Anni ’50: il periodo in cui l’infatuazione del calcio italiano verso quello sudamericano tocca i massimi storici. La promessa di talenti “tanto al chilo” che giungono via nave da oltreoceano è troppo allettante e produrrà quella che, fino al ’66, l’anno dell’ignominiosa Corea per la nazionale azzurra, sarà ricordata come l’invasione degli oriundi. Nel 1955 tra di essi c’è anche un quasi ventiduenne “punteiro” uruguaiano di buone speranze, tanto che l’Inter decide di scommettere su di lui: Washington Cacciavillani.
I nerazzurri, dopo il settimo scudetto della loro storia conquistato nel ’54, non hanno saputo ripetersi concludendo la stagione 1954-55 con un deludente ottavo posto. C’è dunque la necessità di un rinnovamento che passa attraverso l’ascesa alla presidenza di Angelo Moratti, il quale avvierà un ciclo lungo ben 13 stagioni. Ma la storia di Cacciavillani sembra ricalcare, con 40 anni di anticipo, quella delle meteore che dalla seconda metà degli anni ’90 in poi contraddistingueranno la presidenza del figlio Massimo.
I tifosi che possono leggere sui quotidiani dell’ingaggio di “Cacciavillani dal River Plate” fanno voli pindarici per un brevissimo lasso di tempo: nelle pagine interne è specificato che il giocatore non arriva dai mitici “Millionarios” di Buenos Aires bensì dal meno blasonato River Plate di Montevideo, Uruguay.
Ad ogni modo la maglia nerazzurra Cacciavillani la vedrà in pratica solo col binocolo: in due anni in prestito alla Pro Patria “El Chico” (questo il suo soprannome) realizzerà la miseria di tre gol. L’Inter nel frattempo alterna quattro allenatori (Campatelli, Meazza – due volte – Ferrero e Frossi) in un parallelismo nella gestione Angelo-Massimo Moratti che col senno di poi ha dello sbalorditivo. L’unica presenza in campionato di Cacciavillani nell’Inter arriva nella stagione 1957/58 con Jesse Carver allenatore, poi un altro giro in Coppa Italia e l’addio definitivo a Milano, in un lungo pellegrinaggio verso sud: Ravenna prima e Casertana poi ma dal 1957 al 1960 “El Chico” realizza (con i romagnoli) un solo gol in partite ufficiali. Carattere sudamericano DOC, la disciplina del Nord ne mortifica l’estro e l’incedere in campo sbilenco, per quanto abbastanza rapido per l’epoca, non aiuta.
Il colpo di fulmine però arriva nel 1960: a Siracusa, in Serie C, trova la sua dimensione non tanto dentro il campo (in quattro stagioni e 107 presenze, solo 6 gol), ma fuori. Cacciavillani si stabilisce in Sicilia e non la lascerà mai più: chiude la carriera tra i dilettanti del Floridia, quindi inizia un’avventura lunga più di vent’anni da allenatore nell’isola: giovanili del Siracusa, Canicattì, Trapani, Modica in ordine sparso. Sempre nelle serie inferiori ma con la possibilità di essere sé stesso, dimenticando le nevrosi milanesi: la leggenda narra di alcune sue passeggiate per il lungomare di Siracusa con un cucciolo di leone (simbolo degli aretusei) al guinzaglio.
Nato il 1 Gennaio del 1934, Cacciavillani muore nel 1999 sempre nel giorno di Capodanno: un percorso circolare per un personaggio che ha riversato la sua estrosità più fuori che dentro il campo.
Le figurine dei calciatori per i bambini restano il feticcio per eccellenza per tutti coloro che in tenera età si sono avvicinati alla magia del football. In Italia da oltre mezzo secolo la Panini di Modena rappresenta il totem attorno al quale tanti piccoliappassionati hanno vissuto campionati paralleli fatti di scambi e sogni, e inevitabilmente nell’immaginario collettivo certi personaggi sono entrati più degli altri, magari per una nota nel look più stravagante, soprattutto dalla seconda metà degli anni settanta in poi, quando l’immagine dei calciatori ha iniziato a divenire col tempo sempre menoimpersonale.
Quella delle figurine è un’abitudine estesa non soltanto al territorio italiano e, in quasi tutti i paesi europei, le stelle del calcio venivano immortalate e poi scambiate per finire negli album sulle pagine delle rispettive squadre. E mentre in Italia Pizzaballa diventava la figurina rara per eccellenza, a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta in Olanda un personaggio stuzzicava la fantasia dei ragazzini dei Paesi Bassi. Si trattava di Abe Van Den Ban, centrocampista di grande grinta ma modestospessore, capace però di diventare, per la lunga militanza nel club, una leggenda dell’Haarlemsche Football Club, meglio conosciuto semplicemente come Haarlem dalla città di appartenenza. Van Den Ban aveva una particolarità incredibile nel suo ritratto: due lunghissimi baffi stile anni venti, assolutamente anacronistici anche per i tardi ’70, in cui pure barba, baffi e capelli lunghi avevano cominciato a diventare d’ordinanza anche tra i calciatori.
