Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanti sono i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del football è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid ma, alle spalle delle merengues, il cammino dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa. Tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di decine e decine di titoli nazionali e internazionali conquistati dalle due formazioni, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.
Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è poi risollevato tornando a giocare nella Liga, per poi retrocedere di nuovo in “Segunda” nella scorsa stagione. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madre – padrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi siano stati costretti nella loro carriera farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.