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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Calciatori Fabio Belli

Parigi 1998, Ronaldo vs Nesta: quando eravamo Re

di Fabio BELLI

“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.

Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.

RonaldoNesta1A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.

Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.

Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.

La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Beniamino Vignola: il furetto di scorta

di Alessandro IACOBELLI

Beniamino Vignola: il nuovo “abatino”. Così Gianni Brera etichettò il furetto in maglia bianconera. Il talento mancino, senza nulla togliere all’immensità dell’irraggiungibile cronista, è stato anche altro.

Correva l’anno 1959. Il 12 giugno Beniamino nasce a Verona. Se fosse venuto alla luce a Rio de Janeiro o Buenos Aires, magari con un nome più afrodisiaco, probabilmente avrebbe conseguito maggior gloria. Mingherlino, debole muscolarmente e poco tosto nei contrasti. Ecco, chissà quante volte il buon Ben ha dovuto ascoltare questa cantilena.

La passione, però, distrugge ogni muro. Lui allora aguzza l’ingegno. Sforna tecnica e fantasia. Il piede sinistro non necessita di potenziamento. I filmati disponibili sul web testimoniano la virtuosità di questo folletto dalle misure non certo colossali. 1,72 cm distribuiti in 64 kg. Un po’ come Maradona per intenderci.

I consumistici anni ’80 sono alle porte ed il giovane Vignola si lascia notare ripetutamente nel settore giovanile del Verona. Nelle due annate con la prima squadra scaligera confeziona oltre 40 gettoni conditi da un paio di reti. Beniamino vuole sfondare nel gotha del pallone italiano. In quel fantasmagorico periodo il calcio dello stivale non ha eguali il tutto il pianeta. Da Nord a Sud si può sognare senza limiti. In Campania, oltre il Napoli, c’è un altro popolo che amoreggia con quella misteriosa sfera. Stiamo parlando della gente irpina. Il frizzante veneto sposa il progetto dell’Avellino. Il Presidente Fausto Maria Sara adora la sua creatura che però, l’anno successivo, passerà nelle mani di Antonio Sibilia. La riapertura delle frontiere spedisce all’ombra del “Partenio” la punta brasiliana Juary. Il balletto intorno alla bandierina, per festeggiare un goal, diventa un vero e proprio cult. Il resto del gruppo è assolutamente rispettabile. I giovani Tacconi, Beruatto e Carnevale viaggiano a mille. Senza dimenticare capitan Di Somma, Pellegrino Valente, Salvatore Campilongo e Guido Ugolotti.

Vignola, in tale complesso, è la ciliegina sulla torta. Segna e fa segnare. Commuove il caloroso pubblico biancoverde domenica dopo domenica. La zona del mister Luis Vinicio è un’orchestra intonatissima. In tre stagioni 88 presenze e 16 marcature. Per l’Avellino si materializza in sequenza un decimo, un ottavo ed un nono posto. Passano in rassegna diversi allenatori. Dal già citato Vinicio a Tobia, passando per Marchioro e Veneranda.

Nel 1983 i tempi sono ormai maturi per sbarcare il lunario. Beniamino non può far altro che accettare le lusinghe della Juventus. Nelle prime due annate con la Vecchia Signora il furetto cresce con ottima costanza alle spalle del genio assoluto chiamato Michel Platini. Di tanto in tanto viene gettato nella mischia, dove risponde con invidiabili prestazioni. Mette a referto 52 apparizioni accompagnate da 6 reti. Numeri più che soddisfacenti, considerando anche le complessità tattiche del calcio d’epoca. Il 16 maggio 1984 a Basilea, nella Finale di Coppa delle Coppe, scrive la sua pagina più emozionante. Un suo splendido diagonale mancino fulmina il guardiano del Porto per il momentaneo vantaggio. Gli avversari pareggiano i conti ma, nel corso della ripresa, di nuovo Vignola lancia al bacio Boniek che insacca per il definitivo raddoppio. Nella medesima primavera contribuisce da assoluto protagonista anche allo scudetto bianconero. Deliziosa pure la successiva annata, con l’accoppiata Coppa Campioni (nella tragica notte dell’Heysel) e Supercoppa europea.

