELLI

Le figurine dei calciatori per i bambini restano il feticcio per eccellenza per tutti coloro che in tenera età si sono avvicinati alla magia del football. In Italia da oltre mezzo secolo la Panini di Modena rappresenta il totem attorno al quale tanti piccoli appassionati hanno vissuto campionati paralleli fatti di scambi e sogni, e inevitabilmente nell’immaginario collettivo certi personaggi sono entrati più degli altri, magari per una nota nel look più stravagante, soprattutto dalla seconda metà degli anni settanta in poi, quando l’immagine dei calciatori ha iniziato a divenire col tempo sempre meno impersonale.

vandebanxs51Quella delle figurine è un’abitudine estesa non soltanto al territorio italiano e, in quasi tutti i paesi europei, le stelle del calcio venivano immortalate e poi scambiate per finire negli album sulle pagine delle rispettive squadre. E mentre in Italia Pizzaballa diventava la figurina rara per eccellenza, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta in Olanda un personaggio stuzzicava la fantasia dei ragazzini dei Paesi Bassi. Si trattava di Abe Van Den Ban, centrocampista di grande grinta ma modesto spessore, capace però di diventare, per la lunga militanza nel club, una leggenda dell’Haarlemsche Football Club, meglio conosciuto semplicemente come Haarlem dalla città di appartenenza. Van Den Ban aveva una particolarità incredibile nel suo ritratto: due lunghissimi baffi stile anni venti, assolutamente anacronistici anche per i tardi ’70, in cui pure barba, baffi e capelli lunghi avevano cominciato a diventare d’ordinanza anche tra i calciatori.

Il look di Van Den Ban non aveva nulla a che vedere con il retaggio della contestazione giovanile sessantottina, con i volti volutamente trasandati di Gigi Meroni, Paul Breitner o tanti altri. Il modello di Abe poteva essere al limite l’investigatore Hercule Poirot, ma neppure il personaggio nato dalla fantasia di Agata Christie, pur provvisto di lunghi mustacchi, si sarebbe spinto a tanto. I baffi di Van Den ban erano oversize e lo sono stati per tutta la durata della sua carriera, consumatasi dopo un’ottantina di presenze tra del fila del FC Amsterdam (con tanto in incrocio in Coppa UEFA contro l’Inter) nell’Haarlem, formazione nella quale arrivò a collezionare quasi 150 presenze in Eredivisie. All’alba degli anni ’80, il ritiro che coincise con l’età d’oro del club, della quale fece parte come allenatore delle giovanili.

All’Harleem Van Den Ban aveva, anche per il suo carattere gioviale ed istrionico, un grandissimo ascendente e così rimase ad allenare i ragazzi di quello che all’epoca era un fiorente settore giovanile. E così nel 1982 il club arrivò fino alla ribalta europea del secondo turno di Coppa UEFA disputato contro lo Spartak Mosca, mentre Van Den Ban iniziava a curare la crescita calcistica di alcuni talenti cristallini del calcio olandese. Uno di essi, Ruud Gullit, era destinato a raggiungere i vertici massimi del calcio mondiale. Già conquistato dalla pettinatura afro con le caratteristiche treccine, Gullit si ritrovò a farsi crescere anche un paio di baffi, forse in contrasto con la sua capigliatura, ma in omaggio al suo maestro Van Den Ban, che ancora oggi è un’icona di stile in Olanda. Sono state prodotte maglie con la sua effige, è stato protagonista di “un venerdì coi baffi“, campagna che esortava gli uomini ad esibire i baffi come segnale di consapevolezza riguardo il cancro alla prostata ed ha allenato una squadra di blogger che portavano nello stemma sulla maglia la sua faccia baffuta. Che resiste nel tempo, con qualche ciuffo grigio in più.

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Calciatori Fabio Belli

Parigi 1998, Ronaldo vs Nesta: quando eravamo Re

di Fabio BELLI

“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.

Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.

RonaldoNesta1A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.

Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.

Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.

La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.

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Rayo Vallecano, i Matagigantes

di Fabio BELLI

Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanti sono i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del football è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid ma, alle spalle delle merengues, il cammino dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa. Tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di decine e decine di titoli nazionali e internazionali conquistati dalle due formazioni, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.

