Categories
Club Jean Philippe Zito

Venezia 1999: Maniero, Recoba e una rimonta per la storia

di Jean Philippe ZITO

Arrivai al Venezia dal Milan nell’estate del 1998; la squadra era appena risalita dalla B e in città c’era un entusiasmo incredibile. La rosa poi era davvero di livello. In porta Taibi, in difesa Luppi, Pavan, Carnasciali e Dal Canto, a centrocampo Pedone e Beppe Iachini, davanti insieme a me c’era un bomber, Stefan Schwoch, 17 reti in B. Sulla carta ci potevamo salvare tranquillamente, ma l’avvio fu tutt’altro che facile. Una vittoria nelle prime dodici giornate e l’esonero di Walter Novellino a un passo. Il presidente Zamparini parlò con noi e ci chiese se volessimo proseguire con il mister. Noi rispondemmo compatti di sì e alla fine abbiamo fatto bene”.

Filippo “Pippo” Maniero ci racconta come quel Venezia, raggiunta la storica promozione in serie A, abbia la possibilità di raggiungere una salvezza tranquilla grazie agli sforzi profusi dal patron Maurzio Zamparini, alle capacità indiscusse di un rampante Direttore Generale di nome Giuseppe Marotta e al grandissimo motivatore seduto in panchina, Walter Novellino.

Come già detto, l’inizio della Serie A 1998/99 per il Venezia non è stato facile: l’esordio è a Bari contro l’undici allenati di mister Fascetti. Ai galletti pugliesi basta un gol del giovane Gianluca Zambrotta al decimo minuto per far registrare la prima sconfitta veneziana.

La settimana successiva si gioca al Penzo (ubicato sull’isola di Sant’Elena è il secondo impianto più antico d’Italia dedicato al Calcio n.d.r.), di fronte c’è il Parma di Malesani che vede tra le sue fila giocatori del calibro di Buffon, Thuram, Cannavaro, Veron, Fuser, Aspilla…La partita finisce 0 a 0 e così arriva il primo punto in classifica.

Seguono tre sconfitte consecutive contro la Roma all’Olimpico per 2 a 0 con doppietta di Marco Delvecchio, con il Milan al Penzo per 2 a 0 (tra le polemiche per un presunto gol in fuorigioco di Leonardio) e al Renato Curi contro il Perugia per 1 a 0. Non manca il gioco, rigorosamente a zona con pressing e contropiede, ma mancano clamorosamente i gol. Nelle prime 5 giornate di campionato il Venezia ne ha segnato solamente 1. Sotto accusa ci sono sia Pippo Maniero che il bomber della promozione, Stefan Schwoch.

I neroverdi-arancioni alla sesta giornata muovono la classifica e salgono a due punti, grazie al pareggio in trasferta contro l’Udinese per 1 a 1, ottenuto grazie al primo gol di Schwoch. Secondo gol segnato, settimo subito; i numeri restano comunque impietosi. Nei due turni seguenti due sconfitte dolorose: la prima in casa contro il Bologna per 2 a 0, maturata nell’ultimo quarto d’ora. La seconda al Franchi contro la Fiorentina di Trapattoni, che rifila un sonoro 4 a 1 (per il Venezia Schwoch su rigore).

A metà del girone d’andata la panchina di Novellino è già in discussione, serve una scossa e serve subito. Eccoci quindi giunti alla nona giornata, al Penzo arriva la corazzata Lazio. L’umore in Laguna è basso, ma il battagliero mister veneziano vuole vedere “coraggio e orgoglio” contro i biancocelesti romani, anche se sprovvisti dell’attacco titolare.

Esordisce dal 1° minuto un attaccante brasiliano fino a quel momento sconosciuto ai più, Tuta, al fianco di Valtolina. Il 15 novembre del 1998 (esattamente 21 anni fa) accade l’inaspettato. I padroni di casa sono aggressivi fin dall’inizio e mettono alle corde la retroguardia laziale (rimaneggiata, con Negro e Couto centrali per la prima volta insieme), che subisce immediatamente il gol proprio di Bastos Tuta e, verso la fine del primo tempo, il raddoppio di Pedone. Nel secondo tempo la musica non cambia, ed è più volte il Venezia che ha l’occasione di arrotondare ancor di più il risultato. 2 a 0 contro la favorita per lo Scudetto, prima vittoria e partita che sembrerebbe della svolta.

Invece, la decima giornata, vede la sconfitta del Venezia per 1 a 0 fuori casa contro la Salernitana. L’undicesima sancisce il primo dei tre 0 a 0 nelle ultime quattro giornate che precedono la sosta invernale. Pareggio interno contro la Sampdoria, vittoria esterna a Cagliari per 1 a 0 (grazie ad un autogol) e successivi due match a reti inviolate: prima in casa contro il Piacenza, poi a Vicenza nel derby veneto. L’emergenza è la fase realizzativa. La difesa va bene, la manovra scorre fluida, ma il rendimento in avanti è insufficiente, soprattutto di Pippo Maniero che non è riuscito a segnare neanche un gol.

Nel mercato invernale l’intuizione di Marotta e Zamparini si chiama Alvaro Recoba. Relegato nel dimenticatoio in casa interista, il talento uruguaiano ha bisogno di giocare.

A Venezia era come se fosse arrivato Maradona. E a lui il fatto di essere visto come il più bravo non dispiaceva affatto”.

L’arrivo di “El Chino” ha giovato anche a Pippo Maniero. La prima gara dopo la sosta si gioca a Venezia contro l’Empoli il 6 gennaio 1999: “Perdevamo due a zero alla fine del primo tempo ed eravamo sotto di un uomo per l’espulsione di Bilica. Nella ripresa segnò Valtolina e poi due mie reti, entrambe su pennellate del Chino”. Il secondo di tacco al volo. “Mi arrivò il cross ed ero girato. Potevo colpirla solo in quella maniera e mi andò bene. Se ci riprovo 100 volte mica mi viene…”. Finale di partita 3 a 2, vittoria importante e prestazione maiuscola di Recoba. Venezia tutta è innamorata del fantasista tutto mancino.

È l’inizio di un nuovo campionato per il Venezia di Novellino che fa vedere un bel calcio, finalmente finalizzato dal tandem Recoba-Maniero (Schwoch nel frattempo è stato ceduto al Napoli). Dopo la vittoria in rimonta con l’Empoli, una sonora sconfitta al San Siro per 6 a 2 contro l’Inter non modifica il corso degli eventi. All’ultima giornata del girone di andata il Venezia pareggia 1 a 1 contro la Juventus.

Il cambio di marcia definitivo avviene tra la diciottesima e la ventesima giornata. 7 punti in tre partite grazie alla vittoria casalinga per 2 a 1 contro il Bari, a segno un Maniero ritrovato e Tuta (discussa e controversa la reazione alla sua marcatura). Poi il pareggio esterno a Parma per 2 a 2 (sempre Maniero, doppietta) e la vittoria casalinga (il giorno di Carnevale) contro la Roma di Zeman per 3 a 1 con il primo gol di Recoba al Penzo.

Dopo la sconfitta contro il Milan a San Siro per 2 a 1 alla ventunesima giornata, due vittorie casalinghe consecutive. La prima contro il Perugia per 2 a 1 (Recoba-Maniero), la seconda per 1 a 0 contro l’Udinese(Recoba). Al turno numero 24 il Venezia perde a Bologna 2 a 1, ma alla venticinquesima si gioca a Venezia contro la Fiorentina lanciatissima in zona Champion’s League.

Un match che è entrato di diritto nella storia del club veneto. Al 18° minuto punizione dai 25 metri. “El Chino” spedisce la palla sotto al sette, con un incolpevole Toldo fermo a guardare. Al 42° calcio d’angolo dalla sinistra battuto da Recoba, Miceli stacca di testa, e con un’incredibile carambola, segna il secondo gol. In pieno recupero, altra punizione dai venti metri, spostata sulla destra. Nuovamente Recoba sul punto di battuta, che con un altro tiro a giro beffa Toldo. Fine primo tempo 3 a 0 per il Venezia e gara da incorniciare per il talento uruguaiano. A due minuti dalla fine dell’incontro Esposito realizza su calcio di rigore il gol della bandiera per i Viola. Il 4 a 1 finale lo segna ancora Recoba con un gol di rara bellezza. Stoppando la palla sulla linea di fondo beffa in dribbling Falcone, poi con la suola dribbla Toldo e a porta libera segna di destro. Standing ovation finale e salvezza ad un passo.

Nelle seguenti 6 partite di campionato il Venezia rallenta l’altissima media punti del girone di ritorno con 3 sconfitte (Lazio, Sampdoria e Vicenza), un pareggio e 2 vittorie con il Cagliari in casa per 1 a 0 (Recoba) e il Piacenza fuori (1 a 0, Maniero). Alla giornata numero 32 ad Empoli il Venezia pareggia 2 a 2 (doppietta de “El Chino”), ma la partita salvezza si gioca in casa contro l’Inter alla trentatreesima.

È il 16 maggio 1999, penultima giornata di campionato, e con una vittoria il Venezia sarebbe matematicamente salvo. Dopo 1 minuto la squadra di casa è già in vantaggio con un eurogol di Volpi. Dopo soli 3 minuti punizione dal limite, “El Chino” è implacabile: 2 a 0.

Al minuto numero 18 il 3 a 0, gol di Maniero di testa. Una partita incredibile, giocata con un furore sportivo emozionante. Il “Fenomeno” Ronaldo segna nella ripresa il gol della bandiera su rigore. 3 a 1 finale e grande festa per una salvezza insperata, ottenuta dopo un avvio disastroso di campionato.

Come una fenice quella squadra, da Gennaio del 1999 fino a fine stagione, ha incantato soprattutto grazie all’arrivo di Recoba. “Eravamo davvero un grande gruppo si stava uniti in campo e anche fuori. E se chiedete a un tifoso del Venezia che squadra ricordano con più piacere, vi parlerà quasi sicuramente di noi…”. Pippo Maniero ricorda con affetto quella squadra che come una fenice è rinata, riuscendo a compiere l’impossibile.

L’augurio di chi scrive è che Venezia città, vent’anni dopo, possa risorgere dopo essere stata sommersa dall’acqua alta a causa del cattivo tempo.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Cuauhtémoc Blanco, “l’Aquila in picchiata” divenuto Governatore

di Jean Philippe ZITO

Cuauhtémoc Blanco è uno dei personaggi più celebri e amati del calcio messicano. L’apice delle sue gesta calcistiche è coinciso con il boom della telenovela, un fenomeno che ha avuto un ruolo di notevole importanza nel plasmare l’identità nazionale messicana, toccando argomenti come l’amore, la famiglia e la politica. La storia della vita di Blanco si legge come una sceneggiatura, come presa direttamente da una telenovela. Gli ingredienti ci sono tutti: la povertà, gli alti e bassi associati alla carriera professionistica, la violenza, la politica e la corruzione.

Cuauhtémoc Blanco Bravo è nato nel gennaio 1973 appena fuori Città del Messico, una delle più grandi città del mondo, l’ex sito di Tenochtitlan, la capitale dell’Impero Azteco. È interessante notare che il nome completo di Blanco ingloba il moderno Messico sposando il passato indigeno con la colonizzazione europea. Il cognome Blanco, che significa letteralmente ‘bianco’ in spagnolo, si ipotizza abbia origine nella penisola iberica. Il suo nome è un omaggio all’ultimo imperatore azteco, che alla fine fu giustiziato per mano del conquistatore Hernán Cortés. Il nome Cuauhtémoc dovrebbe significare “aquila in picchiata”: aggressiva e determinata, tratti che il calciatore avrebbe poi mostrato per tutta la sua carriera calcistica e nella vita privata.

In tenera età, Blanco si trasferì dal quartiere povero, popoloso e spesso violento di Tepito, (ironicamente) al quartiere Cuauhtémoc di Città del Messico. Dopo essere cresciuto tra i ranghi giovanili del Club América, la squadra di maggior successo nella storia del calcio messicano, Blanco ha esordito nel calcio professionistico, in Primera División, all’età di 19 anni. Come per la maggior parte dei giovani giocatori, lo spazio a disposizione per potersi esprimere era limitato; così per i primi due anni di militanza all’Estadio AztecaCuauhtémoc ha racimolato meno di dieci presenze complessive. Invece nei successivi tre anni, Blanco ne ha collezionato quasi 100 con all’attivo 15 gol.

Nel 1997 viene ceduto in prestito al Necaxa, sempre in Primera División. Dopo solamente una stagione (28 presenze,13 gol)torna al Club América, dove in due stagioni (98/99 e 99/2000) totalizza 67 presenze realizzando 51 gol.

Successivamente il Real Valladolid lo porta in Spagna a giocare nella Liga. Nelle due stagioni passate nel nord della Spagna non trova tanto spazio; in 23 partite disputate segna per 3 volte. Celebre la marcatura direttamente su calcio di punizione nel 2 a 2 finale contro i ‘los Galacticos Merengue‘ del Real Madrid di Raul, Roberto Carlos. Casillas, Figo, Zidane e Ronaldo…

Torna così in Messico, di nuovo al Club América, dove trascorre altre due stagioni e in 74 presenze realizza 31 gol. Dopo una parentesi al Veracruz nel 2004, ritorna al Club América. Ad aprile 2007 è stato ceduto ai Chicago Fire in Major League, inizia la sua avventura negli Stati Uniti, dove risiedono moltissimi messicani.

Quando la gente lo vedeva diventavano pazzi, era quasi come se fossero pronti a svenire!” ha ricordato l’ex giocatore e allenatore Frank Klopas in una conversazione con MLSsoccer.com.

È stato un interessante contrasto” con l’arrivo di David Beckham in MLS, ha dichiarato Nick Firchau, collaboratore del Daily Southtown e l’Evening Tribune. “Blanco è arrivato negli USA ed è stato subito più efficace come giocatore, ma ha anche avuto una risonanza importante con i fans. Non era una superstar agli occhi di tutti, ma era una superstar della comunità messicana e messicana-americana a Chicago”.

Ce n’erano a migliaia, migliaia! Fans messicani di fronte all’hotel tentavano di scorgere la silhouette di Cuauhtemoc”, ha dichiarato Jon Busch, portiere dei Chicago Fire“Una volta siamo dovuti sgattaiolare dalla porta sul retro, attraverso la cucina, e l’abbiamo messo nel bagagliaio di un’auto per portarlo fuori dall’hotel quella notte e incontrarci all’aeroporto il giorno successivo. Non avevamo idea di dove fosse alloggiato per la notte, ma ci siamo presentati all’aeroporto e 20 minuti dopo si è presentato all’aeroporto”. I messicani negli States erano in delirio per il loro beniamino.

Nel gennaio 2008 è stato vicino al passaggio a titolo definitivo al Catania, consigliato dall’osservatore Maglione direttamente al presidente Pulvirenti. L’operazione saltò a causa delle rigide regole della FA in merito ai trasferimenti degli extracomunitari. Scaduto il suo contratto con i Chicago Fire, Blanco ha firmato con i messicani del Veracruz.

Nell’estate del 2010 si trasferisce al Club Deportivo Irapuato ed in seguito ai Dorados.

Il 20 dicembre 2012 firma un’estensione di contratto per sei mesi sempre con i Dorados. Nel 2014, all’età di 41 anni, si trasferisce al Puebla, dove sceglie la maglia numero 10.