Il look di Van Den Ban non aveva nulla a che vedere con il retaggio della contestazione giovanile sessantottina, con i volti volutamente trasandati di Gigi Meroni, Paul Breitner o tanti altri. Il modello di Abe poteva essere al limite l’investigatore Hercule Poirot, ma neppure il personaggio nato dalla fantasia di Agata Christie, pur provvisto di lunghi mustacchi, si sarebbe spinto a tanto. I baffi di Van Den ban erano oversize e lo sono stati per tutta la durata della sua carriera, consumatasi dopo un’ottantina di presenze tra del fila del FC Amsterdam (con tanto in incrocio in Coppa UEFA contro l’Inter) nell’Haarlem, formazione nella quale arrivò a collezionare quasi 150 presenze in Eredivisie. All’alba degli anni ’80, il ritiro che coincise con l’età d’oro del club, della quale fece parte come allenatore delle giovanili.
All’Harleem Van Den Ban aveva, anche per il suo carattere gioviale ed istrionico, un grandissimo ascendente e così rimase ad allenare i ragazzi di quello che all’epoca era un fiorente settore giovanile. E così nel 1982 il club arrivò fino alla ribalta europea del secondo turno di Coppa UEFA disputato contro lo Spartak Mosca, mentre Van Den Ban iniziava a curare la crescita calcistica di alcuni talenti cristallini del calcio olandese. Uno di essi, Ruud Gullit, era destinato a raggiungere i vertici massimi del calcio mondiale. Già conquistato dalla pettinatura afro con le caratteristiche treccine, Gullit si ritrovò a farsi crescere anche un paio di baffi, forse in contrasto con la sua capigliatura, ma in omaggio al suo maestro Van Den Ban, che ancora oggi è un’icona di stile in Olanda. Sono state prodotte maglie con la sua effige, è stato protagonista di “un venerdì coi baffi“, campagna che esortava gli uomini ad esibire i baffi come segnale di consapevolezza riguardo il cancro alla prostata ed ha allenato una squadra di blogger che portavano nello stemma sulla maglia la sua faccia baffuta. Che resiste nel tempo, con qualche ciuffo grigio in più.
Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.
Il Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.
Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.
E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchinaperfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.
Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.
“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.
Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.
A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.
Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.
Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.
La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.
Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, glorioseimmagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.
Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma nonsemplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.
Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.
Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.
Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.
Quando nell’autunno del 1984 Juan Carlos Lorenzo fu chiamato al capezzale di una Lazio ormai in disarmo, il sergente di ferro argentino si scontrò subito con un calcio che non frequentava più da oltre 25 anni e che era cambiato enormemente, facendo diventare anacronistici i suoi metodi. Ma un vecchio lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio e passando in rassegna quella rosa così maleassortita, tra un giudizio impietoso e l’altro, le uniche parole positive le riservò ad un giovane della Primavera aggregato al gruppo con altri Under 18. “Quel ragazzino è l’unico che può fare il calciatore in prospettiva, qui.” E visto come andò a finire quella stagione, si può dire che Lorenzo fece centro al primocolpo.
Il “ragazzino” si chiamava Francesco Dell’Anno, detto Ciccio, 17 anni anni appena compiuti in quel 1984 a tinte decisamente orwelliane per la Lazio. Non poté far nulla per evitare il naufragio biancoceleste che portò all’ultima retrocessione in ordine di tempo per il più antico sodalizio calcistico capitolino. Ma i lampi di pura classe che dispensò, a partire dall’esordio assoluto nella sfida vinta contro la Cremonese, riempirono di speranza i tifosi che pure si ostinavano a riempire l’Olimpico in quell’annata così sofferta. Quando all’ultima giornata di campionato, a discesa in cadetteria già consumata, con un gioco di gambe finta e controfinta mise a sedere addirittura Le Roi, Michel Platini, i supportes laziali pensarono che da quella rovinosa caduta stava pur nascendo una stella.
Ma fu il carattere a tradire il giovane Dell’Anno, come troppo spesso accade alle promesse prive di una guida salda dentro e fuori dal campo. Quando in quella stessa stagione un compagno di squadra più anziano lo sgridò pesantemente perché si presentò al campo di allenamento di Tor di Quinto in fuoriserie, un altro provò a prendere le difese del ragazzo che in fondo, con i suoi soldi, poteva fare quello che voleva. Il punto era un altro però, spiegò il più severo dei due: a 17 anni e senza patentenon si può proprio guidare l’automobile, altro che fuoriserie! Ragazze, vita notturna, divertimenti vari fecero il resto, e della classe cristallina di Dell’Anno rimasero solo dei lampi abbaglianti e molto occasionali in Serie B tra Arezzo, Taranto e Udine.
Proprio con la maglia dell’Udinese però riconquistò la massimaserie e, nella stagione 1992/93, a suon di prodezze regalò ai friulani una salvezza che mancava da 7 anni, dopo le due retrocessioni del 1987 e del 1990. Numeri di classe sopraffina per un calciatore che ormai, a quasi 26 anni, era additato come inaffidabile e quasi perduto. La sorpresa arrivò con l’offerta dell’Inter che, nell’anno dell’epocale passaggio di consegne tra Ernesto Pellegrini e Massimo Moratti, decise di puntare anche sul talento ribelle di Dell’Anno per costruire una squadra in grado di divertire i tifosi. E, pur con i suoi fisiologicialti e bassi, i colpi di genio di Ciccio deliziano San Siro, con l’Inter che, come a volersi mantenere in linea con la sua schizofrenia calcistica, nella stagione successiva trionfò in Europa in Coppa UEFA ma arrivò per la prima volta a sfiorare la Serie B in campionato. Gli ultimi scampoli importanti di carriera Dell’Anno li ha vissuti a Ravenna, in B, dove c’è chi giura di averlo visto giocare con le scarpe slacciate. Salutò la Romagna dopo aver collezionato il suo massimo bottino di gol con una sola squadra, 23, prima di chiudere la carriera alla Ternana.
Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concettifuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.
Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la secondametà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppeperduta l’anno successivo contro il Valencia.
Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.
L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.
Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.
Estate del 1962: il boom economico in Italia sta iniziando a scaldare i motori, nel Paese si respira un’aria più fresca, nuova, forse anche un po’ ingenua. A neanche venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il paese non è ancora molto più ricco, ma ha ripreso a sperare e, soprattutto, a sognare. Il calcio è un importantissimo veicolo di divertimento e aggregazione ma, nell’era della vertiginosa crescita industriale, sono le grandi del Nord a comandare. La Nazionale agli ultimi Mondiali in Cile ha subito lo scandaloso arbitraggio dell’inglese Aston contro i padroni di casa. Una vergogna, ma nel calcio in cui gli echi della comunicazione, soprattutto da oltreoceano, arrivano ancora distorti, sono cose che capitano anche con una certa frequenza.
La stella indiscussa di Cile 1962 doveva essere Pelè ma gli infortuni non hanno permesso alla Perla Nera di essere protagonista. Al suo posto, il Brasile ha celebrato Amarildo per la conquista del suo secondotitolo mondiale. Ma il fascino dei calciatori esotici, pieni di talento ed estro, diversi da quelli che in Italia praticano il catenaccio sistematico, comincia a farsi largo tra i tifosi e in un campionato come la Serie A che comincia a potersi permettere l’ingaggio di calciatori esteri. Così il primo club a cavalcare la suggestione del Brasile di Pelè è il Milan del patron Rizzoli, che porta in Italia Josè Germano de Sales, sgusciante ala piena di guizzi e dribbling tanto da essere paragonato a Manè Garrincha. Allora appena ventenne, Germano faceva parte dei preselezionati per Cile ’62, ma alla fine non ha partecipato alla spedizione.
Da Germano i tifosi del Milan si aspettano grandi cose e soprattutto volano con la fantasia immaginando giochi di prestigio palla al piede, dribbling a ripetizione su un fazzoletto di campo, gol pescati direttamente dal cilindro di un mago. Quello che non sanno è che, soprattutto all’epoca, l’adattamento di un calciatore brasiliano in una realtà estremamente ordinata, grigia e fredda come quella milanese è molto complicato. Ed iniziano a sentir parlare di un termine misterioso, “saudade“, che significa più di nostalgia: è voglia di respirare un’aria diversa da quella delle ciminiere milanesi, è voglia di sentirsi circondati da tutt’altro rispetto a quella che è la realtà che diventa una prigione dalle sbarre di malinconia dalla quale si può solo evadere.
Germano comincia bene, gioca e segna in Coppa dei Campioni contro l’Union Luxembourg e in campionato contro il Venezia. Ma il suo stile svagato e la svogliatezza negli allenamenti non piacciono al ParònNereo Rocco che in quella stagione porterà per la prima volta la Coppa dei Campioni in Italia. Il suo Milan, a caccia dell’obiettivo più grande, dev’essere una macchina perfettamente oliata e Germano a novembre viene spedito al Genoa dove colleziona presenze ad intermittenza (solo dodici in campionato), qualche intemperanza e la frattura della mandibola, riportata in un incidentestradale una volta tornato a Milano a fine stagione.
Nel capoluogo lombardo l’aspirante Garrincha resterà altri due anni senza scendere mai più in campo fino al 1965, quando tornerà in Brasile al Palmeiras. Troppo, per una frattura della mandibola. Si scoprirà in seguito che i problemi di Germano a Milano erano puramente extracalcistici: il giocatore infatti iniziò una relazione clandestina con la figlia del potente Conte Agusta, l’industriale delle motociclette. La ragazza, per giunta allora minorenne, riempirà le cronache dei rotocalchi rosa per la sua fuga in Belgio, nel 1967, proprio per raggiungere Germano, che nel frattempo si era accasato allo Standard Liegi. Nascerà anche una figlia, Lulù. Troppo tutto insieme, per l’allora bigotta moralità italiana: e se di lì a poco i giocatori di colore conquisteranno grandi vette sportive (Jair nell’Inter, Nenè nel Cagliari), l’avvento di Germano ebbe l’effetto dirompente di un terremoto nel calcio italiano, che scoprì gloria, pazzie e miserie dei protagonisti del “futbol bailado”.
“La prima cosa che mi è venuta in testa è stata: questa è l’Italia, la Serie A. E a quei tempi era il campionato più importante d’Europa, dove giocavano grandi calciatori italiani e gli stranieri più forti del mondo. Ho deciso subito di accettare. Sono venuti due dirigenti da Foggia, abbiamo trovato l’accordo ed abbiamo parlato di come giocava la squadra: palla a terra, velocità e passaggi corti. Mi hanno detto che cercavano tre stranieri. Avevano già preso Petrescu e volevano due russi: Shalimov e Kolyvanov”. Igor Shalimov racconta di come nell’estate del 1991, abbia deciso convintamente di accettare le lusinghe del Foggia, ritrovandosi poi in squadra il connazionale Kolyvanov.