Schermata 03-2456374 alle 19.08.39Il Rayo Vallecano è la terza squadra di Madrid per risultati, ma probabilmente la prima per determinazione e forza di volontà. Il soprannome dei giocatori del Rayo da sempre è “Matagigantes“, ammazzagrandi, coniato nell’anno della prima promozione nella Liga, stagione 1977/78. I giganti del calcio spagnolo cominciarono infatti a fare i conti con quella squadra che, con una maglia che si dice sia un omaggio a quella del River Plate ed il segno distintivo di un’ape disegnata sul petto (a volte anche grandissima, come negli anni ’80), con un budget mostruosamente inferiore a quello delle big, riusciva spesso ad ottenere risultati sbalorditivi. Come negli anni ’90, quando la squadra che vantava gioielli come Toni Polster e Hugo Sanchez, ex leggenda del Santiago Bernabeu, si divertiva ad impallinare Barcellona e Real Madrid. Storiche sono le vittorie casalinghe contro il Real, 2-0 nel 1992/93 e di misura il 19 febbraio del 1997, 1-0, fino al successo nell’ultimo scontro finora disputato in campionato contro le merengues, sempre per 1-0 nel 2019. Ancor di più lo fu però la prima vittoria di sempre al Bernabeu, stagione 1995/96, 2-1 per il Rayo, con gol decisivo rimasto nella storia del brasiliano Guilherme. Il Camp Nou venne invece espugnato per la prima ed ultima volta alla terzultima giornata del campionato 1999/00, il migliore della storia del Rayo con la qualificazione in Coppa UEFA, 2-0 e blaugrana ammutoliti.

Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è poi risollevato tornando a giocare nella Liga, per poi retrocedere di nuovo in “Segunda” nella scorsa stagione. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madrepadrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi siano stati costretti nella loro carriera farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.

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Calciatori Fabio Belli

Francesco Dell’Anno, una carriera vissuta con le scarpe slacciate

di Fabio BELLI

Quando nell’autunno del 1984 Juan Carlos Lorenzo fu chiamato al capezzale di una Lazio ormai in disarmo, il sergente di ferro argentino si scontrò subito con un calcio che non frequentava più da oltre 25 anni e che era cambiato enormemente, facendo diventare anacronistici i suoi metodi. Ma un vecchio lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio e passando in rassegna quella rosa così male assortita, tra un giudizio impietoso e l’altro, le uniche parole positive le riservò ad un giovane della Primavera aggregato al gruppo con altri Under 18. “Quel ragazzino è l’unico che può fare il calciatore in prospettiva, qui.” E visto come andò a finire quella stagione, si può dire che Lorenzo fece centro al primo colpo.

Il “ragazzino” si chiamava Francesco Dell’Anno, detto Ciccio, 17 anni anni appena compiuti in quel 1984 a tinte decisamente orwelliane per la Lazio. Non poté far nulla per evitare il naufragio biancoceleste che portò all’ultima retrocessione in ordine di tempo per il più antico sodalizio calcistico capitolino. Ma i lampi di pura classe che dispensò, a partire dall’esordio assoluto nella sfida vinta contro la Cremonese, riempirono di speranza i tifosi che pure si ostinavano a riempire l’Olimpico in quell’annata così sofferta. Quando all’ultima giornata di campionato, a discesa in cadetteria già consumata, con un gioco di gambe finta e controfinta mise a sedere addirittura Le Roi, Michel Platini, i supportes laziali pensarono che da quella rovinosa caduta stava pur nascendo una stella.

Ma fu il carattere a tradire il giovane Dell’Anno, come troppo spesso accade alle promesse prive di una guida salda dentro e fuori dal campo. Quando in quella stessa stagione un compagno di squadra più anziano lo sgridò pesantemente perché si presentò al campo di allenamento di Tor di Quinto in fuoriserie, un altro provò a prendere le difese del ragazzo che in fondo, con i suoi soldi, poteva fare quello che voleva. Il punto era un altro però, spiegò il più severo dei due: a 17 anni e senza patente non si può proprio guidare l’automobile, altro che fuoriserie! Ragazze, vita notturna, divertimenti vari fecero il resto, e della classe cristallina di Dell’Anno rimasero solo dei lampi abbaglianti e molto occasionali in Serie B tra Arezzo, Taranto e Udine.