Nel momento in cui la carriera poteva esplodere, paradossalmente, Vignola entra in un limbo senza acuti. Torna al primo amore Verona per una sola corsa sulla giostra gialloblu (19 caps e 2 goal). Tra il 1986 ed il 1988 brilla poco nella seconda esperienza juventina. Appende gli scarpini al chiodo nel 1992, dopo aver rappresentato i colori di Empoli e Mantova (in Serie C2).

Beniamino Vignola: il furetto di scorta. Una favola, in fondo, a lieto fine.

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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Allenatori Club Fabio Belli

La leggenda di Sir Alex Ferguson iniziò da Aberdeen

di Fabio BELLI

Sir Alex Ferguson si è congedato da Old Trafford nel 2013 facendo calare il sipario su una autentica leggenda per il Manchester United e il calcio inglese e internazionale in generale. L’ultima Premier League vinta è stato il tredicesimo titolo della Premier League portato a casa dall’allenatore e manager scozzese,che ha chiuso una carriera per certi versi impareggiabile, soprattutto considerando la longevità del suo mandato sulla panchina dei Red Devils.

Soccer - UEFA Cup Winners Cup - Final - Aberdeen v Real Madrid - Nya Ullevi Stadium, Goteborg, SwedenPrima di approdare in terra mancuniana però, e parliamo ormai del lontano 1986, Ferguson si era abbondantemente fatto le ossa in patria, arrivando anche a guidare la Scozia nei Mondiali messicani. In un campionato però da sempre dominato da Rangers e Celtic, le squadre di Glasgow eternamente ai vertici del football scozzese, gli anni ’80 fecero registrare gli ultimi successi di squadre al di fuori dell’Old Firm. Il Dundee United e soprattutto l’Aberdeen, che sotto la guida di Ferguson aprì un ciclo in Scozia e in Europa, straordinariamente vincente per un club di così piccole dimensioni.

Negli ultimi anni Aberdeen ha vissuto un periodo di rinascita culturale importante: terza città della Scozia per estensione e popolazione dopo la capitale Edimburgo e Glasgow, ha una media di iscritti all’università di gran lunga superiore a quella nazionale ed è animata da diverse iniziative culturali e, rarità per le frastagliate coste scozzesi, anche da una spiaggia punto di ritrovo per molti giovani. Ma quando il manager alle prime armi Ferguson vi approda, nel 1979, lo scenario è quello un po’ ruvido e grigio della provincia della Scozia che trova nel calcio occasioni di riscatto sociale. Opportunità abbastanza rare a dire il vero visto che fino ad allora in bacheca per l’Aberdeen c’erano solo due Coppe di Scozia ed il titolo del 1955.

Ferguson da calciatore aveva giocato nell’Aberdeen e conosceva bene l’ambiente e, soprattutto, sapeva perfettamente una cosa: per battere i colossi di Glasgow bisognava giocare d’anticipo, assicurandosi i migliori giocatori scozzesi prima che le loro quotazioni salissero alle stelle. E le scelte di Ferguson dimostrano la lungimiranza che lo contraddistinguerà anche nella quasi trentennale esperienza allo United. In porta, Jim Leighton che difenderà i pali della nazionale scozzese fin oltre i quarant’anni. In difesa, il roccioso Willie Miller, un mito dell’Aberdeen, 558 presenze in vent’anni in biancorosso. A centrocampo Alex McLeish davanti alla difesa e Gordon Strachan a fare gioco. Non è un caso che, con Ferguson come mentore, i quattro diventeranno tutti allenatori. Di sicuro c’è che nel 1980 l’Aberdeen vince, sotto la guida di Fergie, il suo secondo titolo scozzese al primo colpo ma il meglio, è proprio il caso di dirlo, deve ancora venire.