“Sono arrivato a Roma e con il presidente Casillo siamo andati in ritiro con la squadra in montagna. Mi hanno assegnato la camera con Alessandro Porro, che mi ha aiutato molto ad ambientarmi. Subito dopo sono venuti a salutarmi tre giocatori. Petrescu che incredibilmente era arrivato due settimane prima ma già parlava perfettamente italiano, Signori e Baiano. Per me non è stato facile all’inizio perché non parlavo italiano e parlavo male l’inglese. Ma i ragazzi mi hanno aiutato. Era un buon collettivo ed al primo allenamento ho capito che c’erano buoni giocatori”.
Shalimov nasce a Mosca nel 1969 dal padre Mikhail, operaio, e dalla madre Ludmila, casalinga. Rispetta a pieno i canoni della classica narrazione famigliare sovietica, vivendo però l’adolescenza durante il principio del declino dell’epopea comunista. A sedici anni, terminati gli studi dell’obbligo, assieme al fratello Pavel, entra a far parte delle giovanili dello Spartak Mosca.
Il suo piede preferito è il mancino, esordisce come terzino sinistro, per poi essere spostato a centrocampo sempre sulla fascia sinistra. Dal 1986 all’88 gioca nelle riserve dello Spartak realizzando 17 gol in 51 presenze.
Nel 1987 Igor vince, a diciotto anni, la Coppa delle Federazioni Sovietiche. Dall’anno successivo è in pianta stabile in prima squadra. Il primo anno tra i professionisti sigla 8 gol, dimostrando da centrocampista di avere un ottimo feeling con la porta avversaria.
La prima rete la mette segno all’undicesima giornata il 22 maggio, davanti a 40.000 spettatori nell’1 a 1 finale contro l’Ararat. A fine stagione lo Spartak si piazza al quarto posto nella classifica della Vysšaja Liga.
Nell’1989 Shalimov vince il Campionato sovietico con lo Spartak, realizzando un solo gol nell’intera stagione, nel 3 a 3 contro il Metalist. La squadra di Mosca si guadagna anche l’opportunità di giocare la Coppa dei Campioni.
Esordisce con la nazionale dell’URSS ai mondiali di Italia ’90. Gioca titolare nel centrocampo sovietico contro l’Argentina di Maradona, perdendo per 2 a 0. Disputa, sempre dall’inizio, anche le altre gare del girone. Per questo motivo molti club europei iniziano a mettere gli occhi sul centrocampista mancino, dal piede vellutato e dall’ottima visione di gioco.
I cambiamenti derivati dalla caduta del muro di Berlino sono evidenti, la voglia di emanciparsi da una dittatura oppressiva e totalitaria sta contagiando i popoli dell’intera Unione fino ad arrivare a Mosca. Igor Shalimov a 22 anni inizia una nuova stagione con lo Spartak, quella della consacrazione. In campionato arriva a 2 soli punti dai cugini del CSKA che vincono la Vysšaja Liga. In Coppa di Campioni la cavalcata è (quasi) trionfale.
Ai sedicesimi di finale lo Spartak incontra (in una gara alquanto tesa a livello geopolitico) lo Sparta Praga. L’andata si gioca il 19 Settembre del 1990 proprio a Praga e la partita viene vinta dai russi per 2 a 0, il primo gol è proprio del centrocampista moscovita che segna con un tiro di potenza dal limite che bacia il palo alla sinistra del portiere e poi si insacca. Il tabellino della gara di ritorno del 3 Ottobre recita il medesimo risultato.
Negli ottavi di finale Shalimov e compagni se la devono vedere contro il Napoli (campione d’Italia in carica) del “Pipe de Oro” Diego Armando Maradona. L’andata si gioca il 24 Ottobre davanti ai 50.000 del San Paolo. Conclusasi a reti inviolate, la gara è caratterizzata dai legni colpiti da entrambe le formazioni (3 a 2 il computo totale per i padroni di casa). Il ritorno, che si gioca a Mosca davanti agli 86.000 dello Stadio Lenin, vede l’ennesimo palo colpito dal Napoli, in una gara equilibrata che termina nuovamente 0 a 0. Dopo i tempi supplementari, ai calci di rigore, i russi sono implacabili e vincono 5 a 3.
Lo Spartak arriva quindi ai quarti di finale e se la deve vedere contro il Real Madrid. Il 6 Marzo del 1991 allo Stadio Lenin di Mosca sono accorsi più di 80.000 tifosi. Gli 11 allenati da Oleg Romancev giocano una partita all’arrembaggio ma la difesa madrilena resiste, anche grazie ad un Pedro Jaro (riserva di Francisco Buyo) in stato di grazia.
Al Santiago Bernabeu il 20 Marzo si gioca il ritorno, i favori del pronostico sono tutti per il Real. Dopo 10 minuti Emilio Butragueño approfitta di un pasticcio difensivo dello Spartak e porta in vantaggio i padroni di casa. Ma dopo poco meno di mezz’ora una doppietta di Radchenko capovolge il risultato. Il 3 a 1 finale viene segnato da Chmarov al 63° minuto.
Lo Spartak ha dimostrato di essere un’ottima squadra, giocando palla a terra e in velocità, punendo il Real Madrid in contropiede. La partita si è conclusa tra gli applausi dei 90.000 del Santiago Bernabeu.
In Semifinale lo Spartak di Shalimov si deve però arrendere all’Olympique Marsiglia. Il 10 Aprile 1991 allo Stadio Lenin passano i francesi per 3 a 1 (a segno per lo Spartak proprio Shalimov), al ritorno al Velodrome il 24 Aprile, i padroni di casa si impongono per 2 a 1.
L’esperienza di Igor Shalimov in Coppa dei Campioni si conclude comunque positivamente, portando lo Spartak a sfiorare la finale.