Il 13 settembre 2014 mette a segno il suo primo gol con la nuova squadra contro il Querétaro, siglando il gol del definitivo 1-1 nei minuti finali su calcio di rigore.

Il 21 aprile 2015, gioca la sua ultima partita nella finale di coppa del Messico, vinta 4 a 2 dalla sua squadra e si ritira così dal calcio giocato all’età di 42 anni, dopo 23 anni di carriera e oltre 800 partite giocate.

Durante la sua carriera, uno dei più grandi onori di Blanco è stato rappresentare la squadra nazionale del Messico. “Per me, rappresentare il mio paese è una fonte di orgoglio”, ha detto una volta. “E quando suonano l’inno nazionale, il mio cuore esplode, voglio piangere”. Nel corso della sua carriera con la nazionale, Blanco ha segnato 39 golin 120 presenze, apparendo in tre Coppe del Mondo, tra cui nel 2010 in Sudafrica all’età di 37 anni. Con 71 rigori realizzati su 73 è uno dei migliori rigoristi della storia del calcio mondiale.

Dopo aver smesso di giocare a calcio, Cuauhtémoc decide di dedicarsi alla politica sfruttando la popolarità di cui gode. Nel giorno di Capodanno 2016Blanco ha assunto la carica di sindaco di Cuernavaca. Essere il sindaco nella più grande città dello stato di Morelos, devastato dalla violenza legata alla droga, non è privo di problemi e la corsa di Blanco è stata tutt’altro che fluida.

Nel dicembre 2016, a meno di un anno dal suo mandato, Blanco ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le accuse mosse contro di lui. La sua partecipazione alle riunioni del municipio è stata messa in dubbio, così come la sua capacità di svolgere adeguatamente il ruolo di sindaco. È stato criticato per non essere un residente locale, un problema comune nella politica della personalità e per accettare donazioni illegali. Lo sciopero della fame si è concluso quando le accuse contro di lui sono state respinte. Dal 1° ottobre 2018 è governatore dello stato messicano di Morelos.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Yasmani Lopez e la diserzione sportiva a Cuba

di Jean Philippe ZITO

Yasmani López, ha 31 anni, ha giocato come mediano nel Ciego de Avila, club dell’omonima città a est da L’Avana, fino alla fine dello scorso campionato.

In Nazionale cubana, dopo l’esordio nella Concacaf Gold Cup (torneo che si disputa tra le nazionali sudamericane che non partecipano alla più famosa Copa America) dello scorso giugno a Pasadena in California contro il Messico, spiegava che lui e i suoi compagni erano scesi in campo per dare tutto quello che avevano “mettendoci il cuore”. La gara, per inciso, è finita 7-0 per il Messico e López, dopo la fine del match, ha fatto perdere le proprie tracce.

Lópezoriginario della città di Morón, provincia di Ciego de Ávila, ha debuttato con la selezione di Cuba nella Gold Cup del 2013 in una partita contro il Belize e da allora è stato sempre convocato in nazionale maggiore.

È una sua decisione, l’ha presa in tutta coscienza e messa in pratica. Nessuno della delegazione di Cuba ha niente a che fare con la sua scelta”. Ha spiegato in conferenza stampa l’allenatore della nazionale cubana Raul Mederos.

La fuga di López fa parte di una sorta di consuetudine che trasforma i tornei di Concacaf come il miglior sistema per i giocatori delle Antille per fuggire dall’isola e rimanere negli Stati Uniti, dove richiedono immediatamente asilo politico.

Un fenomeno, quello della diserzione sportiva, che a Cuba ha una lunghissima tradizione: nel luglio 2005Yaykel Pérez e Maykel Galindo lo hanno fatto nella Gold Cup di SeattleGalindo è poi passato a giocare nella MLS con i Chivas di Los Angeles.

Nel giugno 2007Osvaldo Alonso e Lester Moré partecipano alla Gold Cup di Houston. Dopo aver disertato, Alonso è diventato il miglior giocatore cubano all’estero e uno dei calciatori più rappresentativi dei Seattle Sounders.

Nel 2008, l’avventura dei ‘Leoni dei Caraibi’ è finita anche peggio: ad abbandonare, sette calciatori: José Manuel MirandaErlys GarcíaYenier BermúdezYordany ÁlvarezLoanni CartayaYendry Díaz Perez ed Eder Roldán, insieme all’allenatore Dagoberto Lara durante le qualificazione per il torneo olimpico di Tampa in Florida. Contro PanamaCuba ha giocato senza riserve in panchina: in ritiro era rimasta solo una dozzina di calciatori, di cui uno squalificato.

“Ci stavo già pensando da diversi mesi. Ma poiché le cose andavano bene nella delegazione cubana, ho approfittato del momento giusto per andarmene. Gli amici mi hanno offerto la possibilità di rimanere qui (negli USA n.d.r.) e ho accettato. Sono un uomo libero”. Yendry Díaz Perez ha lasciato la sua famiglia a Cuba e porta con sé un rimpianto solo: “La squadra sognava di qualificarsi per le Olimpiadi…“.

Il direttore della Federazione cubana di calcio, Antonio Garces, ha parlato di “un atto traditore e irresponsabile”. Diaz si è difeso, dicendo: “dato che cinque giocatori avevano deciso di andarsene, non c’era nient’altro che potessi fare…”. 

Adesso vive a Tampa, sulla costa occidentale della Florida, lo stato con la popolazione cubana più significativa negli Stati Uniti. “Ho molti amici qui che mi apprezzano. Ed è anche qui che vive la mia ragazza “, aggiungendo che, “non c’è niente al mondo che possa farmi tornare a Cuba

Sempre nel 2008Reinier Alcantara e Pedro Faife sono fuggiti prima di una partita di qualificazione per i Mondiali del 2010 in Sudafrica contro gli Stati Uniti a Washington.

Nel giugno 2011Yosniel Mesa scappa dalla Gold Cup di Charlotte nella Corolina del Nord. Nel gennaio 2012, i membri della squadra femminile Yisel Rodríguez e Yizenia Gallardo hanno richiesto asilo negli Stati Uniti al torneo Concacaf di Vancouver.

Nel marzo 2012,Yosmel de Armas lascia l’Under 23 nella Concacaf nel Tennessee. Nell’ottobre 2012 Reysander FernándezEviel CordovezMaikel Chang e Odisdel Cooper lasciano la squadra prima di una partita di qualificazione per i Mondiali 2014 contro il Canada a Toronto. Molti sono riusciti nel calcio. Altri no, ma la verità è che l’emorragia continua…

Non poter più giocare in Nazionale è la cosa peggiore. È un passo difficile, i dubbi sono tanti, soprattutto se non hai famiglia negli Stati Uniti. Però ne vale la pena, anche perché il livello del calcio cubano non ti consente di crescere”.

Ariel Martinez è fuggito dal ritiro nella Gold Cup del 2015 e oggi è un attaccante felice del Miami FcUna fuga in grande stile, quella di Martínez, assieme a Keiler GarcíaArael Argüellez Darío Suárez, che dopo la gara contro gli Stati Uniti (persa per 6 a 0) hanno fatto i bagagli, salutando la comitiva: a Cuba, dei 23 giocatori partiti per il torneo, tornarono in 19.

Yasmani López ha indossato la fascia da capitano nella prima partita del torneo Concacaf 2019, come detto, nella sonora sconfitta contro la nazionale messicana. Ora la squadra nazionale cubana (una delle più scarse della sua storia), dovrà trovare un altro capitano dopo che Yasmani si è unito alla lunga lista di giocatori di calcio che sono rimasti negli Stati Uniti.

Per tanti calciatori che vogliono lasciare Cuba, ci sono altri atleti che rifiutano contratti milionari per rimanere in patria. Dal calcio, al baseball, due nomi su tutti: Roberto Hernandez e Omar Linares. Il primo nell’ottobre 2018 a soli 17 anni ha rifiutato un contratto a sei zeri nella MLB americana. Trasferitosi negli Stati Uniti a soli 15 anni, ha fatto ritornoa Cuba entro i 24 mesi, passati i quali sarebbe risultato ufficialmente emigrato. “Sono tornato a casa, mi sono tolto le scarpe e sono andato a piedi nudi a salutare tutti, con le lacrime agli occhi perché era qualcosa di incredibile”.

Omar Linares, invece, rifiutò il trasferimento ai mitici New York Yankees per rimanere fedele alla dittatura comunista di Fidel Castro. Celebre la sua affermazione“Preferisco giocare per 10 milioni di cubani che per 10 milioni di dollari”.

Linares assieme a Rodolfo Puente e Higinio Velez hanno annunciato nel dicembre 2018 un accordo tra la federazione cubana e quella americana. Sarà consentito ai giocatori cubani il trasferimento nelle squadre della MLB a patto che abbiano raggiunto i 25 anni, di cui 6 con esperienza nella Serie Nacional, il massimo campionato dell’isola. Cuba darà una liberatoria e riceverà un indennizzo.

È un passo avanti molto importante, i giocatori cubani dovranno sentirsi molto contenti e non dovranno scappare col rischio di annegare in una barca” ha dichiarato Linares: “Questo accordo aiuterà il nostro sport valorizzando i più giovani ed elevando il livello del nostro baseball. Nostalgia?La nostra fu un’altra epoca, ogni cosa ha il suo tempo, se tutto questo è stato possibile nel 2018 spero che sia un bene per tutti”.

A questo punto è auspicabile un accordo anche tra le federazioni calcistiche dei rispettivi Paesi, così da poter soddisfare un’esigenza che alle porte del 2020 si può più respingere.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Tanju Colak: Fuga di Mezzanotte dagli anni Ottanta

di Jean Philippe ZITO

Conoscerà la galera, Tanju Çolak. La galera turca. Un incubo che a ovest di Istanbul è stato creato da ‘Fuga di mezzanotte‘. Un film che ha fatto rabbrividire i garantisti di mezzo mondo. Con quella pellicola si è creato un mito negativo, come se non esistessero altrove prigioni più disumane di quelle turche. Ma il mito ha funzionato. E adesso immagineremo Tanju Çolak, un tempo grande campione del calcio turco, alle prese con un secondino un po’ sadico, in una cella umida, maleodorante e battuta dal sole. Se di droga si tratta in ‘Fuga di mezzanotte’, la storia vera di Çolak parte dall’acquisto di una Mercedes rubata. Un reato punito molto severamente in Turchia. E ancora, a differenza del film, l’arresto non avviene all’aeroporto di Istanbul, ma dopo una ancora più drammatica fuga in Macedonia, alla ricerca di una libertà che i giudici di Skopje non gli hanno accordato”. È il quotidiano la Repubblica che descrive, in un dettagliato articolo dell’Agosto 1994, l’arresto dell’attaccante con la media realizzativa più alta del calcio turco. Dopo essersi costruito una carriera invidiabile, battendo record e conquistando titoli, vive l’inferno della carcerazione.

Tanju Çolak nasce il 10 Novembre del 1963 a Samsun, una città della Turchia settentrionale che si affaccia sul Mar Nero. Inizia a giocare a pallone in strada con i suoi amici d’infanzia, per poi entrare nelle giovanili del Samsun Yolspor nel 1973 a 10 anni.

Dopo 8 anni, nei quali compie tutta la trafila delle squadre juniores, è pronto per il grande salto. Nel 1981, a diciotto anni compiuti, viene acquistato dalla squadra più importante della città, il Samsunspor.

Ottiene subito il posto da titolare nella stagione 1981/82, che vede il Samsunspor impegnato nella seconda serie turca, la Türkiye 2 Futbol Ligi. Al primo anno da professionista Tanju è subito il miglior marcatore della propria squadra con 12 reti, che sono fondamentali per la promozione nella massima serie turca: la Türkiye 1.Lig.

L’anno successivo i suoi 16 gol (nuovamente miglior marcatore del Samsunspor) lo vedono a fine anno dietro solamente al Capocannoniere del Fenerbahçe (Campione di Turchia), Selçuk Yula. Purtroppo la sua innata capacità realizzativa non impedisce al Samsunspor di retrocedere nella serie cadetta.

Nel 1983/84 riesce a mettere a segno 12 gol, ma il risultato del Samsunspor è deludente: terzo posto in classifica e mancata promozione. Quest’ultima arriva grazie alla stagione 84/85, nella quale Çolak è il miglior marcatore della categoria con ben 25 gol all’attivo. Il 4 Aprile 1984 esordisce anche in Nazionale: si gioca un’amichevole ad Istanbul tra la Turchia e l’Ungheria che però vede i padroni di casa soccombere per 6 a 0.

Tornato nella Türkiye 1.Lig, la stagione 85/86 è ricca di soddisfazioni sia personali che di club. Tanju riesce a mettere a segno la bellezza di 33 reti in campionato, trascinando letteralmente il Samsunspor al terzo posto in classifica. A 23 anni è uno degli attaccanti migliori del calcio turco, fra i più corteggiati dai grandi club nazionali e internazionali anche grazie al terzo posto conquistato alla Scarpa d’oro 1986 (vinta dal “cigno di Utrecht” Marco Van Basten).

L’exploit si ripete in maniera pressoché identica l’anno dopo; Samsunspor nuovamente (e clamorosamente) terzo in classifica e Tanju per la seconda volta di seguito capocannoniere in Türkiye 1.Lig (25 gol). Çolak adesso è pronto per una nuova avventura: il Galatasaray lo porta a giocare nella Capitale.

La stagione 1987/88 è memorabile per Tanju. Arriva ad Istanbul in una grande squadra come il Galatasaray, che gli assicura uno stipendio top per i club turchi. Inizia a segnare a ripetizione dalla seconda giornata. Infatti, il 29 Agosto 1987, nel 3 a 1 del Galatasaray contro il Sakaryaspor mette a segno una doppietta, il secondo gol è magistrale. Dopo una sponda di testa di un compagno, Tanju stoppa la palla di petto se la alza e grazie ad una rovesciata perfetta insacca. Non smette più di segnare (addirittura 8 doppiette…). A fine stagione porta al trionfo in campionato il Cimbom, realizzando la cifra record di 39 gol, laureandosi così per la terza volta consecutiva capocannoniere. È entrato nella storia del calcio turco, è il calciatore che ha segnato più gol in una stagione e, al fotofinish, supera John Eriksen del Servette. Çolak è la Scarpa d’oro 1988, conquista così il massimo riconoscimento europeo per un bomber: a 25 anni è all’apice della sua carriera. Il 5 Giugno nella finale contro il Sakaryaspor vinta per 2 a 0, conquista la Supercoppa Turca (Turkcell Süper Kupa), il suo secondo trofeo di questa incredibile stagione.

Nel 1988/89 il Galatasaray gioca la Coppa dei Campioni, Tanju è alla sua prima esperienza in una competizione europea. Esordisce il 5 Ottobre del 1988 nella partita vinta dal Galatasaray contro il Rapid Vienna; apre le marcature al 52° minuto, 2 a 0 il risultato finale che consente alla squadra di Istanbul di accedere agli Ottavi di finale.

Tanju e compagni se la devono vedere contro il Neuchâtel Xamax. Il 26 Ottobre si gioca in Svizzera davanti ad uno Stade de la Maladière al gran completo, con tantissimi tifosi turchi presenti. La partita è avvincente, occasioni per entrambe le squadre, ma alla fine a spuntarla con un roboante 3 a 0 sono gli svizzeri, convinti di avere un piede e mezzo nei quarti. Ma se la devono vedere con Çolak…il 9 Novembre il ritorno si gioca ad Istanbul davanti a 35.000 spettatori, lo stadio Ali Sami Yen è una bolgia. Tanju è determinato, spietato davanti alla porta. Segna una tripletta nel 5 a 0 finale!