Grazie a Ferguson infatti, il nome di Aberdeen inizia a girare per l’Europa. Soprattutto, tra l’82 e l’84, la squadra delle Highlands vincerà tre Coppe nazionali di fila che spalancheranno le porte della Coppa delle Coppe. Nel 1983, l’anno più esaltante della storia dell’Aberdeen, la squadra ha trovato un equilibrio perfetto e fila dritta verso la finalissima di Goteborg contro il Real Madrid di Santillana, Stielike e Camacho. Partita a pronostico chiuso, tanto che i tifosi delle merengues in buona parte snobbano la trasferta scozzese, con lo stadio Ullevi per tre quarti riempito dai colori biancorossi. L’Aberdeen scende in campo con questa formazione: Leighton, Rougvie, McLeish, Miller, McMaster, Cooper, Strachan, Simpson, Weir, McGhee, Black. Una filastrocca che ogni tifoso di Aberdeen sa ancora ripetere a memoria.

Eh sì, perché dopo sette minuti Eric Black fa esplodere la festa scozzese portando subito in vantaggio i suoi. Il Real capisce che non si tratterà di una passeggiata e, pur trovando al quarto d’ora il pari grazie ad un rigore di Juanito, soffre la grinta e la concretezza scozzese, esaltata dalle rapide trame di gioco disegnate da Ferguson. Ma l’eroe della partita non fa parte dell’undici iniziale dell’Aberdeen. Si va ai supplementari e poco prima del fischio finale Ferguson getta nella mischia John Hewitt al posto di Black. Nel secondo overtime sarà lui a realizzare una rete che è ancora incastonata nella storia del calcio scozzese. Il potente Real Madrid è battuto, l’esultanza sugli spalti è sfrenata, l’Aberdeen dal freddo e grigio Nord della Scozia è catapultato nel caldo cuore d’Europa. Una potenza continentale, confermata dalla successiva vittoria nella Supercoppa Europea, contro l’Amburgo battuto 2-0 nel match di ritorno a Pittodrie, che permetterà di raggiungere il tetto d’Europa ai biancorossi. L’impresa più incredibile di Ferguson, pronto poi a scrivere la leggenda del Manchester United.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Jurgen Sparwasser: 45 anni fa il gol che abbatté il Muro per una notte

di Fabio BELLI

In Germania Est, in pieni anni ’70, lo sport era sfoggio atletico di olimpismo. I calciatori erano prevalentemente scarti di altri sport, non molto considerati dall’opinione pubblica ma soprattutto dai vertici della DDR, interessati a propagandare la forza della Germania Orientale tramite l’atletica, la ginnastica, il nuoto. Quando le due Germanie il 22 giugno 1974 si trovarono così di fronte nella gara che assegnava la vetta nella prima fase a gironi dei Mondiali del ’74, la partita assumeva contorni socio-politici storici, ma dal punto di vista sportivo nessuno si aspettava grandi cose dalla formazione dell’Est che peraltro aveva già fatto la storia nelle due precedenti partite entrando tra le prime otto del mondo per la prima volta nella propria storia.

La corsa al primo posto sembrava di esclusivo appannaggio della Germania Occidentale: piena zeppa di campioni, passando da Beckenbauer a Gerd Muller e arrivando fino al dualismo tra Overath e Netzer, non poteva farsi sfuggire il primato del girone per regalarlo ai cugini dell’Est. Giocando in casa poi! La partita si svolgeva al Volksparkstadion di Amburgo, e la tensione cominciò a montare giorni prima del faccia a faccia. Vennero concessi 8.500 biglietti per i tifosi provenienti dall’Est, i quali solo per il giorno della partita, e strettamente per il tempo necessario al viaggio, poterono usufruire di un visto turistico per oltrepassare il muro di Berlino, marcati stretti e schedati dai VoPos che controllavano l’afflusso in entrata e in uscita. Si diceva addirittura che la Banda Baader-Meinhof, il più temuto gruppo terroristico tedesco in assoluto, fosse pronta ad imbottire lo stadio di tritolo per approfittare dell’enorme visibilità che l’evento avrebbe avuto a livello mondiale.