A 23 anni la Serie A e il Foggia di Zeman l’aspettano a braccia aperte: “Quando mi hanno parlato di Foggia l’ho cercata sulla carta geografica: non avevo idea di dove si trovasse. È una città piccola, diversa da Mosca, ma io sono qui per lavorare e non per fare il turista”.
In Puglia trova un altro Igor: Kolyvanov. Attaccante proveniente dalla Dinamo Mosca, capocannoniere in carica della massima divisione sovietica con 18 reti ed eletto giocatore dell’anno nel 1991.
Moscovita come Shalimov, più grande di quasi un anno (classe 1968) Igor Kolyvanov a 16 anni, nel 1985, gioca nelle giovanili dello Spartak. Non diventa compagno di squadra di Shalimov perché già l’anno dopo passa alla Dinamo Mosca. Con i biancoazzurri della Capitale, celebri per essere stati la formazione di Lev Jašin (uno dei più grandi portieri della Storia del calcio) dal ’49 al ’70, Kolyvanov inizia l’avventura a 17 anni giocando tra le riserve.
Nel 1986 la Dinamo Mosca è in piena lotta per la conquista del titolo sovietico, ma Kolyvanov s’infortuna ed è costretto a rimanere a riposo per 2 mesi. Nonostante lo stop forzato riesce a mettere a segno 4 reti, una delle quali nello scontro diretto per il titolo perso contro la Dinamo Kiev per 2 a 1 il 7 Dicembre 1986.
Nel triennio successivo la Dinamo Mosca ottiene risultati deludenti (un 10°, 12° e 8° posto), ma Igor continua a segnare con una discreta continuità fino a raggiungere nel 1989 gli 11 gol. Nel 1990, con la Dinamo, Kolyvanov ottiene un ottimo terzo posto finale e la convocazione per gli Europei Under 21 dove inizia a giocare con Shalimov. Si laurea come migliore attaccante della competizione segnando 9 gol in 7 partite, 1 dei quali nella semifinale di ritorno contro la Svezia vinta per 2 a 0. L’URSS di Shalimov e Kolyvanov vince la competizione battendo in finale d’andata la Jugoslavia per 4 a 2 a Sarajevo, il 5 Settembre del 1990, e 3 a 1 nel ritorno del 17 Ottobre in Unione Sovietica.
Nel 1991, come già detto, è capocannoniere della Vysšaja Liga con i suoi 18 gol in 27 partite, decisivo per la conquista della qualificazione in Coppa UEFA della Dinamo Mosca. Appena eletto giocatore dell’anno accetta anche lui l’offerta del Foggia di Zeman. A 23 anni vuole diventare un calciatore completo grazie anche ai consigli del tecnico boemo: “Ognuno mi ha fatto crescere e ha insegnato qualcosa. Zeman, ad esempio, mi ha fatto conoscere il 4-3-3. In Russia giocavamo sempre 4-4-2 o al massimo 3-5-2. Questo modulo l’ho conosciuto per la prima volta a Foggia. Ed ho avuto qualche problema per capirlo, ma quando ci sono riuscito tutto è diventato più facile”.
Zemanlandia apre i battenti il 1° Settembre 1991: la scala del calcio attende la matricola pugliese, va in scena Inter-Foggia. Shalimov è titolare nel terzetto di centrocampo, partendo da destra. Kolyvanov invece è ancora a Mosca, gioca con la Dinamo fino a Novembre in Coppa Uefa. La partita è inaspettatamente equilibrata, vedendo addirittura passare in vantaggio il Foggia con un gol di Baiano. Il risultato finale è 1 a 1, ma è appena nato quello che da lì a poche giornate viene ribattezzato il Foggia dei miracoli.
“Nessuna squadra giocava in Serie A un calcio così. Palla a terra, passaggi non più lunghi di quindici, venti metri e tre o quattro giocatori che attaccavano sempre alle spalle i difensori avversari. Avversari che diventavano matti perché questo modo di giocare durava tutta la partita. Guardavamo poco dietro, andavamo sempre avanti. E poi il Foggia Calcio non mollava mai. Era divertente guardare quella squadra, faceva spettacolo. Per gol fatti eravamo secondi dietro al Milan, però anche per gol subiti eravamo secondi…”. Igor Shalimov ricorda così l’unico anno a Foggia, nel quale segna 9 gol e partecipa all’incredibile stagione dei “satanelli” che si conclude al nono posto, miglior risultato della storia per il club pugliese.
Igor Kolyvanov esordisce in Serie A il 1° Dicembre 1991, nella sconfitta in trasferta per 1 a 0 contro il Verona. La prima delle 3 reti segnate durante la stagione del suo debutto arriva nel pareggio interno contro il Torino per 1 a 1 del 1° Marzo 1992. “Ricordo il mio primo giorno a Foggia. Trovai una città piccola ma carina, ma il caldo…” L’attaccante russo non dimentica l’affetto dei tifosi: “Devo tanto a loro. La gente mi a voluto subito bene, mi ha dato il cuore, mi ha aiutato”.
Con i satanelli Kolyvanov gioca 4 campionati di Serie A (segnando 18 reti complessive) e l’ultima, nel 95/96, in Serie B (4 gol in 29 presenze). La sua avventura in Puglia è influenzata da un brutto infortunio al ginocchio; la rottura dei legamenti: “Era un periodo poco esaltante per me ma mi fece immenso piacere ricevere la visita di due fratelli foggiani che partirono dall’Italia solo per venirmi a trovare (in Colorado n.d.r.) e sostenermi!”.