Inaspettatamente il Galatasaray giunge ai quarti di finale, dove se la deve vedere con il Monaco del giovane talento liberiano George Weah. La partita d’andata si gioca nel Principato il 1° Marzo 1989 (anche in questo caso lo stadio è pieno di tifosi turchi), il Galatasaray si impone per 1 a 0, gol di Tanju. Il ritorno, giocato al Müngersdorfer Stadion di Colonia, vede 70.000 tifosi del Galatasaray gremire le tribune. La possibilità di arrivare alle semifinali di Coppa Campioni è storica. Tanju e co., con il pareggio per 1 a 1, riescono nell’impensabile impresa.

Il 5 Aprile 1989 si gioca la semifinale d’andata contro lo Steaua Bucarest in Romania. Il risultato è impietoso: il tabellino recita 4 a 0 per la squadra di Gheorghe Hagi. Tanju, diffidato, si fa ammonire al minuto 71. Costretto a saltare il ritorno (1 a 1), abbandona insieme al Galatasaray il sogno di arrivare in finale.

Il bilancio stagionale per Çolak è comunque positivo sul campo, un po’ tribolato per quanto concerne la vita privata: “Non è certo la prima volta – e non sarà nemmeno l’ultima – che un calciatore scappa con una donna, ma in Turchia non era mai successo. I tifosi sono in subbuglio, i giornali sparano grandi titoli in prima pagina. Anche perché il calciatore in questione, Tanju Çolak, è il più famoso della Turchia. Lo scorso anno l’attaccante è arrivato in semifinale di Coppa Campioni con il suo club di Istanbul: per scongiurare fughe all’estero, la sua società gli ha accordato quest’anno un contratto principesco, un miliardo per due anni, record per la Turchia. Ma da allora sono iniziate le disgrazie: Çolak si è dapprima infortunato (e così il Galatasaray è eliminato dalla Coppa Uefa al primo turno), poi si è invaghito di Hlya Avsar, famosa artista turca. E così, con la scusa di una visita specialistica a Monaco, l’attaccante è scappato in Germania in compagnia della bella Hlya, lasciando in lacrime ad Istanbul la moglie Aysu e il figlioletto Anil di 3 anni. Il Galatasaray ha messo subito fuori rosa Çolak, comminandogli anche una multa di 20 milioni di lire”.

Questo il resoconto della scappatella del bomber turco che ha messo in subbuglio l’ambiente morigerato del calcio turco.

La stagione 89/90 vede Tanju comunque protagonista con 19 reti in 24 presenze, ma il Galatasaray alla fine si piazza solamente 4° in classifica fuori da qualsiasi competizione europea. L’anno dopo i giallorossi di Istanbul riescono a piazzarsi al secondo posto (qualificati in Coppa UEFA), Tanju realizza 31 reti in campionato (capocannoniere del torneo per la quarta volta) e riesce a vincere la Türkiye Kupasi (la Coppa nazionale), in finale contro l’Ankaragücü dopo i tempi supplementari. Con il 3 a 1 dell’8 Maggio del 1991 Çolak si aggiudica un altro titolo e dice addio al Galatasaray.

Infatti per la stagione 1991/92, la società propone a Tanju (a 29 anni) di ridursi lo stipendio (circa 1 miliardo di Lire turche). Dopo accese discussioni con la dirigenza, durante le quali si è tentato di ricucire lo strappo, si è fatto avanti il Fenerbahçe offrendogli la bellezza di 4,5 miliardi di Lire turche. Çolak accetta, andando così a giocare al Şükrü Saracoğlu. Con il Fenerbahçe conquista il secondo posto in classifica e mette a segno 23 gol. L’anno dopo i “canarini” arrivano solamente quinti, ma Tanju con 27 reti si laurea per la quinta volta capocannoniere. Anche questo è un record per il calcio turco.

Ma durante il Dicembre del 1992 giungono notizie su uno scandalo che avrebbe rovinato la sua fantastica carriera: Tanju è stato accusato di aver acquistato consapevolmente una Mercedes 550CL rubata che era stata contrabbandata dalla Germania senza la corretta documentazione. A fine stagione si trasferisce all’İstanbulspor club che milita nella serie cadetta, ma durante il mese di Luglio del 1994 viene condannato definitivamente a 4 anni e otto mesi (poi ridotti a 22 mesi). Grazie alla sua collaborazione nelle indagini (ed a una grazia) esce dal carcere il 24 Febbraio 1995.

Negli anni successivi è rientrato nel mondo del calcio come dirigente e allenatore, ma ha continuato ad avere problemi con la giustizia di vario tipo. Si è candidato in politica, prima con il partito di estrema destra turco (braccio politico dei “lupi grigi”) Milliyetçi Hareket Partisi, poi con il partito del Presidente Erdogan, Adalet ve Kalkınma Partisi. In entrambi i casi con scarsi risultati.

In più interviste non si è mai sottratto nel commentare la sua movimentata vita, ma chiedendogli quale fosse il suo più grande rimpianto ha risposto in maniera provocatoria: “Perdere i capelli”. Nel 2016 l’IFFHS lo ha incluso tra le 48 leggende del calcio mondiale.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Rocchi e Siviglia: dai 9 acquisti in un giorno, sulle orme di Simone Inzaghi

di Jean Philippe ZITO

Io ho sempre rispettato le promesse fatte. Ho comprato buoni giocatori del mercato nazionale e internazionale. Ho affiancato gente esperta a giovani, credo sia la combinazione giusta”. Il 31 Agosto del 2004 è l’ultimo giorno del primo calciomercato di Claudio Lotito come Presidente della Lazio. Il neo patron deve lavorare giorno e notte per risanare una situazione economica disastrosa ereditata dalle precedenti gestioni. Durante le ultime 24 ore di contrattazioni arrivano a Formello ben 9 giocatori: Tommaso Rocchi, Sebastiano Siviglia, Antony Seric, Emanuele e Antonio Filippini, Leonardo Talamonti, Esteban Rojas Gonzalez, Miguel Mea Vitali e Braian Robert.

La rifondazione della più antica squadra della Capitale inizia, per forza di cose, con un drastico ridimensionamento sia sul badget stanziato per gli acquisti, sia sui compensi ai singoli calciatori. La media degli stipendi si deve attestare a circa 500.000 euro. Giocatori come Tommaso Rocchi, reduce da un ottimo campionato con l’Empoli (11 gol realizzati fra questi una roboante tripletta alla Juventus) e Sebastiano Siviglia, trentunenne difensore centrale prelevato in prestito gratuito dal Parma, si devono accontentare di stipendi da 300.000 euro, per l’attaccante veneziano, e di 600.000 euro (il 40% pagato dai ducali) per il tignoso difensore calabrese.

Con la Lazio compio il mio definitivo salto di qualità. Sono contento perché questa società ha dimostrato di volermi più di tutte le altre. Nonostante le ultime vicissitudini, Roma resta sempre una piazza importante e giocare in Europa mi darà nuovi stimoli”. Tommaso Rocchi è entusiasta della nuova avventura, che lo vede competere in attacco con Roberto Muzzi, Goran Pandev, Simone Inzaghi e il figliol prodigo Paolo Di Canio. Rocchi è stato acquistato dall’Empoli per 1,3 milioni di euro in comproprietà, si mette a disposizione del tecnico Mimmo Caso (promosso dalla Primavera alla prima squadra).

Come già detto, Sebastiano Siviglia arriva dal Parma con la formula del prestito gratuito.

È reduce da un ottimo campionato al Lecce (in prestito), dove ha giocato titolare 31 partite su 34. Alla Lazio ha l’arduo compito di non far rimpiangere un veterano come Sinisa Mihajlovic accasatosi a parametro zero all’Inter. Anche Beppe Favalli, il giocatore con più presenze nella ultracentenaria storia del club romano, si trasferisce alla Pinetina. Jaap Stam invece va al Milan (per soli 10 milioni…); Stefano Fiore e Bernardo Corradi al Valencia (come risarcimento per le rate non pagate di Mendieta), Claudio Lopez in Messico all’America; Demetrio Albertini all’Atalanta e “Ciccio” Colonnese al Siena.

Dei “9 in un giorno” fanno parte anche i gemelli Filippini, Antonio ed Emanuele. Il primo esterno, il secondo interno di centrocampo. Prestito secco dal Palermo, 450.000 euro di ingaggio a testa. Antony Seric, terzino sinistro, arriva dall’Hellas Verona, stipendio pagato per metà dal club di appartenenza (350.000 euro). Dal Sudamerica arrivano 4 giocatori: Dal Gimnasia La Plata Esteban Rojas Gonzalez e Braian Robert. Entrambi in prestito, il primo nelle intenzioni è il vice Liverani a centrocampo, il secondo è un fantasista ventenne ed è stato acquistato a titolo definitivo (a zero euro…), biennale da 100.000 euro al giocatore.

Dal Rosario Central viene ingaggiato un altro centrale di difesa: Josè Leonardo Talamonti (200.000 euro l’ingaggio), passaporto da comunitario. Infine, l’ultimo dei 9 è Miguel Angel Mea Vitali. 23 anni, capitano della Nazionale venezuelana in forza al Caracas, che ha firmato un triennale da 150.000 euro a stagione.

Nella turbolenta estate dell’anno zero della gestione Lotito, il 1° Settembre la rosa dei biancocelesti deve competere per una salvezza tranquilla: la sfida più ardua per la società, da vincere a tutti i costi, è tra i faldoni dei tribunali e i conti dei commercialisti. Ai “9 in un giorno”, per onore della cronaca, si aggiunge un decimo acquisto: Matias Lequi, roccioso difensore centrale reduce da una stupefacente annata all’Atletico di Madrid, che arriva a Formello a mercato già chiuso perché svincolatosi dal club madridista.

La stagione 2004/05 si conclude con il 13° posto in classifica, uno storico derby vinto dopo più di quattro anni e con molti di quei 9 giocatori via dalla Lazio. Brian Robert viene ceduto a gennaio del 2005 in prestito al Catanzaro, per poi tornare in Argentina a fine anno (carriera mediocre: smette di giocare a calcio a 27 anni), con lui anche Esteban Gonzales (solamente 3 presenze con la Lazio). I gemelli Filippini, a dispetto di un buon campionato, sia per numero di presenze che per prestazioni sempre convincenti soprattutto dal punto di vista dell’impegno, non vengono riscattati e passano al Treviso. Mea Vitali torna mestamente in Venezuela dopo zero presenze in maglia biancoceleste e Josè Leonardo Talamonti torna in Argentina, acquistato dal River Plate. Antony Seric viene venduto al Panathinaikos, mentre il cartellino di Mathias Lequi è stato comprato dal Celta di Vigo per 750.000 euro.

Per Siviglia e Rocchi invece arrivano le conferme. Restano a Roma, hanno conquistato la fiducia del club e dello staff tecnico. Il difensore calabrese chiude addirittura la carriera con la Lazio nel 2010, dopo 6 stagioni con l’aquila sul petto. Mentre l’attaccante veneziano, dopo 8 anni e mezzo di militanza, fa delle brevi esperienze con Inter, Padova e in Ungheria con l’Haladás e il Tatabánya. Entrambi però si sono legati indissolubilmente con l’ambiente laziale, tutti e due hanno scelto di proseguire nel mondo del Calcio come allenatori.

Io ero felice della mia scelta, sapevo che non era una situazione semplice ma ero pronto e disponibile. La società si è accorta del mio impegno, tanto che l’anno dopo sono stato riconfermato. Ero arrivato in prestito, come tanti. Non pensavo ai problemi, pensavo a risolverli, questo atteggiamento mi ha permesso di vivere sei anni così importanti. I momenti, i ricordi più belli, sono legati alle vittorie. Quelle nel derby, e tra queste prendo il 3 a 0 del Dicembre 2006 con le reti di Ledesma, Oddo e Mutarelli. Poi la Coppa Italia del 2009 contro la Samp, primo trofeo della gestione Lotito, e qualche mese dopo la Supercoppa di Pechino. Un’impresa, contro l’Inter che quell’anno avrebbe poi centrato il triplete. Anche se mi dispiace lasciare fuori il primo giorno che misi piede a Formello, fu un’emozione indescrivibile”.

Sebastiano Siviglia ricorda con amore il suo percorso da calciatore alla Lazio. Da allenatore inizia a praticare questo nuovo mestiere con medesima passione al Monterotondo nel 2011, per poi passare al Potenza (2011/12). Allena la Primavera della Nocerina nel 2012/13, e torna poi alla Lazio come mister dei Giovanissimi Regionali prima (2013/14), e Giovanissimi Nazionali dopo (2014/15). Alla Ternana allena sia la Primavera che la prima squadra nel 2016/2017 e dal 2018 è l’allenatore del Lecce Primavera. Nelle ultime settimane si è paventata l’ipotesi che possa allenare l’anno prossimo la Primavera della Lazio. Siviglia è ovviamente felice per l’exploit del suo ex compagno di squadra Simone Inzaghi sulla panchina della prima squadra: “La Lazio sta girando molto bene. L’entusiasmo è stato ritrovato e Simone sta facendo un grande lavoro. Lo scetticismo iniziale è andato via e tutte le componenti si sono ritrovate”.

È un percorso importante, non vincevamo il titolo da 18 anni e festeggiarlo qui con la tua squadra del cuore è bello, ho visto i ragazzi emozionati ed è stato bello condividere questo insieme alla Primavera, nei loro occhi ho visto la soddisfazione di essere all’Olimpico e avere in mano un loro trofeo. Lotito? Lo ringrazio, c’è stima tra noi, ho iniziato da tre anni, son contento e ho entusiasmo, poi fare l’allenatore qui alla Lazio mi riempie di gioia. Ho ambizione fin da calciatore, da allenatore voglio continuare, ci vuole pazienza e determinazione. Voglio migliorare e crescere giorno dopo giorno. Pensavo solo a giocare, poi una volta smesso ho fatto il corso e con Tare è nata l’ipotesi e ho preso il patentino. Ora giorno dopo giorno mi piace sempre di più. Provo tanto quando entro in campo”.

Tommaso Rocchi per la sua carriera d’allenatore ha colto al volo la possibilità di farlo nella Lazio. Nel 2016 diventa mister dei Giovanissimi Provinciali fascia B, l’anno dopo dell’Under 14, poi Under 15, per tornare nell’ultima stagione a guidare l’Under 14. Con questi ultimi riesce a vincere il Campionato.In finale contro la Roma di Cristian Totti (presente in tribuna anche papà Francesco) è un’apoteosi: 3 a 0 il risultato al 90°. “Per un laziale come me, la soddisfazione è doppia”. Come Siviglia anche Rocchi sta cercando di ricalcare lo stesso “cursus honorum” di Simone Inzaghi: “Sarebbe un sogno poter ripercorrere le sue orme, ma bisogna avere pazienza: vado avanti passo dopo passo senza correre”.