Fortunatamente nulla di tutto questo accadde ed anzi la partita risultò essere una delle più interessanti del Mondiale. Ci furono occasioni da gol da una parte e dall’altra, Kreische per la Germania Est e Grabowski per la Germania Ovest fallirono nel primo tempo comodissime opportunità. Gli occidentali di Helmut Schoen, col peso del pronostico, non solo in merito alla partita ma con l’intero Mondiale ed il ruolo di padroni di casa sulle spalle, non riuscirono ad esprimere al meglio il loro potenziale. Si arrivò a 13′ dalla fine col punteggio ancora in parità e la sensazione che un eventuale 0-0 finale avrebbe salvato capra e cavoli, permettendo alla RFT di chiudere in testa e alla DDR di fare bella figura smorzando così ogni tipo di eventuale tensione.

Arrivò però il minuto 78, quando dalle retrovie Kurbjuweit fece partire un lungo lancio sul quale la difesa della Germania Ovest si trovò impreparata: il centravanti Jurgen Sparwasser, stella del Magdeburgo vincitore di una Coppa delle Coppe ai danni del Milan, addomesticò la sfera di testa e, dopo averla lasciata rimbalzare, si liberò di Vogts scagliando il pallone alle spalle di un impietrito Maier. La Germania Est si prese così partita e primo posto, e per la prima volta il regime della DDR celebrò l’impresa con toni trionfalistici. Si parlò di premi grandiosi per gli eroi di Amburgo guidati dal CT Georg Buschner, che in realtà ricevettero una gratifica di soli 2500 marchi, già pattuita alla vigilia del Mondiale in caso di passaggio del turno. E se la Germania Ovest si consolò della prima sconfitta nell’unico vero derby mai disputato in un Mondiale proprio con la conquista del titolo iridato, gli alti papaveri della DDR, circa un decennio dopo, incassarono la beffa della fuga di Sparwasser verso l’Ovest: proprio lui, l’eroe di una generazione che anticipò ancora una volta i tempi, prima che il muro si sbriciolasse per sempre.

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Calciatori Fabio Belli

Mike Summerbee, che giocò con un casco da poliziotto in testa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio inglese non mancano i personaggi estrosi, anzi essi sono forse presenti in misura maggiore rispetto a qualunque altro paese. Calciatori spesso sopra le righe, a volte afflitti da problemi anche molto gravi, sfociati nell’alcolismo, nella solitudine, nello spreco del proprio talento. Da George Best a Paul Gascoigne fino a Tony Adams gli esempi sono innumerevoli; in altri casi invece l’essere eccentrici non andava di pari passo con la rovina, ed anzi quel che resta di tanti comportamenti curiosi non è altro che un mucchio di aneddoti da ricordare con vero piacere.

Nella stagione appena trascorsa il Manchester City si è nuovamente laureato Campione d’Inghilterra al culmine di un ciclo vincente avviato dalla proprietà degli sceicchi. Ma per ogni tifoso dei “Citizens” il titolo indimenticabile e più romantico è quello del 1968, quando la squadra di Malcom Allison e Joe Mercer, resa immortale dal capolavoro letterario “Manchester United Ruined my Life” di Colin Shindler, si issò sul tetto del calcio britannico partendo da presupposti del tutto differenti rispetto alla squadra attuale. Si trattava di una formazione “fatta in casa“, partita dalla conquista del campionato di Seconda Divisione e giunta a piccoli ma decisi passi alla conquista del titolo nazionale. La micidiale coppia d’attacco composta da Francis Lee e Colin Bell, il carismatico capitano Tony Book, il rapidissimo Neil Young erano solo alcuni tra gli elementi di spicco di una formazione davvero ben costruita e che conquisterà nei due anni successivi anche la FA Cup e la Coppa delle Coppe.

