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Calciatori Club Fabio Belli

Giuliano Fiorini ed il gol che salvò la vita alla Lazio… e non solo

di Fabio BELLI

Le storie di tutte le squadre di calcio del mondo sono costellate di gol importanti, alcuni fondamentali, pietre miliari nella vita del club. Reti che hanno regalato scudetti, trofei internazionali, derby, salvezze e promozioni, o sensazioni uniche a chi era allo stadio. Pochissimi club però possono legare una storia, al momento ultracentenaria, all’esito fortunato di una singola partita. Uno scenario questo più consono ad un film che a una competizione sportiva, ma la romanzesca e tormentata storia della Lazio, spesso e volentieri proprio ad una pellicola da Oscar ha finito con l’assomigliare.

Nell’estate del 1986 il sodalizio biancoceleste si ritrova ad affrontare l’ennesima tempesta: non è la prima e non sarà l’ultima, ma in quel particolare caso è in gioco l’esistenza stessa della società. Schiacciata dai debiti dopo la sciagurata gestione-Chinaglia e implicata in un secondo scandalo delle scommesse dopo quello del 1980, la Lazio viene retrocessa in serie C/1 il 5 di Agosto, a causa degli illeciti contestati all’allora tesserato Vinazzani. Il punto è che i nuovi proprietari Calleri e Bocchi, già alle prese con un durissimo piano di risanamento e rilancio finanziario, sono chiari: se gli organi competenti non rivedranno la loro decisione, il loro impegno verrà meno, e la Lazio cesserà di esistere.

Ne segue un lungo mese di proteste e passione per i tifosi laziali, che culmina con la sentenza della CAF che mantiene la squadra allora allenata da Eugenio Fascetti in cadetteria, ma con 9 punti di penalità da scontare. Nell’epoca dei due punti a vittoria, ha quasi il sapore di una condanna posticipata, ma la squadra parte a razzo facendo addirittura pensare ad un’incredibile promozione: illusione che svanisce presto sotto i colpi di stress e stanchezza, che portano i biancocelesti a giocarsi la permanenza in B in un’infuocata domenica di Giugno, allo stadio Olimpico contro il Vicenza, allora ancora “Lanerossi”.

Una partita per la sopravvivenza: al di là dell’onta della terza serie, la Lazio deve evitare una retrocessione che comporterebbe il definitivo dissesto finanziario, con i nuovi azionisti di maggioranza che, a causa dei minori introiti della C, non potrebbero più far fronte agli impegni presi nella stagione 1987/88. Un incubo, un thriller in piena regola anche perchè il Vicenza con un pari si garantirebbe almeno gli spareggi per non retrocedere. E per i tifosi laziali la nemesi si materializza nelle fattezze del portiere dei veneti Ennio Dal Bianco, che para l’impossibile di fronte agli attacchi di una Lazio per nove undicesimi protesa in avanti, fatta eccezione per il portiere Terraneo ed il libero Marino.

Ma come in tutti i film a lieto fine, c’è sempre un eroe a portare la vittoria e la catarsi. Un eroe anticonvenzionale, con i capelli lunghi, un fisico non asciuttissimo e dedito fuori dal campo a tre passioni non strettamente legate fra di loro: famiglia, whisky e sigarette. “Il più forte attaccante del mondo senza fuorigioco“, lo definivano i compagni di squadra con un pizzico di ironia ma anche con tanta ammirazione per la sua generosità: Giuliano Fiorini, che a meno di dieci minuti dalla fine, consente alla Lazio di superare il muro-Dal Bianco e continuare a vivere, anche se la salvezza finale dovrà passare attraverso gli spareggi contro Taranto e Campobasso, all’inizio di Luglio.

Ma come in quei film che riservano ancora una scena dopo i titoli di coda, anche questa storia ha un’appendice sorprendente e commovente: l’eroe mancato della partita per il Vicenza, Dal Bianco, il portiere arrivato oltre i propri limiti, rientra a casa da Roma con la retrocessione che ancora brucia sulla pelle. Ma c’è poco tempo per pensarci: trova il figlioletto (oggi 32enne) in preda ad un malore, la corsa all’ospedale è provvidenziale. Un soccorso che sarebbe mancato senza il gol di Fiorini, visto che il Vicenza in caso di risultato positivo sarebbe andato subito in ritiro per gli spareggi, senza far passare da casa i calciatori. “Sono emotivamente legato a Lazio-Vicenza perché a volte le grandi delusioni si trasformano in grandi gioie. Era previsto, infatti, che se avessimo pareggiato con i biancocelesti avremmo partecipato agli spareggi a Napoli, rimanendo quindi a Roma per una settimana senza tornare a Vicenza. Tornai invece a casa, mio figlio piccolo ebbe dei problemi fisici ed io, nonostante il parere di tutti, decisi di farlo ricoverare nonostante. Ciò gli salvò la vita. Una sconfitta in campo si trasformò in un evento salvifico.” E allora quel gol di Giuliano sembra una volta di più scritto nel destino.