Di questa possibilità, dopo 15 anni, è fautore lo stesso patron Claudio Lotito: “Inzaghi mi ha dimostrato fin da subito il suo attaccamento a questa società. Fu il primo giocatore che quando entrai in società si mise a disposizione per negoziare il contrattato. Gli promisi che gli avrei fatto fare l’allenatore. Si è conquistato tutto da solo partendo dagli Allievi Regionali fino ad arrivare in prima squadra. Spero di poter fare lo stesso percorso con Tommaso Rocchi”.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

José Luis Chilavert, “El Bulldog” del popolo paraguaiano

di Jean Philippe ZITO

Non ho mai mai segnato in un mondiale, questo è il mio vero rimpianto. Ne ho giocati due. Il secondo avendo per C.T. quell’allenatore italiano che aveva avuto pure un figlio in nazionale…Arriva il signor Maldini e mi affronta a muso duro, domanda se ho qualcosa contro un allenatore straniero? No, gli dico io. Meglio, fa lui, perché da oggi qui comando io. Ci tolse carne, zuppe, cocomeri e meloni. Disse che pasta e riso andavano meglio. La cosa peggiore fu che mi tolse pure le punizioni. I francesi si permisero addirittura di tenermi in panchina. Successe allo Strasburgo. Mi hanno pure dato sei mesi di carcere perché dicono che io abbia falsificato dei certificati medici per rescindere il contratto. Volevo solo andarmene di lì, ecco qual era il punto. Volevo tornare in un posto dove tutti fossero felici di avere con loro José Luis Chilavert”.

Chi non ha mai sentito nominare questo portiere-goleador paraguaiano? Eroe di un calcio oramai divenuto anacronistico perché romantico e romanzato. Orgoglio di una Nazione intera, dal carattere estroverso e “caliente” tipico dei latinoamericani. Chilavert è un’icona del calcio mondiale, questa la sua storia.

Nasce a Luque, città distante circa 15 km dalla Capitale del Paraguay Asunción. Cresce in una condizione di estrema povertà. Aiuta la famiglia mungendo le mucche già a 5 anni, vendendo il latte nel quartiere di Ñu Guazú, un sobborgo rurale di Luque. Si può permettere il primo paio di scarpe solamente a 7 anni.

Trova un modo costruttivo per evadere dalla miseria che lo avvolge, giocando a pallone. Lo fa in compagnia del fratello maggiore Rolando. Quest’ultimo lo costringe a stare in porta. Gli altri ruoli sono tutti già occupati ed essendo Josè il più piccolo ha poca voce in capitolo. Così accetta, ma ad una condizione: vuole battere i calci da fermo. Rigori e punizioni sono la sua passione, si esercita a lungo con il piede preferito; il mancino, molto sensibile e di una precisione chirurgica.

Entra nelle giovanili della squadra di Luque, il Club Sportivo Luqueño. Allenato da Modesto Sandoval si fa notare sia per il suo talento tra i pali, sia per le sue indiscusse doti balistiche. Nel 1980, a soli quindici anni, esordisce nella seconda divisione con il Luqueño. Dopo quattro anni viene acquistato dal Guaraní, si trasferisce nella Capitale e debutta nella massima serie paraguaiana. Nel 1984, durante la sua prima stagione con gli Aurinegros, vince il Campionato assieme al fratello Rolando che nel frattempo è diventato titolare nel centrocampo degli “El Aborigen”.

A vent’anni Chilavert decide di accettare la proposta del San Lorenzo de Almagro: Buenos Aires e il campionato argentino l’aspettano. La Primera Division è un campionato certamente più competitivo, ma questo non lo spaventa. Quattro stagioni disputate in argentina, 122 partite giocate. Per due anni di seguito arriva con il “Ciclon” al 7° posto, poi un prestigioso 2° posto ed infine un 5° posto.

Nell’estate del 1988, a 23 anni, José riceve una proposta dall’Europa; il Saragozza è molto interessato a questo giovane portiere bravo tra i pali e dal carattere forgiato dalle prestazioni con la maglia dei “Gauchos de Boedo”. Durante la prima stagione (1988/89), Chilavert si conferma ad ottimi livelli, tanto da guadagnare le attenzioni della Nazionale maggiore che decide di convocarlo.

Epico il debutto in Nazionale. 27 Agosto 1989. Non ci sarebbe potuto essere un esordio più delicato: una partita del girone per accedere ai mondiali di Italia ’90 contro la grande Colombia di Valderrama e Higuita.

Al Defensores del Chaco, si registra il tutto esaurito per spingere la “Albirroja” alla vittoria. Il match è equilibrato, ma vede fin da i primi minuti di gioco i padroni di casa combattivi e determinati. A pochi istanti dal 90° il risultato è fermo sul punteggio di 1 a 1, ma proprio allo scadere una clamorosa leggerezza di René Higuita (uscendo a valanga con il pugno colpisce un’attaccante paraguaiano), concede al Paraguay il match ball.

Dopo che la polizia è dovuta entrare in campo per calmare gli animi, sul dischetto (tra l’incredulità generale) si presenta Chilavert. I giocatori della Colombia cercano di innervosirlo in tutti i modi; sbalorditi, quasi infastiditi lo circondano. Valderrama tenta fino all’ultimo di spostare la palla dal dischetto provocatoriamente. Chilavert allontana il capitano della Colombia platealmente, piegandosi più volte per sistemare meglio il pallone sulla lunetta. Dopo una grande rincorsa che lo spinge fino al limite dell’aria di rigore, calcia con veemenza rasoterra spiazzando Higuita. È gol! La sua prima rete in carriera, accolta da un boato incredibile è decisiva per le sorti dell’incontro.

Purtroppo per Chilavert il Paraguay non riesce a qualificarsi ai Mondiali di Italia ’90, ma per Josè è arrivata la celebrità a livello globale. Al Saragozza da un anno, si è confermato come portiere, ma non ancora come goleador. Il 28 Gennaio del 1990, alla sua seconda stagione in Spagna, segna il suo secondo gol in partite ufficiali sempre su rigore, nuovamente risolutivo. Il Real Zaragoza vince per 2 a 1 contro la Real Sociedad.

Josè in Spagna però si sente un leone in gabbia, non sempre gioca titolare e non si trova a suo agio con il calcio europeo. Dopo l’ultima stagione a Saragozza (90/91) vuole tornare in Sudamerica. Al Vélez Sarsfield, squadra di Liniers sobborgo di Buenos Aires, si sta compiendo una sorta di rivoluzione. La società vuole tornare a vincere il prima possibile in Patria, ma anche tentare di primeggiare nelle competizioni internazionali.

Durante la stagione 90/91 viene introdotta anche in Argentina la modifica della Primera Division con la doppia formula del campionato di Apertura e quello di Clausura. Il torneo viene quindi diviso a metà, incoronando così una squadra campione per l’Apertura (girone d’andata) e una per la Clausura (il ritorno).

La prima stagione al Vélez per Chilavert (1991/92) si chiude con un quarto e un secondo posto. L’ambiziosa società decide quindi di cambiare la guida tecnica riportando a casa Carlos Bianchi, attaccante del primo scudetto vinto nel 1968, bandiera del club, diventato nel frattempo allenatore. A guida de “El Fortin” nella sua prima stagione da allenatore (1992/93) riesce a vincere il torneo di Clausura. Per Chilavert è il primo titolo in Argentina.

Nel 1994 il Vélez arriva in finale di Coppa Libertadores contro il San Paolo. Chilavert a 29 anni ha l’occasione di conquistare il più prestigioso titolo internazionale per club del Sud America. Il 24 Agosto si gioca l’andata che vede “El Fortin” vincere per 1 a 0 grazie al gol de “El Turco” Omar Asad. Al ritorno s’impone il San Paolo con lo stesso risultato. Tempi supplementari e poi i calci di rigore. Primo rigore per il San Paolo, Chilavert para, secondo rigore per il Vélez Chilavert segna! Finisce 5 a 3 per gli argentini che diventano così Campioni del Sud America!

Il 1° Dicembre del 1994 si gioca a Tokyo la finale di Coppa Intercontinentale, il Vélez se la deve vedere con il Milan di Fabio Capello vincitore della Coppa dei Campioni. La partita è segnata da due ingenuità della retroguardia rossonera. La prima con Costacurta che affossa in area Asad e procura così un calcio di rigore, realizzato da Trotta (Chilavert ha concesso di farlo battere al suo Capitano) al 50°. Dopo 7 minuti, nei quali il Milan ha cercato in tutti i modi di pareggiare ma si è trovato di fronte ad un Josè in stato di grazia, sempre Costacurta, con un corto retropassaggio verso Sebastiano Rossi fa un involontario assist a “El Turco” Asad abile nel realizzare saltando il portiere. 2 a 0. Il Vélez di Chilavert, allenato da Carlos Bianchi, è sul tetto del Mondo!

Negli anni a venire, ricchi di soddisfazione, si susseguono i trionfi: Apertura 1995, Clausura 1996, Supercoppa Sudamericana 1996, Coppa Interamericana 1996, Recopa 1997 (Chilavert fallisce ai calci di rigore il suo penalty) e Clausura 1998.

A livello personale si aggiunge la soddisfazione di essere eletto per tre volte come miglior portiere del Mondo nel 1995, 1997 e 1998. Miglior giocatore del Campionato Argentino nel 1996. Nello stesso anno viene eletto anche miglior giocatore sudamericano e segna una storica tripletta che lo iscrive di diritto sul libro dei record.

Nel 1998 gioca il suo primo Mondiale in Francia, dove sono proprio i padroni di casa (e futuri campioni) ad eliminare agli Ottavi di Finale il Paraguay di Chilavert.

Nel 2000, a 34 anni, Josè decide di provare per la seconda volta l’esperienza europea. Va in Francia e milita nello Strasburgo. In 52 presenze con il Racing, segna solamente 1 gol ma molto importante. Nella finale del 26 maggio 2001 di Coppa di Francia tra Strasburgo e Amiens si va ai calci di rigore. Chilavert para il 4° e segna l’ultimo. Vince così anche in Europa.

Nel 2002 partecipa al suo secondo Mondiale disputato in Giappone e Corea del Sud. Anche in quest’occasione il Paraguay viene eliminato agli Ottavi di finale. La Germania vince per 1 a 0, Chilavert si lamenta anche di tattiche scorrette attuate in campo dagli avversari. Secondo Josè Ballack avrebbe utilizzato delle flagranze maleodoranti per limitare la marcatura avversaria e concedere in questo modo più spazi ai giocatori tedeschi.

Dopo il Mondiale nippo-coreano la sua avventura al Strasburgo finisce con la falsificazione di un certificato medico utile a rescindere senza conseguenze il contratto che lo legava alla formazione francese (per questo motivo viene condannato nel 2005 al pagamento di una pena pecuniaria e sei mesi di carcere per illecito, mai scontati). Si accasa così al Peñarol in Uruguay con il quale diventa campione nel 2003.

Non può concludere la propria carriera che al Vélez nel 2003/04 con 6 presenze, a 39 anni. Decide di appendere i guantoni al chiodo in quella che è diventata la sua squadra del cuore, dopo essere riuscito a segnare 72 gol totali (15 su punizione). Il suo amore per il “Fortin” è viscerale tanto da volersi legare con il club anche oltre la vita: “Ho detto a mia moglie ed a mia figlia che voglio essere cremato, e le ceneri vengano disperse davanti alle porte del terreno di gioco del José Amalfitani, così da poter stare sempre con la gente del Vélez”.

Negli ultimi anni Chilavert si è proposto prima come allenatore del Paraguay, poi come Presidente. Ha polemizzato su Twitter con Maradona, che difende il Presidente Maduro nella guerra fratricida venezuelana, affermando che i giovani del mondo devono stare “attenti alle droghe, che distruggono la vita della persona e, naturalmente, non ti permettono di ragionare per vedere la realtà della vita”.

Nelle scorse settimane, sempre su Twitter, si è scagliato contro Mauro Zarate. L’ex attaccante della Lazio è cresciuto nel Vélez Sarsfield dove è tornato per la terza volta nel 2018 per poi passare, dopo pochi mesi, al Boca Juniors. Visto dalla piazza (e dalla famiglia dello stesso giocatore) come un tradimento, ha fatto indispettire ancor di più tifosi e addetti ai lavori al termine dei quarti di finale della Copa de la Superliga del 16 Maggio vinti ai rigori dal Boca. “È passata la squadra più grande”. José Chilavert, senza troppi peli sulla lingua, ha etichettato Zarate come un “ingrato e fallito” mantenendo fede al suo soprannome: “El Bulldog”.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Shalimov e Kolyvanov: quando la Foggia postsovietica incantò l’Europa

di Jean Philippe ZITO

La prima cosa che mi è venuta in testa è stata: questa è l’Italia, la Serie A. E a quei tempi era il campionato più importante d’Europa, dove giocavano grandi calciatori italiani e gli stranieri più forti del mondo. Ho deciso subito di accettare. Sono venuti due dirigenti da Foggia, abbiamo trovato l’accordo ed abbiamo parlato di come giocava la squadra: palla a terra, velocità e passaggi corti. Mi hanno detto che cercavano tre stranieri. Avevano già preso Petrescu e volevano due russi: Shalimov e Kolyvanov”. Igor Shalimov racconta di come nell’estate del 1991, abbia deciso convintamente di accettare le lusinghe del Foggia, ritrovandosi poi in squadra il connazionale Kolyvanov.

Sono arrivato a Roma e con il presidente Casillo siamo andati in ritiro con la squadra in montagna. Mi hanno assegnato la camera con Alessandro Porro, che mi ha aiutato molto ad ambientarmi. Subito dopo sono venuti a salutarmi tre giocatori. Petrescu che incredibilmente era arrivato due settimane prima ma già parlava perfettamente italiano, Signori e Baiano. Per me non è stato facile all’inizio perché non parlavo italiano e parlavo male l’inglese. Ma i ragazzi mi hanno aiutato. Era un buon collettivo ed al primo allenamento ho capito che c’erano buoni giocatori”.

Shalimov nasce a Mosca nel 1969 dal padre Mikhail, operaio, e dalla madre Ludmila, casalinga. Rispetta a pieno i canoni della classica narrazione famigliare sovietica, vivendo però l’adolescenza durante il principio del declino dell’epopea comunista. A sedici anni, terminati gli studi dell’obbligo, assieme al fratello Pavel, entra a far parte delle giovanili dello Spartak Mosca.

Il suo piede preferito è il mancino, esordisce come terzino sinistro, per poi essere spostato a centrocampo sempre sulla fascia sinistra. Dal 1986 all’88 gioca nelle riserve dello Spartak realizzando 17 gol in 51 presenze.

Nel 1987 Igor vince, a diciotto anni, la Coppa delle Federazioni Sovietiche. Dall’anno successivo è in pianta stabile in prima squadra. Il primo anno tra i professionisti sigla 8 gol, dimostrando da centrocampista di avere un ottimo feeling con la porta avversaria.

La prima rete la mette segno all’undicesima giornata il 22 maggio, davanti a 40.000 spettatori nell’1 a 1 finale contro l’Ararat. A fine stagione lo Spartak si piazza al quarto posto nella classifica della Vysšaja Liga.

Nell’1989 Shalimov vince il Campionato sovietico con lo Spartak, realizzando un solo gol nell’intera stagione, nel 3 a 3 contro il Metalist. La squadra di Mosca si guadagna anche l’opportunità di giocare la Coppa dei Campioni.