Tra di loro però l’idolo incontrastato dei tifosi era senz’altro Mike Summerbee, astutissimo e tecnicamente dotato centrocampista di destra che proprio con Young aveva il compito di sostenere la temibile linea d’attacco degli sky blues. Summerbee era stato pescato da Allison appena ventitreenne dallo Swindon Town, possedendo le qualità ideali per esaltare con idee e palloni giocabili la vena realizzativa in particolare di Bell. Ma fu il carattere istrionico del ragazzo di Preston a conquistare i tifosi che allora affollavano Maine Road, prima ancora delle sue eccellenti doti che lo portarono a far parte della Nazionale inglese bronzo a Roma ’68 negli Europei vinti dagli azzurri, proprio nell’anno dello scudetto del Manchester City.

L’altra parte della città era in preda al delirio per George Best, fenomeno anche mediatico di impatto planetario e proprio in quegli anni capace di conquistare il Pallone d’Oro e di portare per la prima volta la Coppa dei Campioni in Inghilterra con il suo United. I tifosi del City allora si coccolavano Summerbee e le sue imprevedibili invenzioni. Nelle interruzioni di gioco dava il meglio di sé, mettendosi ironicamente a massaggiare la gamba infortunata di un avversario, quando riteneva simulasse, oppure inscenando siparietti memorabili con gli arbitri. Ma il massimo lo toccò quando, battendo una rimessa laterale, rubò ad un poliziotto il tipico casco da “Bobby” inglese, continuando a giocare con quell’affare in testa per qualche minuto buono tra l’ilarità generale. Ai tempi in cui anelli e catenine indosso ai giocatori erano ancora tollerati, fu un irripetibile tocco di nonsense. Le doti da mattatore a fine carriera valsero a Summerbee anche una parte in “Fuga per la vittoria” e neanche oggi, da fresco settantenne, ha dimenticato i tanti tiri mancini giocati con il suo sorriso a salvadanaio.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Stefano Lombardi, il calciatore errante

di Jean Philippe ZITO

Cambiare 13 squadre nell’arco di una carriera calcistica non è da tutti. Per carità, c’è chi potrebbe obiettare che non ci troveremmo quindi di fronte ad una bandiera. Ma dividere lo spogliatoio, allenarsi, giocare nella stessa squadra di campioni del calibro di Nesta, Mancini, Vieri, Salas, Mihajlovic, Nedved, Boksic; Javier Zanetti, Jugovic, Pirlo, Seedorf, Recoba, Ronaldo “Il Fenomeno”… si può comunque considerare un successo.

Facciamo un passo indietro. Estate del 1993, Stefano Lombardi, diciassettenne friulano di Pordenone, viene ceduto in prestito dai dilettanti del Treviso alla primavera del Milan. Tra i suoi compagni ci sono Francesco Cozza, Massimo Oddo e Francesco Coco. Il giovane difensore centrale può ammirare in prima squadra, nel suo stesso ruolo, giocatori del calibro di Alessandro Costacurta, Mauro Tassotti, Marcel Desailly e le leggende Franco Baresi e Paolo Maldini.

Nel 1994 torna a Treviso dopo un’esperienza vissuta a pochi passi dall’Olimpo del calcio. Alla fine del campionato conquista con la squadra veneta la promozione in serie C/2 collezionando 30 presenze e un gol.

Altro giro, altra corsa. Nella stagione 1995/96 va in prestito al Bologna e racimola solamente 2 presenze, la prima delle quali il 26 Novembre del 1995, esordendo tra i professionisti a 19 anni. L’anno dopo torna al Treviso che, nel frattempo, era stato promosso in serie C/1 partecipando (con 22 presenze) alla cavalcata culminata con il raggiungimento della Serie B grazie al 1° posto in classifica.