Proprio con la maglia dell’Udinese però riconquistò la massima serie e, nella stagione 1992/93, a suon di prodezze regalò ai friulani una salvezza che mancava da 7 anni, dopo le due retrocessioni del 1987 e del 1990. Numeri di classe sopraffina per un calciatore che ormai, a quasi 26 anni, era additato come inaffidabile e quasi perduto. La sorpresa arrivò con l’offerta dell’Inter che, nell’anno dell’epocale passaggio di consegne tra Ernesto Pellegrini e Massimo Moratti, decise di puntare anche sul talento ribelle di Dell’Anno per costruire una squadra in grado di divertire i tifosi. E, pur con i suoi fisiologici alti e bassi, i colpi di genio di Ciccio deliziano San Siro, con l’Inter che, come a volersi mantenere in linea con la sua schizofrenia calcistica, nella stagione successiva trionfò in Europa in Coppa UEFA ma arrivò per la prima volta a sfiorare la Serie B in campionato. Gli ultimi scampoli importanti di carriera Dell’Anno li ha vissuti a Ravenna, in B, dove c’è chi giura di averlo visto giocare con le scarpe slacciate. Salutò la Romagna dopo aver collezionato il suo massimo bottino di gol con una sola squadra, 23, prima di chiudere la carriera alla Ternana.

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Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Storia del “Tamudazo”. Ovvero: l’orgoglio di tifare Espanyol

di Fabio Belli

Tifare Espanyol a Barcellona non è affatto un supplizio come si potrebbe credere paragonandone il palmares con i rivali cittadini del Barca. E’ una scelta di orgoglio e distinzione in cui la voglia di rivendicare l’appartenenza alla Spagna, intesa come nazione, è forte ma non porta certo a rinnegare le radici Catalane. E’ la consapevolezza di appartenere ad una comunità che non si contrappone agli avversari di sempre ma si diversifica. Significa possedere uno stadio, il “Cornellà-El Prat” (o RCDE Stadium) ed un modello di settore giovanile invidiato in Europa oltre che in tutta la Spagna.

Certo, i vertici toccati dal Barca restano un sogno, ma le quattro Coppe del Re, le due finali di Coppa UEFA e le 84 stagioni di Primera Division disputate nella storia fanno dell’Espanyol uno dei principali club iberici. Questo nonostante la forbice a livello tecnico e soprattutto mediatico con i rivali blaugrana si sia allargata come non mai negli ultimi anni. Pochi anni fa il Barcellona di Guardiola è stato considerato da molti uno dei club più forti di tutti i tempi. Questo a torto o a ragione ma, comunque, si tratta di un livello sul quale il piccolo Espanyol non può neppure sognare di issarsi. Un divario che ha avuto anche le sue ripercussioni sui derby, con le vittorie dei biancazzurri sempre più rare e, per questo, ancor più gustose, come quella al Camp Nou (l’ultima ottenuta in casa del Barcellona, finora) contraddistinta da una doppietta di Ivan De la Pena.

In questo scenario anche “certi” pareggi possono valere come una vittoria. Come quello con il gol di Alvaro che ha impedito dal Barca di espugnare El Prat. O quello celebre nella stagione 2006/07 quando un gol di una delle bandiere dell’Espanyol, Raul Tamudo, costò al Barcellona di Rijkaard la Liga. Il famosissimo Tamudazo, col Real Madrid di Capello ed il Barca in lotta per il titolo e il Siviglia terzo incomodo ma alla fine leggermente staccatosi nelle ultimissime giornate. Il Madrid pur con qualche fatica pareggiò con il Saragozza grazie alle prodezze di Van Nistelrooy mentre al Camp Nou era in programma il derby. Il Barcellona si portò avanti anche grazie ad un contestatissimo gol di Messi (effettivamente realizzato con una mano) e sul 2-1 era più che mai in lotta per il titolo.

All’Espanyol l’irregolarità non andò giù: spianare la strada verso il titolo ai rivali di sempre è già un boccone amaro da digerire, farlo subendo un’ingiustizia, poi… E allora la storia finì col compiersi quasi allo scadere della partita: palla tagliata dalla destra, Tamudo elude il fuorigioco e con un delizioso tocco brucia il portiere in uscita. “Que locura!” commentarono i cronisti spagnoli visto che il pari dell’Espanyol arrivò contemporaneamente al pari di Van Nistelrooy a Saragozza, mantenendo inalterate le distanze tra Real e Barcellona a favore dei Blancos. E’ il gol che appunto passerà alla storia come il “Tamudazo”, che fece esplodere la gioia non solo dei tifosi Pericos ma anche dei madridisti che videro materializzarsi a un passo la vittoria nella Liga che soffiarono al Barca allora Campione d’Europa in carica. E in un solo gol venne dunque racchiuso tutto il gusto di tifare Espanyol: essere il topolino che terrorizza e a volte atterra l’elefante.