Esordisce con la nazionale dell’URSS ai mondiali di Italia ’90. Gioca titolare nel centrocampo sovietico contro l’Argentina di Maradona, perdendo per 2 a 0. Disputa, sempre dall’inizio, anche le altre gare del girone. Per questo motivo molti club europei iniziano a mettere gli occhi sul centrocampista mancino, dal piede vellutato e dall’ottima visione di gioco.

I cambiamenti derivati dalla caduta del muro di Berlino sono evidenti, la voglia di emanciparsi da una dittatura oppressiva e totalitaria sta contagiando i popoli dell’intera Unione fino ad arrivare a Mosca. Igor Shalimov a 22 anni inizia una nuova stagione con lo Spartak, quella della consacrazione. In campionato arriva a 2 soli punti dai cugini del CSKA che vincono la Vysšaja Liga. In Coppa di Campioni la cavalcata è (quasi) trionfale.

Ai sedicesimi di finale lo Spartak incontra (in una gara alquanto tesa a livello geopolitico) lo Sparta Praga. L’andata si gioca il 19 Settembre del 1990 proprio a Praga e la partita viene vinta dai russi per 2 a 0, il primo gol è proprio del centrocampista moscovita che segna con un tiro di potenza dal limite che bacia il palo alla sinistra del portiere e poi si insacca. Il tabellino della gara di ritorno del 3 Ottobre recita il medesimo risultato.

Negli ottavi di finale Shalimov e compagni se la devono vedere contro il Napoli (campione d’Italia in carica) del “Pipe de Oro” Diego Armando Maradona. L’andata si gioca il 24 Ottobre davanti ai 50.000 del San Paolo. Conclusasi a reti inviolate, la gara è caratterizzata dai legni colpiti da entrambe le formazioni (3 a 2 il computo totale per i padroni di casa). Il ritorno, che si gioca a Mosca davanti agli 86.000 dello Stadio Lenin, vede l’ennesimo palo colpito dal Napoli, in una gara equilibrata che termina nuovamente 0 a 0. Dopo i tempi supplementari, ai calci di rigore, i russi sono implacabili e vincono 5 a 3.

Lo Spartak arriva quindi ai quarti di finale e se la deve vedere contro il Real Madrid. Il 6 Marzo del 1991 allo Stadio Lenin di Mosca sono accorsi più di 80.000 tifosi. Gli 11 allenati da Oleg Romancev giocano una partita all’arrembaggio ma la difesa madrilena resiste, anche grazie ad un Pedro Jaro (riserva di Francisco Buyo) in stato di grazia.

Al Santiago Bernabeu il 20 Marzo si gioca il ritorno, i favori del pronostico sono tutti per il Real. Dopo 10 minuti Emilio Butragueño approfitta di un pasticcio difensivo dello Spartak e porta in vantaggio i padroni di casa. Ma dopo poco meno di mezz’ora una doppietta di Radchenko capovolge il risultato. Il 3 a 1 finale viene segnato da Chmarov al 63° minuto.

Lo Spartak ha dimostrato di essere un’ottima squadra, giocando palla a terra e in velocità, punendo il Real Madrid in contropiede. La partita si è conclusa tra gli applausi dei 90.000 del Santiago Bernabeu.

In Semifinale lo Spartak di Shalimov si deve però arrendere all’Olympique Marsiglia. Il 10 Aprile 1991 allo Stadio Lenin passano i francesi per 3 a 1 (a segno per lo Spartak proprio Shalimov), al ritorno al Velodrome il 24 Aprile, i padroni di casa si impongono per 2 a 1.

L’esperienza di Igor Shalimov in Coppa dei Campioni si conclude comunque positivamente, portando lo Spartak a sfiorare la finale.

A 23 anni la Serie A e il Foggia di Zeman l’aspettano a braccia aperte: “Quando mi hanno parlato di Foggia l’ho cercata sulla carta geografica: non avevo idea di dove si trovasse. È una città piccola, diversa da Mosca, ma io sono qui per lavorare e non per fare il turista”.

In Puglia trova un altro Igor: Kolyvanov. Attaccante proveniente dalla Dinamo Mosca, capocannoniere in carica della massima divisione sovietica con 18 reti ed eletto giocatore dell’anno nel 1991.

Moscovita come Shalimov, più grande di quasi un anno (classe 1968) Igor Kolyvanov a 16 anni, nel 1985, gioca nelle giovanili dello Spartak. Non diventa compagno di squadra di Shalimov perché già l’anno dopo passa alla Dinamo Mosca. Con i biancoazzurri della Capitale, celebri per essere stati la formazione di Lev Jašin (uno dei più grandi portieri della Storia del calcio) dal ’49 al ’70, Kolyvanov inizia l’avventura a 17 anni giocando tra le riserve.

Nel 1986 la Dinamo Mosca è in piena lotta per la conquista del titolo sovietico, ma Kolyvanov s’infortuna ed è costretto a rimanere a riposo per 2 mesi. Nonostante lo stop forzato riesce a mettere a segno 4 reti, una delle quali nello scontro diretto per il titolo perso contro la Dinamo Kiev per 2 a 1 il 7 Dicembre 1986.

Nel triennio successivo la Dinamo Mosca ottiene risultati deludenti (un 10°, 12° e 8° posto), ma Igor continua a segnare con una discreta continuità fino a raggiungere nel 1989 gli 11 gol. Nel 1990, con la Dinamo, Kolyvanov ottiene un ottimo terzo posto finale e la convocazione per gli Europei Under 21 dove inizia a giocare con Shalimov. Si laurea come migliore attaccante della competizione segnando 9 gol in 7 partite, 1 dei quali nella semifinale di ritorno contro la Svezia vinta per 2 a 0. L’URSS di Shalimov e Kolyvanov vince la competizione battendo in finale d’andata la Jugoslavia per 4 a 2 a Sarajevo, il 5 Settembre del 1990, e 3 a 1 nel ritorno del 17 Ottobre in Unione Sovietica.

Nel 1991, come già detto, è capocannoniere della Vysšaja Liga con i suoi 18 gol in 27 partite, decisivo per la conquista della qualificazione in Coppa UEFA della Dinamo Mosca. Appena eletto giocatore dell’anno accetta anche lui l’offerta del Foggia di Zeman. A 23 anni vuole diventare un calciatore completo grazie anche ai consigli del tecnico boemo: “Ognuno mi ha fatto crescere e ha insegnato qualcosa. Zeman, ad esempio, mi ha fatto conoscere il 4-3-3. In Russia giocavamo sempre 4-4-2 o al massimo 3-5-2. Questo modulo l’ho conosciuto per la prima volta a Foggia. Ed ho avuto qualche problema per capirlo, ma quando ci sono riuscito tutto è diventato più facile”.

Zemanlandia apre i battenti il 1° Settembre 1991: la scala del calcio attende la matricola pugliese, va in scena Inter-Foggia. Shalimov è titolare nel terzetto di centrocampo, partendo da destra. Kolyvanov invece è ancora a Mosca, gioca con la Dinamo fino a Novembre in Coppa Uefa. La partita è inaspettatamente equilibrata, vedendo addirittura passare in vantaggio il Foggia con un gol di Baiano. Il risultato finale è 1 a 1, ma è appena nato quello che da lì a poche giornate viene ribattezzato il Foggia dei miracoli.

Nessuna squadra giocava in Serie A un calcio così. Palla a terra, passaggi non più lunghi di quindici, venti metri e tre o quattro giocatori che attaccavano sempre alle spalle i difensori avversari. Avversari che diventavano matti perché questo modo di giocare durava tutta la partita. Guardavamo poco dietro, andavamo sempre avanti. E poi il Foggia Calcio non mollava mai. Era divertente guardare quella squadra, faceva spettacolo. Per gol fatti eravamo secondi dietro al Milan, però anche per gol subiti eravamo secondi…”. Igor Shalimov ricorda così l’unico anno a Foggia, nel quale segna 9 gol e partecipa all’incredibile stagione dei “satanelli” che si conclude al nono posto, miglior risultato della storia per il club pugliese.

Igor Kolyvanov esordisce in Serie A il 1° Dicembre 1991, nella sconfitta in trasferta per 1 a 0 contro il Verona. La prima delle 3 reti segnate durante la stagione del suo debutto arriva nel pareggio interno contro il Torino per 1 a 1 del 1° Marzo 1992. “Ricordo il mio primo giorno a Foggia. Trovai una città piccola ma carina, ma il caldo…” L’attaccante russo non dimentica l’affetto dei tifosi: “Devo tanto a loro. La gente mi a voluto subito bene, mi ha dato il cuore, mi ha aiutato”.

Con i satanelli Kolyvanov gioca 4 campionati di Serie A (segnando 18 reti complessive) e l’ultima, nel 95/96, in Serie B (4 gol in 29 presenze). La sua avventura in Puglia è influenzata da un brutto infortunio al ginocchio; la rottura dei legamenti: “Era un periodo poco esaltante per me ma mi fece immenso piacere ricevere la visita di due fratelli foggiani che partirono dall’Italia solo per venirmi a trovare (in Colorado n.d.r.) e sostenermi!”.

A 27 anni, nel 1996, passa al Bologna dove gioca le sue ultime 5 stagioni da professionista (26 gol in 87 presenze totali). Il fato vuole che dopo aver giocato nell’Inter (dove ha vinto la coppa UEFA nel 93/94), nel Duisburg, nel Lugano e nell’Udinese, anche Igor Shalimov viene acquistato dal Bologna. I due Igor giocano nella città emiliana per due stagioni, qualificandosi insieme per la Coppa Intertoto 1998/99 che viene vinta dai rossoblù.

Kolyvanov e compagni arrivano inaspettatamente alle semifinali di Coppa UEFA , mentre Shalimov, in Serie B a Napoli, viene trovato positivo al Nandrolone e (a soli trent’anni) decide di ritirarsi a seguito della lunga squalifica. Due anni più tardi Kolyvanov appende gli scarpini al chiodo a seguito dell’ennesimo problema fisico.

Oggi l’ex attaccante russo allena a Mosca: “Sto lavorando con i giovani, alleno la Torpedo Mosca (Serie C russa) e metto il cuore in quello che faccio”. Shalimov invece non nasconde le proprie ambizioni: “Un giorno vorrei allenare lo Spartak Mosca, perché è la mia squadra. Sono di Mosca, lì ho giocato da piccolo ed è l’unico club dove ho giocato in Russia. E poi…vorrei diventare l’allenatore del Foggia Calcio”.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Vasilis Chadzipanagis, il talento che unì la Grecia al Kaftanzoglio

di Jean Philippe ZITO

A causa della mia età, non sono stato in grado di godermelo al meglio. Tuttavia ho parlato con molte persone che non vedevano l’ora che arrivasse la domenica, così da poter andare al “Kaftanzoglio”. Riuscì a unire i fan di tutte le squadre, dal nord al sud della Grecia. Tutti avevano una squadra preferita, ma, nello stesso tempo, erano desiderosi di vedere giocare l’Iraklis solo per lui. Quando guardavi Vasilis Chadzipanagis, non eri preparato per quello che sarebbe successo. In un decennio senza copertura televisiva delle partite di calcio e, ovviamente, senza YouTube, c’erano così tanti trucchi e abilità che il popolo greco non aveva mai visto prima. Fino a quando Chadzipanagis non è venuto a giocare per l’Iraklis e ce li ha mostrati.” Il giornalista sportivo Costas Bratsos ci riassume così, in poche righe, il talento calcistico del fantasista greco nato in Unione Sovietica.

Chadzipanagis nasce il 26 Ottobre del 1954 in Uzbekistan, nella capitale Tashkent. Figlio di due esuli greci scappati per motivi politici dalla dittatura dei colonelli, trova nella Repubblica Socialista Sovietica Uzbeka la sua nuova casa. Vasilis è molto bravo palla al piede, ha un talento naturale. Notato in giovanissima età dagli osservatori del Pakhtakor, viene immediatamente ingaggiato per le giovanili.

A diciassette anni può già debuttare nel massimo campionato sovietico, ma una legge della dittatura comunista impone ad ogni tesserato di essere in possesso del passaporto dell’URSS. Dopo un’attenta riflessione i genitori di Vasilis concedono al figlio di prendere la cittadinanza uzbeka, rendendo così possibile l’esordio del figlio nella Vysšaja Liga (la prima divisione del calcio sovietico).

Quando vedo i difensori di fronte a me, voglio dribblare ognuno di loro”. Lo sfrontato Vasilis ha ben chiaro quali sono le sue capacità e non ha paura di stravolgere il rigido ambiente del calcio uzbeko, per questo motivo è chiaro fin da subito che il suo talento fuori dalla norma lo porterà sempre più ad essere protagonista.

In breve tempo il suo estro viene paragonato a quello del celebre Oleh Blokhin, anche in Nazionale decidono quindi di dargli un possibilità nonostante la consuetudine di dare precedenza ai giocatori sovietici impegnati in campionati più blasonati. Dopo tre stagioni, con 96 presenze e 22 gol con il Pakhtakor, a 18 anni Chadzipanagis esordisce nella Nazionale olimpica.

Nella gara vinta dall’URSS contro la Jugoslavia per 3 a 0 del 1975, valida per le qualificazioni alle Olimpiadi di Montreal del 1976, Vasilis segna un gol che gli regala ulteriore fama internazionale. In Grecia nel frattempo la situazione politica si sta stabilizzando; uscendo dalla dittatura dei colonnelli la penisola ellenica vive un nuovo percorso di democratizzazione.

Per questo motivo la famiglia Chadzipanagis non può rimanere insensibile di fronte alla proposta dell’Iraklis di Salonicco. Vasilis accetta il trasferimento, a 19 anni torna in Grecia accolto da un folla festante. Bratsos racconta: “Ha ottenuto uno status leggendario ancor prima del suo arrivo a Salonicco per firmare per l’Iraklis. C’erano 3.000 tifosi che lo aspettavano alla stazione ferroviaria all’una del mattino!”.

Vasilis Chadzipanagis inizia a giocare per i biancoazzurri di Salonicco nel Dicembre del 1975 e nello stadio di casa, il Kaftanzoglio, si registra il tutto esaurito. Nella sua prima stagione l’Iraklis in campionato si piazza all’ottavo posto in classifica, mentre riesce a conquistare un prestigioso risultato in Coppa di Grecia: la finale.

Il 6 maggio del 1976 arriva anche l’esordio con la Nazionale greca nell’amichevole contro

la Polonia vinta per 1 a 0, il pubblico di Atene è in delirio per le giocate dell’ala sinistra. Poche ore dopo la partita però, al “Nureyev del calcio” è stata notificata una comunicazione ufficiale della FIFA per una violazione del rigido regolamento dell’epoca: Vasilis non avrebbe più potuto giocare per la Grecia a causa delle sue presenze, l’anno precedente, con la squadra olimpica dell’URSS.

Poche settimane dopo, il 9 giugno del 1976, si gioca ad Atene la finale della Kypello Ellados. L’Iraklis affronta l’Olympiacos, lo spettacolo offerto dai giocatori in campo è eccezionale, la prestazione di Chadzipanagis impressionante.

Nel 4 a 4 finale Chadzipanagis segna due gol d’incredibile e rara bellezza per il calcio dell’epoca, e ai calci di rigore conseguenti (durante i quali fallisce il tiro decisivo dagli undici metri) la squadra di Salonicco si aggiudica la sfida ad oltranza. Dopo sei mesi Vasilis alza al cielo la sua prima (ed unica) coppa vinta da calciatore.