Il 1° Luglio del 1997 Lombardi, grazie all’ottima annata precedente, viene ceduto al Genoa. La serie è sempre quella cadetta ma la piazza è certamente più affascinante.

Il più antico club del calcio italiano è pronto ad abbracciare il ventunenne difensore che lega fin da subito con il suo compagno di reparto (e di stanza) Davide Nicola. Durante quella stagione Lombardi raccoglie ben 30 presenze totali; 28 in campionato (mettendo anche a segno una rete) e 2 in Coppa Italia. E proprio nella Coppa nazionale, durante il match del 18 Agosto del 1997 contro il Monza terminato 1 a 1, gioca l’intera partita da terzino sinistro mostrando anche una certa duttilità tattica. Caratteristica che lo agevolerà nell’annata migliore della sua carriera da girovago, quella successiva.

Mondiali 1998. Italia contro Austria, terzo turno del gruppo C. Alessandro Nesta dopo poco più di 120 secondi dall’inizio della partita esce palla al piede dalla metà campo e, di gran carriera, si avventura fin quasi al limite dell’area austriaca. In un scontro di gioco con Heimo Pfeifenberger il giovane campione romano si procura la rottura del legamento crociato e la lesione del menisco. Una doccia gelata per la Lazio che sarà così orfana per 6 mesi del perno della sua difesa, proprio nell’anno in cui l’ambiziosa società del Presidente Cragnotti, sarà regina del calciomercato. Sempre nel gruppo C, infatti, i tifosi della Lazio hanno potuto ammirare nel primo match disputato tra Italia e Cile il neo acquisto per l’attacco: “El Matador” Marcelo Salas. Una doppietta nella gara d’esordio che strappa un sorriso ai supporters laziali. Ma la faraonica campagna acquisti/cessioni dell’estate 1998 fa vestire la casacca della prima squadra della Capitale a: Christian Vieri, il già citato Marcelo Salas, Dejan Stankovic, Sergio Conceicao, Ivan De La Peña, Sinisa Mihajlovic, Fernando Couto, Roberto Baronio e… Stefano Lombardi.

Acquistato per circa 500 milioni di Lire, il ventiduenne friulano viene inserito in una rosa di campioni per crescere alle spalle di giocatori d’esperienza. Si allena duramente per tutta l’estate, durante la quale si abbatte una sorta di maledizione sul reparto difensivo. Il 29 Agosto 1998 si gioca la Supercoppa Italiana a Torino tra la Juventus e la Lazio. Il precampionato non è stato dei migliori per quanto concerne le amichevoli. Brutte e sonore sconfitte, contro il Benfica il 7 Agosto (4 a 0 il passivo) e il 23 Agosto contro l’Atletico Madrid (3 a 0), vedono in campo per spezzoni di gara Lombardi. Quest’ultimo deve farsi trovare pronto perché la Lazio, nella finale contro i campioni d’Italia in carica, dovrà rinunciare a Negro per squalifica, Nesta, Pancaro, Favalli per infortunio e ha un Fernando Couto a mezzo servizio. L’umore dell’esigente ambiente laziale, dopo una preseason a dir poco titubante, è basso ma viene rianimato da una notizia clamorosa. Il 28 Agosto del 1998 Christian Vieri viene acquistato dalla Lazio per 50 miliardi dall’Atletico Madrid.

Il giorno dopo si gioca la Supercoppa e il popolo biancoceleste risponde in massa alla chiamata occupando l’intero settore ospiti dello stadio “Delle Alpi” di Torino.

Stefano Lombardi esordisce in una gara ufficiale con la Lazio, da titolare, nella partita che vale il primo trofeo della stagione. Un regalo del destino troppo grande da non poter sfruttare a pieno. Gioca come terzino sinistro l’intera gara in un’inedita difesa a 4 composta da Fernando Couto adattato come terzino destro, Giovanni Lopez e Sinisa Mihajlovic come centrali. Marcello Lippi, allenatore della Juventus, per intimorire il giovane esordiente schiera largo a destra Alessandro Del Piero. Ma Lombardi non soffre particolarmente i suoi avversari, facendosi trovare pronto negli interventi contro il 10 bianconero, Filippo Inzaghi e il campione del mondo Zinedine Zidane.