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Mosca, 1982: la strage dello stadio Lenin

di Fabio BELLI

Una strage dimenticata: spesso si ricordano tragici eventi negli stadi che hanno riguardato la Gran Bretagna o squadre inglesi, in cui la folla senza controllo ha provocato disastri come le stragi di Ibrox, Sheffield o dell’Heysel. Ma in pochi conoscono quella che in termini di numero delle vittime potrebbe essere stata la più grande tragedia mai avvenuta in uno stadio. Stiamo parlando della Strage del Luznihki.

I fatti accaddero il 20 ottobre del 1982, secondo turno di Coppa UEFA. Il Luzhniki è lo stadio principale di Mosca, allora conosciuto come stadio Lenin e l’anno scorso teatro della finale Mondiale tra Francia e Croazia. Quando l’URSS era ancora una potenza mondiale, le partite principali delle Coppe Europee si giocavano allo stadio Lenin, e lo Spartak Mosca, che nel primo turno della Coppa UEFA 1982/83 aveva eliminato i forti inglesi dell’Arsenal, doveva affrontare un outsider, la formazione olandese dell’Haarlem. Un club ora discioltosi, che rappresentava la piccola omonima cittadina che si era qualificata per la prima volta nella sua storia alle Coppe Europee l’anno precedente, vantando in rosa un giovane di grande valore chiamato Ruud Gullit.

Si gioca davanti a circa 15mila spettatori, una discreta affluenza considerando come Mosca, in quel mercoledì d’ottobre, era totalmente avvolta dal gelo. I supporters olandesi sono invece circa 100, una notevole prova di coraggio per raggiungere in un giorno feriale l’Unione Sovietica in un giorno di neve. In ogni caso, 15mila persone sono poche in un impianto che supera le 80mila come capienza massima, e vengono tutte convogliate nella Tribuna Est.

Al fischio d’inizio ha smesso di nevicare, ma il campo è ghiacciato e con esso anche le gradinate. I giocatori stanno in piedi a fatica e lo Spartak, più abituato a certe condizioni atmosferiche, passa in vantaggio con un gol del fantasista Edgar Gess. Il match è avaro di emozioni e a pochi minuti dalla fine il pubblico inizia a defluire progressivamente, per andare finalmente a ripararsi dal gelo. La sorte però ha deciso quella sera di accendere la miccia a qualcosa di terribile. Quasi allo scadere, il difensore dello Spartak Shvestsov realizza la rete del raddoppio.

“Maledico ogni giorno di aver segnato quel gol,” dichiarò in un’intervista, e c’è un perché: i gradini e i corridoi dello stadio, sugli spalti, sono ghiacciati: al momento del gol del 2-0 molti tifosi provano a tornare indietro per vedere cosa stia accadendo in campo, ma la polizia che presidia l’impianto ha l’ordine di non far rientrare chi ha già lasciato lo stadio. La gente inizia dunque ad accalcarsi e scivolando sul ghiaccio, cade schiacciandosi reciprocamente. Si parla di decine e decine di tifosi e chi è rimasto sugli spalti parla di urla terribili, indimenticabili, provenire dagli ingressi che danno sugli spalti.

Avendo convogliato i tifosi verso l’unica uscita, il bilancio sarà pesantissimo. Compresa la situazione, la polizia si unisce alle ambulanze che arrivano a soccorrere le persone schiacciate, ma in mancanza di ordini da parte dei superiori, la situazione allo stadio è nel caos. Quello che avviene da quel momento in poi, a 37 anni di distanza è ancora avvolto nel mistero.