Con il passare degli anni giungono all’Iraklis offerte da molte squadre ester blasonate: Arsenal, Lazio, Porto, Stoccarda…Per acquistare il cartellino del numero 10 dai capelli lunghi e riccioluti c’è la fila. Purtroppo i contratti professionistici del calcio greco sono vincolanti e vincolati. È quasi impossibile per un calciatore liberarsi senza avere l’approvazione della società d’appartenenza. Chadzipanagis è quindi costretto a rimanere a Salonicco.

Nelle 15 stagioni di militanza con l’Iraklis gioca 286 partite segnando 62 gol. Nell’era “Vania” l’Iraklis conosce una retrocessione per illecito sportivo nel 1979/80, ma anche uno storico 3° posto nella stagione 1983/84 e un particolare record personale: 7 gol segnati direttamente da calcio d’angolo.

Nello stesso anno arriva anche un riconoscimento internazionale: Vasilis viene invitato ad un’amichevole per l’Unicef tra i New York Cosmos e il Resto del Mondo ed anche in quest’occasione viene accolto come una vera e propria star.

“Mi dispiace di non aver potuto indossare la maglia nazionale greca più di una volta. E mi dispiace di non aver avuto una carriera all’estero. Mi sarebbe piaciuto giocare in un campionato migliore, godermi il calcio anche a quel livello. Se potessi riportare indietro l’orologio, farei le cose in modo diverso”.

Nel 1990 Chadzipanagis appende gli scarpini al chiodo. Dopo nove anni però, il 14 Dicembre del 1999, torna in Nazionale durante un’amichevole tra la Grecia e il Ghana, gioca per poco più di 20 minuti in un Kaftanzoglio sold out per onorare l’immensa classe dell’ex calciatore dell’Iraklis.

Nel 2004, a 50 anni dalla formazione della UEFA è stato onorato insieme a giocatori del calibro di Bobby Moore, Just Fontaine, Ferenc Puskás, Johan Cruyff ed Eusébio del titolo di “Golden Player”.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Fabio Liverani: dai fischi agli applausi

di Jean Philippe ZITO

“Bella palla di Liverani per Di Caniooooo…”. Queste poche parole pronunciate in una radiocronaca, diventata leggendaria, di Guido De Angelis, scaldano immediatamente il cuore di qualsiasi tifoso della Lazio. Il gol di Paolo Di Canio nel derby del 6 Gennaio 2005, è l’emblema di come nel calcio molto spesso aleggi un qualcosa di inspiegabile ed irrazionale, che rende questo sport diverso da tutti gli altri.

Nel 3 a 1 finale, trionfo laziale nel derby, spiccano i due assist per il primo e il terzo gol di Fabio Liverani. Una partita vissuta intensamente, con lucidità e da padrone del centrocampo che lo riabilita in maniera definitiva agli occhi dell’intera tifoseria.

Acquistato nel Settembre del 2001 dal Perugia, Liverani è stato accolto a Formello da scritte ingiuriose che rimarcano la sua presunta “fede” romanista (il centrocampista è stato immortalato con una bandiera giallorossa in mano qualche mese prima durante i festeggiamenti per il terzo scudetto della Roma). “Sono cresciuto in un quartiere popolare (il Casilino, ndr), queste cose non mi spaventano. Sono tranquillo, penso solo a giocare, a far bene nella Lazio”. Le dichiarazioni del centrocampista dopo le scritte offensive nei suoi riguardi, sono d’impegno e dedizione alla causa laziale.

Fabio Liverani inizia a giocare a pallone nell’oratorio di Santa Maria Ausiliatrice al Tuscolano. Dopo una breve militanza nella Lodigiani, gioca nelle giovanili di Palermo, Napoli e Cagliari. Aggregato in prima squadra in Sardegna da Giovanni Trapattoni, passa alla Nocerina (solamente 2 presenze), per poi stabilizzarsi alla Viterbese.

Nella stagione 1996/97, a vent’anni, inizia a praticare il calcio da professionista a Viterbo in serie C/2. Per quattro campionati milita in serie C, ottenendo una promozione in C/1 nel 1999. Poi la grande occasione: Luciano Gaucci è il proprietario della Viterbese e del Perugia e dal club umbro mettono gli occhi sul playmaker tutto sinistro, di padre romano e madre somala: “Papà era italiano e cristiano, ma mia mamma era una musulmana di Mogadiscio rifugiata in Italia”.

Stagione 2000/2001 a 24 anni, dopo molta gavetta nelle serie minori, l’approdo in serie A.

Liverani conquista da subito un posto da titolare nel Perugia di Serse Cosmi, che nel frattempo è diventato celebre al grande pubblico soprattutto per l‘imitazione del comico genovese Maurizio Crozza all’interno del programma “Mai dire gol”. I pupilli del mister umbro, subentrato a Carletto Mazzone in panchina, sono proprio il centrocampista e il difensore capitano del “Grifo”, Marco Materazzi.




Improvvisamente il calcio italiano ha scoperto questo regista dal tocco di palla liftato e dal mancino chirurgico. Liverani esordisce con la maglia del Perugia in serie A il 1° Ottobre del 2000 nel match casalingo contro il Lecce, terminato con il punteggio di 1 a 1.

Il primo gol nella massima serie arriva nello scontro salvezza a Reggio Calabria contro la Reggina. Il gol del conclusivo 2 a 0 è una magistrale punizione tirata a giro dai 25 metri, che non lascia scampo a Taibi.

Le sue costanti prestazioni ad alti livelli fanno sì che le maggiori squadre della Serie A inizino ad interessarsi a lui. Nel frattempo il Perugia di Serse Cosmi è diventato la mascotte del campionato, grazie alla grinta del tecnico in panchina e alle belle giocate del regista romano.

L’11 Marzo del 2001, Roberto Mancini esordisce come allenatore in Italia, sedendosi sulla panchina della Fiorentina. Si gioca a Perugia, la partita finisce 2 a 2, Liverani fa l’assist per il primo gol e segna il secondo per gli umbri.

Il culmine di queste grandi performance arriva con la convocazione in Azzurro da parte del C.T. Giovanni Trapattoni, che conosce bene Liverani per averlo allenato nel Caglari. Nel giro di pochissimi mesi dalla serie C, a titolare in Serie A, alla Nazionale. Fabio Liverani è la rivelazione del campionato ottenendo una vera e propria consacrazione popolare.

Il 25 Aprile del 2001, l’Italia gioca un’amichevole contro il Sudafrica proprio a Perugia. In quell’occasione esordiscono dal primo minuto il capitano degli umbri Materazzi e lo stesso Liverani. La partita viene vinta dall’Italia per 1 a 0, confermando il centrocampista a suo agio fra giocatori di primissimo livello.

A fine stagione il Perugia si salva con discreta tranquillità e Liverani è pronto ad iniziare un nuovo anno nel capoluogo umbro. La preparazione estiva lo vede ancora tra i protagonisti, anche se le “sirene” del calciomercato l’hanno più volte accostato alla Juventus.

Dopo aver saltato le prime due partite del campionato 2001/02 per squalifica, Fabio si fa trovare al suo posto in mezzo al campo per la trasferta di Verona del 16 Settembre 2001 contro l’Hellas, nella quale segna il gol (dal dischetto) del momentaneo vantaggio.

Il 28 Settembre, a poche ore dalla fine del calciomercato, al Presidente Gaucci però arriva un’offerta irrinunciabile per il numero 20 dal club di Sergio Cragnotti: 25 miliardi di Lire e metà cartellino di Emanuele Berrettoni. Fabio Liverani diventa così un giocatore della Lazio, grazie ad un blitz notturno della dirigenza capitolina.

Lì per lì, quando me l’hanno annunciato, ho pensato ad uno scherzo. Gradevole quanto vi pare, ma pur sempre uno scherzo. Fin da bambino sono sempre stato tifoso della Roma. E quest’estate ho passato, assieme ad amici di sempre, giorni e giorni a festeggiare lo scudetto della squadra di Capello. Ora mi ritrovo dalla parte opposta del tifo capitolino. Non me ne faccio certo un cruccio. Tutt’altro. Sono un professionista e sono prontissimo ad onorare la nuova situazione”.

Liverani è un ragazzo schietto, sincero e con franchezza non nasconde le sue simpatie romaniste, ma esprime anche tutta la sua contentezza per essere arrivato in una squadra zeppa di campioni.

C’era ancora la gestione Cragnotti quindi stiamo parlando di giocatori di primissimo livello. Gente come Stankovic, Simeone, Crespo, Mihajlovic, Favalli, Nesta, Stam, Peruzzi, Claudio Lopez, Ravanelli… e potrei pure continuare. Questo tanto per capire di che livello fosse la rosa. Una formazione che scendeva in campo per vincere contro chiunque e io mi trovavo in mezzo a loro alla prima grande esperienza”.

Mister Zaccheroni alla Lazio deve sostituire a centrocampo Veron e Nedved venduti durante la sessione estiva di calciomercato, ma anche l’infortunato Diego Pablo Simeone.

Per questo motivo Fabio Liverani esordisce subito da titolare il 30 Settembre 2001 nel pareggio interno a reti bianche contro il Parma, l’accoglienza dei quasi 40.000 dell’Olimpico è stata tiepida nei suoi confronti.

La Curva Nord ce l’ha soprattutto con la presidenza. Lo striscione esposto nel cuore del tifo laziale infatti recita: “Il problema non si risolve con Liverani. Pensa a chi hai venduto ieri e a chi partirà domani”, con due stendardi emblematici (e preveggenti) raffiguranti le maglie di Nesta e Crespo.

Il primo gol di Liverani con la maglia della Lazio arriva nel 4 a 1 contro l’Udinese in Friuli.

Ma è il secondo a conquistare anche gli ultimi scettici tra i laziali, è il gol vittoria della sfida contro la Juventus del 24 Novembre del 2001. Un pallonetto d’esterno sinistro di rara precisione che beffa Buffon da oltre 30 metri. La stagione 2001/02 di Liverani si conclude con 27 presenze totali (26 in Serie A e 1 in Coppa Italia) e 2 gol.

La stagione successiva la Lazio cambia allenatore, dopo il deludente sesto posto ottenuto dalla compagine allenata da Zaccheroni: arriva Roberto Mancini. La società è costretta a vendere per evidenti problemi di bilancio, ma la rosa rimane di grandissimo livello. Liverani viene fermato da un fastidioso infortunio al polpaccio sinistro, che gli compromette tutto il girone d’andata. In quello di ritorno gioca con più continuità ma quasi sempre subentrando dalla panchina.

Nel 2003/04 la “banda Mancini” continua a stupire dopo l’ottima annata precedente conclusasi con un quarto posto in classifica e le semifinali di Coppa Uefa (perse contro il Porto di Josè Mourihno). L’entusiasmo per un bel gioco ritrovato, risultati ottenuti e giocatori di alto profilo, viene smorzato dall’abbandono di Sergio Cragnotti a causa della gravissima crisi finanziaria di cui è vittima il suo gruppo. Finisce un’era che in poco più di 10 anni ha riscritto la storia ultracentenaria del più antica squadra della Capitale.

Liverani gioca con più continuità in tutte e tre le competizioni: 26 presenze in Serie A, 6 in Champion’s League e 7 in Coppa Italia (1 gol), vincendo a fine anno la Coppa Italia in finale contro la Juventus.

L’anno successivo la Lazio rischia di non potersi iscrivere al campionato, ma l’avvento di una nuova proprietà salva l’ultracentenaria storia della sezione calcio. Il Presidente Claudio Lotito rivoluziona lo staff tecnico e la rosa. La Lazio ha gravi problemi economici, deve ricominciare da zero. Nascono delle incomprensioni tra Liverani e il neo Presidente: “Per me si trattò del classico momento sbagliato. Lotito entrava in un mondo nuovo e per lui tutto ciò che rimandava al “vecchio”, Liverani incluso, lo considerava il male assoluto”.

La stagione 2004/05 vede avvicendarsi in panchina per i biancocelesti prima Mimmo Caso, poi Giuseppe Papadopulo. Grazie all’avvento di quest’ultimo Liverani torna ad essere il perno della squadra. Fondamentale nel derby del 6 gennaio 2005, importante con il suo carisma e la sua classe nel fulcro del gioco. 24 presenze in campionato e 1 gol (decisivo nella sfida salvezza contro l’Atalanta), lo rendono protagonista nell’anno zero lotitiano.

Nel 2005/06 arriva Delio Rossi, Liverani è all’ultimo anno di contratto con la Lazio. Sul campo la squadra raggiunge un ottimo 6° posto con la qualificazione in Coppa UEFA, ma con Calciopoli viene riscritta la storia di questo campionato. La storia di Liverani con la Lazio si conclude dopo 5 stagioni intense. “Lotito tentò anche di offrirmi un rinnovo di contratto, una proposta più di facciata per calmare la piazza, ero il capitano, avrei potuto prolungare per altri cinque anni e arrivare a dieci in biancoazzurro, ma il Presidente allora non aveva capito il Liverani uomo, prima che il giocatore”.

Nelle due stagioni successive il centrocampista romano approda alla Fiorentina di Prandelli, con la quale gioca da titolare un gran numero di match ottiene una qualificazione in Champion’s League e raggiunge le semifinali di Coppa Uefa.

A 32 anni approda al Palermo con cui firma un triennale. Negli anni trascorsi in Sicilia incrocia in panchina due sue vecchie conoscenze, Delio Rossi e Serse Cosmi. Con i rosanero ottiene un’incredibile qualificazione in Europa League e gioca la storica finale di Coppa Italia persa contro l’Inter per 3 a 1.

Dopo il ritiro decide di diventare allenatore. Inizia dal 2011 con le giovanili del Genoa, fino alla prima squadra affidatagli nel 2013 per poi essere esonerato dopo sole 7 partite ma con un derby vinto contro la Sampdoria di Delio Rossi, con un rotondo 3 a 0.

Dopo la parentesi inglese al Leyton Orient e alla Ternana in Serie B, nel 2017 approda al Lecce. Fabio Liverani con il gioco che ha sviluppato per la sua squadra ha conquistato la piazza pugliese. Dopo la promozione in serie B dello scorso anno, domenica prossima vincendo in casa contro lo Spezia ha la possibilità di far tornare il Lecce in Serie A senza giocare i play off.

Oggi Liverani è un allenatore che sta macinando record, continuando a stupire. Ma quando si ferma a pensare alla sua carriera da calciatore ha sempre parole al miele per la Lazio: “Dopo le difficoltà iniziali, compreso il “marchio” di tifoso romanista, sono stati cinque anni eccezionali. I ricordi di quel gruppo e di Formello li ho scolpiti nella mente e nel cuore”.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Pastore: “Il Fotogenico Piero” che bucava le reti e… l’obiettivo

di Jean Philippe ZITO

“La partita si è svolta su un terreno reso addirittura impraticabile dalla pioggia caduta nel pomeriggio: un terreno fangoso e vischioso che ha messo a dura prova la solidità degli atleti e di conseguenza la perizia dell’arbitro. Tutte le azioni, o quasi tutte, dell’una e dell’altra parte sono state alla mercé della fortuna: fasi impeccabili di gioco venivano frustrate dal fango: altre, assai più imperfette, trovavano nel fango la loro casuale correzione. Un palcoscenico di questo genere doveva vedere la prevalenza, almeno in linea di stile della squadra più forte: e la squadra più forte oggi si è palesata la Lazio”.