A 27 anni, nel 1996, passa al Bologna dove gioca le sue ultime 5 stagioni da professionista (26 gol in 87 presenze totali). Il fato vuole che dopo aver giocato nell’Inter (dove ha vinto la coppa UEFA nel 93/94), nel Duisburg, nel Lugano e nell’Udinese, anche Igor Shalimov viene acquistato dal Bologna. I due Igor giocano nella città emiliana per due stagioni, qualificandosi insieme per la Coppa Intertoto 1998/99 che viene vinta dai rossoblù.
Kolyvanov e compagni arrivano inaspettatamente alle semifinali di Coppa UEFA , mentre Shalimov, in Serie B a Napoli, viene trovato positivo al Nandrolone e (a soli trent’anni) decide di ritirarsi a seguito della lunga squalifica. Due anni più tardi Kolyvanov appende gli scarpini al chiodo a seguito dell’ennesimo problema fisico.
Oggi l’ex attaccante russo allena a Mosca: “Sto lavorando con i giovani, alleno la Torpedo Mosca (Serie C russa) e metto il cuore in quello che faccio”. Shalimov invece non nasconde le proprie ambizioni: “Un giorno vorrei allenare lo Spartak Mosca, perché è la mia squadra. Sono di Mosca, lì ho giocato da piccolo ed è l’unico club dove ho giocato in Russia. E poi…vorrei diventare l’allenatore del Foggia Calcio”.
Nella storia del calcio italiano anteguerra c’è uno Scudetto diviso: non parliamo del titolo del 1922, spartito tra Novese e Pro Vercelli a causa di una scissione federale. C’è un campionato mai terminato che ha assegnato uno Scudetto per il quale ufficialmente non esiste delibera. E’ tutto accaduto nel 1915, l’anno dello Scudetto Spezzato.
Nel maggio 1915 il calcio italiano si appresta a concludere l’ennesima stagione di un’epoca pionieristica. Le squadre del Nord a dominare, quelle del Centro-Sud a muovere i primi passi: la Federazione già da qualche anno ha stabilito come la squadra campione dell’Italia settentrionale, da tutti formalmente già considerata Campione d’Italia per manifesta superiorità, dovesse disputare una finalissima contro la squadra campione dell’Italia centro meridionale. Questo per dare più ampio respiro allo sviluppo a livello nazionale di uno sport come il football per il quale di intravedono enormi potenzialità e che non merita di restare confinato a livello locale.
Certo, la differenza tecnica tra Nord e Sud è enorme. La finale nazionale venne istituita nel 1913, e la regina del calcio centro-meridionale è senza dubbio la Lazio. Che perde però 6-0 la finalissima contro la Pro Vercelli nel 1913 e 7-1 in trasferta e 0-2 in casa la sfida di andata e ritorno contro il Casale nel 1914. Da Bologna in giù la Lazio è senza dubbio la squadra più forte. Marcello Consiglio e Fernando Saraceni sono giocatori moderni per l’epoca, e il coraggio di Angelo Zucchi e Augusto Faccani tiene la linea laziale sempre alta.
Ma contro i giganti del Nord si può fare poco: nel 1915 si giocano il titolo il Genoa già 6 volte Campione d’Italia, ma a secco dal 1904, l’Internazionale scudettata nel 1910 e il Torino che ha scalzato l’altra regina piemontese, la Pro Vercelli 5 volte titolata. Ma quello del 1915 è un campionato strano, perché venti di guerra spirano sempre più forti e il 24 maggio l’Italia entra a far parte del primo conflitto mondiale. Sottobraccio ai giovani il fucile si sostituisce al pallone e tra le squadre chiamate a dare un contributo più consistente alla Patria c’è proprio la Lazio, che in qualità di Polisportiva manda decine di atleti, non solo calcistici, al fronte.
Il campionato però viene sospeso e riprenderà solo nel 1920, quando tanti protagonisti saranno caduti o feriti al fronte. Il titolo non è stato assegnato: la Lazio è prima nel centro-sud, il Genoa al centro-nord ma con lo scontro diretto contro il Torino da giocare: in caso di vittoria, sarebbero stati i granata ad andare in finale. C’è anche una finale meridionale da giocare tra le due squadre di Napoli. Un caos e infatti il titolo non viene assegnato, come sarebbe logico pensare. E a questo punto però che la storia si fa davvero misteriosa.
La sospensione bellica del campionato avvenne il 22 maggio 1915. Il 23 maggio il girone Nord avrebbe dovuto disputare le sue partite decisive, Genoa-Torino e il derby Milan-Inter. Ma quella domenica l’Italia dichiarò guerra all’impero Austro-Ungarico. Nel frattempo, la Lazio vinse il girone dell’Italia centrale battendo il Roman, che l’aveva sopravanzata nella fase regionale precedente, mentre non venne omologata la sfida del campionato meridionale tra Naples e Internazionale di Napoli.
Il campionato restò fermo 4 anni: il Consiglio Federale tornò a riunirsi nel 1919 e e la Federazione decise di attribuire il titolo al Genoa, ignorando i diritti delle formazioni centro-meridionali, nella fattispecie della Lazio, perché considerate non competitive. Normale pensarla così all’epoca, il problema è che l’assegnazione ai rossoblu fu di fatto convenzionale e mai ufficiale. Mai è stata trovata delibera dell’assegnazione del titolo 1915, né testimonianze della proclamazione dello Scudetto da parte della rivista sociale del Genoa, che alcuni individuano nel settembre 1921, né di una cerimonia di premiazione che sarebbe avvenuta nello scorso anno.