Le squadre vengono frettolosamente fatte uscire dal campo e lasciano lo stadio senza avere notizie, con l’Haarleem addirittura portato a forza all’aeroporto, come in una evacuazione di massa. Il giorno dopo un solo giornale, “Il Vespro di Mosca”, parlerà di “Incidenti allo stadio e lesioni per alcuni tifosi” a margine della partita di Coppa UEFA. Nell’URSS degli anni 80 queste notizie vengono tenute segrete oltre ogni logica e buonsenso: basti pensare che il moribondo segretario del PCUS, Breznev, venne segnalato come malato di “raffreddore” fino al giorno della sua morte. Il suo successore, Andropov, istituì una commissione d’inchiesta che stabilì che allo stadio Lenin persero la vita circa 67 persone.

Testimoni oculari parlano però di almeno 300 morti, versione mai confermata: alcune persone decedute quella sera vengono segnalate come morte a chilometri da Mosca, quando in realtà le famiglie affermavano si trovassero allo stadio: segno che probabilmente alcuni certificati vennero contraffatti. Un testimone in particolare, Andrej Chesnokov, che diverrà un tennista di fama mondiale, affermò di essere presente a tifare lo Spartak quella sera, e rilasciò una dichiarazione agghiacciante, in cui affermò di aver visto tanti cadaveri da riempire due campi da tennis, quella sera.

La verità come detto non fu mai portata alla luce. Venne solo eretto un monumento davanti allo stadio, poi divenuto Luzhniki, in ricordo alle vittime di quella sera: e per commemorarle, nel 2007 a 25 anni dalla strage i giocatori di Spartak e Haarlem in campo quella sera si ritrovarono per disputare un’amichevole che facesse uscire, almeno per un giorni, i terribili ricordi dall’abisso della censura.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Wiel Coerver: un figlio dei tulipani con una missione: insegnare con il metodo

di Alessandro IACOBELLI

Un figlio dei tulipani ideatore e promotore di una enciclopedia sulla tecnica calcistica. Il manuale è dedicato ai bambini che si approcciano con il mondo del pallone. Stiamo parlando di Wiel Coerver.

Venerato nei Paesi Bassi come una scatenata rockstar, il buon Wiel vanta svariate e rilevanti esperienze. Da giocatore ricopre, con risultati più che discreti, il ruolo di terzino conquistando un campionato olandese con la maglia del Roda. Dalla seconda metà degli anni sessanta, appesi gli scarpini al chiodo, opta per la carriera da allenatore. Interlocutorie un paio di fermate al timone dello Sparta Rotterdam e del N.E.C. Nijmegen. La vera svolta giunge nel 1973 con la chiamata di una big a tinte biancorosse: il Feyenoord. In due stagioni i tifosi dimenticano presto la nostalgia per Ernst Happel, grazie ai trionfi in Campionato e Coppa Uefa. Il 29 maggio del 1974, dopo il 2-2 del match di andata in trasferta, Rijsbergen e Ressel stendono il Tottenham Hotspur nella bolgia di Rotterdam.

In quel momento storico il calcio orange esprime una generazione perfetta nell’estetica del collettivo e, per questo, stupendamente effimera. I Mondiali in Germania sono lo specchio di un dream team senza precedenti con Cruijff al centro dell’universo e tutto il resto della compagnia. Prima di Sacchi, Zeman e tanti altri amanti della zona. Rinus Michels estrae dal cilindro tattico un copione pazzesco, folle e smisuratamente rivolto in attacco.

Torniamo dunque al maestro nativo di Kerkrade. La strada sembra tracciata nel vecchio continente, ma Wiel decide di riempire la valigie verso l’ignoto. La meta è l’Indonesia. Siamo nel 1975 e la locale Federazione affida senza esitazioni la guida della Nazionale maggiore al trainer olandese. La rassegna continentale del sud est asiatico sarà un giubilo.

Quel successo diventerà il prologo per nuovi rivoluzionari progetti. Partendo dai più piccoli per coltivare potenziali campioncini in ottica futura. Coerver pensa e produce il suo metodo dalla struttura piramidale. Sei concetti semplici come una filastrocca: dominio della palla, passaggio e ricezione, uno contro uno, velocità, conclusione a rete e gioco in gruppo. Dettami immediati da irradiare ai piccoli gioiellini allenati sui campi. Le regole si espandono a macchia d’olio in Asia, Oceania arrivando poi in Europa prima nelle zone della Scandinavia.

A partire dal 2009 anche il calcio italiano annovera il metodo Coerver Coaching nelle sedute dei vivai di numerose società professionistiche e non solo. Uno dei promotori più attivi è certamente Paolo Tramezzani, ex difensore dell’Inter ed ora allenatore, che ricopre la veste di testimonial della metodologia nel nostro stivale.