Il 30 Aprile del 1933 si gioca Alessandria-Lazio, in una giornata piovosa che la cronaca de “Il Littoriale” ci descrive come determinante, non solamente per lo stato decisamente precario del campo, ma anche per lo spettacolo offerto dai giocatori contrapposti.

La Lazio si è presentata in Piemonte con questo undici: Capitan Sclavi, Bertagni, Del Debbio, Fantoni (II), Tonali, Serafini, “Filó” Guarisi, Fantoni (I), Pastore, Gabriotti, De Maria. I padroni di casa dell’Alessandria rispondono con: Mosele, Lombardo, Fenoglio, Avalle, Costenaro, Barale (III), Cattaneo, Scagliotti, Notti, Marchina, Borelli.

L’Alessandria ha messo in campo tutto l’agonismo possibile fin dalle prime battute, ma si è fatta comunque sorprendere al sesto minuto da un’azione dello sgusciante De Maria, che ha fornito l’assist per il gol decisivo del centrattacco Pietro Pastore, lasciato colpevolmente solo davanti al portiere avversario. Il risultato non cambia nonostante la Lazio finisca la partita in 9 uomini (espulsi De Maria e lo stesso Pastore), contro 10 (rosso per Lombardo).

Il “fotogenico Piero” oltre ad essere un attaccante implacabile sotto porta, da anni è impegnato in numerose pellicole cinematografiche.

Nato a Padova nel 1903, inizia a giocare a pallone da giovanissimo nella squadra della città di Sant’Antonio assieme al fratello Vito. Quest’ultimo, a causa di un contrasto violento, perde la vita durante una partita. La famiglia sconvolta dall’accaduto, vieta a Piero di continuare a fare il calciatore. Ma dopo essersi dedicato per breve tempo al pugilato, decide comunque di tornare alla sua più grande passione: il calcio.

Nel 1923, a vent’anni, si accasa alla Juventus. Mentendo ai genitori, dice che ha trovato lavoro alla FIAT di Torino per trasferirsi nel capoluogo piemontese. In maglia bianconera disputa 4 stagioni (55 gol il suo personale bottino), vincendo il campionato nel 1925/26 mettendo a segno 4 gol, tra andata e ritorno, nella finale contro l’Alba di Roma.

Di questo successo bionconero scrive Vladimiro Caminiti: “Combi, Rosetta, Allemandi, Grabbi, Viola, Bigatto, Munerati, Vojak, Pastore, Hirzer, Munerati. È la Juventus che vince il secondo scudetto, e vi gioca un centrattacco innamorato delle stelle, da intendere come dive e miss, passa le ore parlando di Greta Garbo, cucendosi addosso, mentre segna goal che quasi spaccano la rete, nuove parti da primo attore. Si vede attore, si sogna attore. Fa rima con Pastore.”

Nel 1927 si trasferisce al Milan, indossando la maglia rossonera per due stagioni (59 partite, 39 gol). Nell’estate del 1928, Pastore disputa con l’Italia le Olimpiadi di Amsterdam, ottenendo la medaglia di bronzo dopo che la Nazionale ha sconfitto con un roboante 11 a 3 l’Egitto.

Dopo le Olimpiadi, con il permesso della società meneghina, si aggrega ad una tournée estiva del Brescia negli Stati Uniti. Le “rondinelle” salpano dal porto di Genova il 23 luglio 1928 sul transatlantico Duilio, raggiungendo New York in 10 giorni. Dal 5 Agosto al 5 Settembre il Brescia ha disputato 9 partite; Piero ne ha giocate 5 segnando altrettanti gol.

Durante il viaggio in America, a New York, viene avvicinato da alcuni impresari della Paramount colpiti dalla sua grande somiglianza con Rodolfo Valentino. Il primo sex symbol della storia del Cinema è scomparso prematuramente da un paio d’anni e negli USA sono alla disperata ricerca di un erede. A Piero viene proposto un provino, che viene superato alla grande. Gli impegni calcistici però non gli consentono di accettare l’allettante proposta degli Studios.

Tornato in Italia si trasferisce a Roma, iniziando a giocare per la Lazio. Il regista danese Alfred Lind, giunto nella Capitale per girare il suo nuovo lungometraggio, corteggia Pastore proponendogli un ruolo nel film muto “Ragazze, non scherzate”. Piero acconsente lusingato, debuttando così nel mondo del Cinema. Poco dopo concede il bis, in uno degli ultimi film muti della storia: “La leggenda di Wally”, di Gian Orlando Vassallo.

Nel frattempo con la Lazio nei campionati 1929/30 e 30/31 disputa 57 partite, segnando 23 gol. Dopo una nuova breve parentesi a Milano nel 31/32, sempre sponda milanista, torna alla Lazio. Nella “BrasiLazio” trova poco spazio anche perché sempre più impegnato nella carriera cinematografica: in due stagioni gioca soltanto 18 partite segnando 9 goal.

Nel 1933 lo sceneggiatore Mario Soldati, amico di Pastore dai tempi della Juventus, lo segnala per il ruolo di protagonista al regista Walter Ruttman per il film “Acciaio“, interamente girato nelle acciaierie di Terni. Il debutto di Piero da primo attore, viene unanimemente elogiato dalla critica cinematografica. Come calciatore disputa la penultima stagione al Perugia in serie B nel 1934/35 (3 presenze, 2 gol) e l’ultima nella Roma (4 presenze, 1 gol).

Terminata l’esperienza da calciatore, inizia un lungo percorso che lo vede recitare al fianco di attori del calibro Gino Cervi, Alberto Sordi, Erminio Macario, Totò, Kirk Douglas, Vittorio Gassmann, Anthony Quinn e Sofia Loren. Lavora con registi come Rossellini, Zampa, Comencini, Camerini, Mastrocinque, Mattoli, Steno e lo possiamo ammirare anche nel cult movie dedicato alla città eterna “Vacanze romane”.

Intervistato nel 1955 dalla rivista “Il Calcio Illustrato” dichiara: “Se rinascessi farei il calciatore, senza dubbio. La gente dello sport è diversa, è migliore della gente d’affari”.

A testimoniare come l’amore viscerale, genuino e sincero per il calcio non l’abbia mai abbandonato.

Categories
Calciatori Jean Philippe Zito

Le 100 vite calcistiche di Diego Fuser

di Jean Philippe ZITO

C’erano anche le condizioni per tornare alla Lazio prima di andare alla Roma. A Parma andavo molto d’accordo con Crespo a cui ho fatto fare tanti gol. Quando lui venne a Roma la prima cosa che disse fu di prendere Fuser, ma il vice allenatore era Mancini…C’era quella possibilità che non è stata presa in considerazione, poi mi hanno proposto la Roma nel momento in cui era al vertice e ho detto di sì”. Diego Fuser è convinto di non aver mancato di rispetto ai tifosi laziali andando a giocare per due anni alla Roma.

È vero. Magari i tifosi della Lazio ci possono essere rimasti male, però io penso che un calciatore quando dà tutto, quando va in una società e dimostra che per quella maglia dà tutto…”. Fuser ha dimostrato sul campo, nella sua ventennale carriera, di non risparmiarsi mai. Infatti l’impegno e la corsa, oltre alla tecnica e un gran tiro da fuori, sono le caratteristiche principali del piemontese, funambolo della fascia destra.

Tutta la famiglia di Diego Fuser tifa Torino da sempre, anche per questo motivo il centrocampista di Venaria Reale fa parte degli ultimi “ragazzi del Filadelfia”.

Cresce con la maglia granata addosso, nel mito del Grande Torino e calpestando il prato dello stadio simbolo della gloriosa società torinese.

Esordisce in Serie A il 26 Aprile del 1987, durante il derby della Mole. Junior si tocca l’inguine sul finire del primo tempo, ad inizio ripresa non si presenta in campo: stiramento.

Gigi Radice fa alzare dalla panchina il diciannovenne proveniente dalla Primavera.

Fuser entra in campo e gioca una partita d’applausi contro Platini e compagni. È, insieme a Lentini, protagonista nell’azione del pareggio di Cravero, un debutto da incorniciare.

La stagione seguente 87/88, gioca 16 partite in serie A e 10 in Coppa Italia. Un anno pieno di rimpianti per il popolo granata. Il Toro infatti ha la peggio nel doppio confronto in finale di Coppa Italia contro la Sampdoria di Mancini e Vialli e in campionato viene sconfitto ai calci di rigore dalla Juventus nello spareggio per la conquista del sesto posto, ultimo piazzamento utile per la qualificazione in Coppa UEFA dell’anno successivo.

La consacrazione in campionato arriva l’anno dopo. 38 presenze totati (30 in Serie A e 8 in Coppa Italia), 4 gol. Il 27 Novembre 1988 nella vittoria allo Stadio Olimpico di Roma contro i giallorossi per 3 a 1, arrivano i primi gol nel massimo torneo; una doppietta per il numero 14 che a 20 anni inizia prepotentemente a far parlare di sé.

Nell’estate del 1989 il Milan di Berlusconi acquista per 7 miliardi di Lire Diego Fuser, che si trasferisce nella squadra campione d’Europa in carica. Arrigo Sacchi è contento del suo arrivo e lo fa esordire immediatamente in una partita ufficiale. Il 23 Agosto debutta in Coppa Italia con la maglia rossonera, nella vittoria ai calci di rigore contro il Parma.

Durante la stagione si ritaglia un buono spazio nonostante l’agguerrita concorrenza. 20 presenze in Serie A e 2 gol di cui 1 nel derby della Madonnina vinto per 3 a 0 (i derby sono una costante nella carriera di Fuser); 8 partite giocate in Coppa Italia, 2 in Coppa dei Campioni, 2 nelle finali di Supercoppa Europea e 1 nella finale di Coppa Intercontinentale. A causa della “fatal Verona” però non vince lo Scudetto.

Fuser si può decisamente consolare però con la Supercoppa Europea vinta contro il Barcellona, con la Coppa Intercontinentale vinta contro il Nacional di Medellin e con la Coppa dei Campioni conquistata contro il Benfica a Vienna per 1 a 0.

Per il ventunenne Diego, il palmares non è tutto. Vuole giocare con maggiore continuità e il Milan lo manda in prestito per un anno alla Fiorentina. L’allenatore della Viola è Sebastião Lazaroni che è ben contento di impiegarlo con continuità. Nel 90/91 infatti raccoglie 39 presenze (32 in Serie A e 7 in Coppa Italia). Mette a segno ben 8 gol, 5 dei quali direttamente su calcio di punizione.

“Lazaroni mi ha insegnato a calciare le punizioni, cosa che io non avevo mai fatto. A fine allenamento stavo mezz’ora, tre quarti d’ora, e lui mi diceva come calciare. Dovevo giocare sulla tensione del portiere…”. Diego Fuser racconta il gol più importante di quella stagione. “Quello con la Juve, su calcio di punizione, forse è stato il più bello. C’era in porta Tacconi. Palo-gol. Fare un gol e vincere la partita 1 a 0 alla fine mi ha permesso di entrare nella storia di Firenze e questa è una cosa che mi fa veramente piacere”.

Arrigo Sacchi è diventato il Commissario Tecnico della Nazionale, Fabio Capello l’ha sostituito sulla panchina del Milan. Diego torna a Milanello con un bagaglio d’esperienza arricchito dall’anno passato a Firenze, ma non riesce a trovare comunque grande spazio. 22 presenze totali tra Campionato (per lo più spezzoni di gara) e coppa nazionale, con un bottino di 4 reti e 3 assist totali. A dispetto dello Scudetto alzato al cielo a fine stagione, Diego vuole giocare titolare e accetta una nuova sfida.

La Lazio di Cragnotti lo acquista (7 miliardi di Lire) per la stagione 1992/93. Fuser parte per Roma con un albo d’oro di notevole importanza per un ragazzo di 24 anni. A Formello trova Dino Zoff come allenatore che gli consegna la fascia destra del centrocampo. I primi gol con la Lazio arrivano con la prima vittoria in campionato: il 4 Ottobre 1992 alla quinta giornata, una doppietta nel 5 a 2 contro il Parma. Il bottino personale a fine annata recita: 33 presenze da titolare (solamente 1 partita saltata per squalifica) e record personale di gol, ben 10 in Serie A. Quarti di finale in Coppa Italia, quinto posto in campionato e qualificazione in Coppa UEFA. La sfida accettata ad inizio stagione è vinta.

Nel 93/94 alcuni piccoli infortuni non consentono a Fuser di fare l’en plein di presenze, è comunque tra coloro che giocano di più (31 presenze e 2 gol complessivi). Con la Lazio ottiene un ottimo quarto posto finale, in Coppa Italia una brutta figura con l’Avellino e in Coppa UEFA il cammino non è fortunato. Nei derby, dopo tre pareggi consecutivi, il 6 Marzo del 1994 arriva la sua prima vittoria. La Lazio vince 1 a 0, con un gol di Beppe Signori tra la nebbia dei fumogeni e un rigore parato da Marchegiani a Giannini sotto la Sud.

L’anno dopo arriva a Roma, direttamente dal “Foggia dei miracoli”, Zdenek Zeman. “All’inizio fu un trauma, perché la prima settimana di ritiro non si mangiava e si correva come dei dannati. Dopo una settimana così, ho detto: io smetto! Però alla fine devo dire che Zeman per me è stato un allenatore eccezionale, una grandissima persona”.

Fuser con l’arrivo di Rambaudi, inizia a giocare come mezzala destra, ottenendo sempre ottime prestazioni. Il cammino in Europa si interrompe ai quarti di finale contro il Borussia Dortmund, in Coppa Italia in semifinale contro la Juventus, mentre in campionato la Lazio arriva seconda dietro i bianconeri.

Nel 95/96, secondo anno di Zeman, la Lazio arriva terza. Ormai è stabilmente nella parte alta della classifica e Diego Fuser è una certezza del campionato italiano (in questa stagione 39 presenze e 6 gol in totale). Snobbato da Arrigo Sacchi nelle convocazioni per i campionati del Mondo del 1994, viene chiamato dallo stesso per disputare gli Europei del 1996 in Inghilterra.

Dopo le fatiche inglesi, Fuser inizia una nuova stagione nella Lazio e a Roma ormai è di casa. Giunto infatti alla sua quinta stagione con l’aquila sul petto, la sua intenzione è quella di rimanere in biancoceleste ma, soprattutto, di vincere un trofeo. Da troppo tempo il popolo laziale non gioisce per una vittoria e Diego con tutte le sue forze vuole regalare questa gioia ai suoi tifosi. La stagione 96/97 vede un avvicendamento in corsa in panchina. Durante la seconda parte della stagione torna Dino Zoff al posto di Zeman. La Lazio arriva al quarto posto confermando di essere nell’élite del calcio italiano, ma non riesce a spingersi troppo oltre in Europa e in Coppa Italia.

Con Sven Goran Eriksson arriva a Roma anche l’esperienza, l’acume tattico e l’infinita classe di Roberto Mancini. Una personalità importante come quella del fantasista marchigiano ha ripercussioni in uno spogliatoio unito e con senatori che, solitamente, hanno l’ultima parola. Signori è il primo a subire questa nuova situazione ed è costretto a lasciare la sua amata Lazio durante la sessione invernale del calciomercato.