La Lazio fa sua la partita all’ultimo minuto, regalando nel giro di poco più di 4 mesi un secondo trofeo ai suoi tifosi dopo un lunghissimo digiuno. Stefano Lombardi dalla serie B con il Genoa quella notte solleva al cielo la Supercoppa da protagonista indiscusso.

Non lo sarà nel prosieguo della stagione. Infatti conclude l’anno con 3 presenze in Coppa Italia, 4 in Campionato e 2 nei quarti di finale di Coppa delle Coppe che festeggerà a Birmingham, il 19 Maggio 1999, con il resto della squadra.

Nella stagione successiva, 1999/2000, nutre il desiderio di giocare con più costanza e in quella Lazio non c’era possibilità. Per questo viene ceduto al Napoli in serie B a titolo definitivo. Con la squadra partenopea si ritaglia un buono spazio, accumulando 28 presenze totali (19 in Campionato e 9 in Coppa Italia). Poi un susseguirsi di trasferimenti lo vedono protagonista nell’estate del 2000. Così Lombardi, dal Napoli, torna alla Lazio che lo gira all’Inter (tutti trasferimenti definitivi) in un tourbillon di plusvalenze che hanno fatto discutere ma che sarebbero rientrati nelle regole.

Nella prima parte della stagione 2000/2001 Lombardi non scende mai in campo in partite ufficiali con l’Inter. Nel mercato invernale passa poi al Perugia e con il Grifo in serie A gioca solo 3 spezzoni di partita, concludendo un’annata decisamente storta.

Dal Grifo al Grifone. L’anno successivo, dopo essere stato riacquistato dall’Inter, torna a Genova sponda rossoblù in prestito; 19 presenze nel campionato cadetto, giocando sempre da titolare nel girone di ritorno. Il cartellino è ancora di proprietà dell’Inter che lo cede definitivamente all’Ancona.

Nel 2002/03 con 13 presenze in serie B partecipa alla promozione della squadra marchigiana in serie A. L’anno successivo però Lombardi gioca solamente 4 partite in massima serie. Nel 2004/05 al Catania trova nuova continuità con 15 apparizioni in serie B. Le grandi aspettative a livello professionale non vengono soddisfatte. Lombardi infatti continua a giocare nel campionato cadetto anche nelle stagioni dal 2005 al 2006 (Arezzo) e 2007 al 2009 (Modena), con una breve nuova apparizione in serie A con l’Ascoli nel girone di ritorno 2006/2007 (10 presenze).

Stanco di girare per l’Italia e martoriato dagli infortuni, appende gli scarpini al chiodo nel marzo del 2009 a 32 anni rescindendo il contratto con il Modena. Avrebbe potuto fare di più? Magari rimanere più tempo nella stessa squadra? Quesiti ai quali non è facile dare una risposta. Il dato oggettivo è che nel suo palmarès compare una competizione internazionale; in altri, di giocatori decisamente più blasonati, no.

Da qualche anno Stefano Lombardi è rientrato nel mondo del calcio dopo aver staccato la spina per un po’, allena nelle serie minori del Triveneto con la stessa genuina passione per lo sport che ama da sempre.

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Club Fabio Belli

La Lazio sul tetto d’Europa: quando lo United si inchinò alla new wave del calcio italiano

di Fabio Belli

E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.

uid_126126ad777.580.0Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.

I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.

Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.

E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.