La morte di Wiel Coerver, avvenuta nel 2011,lascia un’eredità pesante ma da conservare gelosamente dall’intero universo calcistico.

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Calciatori Fabio Belli

Nicola Berti e il tramonto della Milano da Bere

di Fabio BELLI

A guardarlo adesso, imbolsito e con lo sguardo sin troppo rilassato, viene quasi da non credere che sia stato una delle più astute e guizzanti mezze ali (una volta si diceva mediano di spinta, diciamo che oggi sarebbe un De Rossi un pizzico più offensivo) degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Eppure Nicola Berti ai tempi da giocatore ad un innato estro abbinava una cattiveria agonistica ed una concentrazione che gli hanno permesso di calcare i campi più prestigiosi del mondo, senza sosta, con tanto di due Mondiali disputati in maglia azzurra.

Nicola Berti che per anni è stato uno dei simboli dell'”ultimo scudetto dell’Inter”, quello del 1989 con Trapattoni in panchina, prima che 17 anni dopo Calciopoli cambiasse gerarchie del calcio italiano che parevano scolpite ormai nel marmo. Nicola Berti che si beve non tutta la difesa ma tutto il Bayern Monaco, nella sua interezza, in una memorabile notte di Coppa UEFA. Ed, essendo lui un contro-cliché, in quell’occasione non saranno le bizze del suo talento a sprecare il lavoro di squadra bensì sarà la squadra intera nel match di ritorno a sprecare le sue prodezze. Nicola Berti che ama la birra e la notte con le luci di una Milano da Bere anni ’80 che andavano via via spegnendosi e di cui lui era forse uno degli ultimi esempi concreti. Un calciatore però che riesce ad andare d’accordo in Nazionale anche con Sacchi, simbolo di un Milan odiatissimo in maglia nerazzurra e di un calcio totalmente diverso da quello giocato in quegli anni con l’Inter e con la nazionale di Vicini.

In un’intervista, di quei mondiali del 1994 immerso nell’integralismo sacchiano del 4-4-2, raccontò: “Si giocava negli Stati Uniti dove del calcio non fregava niente a nessuno. Oltretutto, si doveva scendere in campo in orari assurdi per le tv europee, con un caldo incredibile. Dopo ogni primo tempo c’erano 7-8 giocatori che chiedevano di non tornare in campo: pazzesco. Io giocavo fuori ruolo, sulla fascia, ma non me ne importava nulla: l’importante era esserci e mi sono divertito lo stesso.

Non si impuntava per una posizione in campo, Berti, l’importante era divertirsi e lui la vita l’ha sempre presa con una certa filosofia, senza perdere la testa neanche quando l’Inter di Pellegrini andò a pescarlo nel 1988 nella Fiorentina. Era già una stella dell’Under 21 grazie ad una sua tripletta storica rifilata al Portogallo. Fu subito scudetto, sembrava un’era pronta ad iniziare, l’Inter dei tedeschi subito dopo il Milan degli olandesi ed invece la sua era la Milano da bere che appunto si stava spegnendo. L’altra, invece, quella del Berlusconismo che stava appena nascendo. Ed anche di giocatori come Berti iniziavano ad uscirne fuori sempre meno.

Perso lo scatto dei bei tempi non ci ha messo molto a tagliare la corda: a 31 anni si è tolto lo sfizio di una stagione al Tottenham, in Premier League, poi dieci anni ai Caraibi a godersi la vita prima di tornare in Italia per fare il punto sul nostro calcio e sull’Inter, sempre senza peli sulla lingua. Ma a sentire lui l’importante è sempre divertirsi e, più che il calcio, ora sono i viaggi la sua vera passione: “Il posto più bello che ho visto? Ne dico due: lo Yemen e il Kazakhstan. Al largo dello Yemen c’è un’isoletta, si chiama Socotra. È bella almeno come quelle dei Caraibi. Nessuno mi impedirà mai di viaggiare, continuerò a farlo e sempre di più.” Tanto la Milano dei suoi anni d’oro non c’è più da un pezzo.

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Club Fabio Belli

La Lazio sul tetto d’Europa: quando lo United si inchinò alla new wave del calcio italiano

di Fabio Belli

E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.

uid_126126ad777.580.0Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.

I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.

Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.

E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.