Intanto in casa Fuser però c’è una preoccupazione più grande, il figlio Matteo, a causa di una grave malattia, sta molto male e ha bisogno di cure continue. Diego reagisce in campo, con la sua solita dedizione nella stagione in cui ottiene i risultati migliori da quando è alla Lazio. Entra nella storia per aver vinto 4 derby su 4 in una sola stagione, realizzando anche un gol su punizione in uno di essi.

Il più antico club della Capitale poi arriva in finale sia in Coppa Italia che in Coppa UEFA, dove affronta le due milanesi. Il 29 Aprile del 1998 è nei cuori di ogni laziale. Dopo aver perso la finale di Coppa Italia d’andata contro il Milan per 1 a 0 al 90° minuto, un Olimpico colmo di passione crede nell’impresa. La vittoria della finale di ritorno, grazie ad una clamorosa rimonta, per 3 a 1 consente alla Lazio di vincere un trofeo dopo 24 anni e un’altra Coppa Italia dopo 40 anni. Diego Fuser è il capitano ed è lui ad alzare la Coppa. Invece in finale di Coppa UEFA Fuser e compagni si scontrano contro l’Inter del “Fenomeno” Ronaldo; un secco 0-3 che non consente il bis di vittorie.

“Quell’anno lì io andai a vedere una casa, per finire la carriera alla Lazio. C’era qualcuno però che non mi voleva, qualcuno che faceva l’allenatore ma non era l’allenatore. Ci furono dei problemi e io andai via”. I contrasti con Roberto Mancini sono il motivo per cui Diego Fuser, dopo 6 stagioni nelle quali si è legato in maniera profonda al mondo Lazio, va via. L’aspetta a braccia aperte il Parma di Alberto Malesani.

La stagione 1998/99 per Fuser è un’annata da incorniciare: titolare inamovibile, entra fin da subito negli schemi della nuova squadra e gli riesce la doppietta svanita l’anno prima. Infatti vince, nella doppia finale contro la Fiorentina, la Coppa Italia e a Mosca la Coppa UEFA contro il Marsiglia con un rotondo 3 a 0.

L’anno dopo inizia con un altro successo per il Parma di Fuser, vince la Supercoppa Italiana contro il Milan. A fine stagione però non riesce a qualificarsi nella massima competizione europea, perde lo spareggio Champion’s contro l’Inter. L’ultimo anno al Parma vede cambiare tre allenatori: Malesani, Arrigo Sacchi e Renzo Ulivieri. Con quest’ultimo non si è creato un gran feeling, Diego vuole cambiare, vuole tornare a Roma.

“Quando andammo a giocare a Roma (con il Parma n.d.r.) l’ultima partita e la Roma vinse lo scudetto Capello mi chiese se volevo andare alla Roma perché loro facevano la coppa dei Campioni e sulla destra avevano solo Cafù”. Schietto, sincero. Diego Fuser decide coraggiosamente di tornare nella Capitale, questa volta dall’altra parte del Tevere.

Nelle due stagioni con la maglia romanista gioca poco, nella seconda stagione 2001/02 addirittura solo 7 presenze totali e, curiosamente, nei derby è sempre assente.

Fuser ha dichiarato che ha visto poco il campo a causa di “una scelta societaria”.

Con la Roma vince una Supercoppa Italiana da titolare contro la Fiorentina allenata da Roberto Mancini. Si è preso così una piccola rivincita.

L’ultimo anno da professionista Diego Fuser lo disputa al Torino. La stagione 2003/04 in Serie B, lo vede per 29 volte in campo con la maglia con la quale è cresciuto e con la quale decide di appendere al chiodo gli scarpini all’età di 36 anni.

Insieme all’amico Gianluigi Lentini decide di giocare nelle serie minori, per divertirsi ancora con il pallone tra i piedi. Nel 2011, poi, il dramma personale: il piccolo Matteo non ce la fa e a 15 anni perde la battaglia contro la malattia, lasciando un vuoto incolmabile nella vita dei suoi genitori. Con fatica Diego si è rialzato anche grazie al calcio, la sua grande passione l’ha aiutato a reagire.

Tornando indietro con la memoria Fuser pensa al ricordo più bello da calciatore, aver alzato la Coppa Italia da capitano della Lazio. “È stata una gioia incredibile perché vedevi realizzato un sogno, ci speravano tutti e quindi quello è stato un momento sicuramente molto, molto bello”.

Categories
Club Jean Philippe Zito

Il Paok Salonicco, dal mito di Koudas al titolo atteso 34 anni

di Jean Philippe ZITO

“A Salonicco cristiani, ebrei, e musulmani hanno convissuto per secoli. Fino al 1943, quando tutti gli ebrei della città vennero deportati, soprattutto ad Auschwitz. Per la prima volta dal 1430, quando il sultano Murad II varcò trionfalmente le sue porte, la città era ritornata completamente greca. Ma fino ad allora le rive del Mediterraneo avevano ospitato una metropoli dove s’incrociavano minareti e cipressi, sinagoghe e monasteri, capitelli romani e chiese bizantine…”. Mark Mazowe nel libro “Salonicco città di fantasmi”, ci narra come la seconda città più popolata della Grecia sia stata contaminata per secoli nel suo tessuto sociale e urbano.

Dalla Torre Bianca (monumento simbolo), fortezza costruita dagli Ottomanni nel XV secolo, alla Chiesa greco-ortodossa di San Demetrio (patrono della città); dalla Tomba di Galerio (mausoleo Romano), fino alla Moschea Alatza Imaret, questo melting pot è ancora tangibile.

Salonicco è conosciuta anche come Symprotevousa (Συμπρωτεύουσα), ovvero co-capitale, retaggio culturale ereditato dall’Impero Ottomano; era considerata infatti alla pari di Costantinopoli. Oggi è il capoluogo della Macedonia Centrale e, inevitabilmente, ha visto crescere nei secoli contrasti tra le varie etnie.

Nella patria delle Olimpiadi le società sportive nascono prevalentemente come polisportive. La particolare mutazione demografica intercorsa a partire dal primo decennio del ‘900, confluisce di conseguenza anche nei gruppi agonistici organizzati.

Nel 1908, ancora sotto dominazione ottomana, nasce la prima squadra di calcio di Salonicco, l’Iraklis. I fondatori scelgono come colori sociali il bianco e l’azzurro della bandiera greca, spinti dall’orgoglio indipendentista. Il simbolo è Eracle (Iraklis, Ηρακλής in greco), semidio della mitologia greca.

Alcuni atleti dissidenti dell’Iraklis fuoriescono dalla polisportiva, creandone un’altra. Contrappongono al semidio Eracle (Ercole per i Romani), il dio della guerra Ares come simbolo della nuova associazione. Nasce così, nel 1914, l’Aris di Salonicco che identifica le proprie radici storico-culturali nel periodo glorioso di Alessandro Magno, usando i colori giallo e nero di Bisanzio dell’epoca ellenica, facendoli diventare propri.

La terza società, che assieme alle altre due si divide la città di Salonicco, è il PAOK erede dell’Hermes Sports Club, squadra di calcio dei greci di Costantinopoli.

Il Club Atletico Pan-tessalonicese dei Costantinopolitani (PAOK), viene fondato nel 1926 dai rifugiati della guerra greco-turca. Al termine del conflitto, nel 1922, circa 1 milione di greci si stabiliscono in Macedonia e in Attica. Lo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia è impressionante, sono circa 2 milioni le persone interessate. I cristiani ortodossi si insediano in Grecia, chi professa la fede musulmana va in Turchia.

Ecco quindi spiegata la scelta cromatica del PAOK: Il bianco rappresenta la speranza in un nuovo avvenire, il nero del lutto della guerra e per la sofferenza subita.

Il primo emblema del PAOK raffigurava un quadrifoglio e un ferro di cavallo. Le foglie erano verdi e sopra di loro c’erano le iniziali della squadra. Kostas Koemtzopoulos, primo presidente del club, ha avuto questa idea ispirato dal suo marchio di sigarette.

Nel 1929 viene scelto l’odierno emblema, l’aquila a due teste simbolo di Costantinopoli.

Questa complessa suddivisione delle squadre di calcio a Salonicco, ha portato ad una distribuzione del tifo nella città. Nella parte est (Sykies) si trovano i tifosi dell’Iraklis, una minoranza rumorosa; nella parte nord-ovest ci sono i tifosi dell’Aris e nella zona sud, quella vicino al porto, i caldi supporters del PAOK.

I derby sono molto sentiti, soprattutto tra Aris e il PAOK che giocano stabilmente la SuoperLega greca, mentre l’Iraklis da anni è relegato nelle serie minori a causa di costanti problematiche societarie.

La rivalità è ancor più forte nei confronti delle tre squadre di Atene: l’AEK, il Panathinaikos e l’Olympiakos Pireo, che per decenni si sono spartiti le vittorie in campionato lasciando pochissimo spazio alle altre squadre. Infatti l’Alpha Ethniki non ha visto altri vincitori oltre alle 3 squadre della capitale. Solamente nel Campionato Panellenico ha prevalso una squadra diversa. L’Aris Salonicco che è stato campione di Grecia in tre diverse edizioni: 1927/28, 1931/32 e 1945/46.

Nella Salonicco della fine degli anni ’50, un dodicenne inizia la trafila nelle giovanili del PAOK. Giorgos Koudas vive ad Agios Pavlos, un sobborgo di Salonicco, proviene da una famiglia povera che riesce a sopravvivere esclusivamente grazie ai fondi del Piano Marschall; il boom economico che sta investendo la Grecia per loro è solo un miraggio.

Nel 1963 a 17 anni Koudas esordisce in prima squadra. I tifosi del PAOK simpatizzano immediatamente con quell’agile ala destra, che fa della fantasia e del dribbling i suoi punti di forza. Nelle prime due stagioni, trascorse in pianta stabile in prima squadra, Koudas si è dovuto accontentare di due ottavi posti in campionato.

Nella stagione 1965/66 Giorgos con i suoi 13 gol aiuta il PAOK ad arrivare 6°, partecipando con un gol alla vittoria contro l’odiato Olympiakos per 3 a 2.

A 19 anni la sua carriera è definitivamente esplosa, molti addetti ai lavori iniziano ad interessarsi al suo precoce talento.

Per il talento della “Dikefalos tou vorra” l’estate del 1966 si rivela essere molto turbolenta.

È profondamente combattuto; da una parte vorrebbe continuare a giocare con la squadra per cui fa il tifo, cercando di portare un titolo nella Salonicco bianco-nera, dall’altra i problemi economici che ciclicamente affliggono la propria famiglia non gli consentono di vivere agiatamente: “Io e la mia famiglia abbiamo sopportato molto e siamo arrivati al punto di privarci anche del cibo”, ha dichiarato Koudas.

Nella seconda metà degli anni ’60, nel calcio greco non si può parlare ancora di professionismo. Per questo motivo Giorgos è tentato dall’allettante offerta dell’Olympiacos.

La prospettiva di ricevere un lauto stipendio e, nello stesso tempo, di poter giocare nel club più importante del Paese lo fa vacillare, tanto da cedere alle lusinghe.

Koudas si trasferisce al Pireo, iniziando a giocare con i bianco-rossi di Atene alcune amichevoli precampionato. Nel frattempo a Salonicco è scoppiato il putiferio. I tifosi hanno messo a ferro e fuoco la sede del PAOK, scagliandosi contro la società rea di aver ceduto un “figlio di Tessalonica” ai “nemici” di Atene.

Dopo le estenuanti proteste della tifoseria, la dirigenza del PAOK decide di bloccare la cessione, dichiarando di non averla mai avvallata ufficialmente. Koudas quindi fa ritorno a casa, cercando di mettere da parte le inesorabili polemiche interne, convivendoci per un’intera annata.

La stagione 1968/69 lo vede protagonista assoluto, con il record di gol segnati: 26 su 32 presenze tra Campionato e Coppa di Grecia. I tifosi bianconeri lo acclamano re, dedicandogli addirittura il soprannome di “Alessandro Magno”.

La svolta per la carriera del numero 10 e capitano del PAOK avviene con l’arrivo di Les Shannon come tecnico. Sposta Giorgos Koudas da ala destra a trequartista, facendolo diventare il cardine dello sviluppo di gioco della squadra, affidandogli così le chiavi del centrocampo.

Nella stagione 1971/72 arriva anche il primo trofeo: il PAOK vince la Coppa di Grecia in finale contro il Panathinaikos per 2 a 1, grazie proprio ad una doppietta di Koudas.

Due anni più tardi il PAOK vince nuovamente la Coppa nazionale, dopo aver sconfitto l’Olympiakos ai calci di rigore (curiosità: l’unico rigore sbagliato per i bianconeri è di Koudas). Salonicco si è presa una piccola rivincita contro Atene.

La grande rivalsa nei confronti del “triunvirato ateniese” avviene nella stagione 1975/76.

In panchina non c’è più Les Shannon, passato ai rivali cittadini dell’Iraklis. L’ungherese Gyula Lóránt ha preso il suo posto, senza mettere mai in discussione la leadership di Koudas “Alessandro Magno”. Prende parte con15 gol alla marcia trionfale (21 vittorie, 7 pareggi e 2 sconfitte) versi il titolo. Il PAOK diventa campione è la prima Alpha Ethniki vinta da una squadra non ateniese dal 1946.

Giorgos adesso è il simbolo di una squadra, ma anche della città e il 12 Settembre del 1979 diventa un emblema nazionale. Grazie alla vittoria per 1 a 0 della Grecia contro l’URSS, per la prima volta nella sua storia la nazionale ellenica conquista la fase finale di un torneo.

Nel 1984 a 37 anni, dopo 20 di fedeltà al PAOK Koudas appende gli scarpini al chiodo. Durante questo periodo si è guadagnato sul campo il titolo di miglior giocatore di sempre del club. Con 607 partite disputate in tutte le competizioni, è il più presente di chiunque altro nella storia del PAOK, segnando ben 164 gol. L’anno seguente festeggia da semplice tifoso il secondo titolo nazionale dei bianconeri di Salonicco.

Dopo 11 anni dal ritiro, il 20 Settembre del 1995 torna in campo a 48 anni con la Grecia in un amichevole organizzata al Toumba, il caldissimo stadio del PAOK. Gioca con la maglia numero 10 e la fascia di capitano al braccio per quasi mezz’ora. Un epilogo degno di uno dei più grandi interpreti del calcio ellenico.

A seguito dell’increscioso episodio del 12 Marzo 2018 in cui il Presidente del PAOK, Ivan Savvidis, al termine della gara contro l’AEK di Atene è entrato in campo con una pistola in bella vista, minacciando l’arbitro (reo di aver annullato un gol alla sua squadra), i bianconeri di Salonicco hanno ricevuto 3 punti di penalizzazione decisivi per la sfida al vertice della Souper Ligka 2017/18.

Domenica prossima, nel giorno di Pasqua, il PAOK ha la possibilità di vincere il suo terzo Campionato. La sfida contro la penultima Levadiakos sarà quindi decisiva per la conquista del titolo ad una giornata dal termine del torneo 2018/19. Il Toumba sarà tutto esaurito, pronto ad esplodere qualora i padroni di casa riuscissero nell’impresa e su quei seggiolini sarà presente senza dubbio l’Alessandro Magno del calcio.