Per quasi 95 anni, dal 1921 al 2015, la storia è stata accettata acriticamente così come è stata tramandata. Il 25 maggio del 2015, in occasione del centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, il settimanale romano Nuovo Corriere Laziale rilanciò la questione. L’avvocato capitolino Gian Luca Mignogna, tifoso laziale, riuscì a lanciare una petizione in pochi mesi: i tifosi laziali risposero in massa con 35.000 sottoscrizioni e soprattutto venne ribaltata buona parte della storiografia ufficiale dedicata allo Scudetto del 1915.
La petizione e la rivendicazione di Mignogna chiede l’assegnazione ex aequo del titolo al Genoa, i cui diritti sono a 100 anni di distanza intoccabili, e alla Lazio che di fatto, unica ad aver terminato il proprio girone interzona, restava l’unica certa finalista di quell’edizione del campionato. La richiesta arriva fino alla FIGC: sotto la presidenza Tavecchio si arriva addirittura alla nomina di una commissione di saggi che evidenzia come la Lazio debba essere considerata campione d’Italia, ricongiungendo lo Scudetto spezzato. La FIGC attraversa però una crisi istituzionale che porta all’attuale presidenza Gravina e all’imminente nomina di una nuova commissione.
Ma come è potuto accadere che semplicemente, per 100 anni, uno Scudetto fosse assegnato per “presunzione di superiorità”, senza che nessuno si facesse domande? Lo Scudetto 1915 è stato in realtà al centro di controversie sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale: come si legge sulla pagina Wikipedia dedicata al campionato di Prima Divisione 1914/15, la decisione sull’assegnazione restò congelata a causa dei reclami di Inter e Torino, poi non presi in considerazione. Inoltre la presunta cerimonia di premiazione genoana avrebbe avuto luogo l’11 dicembre del 1921, durante la fase di risoluzione dello scisma, allora in corso, tra la FIGC e la Confederazione Calcistica Italiana (CCI), della quale faceva parte lo stesso Genoa: molti dei neocampioni rossoblù, in primis il terzino Claudio Casanova, non seppero mai della loro vittoria perché scomparsi in guerra. I presunti conflitti di interessi intercorrenti fra Carlo Montù (alla guida della Federazione nel 1919), Luigi Bozino (presidente prima federale e poi confederale negli anni 1921-1922), e i dirigenti genoani Edoardo Pasteur (vicepresidente FIGC e CCI sotto Montù e Bozino) e George Davidson (capo della Federazione Ciclistica Italiana) gettarono, comunque, un’ombra sull’intera vicenda che a oltre 100 anni di distanza, per intervento della FIGC, potrebbe ora arrivare a una risoluzione con una assegnazione postuma del titolo ex aequo a Genoa e Lazio.
A guardarlo adesso, imbolsito e con lo sguardo sin troppo rilassato, viene quasi da non credere che sia stato una delle più astute e guizzanti mezze ali (una volta si diceva mediano di spinta, diciamo che oggi sarebbe un De Rossi un pizzico più offensivo) degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Eppure Nicola Berti ai tempi da giocatore ad un innato estro abbinava una cattiveria agonistica ed una concentrazione che gli hanno permesso di calcare i campi più prestigiosi del mondo, senza sosta, con tanto di due Mondiali disputati in maglia azzurra.
Nicola Berti che per anni è stato uno dei simboli dell'”ultimo scudetto dell’Inter”, quello del 1989 con Trapattoni in panchina, prima che 17 anni dopo Calciopoli cambiasse gerarchie del calcio italiano che parevano scolpite ormai nel marmo. Nicola Berti che si beve non tutta la difesa ma tutto il Bayern Monaco, nella sua interezza, in una memorabile notte di Coppa UEFA. Ed, essendo lui un contro-cliché, in quell’occasione non saranno le bizze del suo talento a sprecare il lavoro di squadra bensì sarà la squadra intera nel match di ritorno a sprecare le sue prodezze. Nicola Berti che ama la birra e la notte con le luci di una Milano da Bere anni ’80 che andavano via via spegnendosi e di cui lui era forse uno degli ultimi esempi concreti. Un calciatore però che riesce ad andare d’accordo in Nazionale anche con Sacchi, simbolo di un Milan odiatissimo in maglia nerazzurra e di un calcio totalmente diverso da quello giocato in quegli anni con l’Inter e con la nazionale di Vicini.
In un’intervista, di quei mondiali del 1994 immerso nell’integralismo sacchiano del 4-4-2, raccontò: “Si giocava negli Stati Uniti dove del calcio non fregava niente a nessuno. Oltretutto, si doveva scendere in campo in orari assurdi per le tv europee, con un caldo incredibile. Dopo ogni primo tempo c’erano 7-8 giocatori che chiedevano di non tornare in campo: pazzesco. Io giocavo fuori ruolo, sulla fascia, ma non me ne importava nulla: l’importante era esserci e mi sono divertito lo stesso.”