 

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

[https://www.youtube.com/watch?v=iQx6Za_XzG4]

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Club Fabio Belli

La storica eliminazione del 1992: Wrexham-Arsenal e il miracolo al Racecourse Ground

di Fabio Belli

Nick Hornby nel suo celeberrimo “Febbre a Novanta” prende questa sconfitta come metro di paragone per il fatto che nessun momento felice, nel calcio, dura mai abbastanza a lungo. Dopo un’attesa ventennale la vita dello scrittore e dell’Arsenal sembrano prendere la piega desiderata, ma sul più bello, nel pieno della gestione di George Graham che ha riportato i Gunners alla gloria nazionale, arriva la doccia fredda. Nella stagione 1991/92, ambizioni europee frustrate dal Benfica, e quelle interne dal… Wrexham. Quanto accaduto il 4 gennaio del 1992 al Racecourse Ground, nel terzo turno di FA Cup, resta impresso nella memoria di tutti i tifosi inglesi e gallesi, e torna d’attualità con l’altrettanto clamorosa eliminazione, nel primo turno della Coppa di Lega, del Manchester United per mano del Milton Keynes Dons.

Quella però è storia di oggi: sono invece passati ventidue anni dal miracolo del Racecourse Ground, uno dei campi più gloriosi del Galles, casa del Wrexham e spesso anche della Nazionale locale. Uno stadio che il Guinness dei Primati riconosce come il più antico della storia del calcio tra quelli ancora in piedi. A livello di club, il momento più alto al Racecourse fu vissuto senza dubbio in quella fredda giornata di gennaio, con le festività natalizie ancora non del tutto consumate.

Il fascino della FA Cup è noto: si parte dagli scontri tra le più piccole, amatoriali, sconosciute realtà del calcio britannico, e man mano si arriva al fatidico terzo turno, dove le formazioni in grado di azzeccare una buona serie di vittorie nelle fasi preliminari, possono arrivare ad affrontare i giganti del calcio inglese. Così accadde al Wrexham, che nel 1992 si trovava in quarta divisione, in declino dopo un passato di tutto rispetto, che negli anni ’70 aveva portato il club a disputare anche i quarti di finale della stessa FA Cup, e quelli di Coppa delle Coppe contro l’Anderlecht, competizione alla quale i club gallesi che partecipavano ai campionati inglesi potevano comunque accedere, grazie ai successi nella coppa nazionale del Galles.

A Racecourse Ground si presentò un Arsenal capace di centrare due titoli nazionali nel 1989 e nel 1991, e che George Graham aveva trasformato, modernizzando un impianto di gioco che, oltre a costare alla squadra di soprannome di “Boring Arsenal“, era ormai sorpassato ed era costato al club troppi insuccessi. Ma come dicevamo all’inizio, nulla di bello dura mai abbastanza a lungo. La campagna d’Europa nel nuovo Super-Arsenal si era già interrotta prima del tempo, ma nessun tifoso assiduo frequentatore di Highbury poteva immaginare cosa sarebbe accaduto nel Nord del Galles in quel terzo turno di FA Cup.

Di vittorie contro il pronostico la storia del calcio è piena zeppa, ma quella colpì un immaginario collettivo che riteneva impossibile che i campioni d’Inghilterra capitolassero di fronte ai piccoli gallesi, soprattutto quando i 13343 del Racecourse Ground videro Alan Smith piazzare il pallone in fondo al sacco per il vantaggio dei Gunners. Ma a quel punto l’uomo del destino divenne Mickey Thomas, 37 anni, ex nazionale gallese capace di piazzare un calcio di punizione al fulmicotone alle spalle di David Seaman. Il Racecourse, che pure ne aveva viste nella sua già ultracentenaria storia, divenne una bolgia che esplose definitivamente quando il giovane Steve Watkin realizzò l’incredibile sorpasso. 2-1, e come Hornby racconta, i commentatori della BBC ringraziarono il tecnico del Wrexham per aver “deliziato milioni di persone”. Segno che la cattiva fama del “Boring Arsenal” non era stata cancellata da due stagioni di successi. Poi venne Arsene Wenger, ma quella è un’altra storia, esattamente come Milton Keynes-United.