Non si impuntava per una posizione in campo, Berti, l’importante era divertirsi e lui la vita l’ha sempre presa con una certa filosofia, senza perdere la testa neanche quando l’Inter di Pellegrini andò a pescarlo nel 1988 nella Fiorentina. Era già una stella dell’Under 21 grazie ad una sua tripletta storica rifilata al Portogallo. Fu subito scudetto, sembrava un’era pronta ad iniziare, l’Inter dei tedeschi subito dopo il Milan degli olandesi ed invece la sua era la Milano da bere che appunto si stava spegnendo. L’altra, invece, quella del Berlusconismo che stava appena nascendo. Ed anche di giocatori come Berti iniziavano ad uscirne fuori sempre meno.
Perso lo scatto dei bei tempi non ci ha messo molto a tagliare la corda: a 31 anni si è tolto lo sfizio di una stagione al Tottenham, in Premier League, poi dieci anni ai Caraibi a godersi la vita prima di tornare in Italia per fare il punto sul nostro calcio e sull’Inter, sempre senza peli sulla lingua. Ma a sentire lui l’importante è sempre divertirsi e, più che il calcio, ora sono i viaggi la sua vera passione: “Il posto più bello che ho visto? Ne dico due: lo Yemen e il Kazakhstan. Al largo dello Yemen c’è un’isoletta, si chiama Socotra. È bella almeno come quelle dei Caraibi. Nessuno mi impedirà mai di viaggiare, continuerò a farlo e sempre di più.” Tanto la Milano dei suoi anni d’oro non c’è più da un pezzo.
Dici oggi: “LutherBlissett“. E magari questo nome non ricorda granché, o magari proprio nulla. Ma ancor più strano, potrebbe essere qualcosa che riporta alla mente di persone diverse cose completamente differenti.
Resta il fatto che un retrogusto di “sentito dire” nella mente comincia a farsi insistente. Nomi che suggeriscono qualcosa ma non si sa bene cosa. Se si è appassionati di calcio anni ’80 il mistero è meno fitto. Se poi si è tifosi del Milan è difficile non ricollegare il nome di Blissett al soprannome di “Calloni Nero“. Si tratta infatti di uno degli ultimi disgraziati acquisti dell’era del presidente Giussy Farina. Blissett fu di fatto il primo giamaicano a giocare nel campionato italiano nonché capocannoniere della Premier League (allora ancora First Division) 1982/83 con la maglia del Watford. Squadra, quest’ultima, della periferia londinese salita per la prima
volta alla ribalta delle cronache grazie alla passione sfrenata di Elton John per il club, del quale la rockstar diverrà proprietario.
Non che i tifosi abituati a bazzicare Vicarage Road, lo stadio del Watford, amassero esageratamente Blissett. Tanto da battezzarlo “miss it“, ovvero sbagliato, giocando sull’assonanza col cognome e facendo il verso alle volte in cui, con queste parole, i cronisti
locali dovevano terminare il racconto di un’azione da gol passata tra i suoi piedi. “Miss it” vive però la sua stagione d’oro viaggiando quasi alla media di un gol a partita e realizzando anche, contro il Lussemburgo, una tripletta con la nazionale inglese nella quale gioca da naturalizzato. Un unicum in una carriera che non vivrà più exploit in nazionale. Il Milan neopromosso in Serie A ma desideroso di tornare in fretta nell’élite del calcio nazionale decide di portare dunque Blissett a giocare nel Bel Paese.
L’impatto è tragicomico: i gol falliti da Blissett fanno impressione non solo per quantità ma soprattutto per qualità. Alcuni appoggi mancati da una distanza inferiore ai due metri restano ai confini della realtà e fanno disperare Farina tanto quanto le due recenti retrocessioni. In un derby contro l’Inter supererà sé stesso ma gli errori si sprecano per tutta la stagione. Tornerà al Watford e vestendone la maglia realizzerà comunque 149 reti in carriera. In Italia lascerà comunque un segno profondo quanto inspiegabile nell’immaginario collettivo.
Ed è qui che la storia si fa intrigante: forse è stato l’essere il primo calciatore giamaicano di successo, sull’onda emotiva della scomparsa di BobMarley, ad aver attirato l’attenzione dei non appassionati di calcio e degli amanti delle culture alternative musicali e non solo. Resta il fatto che a metà degli anni ’90 a Bologna nasce il “collettivo Luther Blissett“, espressione italiana di un movimento internazionale di controcultura letteraria ed artistica. Wikipedia lo definisce “uno pseudonimo collettivo utilizzato da un numero imprecisato di performer, artisti, riviste underground, operatori del virtuale e collettivi di squatter americani ed europei. (…) Il personaggio collettivo, definito da alcuni “un’opera aperta“, è stato spesso utilizzato per denunciare la superficialità e la malafede del sistema mass-mediatico. Azioni, sabotaggi, performance, manifestazioni, pubblicazioni, video, trasmissioni radiofoniche di e su Luther Blissett hanno diffuso il suo nome in tutto il mondo.”
Viene anche realizzato un volto “virtuale”, un’immagine di una persona in realtà inesistente che compare sulla quarta di copertina dei libri firmati Luther Blissett e sui manifesti delle iniziative legate allo pseudonimo. Col tempo l’immagine dell’alter ego viene col tempo associata al nome con maggior immediatezza rispetto a quella del calciatore. Così Blissett diventa uno, nessuno e centomila tra libri che portano il suo nome, musica, arte varia e intrattenimento. L’originale, per la cronaca, ora a 50 anni suonati sfreccia sulle piste di mezzo mondo con la sua scuderia automobilistica, la Team48 Motorsport. Ma cosa ci abbiano visto in lui, a livello di figura ispiratrice, i trendsetters della cultura underground a livello globale resterà per sempre un mistero.