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Fabio Belli Presidenti

Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Maestrelli e Chinaglia: “Quo vadis, Giorgio?”

di Fabio BELLI

Il calcio è in grado di far nascere legami speciali all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2011 la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia alle orecchie più distratte sarà parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù si era fatto conquistare dal sogno americano.

lazioPuò risultare però più impressionante il fatto che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale riposerà accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore, Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame tra padre e figlio: chi conosce bene il background di quella Lazio sa quanto fosse speciale e a tratti incredibile quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota ma, all’inizio della loro storia umana e professionale, i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.

Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore che, già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante che, dopo la retrocessione del 1971, meditava di lasciare la Lazio sopratutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E, come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto tra i due, nelle prime settimane permeato di scetticismo. Una storia legata ad un limone.

Nel 1971, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesisvizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo e, alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio sentiva scottare la sua fronte. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.

“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta la visione di Maestrelli, quasi utopistica per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, prese forma per la prima volta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera un po’ discutibile a livello manageriale (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia che fu lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.

Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).

Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai gemelli figli dell’allenatore che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dello stadio Olimpico. Potenza del calcio o, per chi vuole crederci, di mezzo limone.

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Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Calciatori Gian Luca Mignogna

Il 6 giugno 1982 Vincenzo D’Amico salvò la Lazio dal baratro

di Gian Luca MIGNOGNA

Correva l’estate 1980, quando la Lazio fu ingiustamente ed inopinatamente sbattuta in Serie B dalla CAF, nell’ambito del primo processo sportivo sul calcioscommesse. Inopinatamente, perché in primo grado la società biancazzurra era stata prosciolta dalle accuse della Procura Federale. Ingiustamente, perché a livello sportivo non fu riscontrato alcun coinvolgimento diretto del Presidente Umberto Lenzini e/o di altri dirigenti societari ed a livello penale nel successivo processo risultarono tutti assolti con formula piena.

Fu un duro colpo per la prima squadra della capitale. Retrocessa sotto la scure della giustizia sportiva, con tutto il suo bagaglio di nobiltà. A soltanto sei anni di distanza dalla conquista del titolo di Campione d’Italia e con l’aggravante della squalifica dei gioielli di famiglia, Giordano e Manfredonia, su cui tutto l’ambiente contava per rinverdire in fretta i fasti del recente passato.

L’ambiente rimase totalmente sotto shock, soltanto chi visse quei momenti sa quel che provarono i veri laziali. La società non si perse d’animo, tuttavia, il Sor Umberto passò la mano al fratello Aldo ed intorno ad Alberto Bigon fu costruita una squadra in grado di risalire subito in Serie A. Nel 1980/81 la Lazio disputò un grande campionato, ma l’immediata promozione s’infranse alla penultima giornata su un maledettissimo palo centrato da Stefano Chiodi su rigore, al suo primo errore dal dischetto, in un Lazio-Vicenza che lasciò l’Olimpico letteralmente basito. Ma al peggio, si sa, non c’è mai fine.

Nella stagione successiva la Lazio si presentò ai nastri di partenza con rinnovate ambizioni di massima serie. Sotto la guida tecnica di Ilario Castagner, confermato nonostante la delusione della stagione precedente, e capitanata da un grande Vincenzo D’Amico, rientrato alla base dopo un anno di prestito al Torino, La Lazio cominciò il suo secondo anno di purgatorio cadetto in maniera abbastanza convincente e positiva. Cali di concentrazione, prestazioni indicibili ed uno spogliatoio perennemente in contrasto, però, allontanarono ben presto i biancazzurri dai sogni di gloria.

Fu così che pur partita con propositi ambiziosi, la Lazio si ritrovò suo malgrado invischiata nelle zone basse della classifica ed a dover lottare addirittura per non retrocedere. Tutto questo senza che società, squadra e tifoseria quasi se ne accorgessero. Noblesse oblige. Tutto l’universo biancazzurro visse quei momenti senza la giusta contezza e la dovuta consapevolezza. La mente era rivolta in parte al passato, alla sconcertante retrocessione subita “a tavolino” due anni prima ed alla cocente mancata promozione della stagione precedente. In parte al futuro, perché il campionato in corso frustrò ben presto ogni ambizione di Serie A e allora tutti cominciarono già a pensare alla rivalsa da prendersi l’anno successivo. Eppure c’era una competizione in corso e la classifica si faceva sempre più preoccupante. Per destare l’ambiente serviva una forte scossa, poi arrivata con l’esonero del pur bravo Castagner e l’affidamento della prima squadra a Roberto Clagluna, che frattanto stava ottenendo ottimi risultati con le giovanili.

Alla penultima giornata la situazione però si fece incredibilmente drammatica. Allo Stadio Olimpico si presentò il Varese, in piena lotta per la promozione. Mentre la Lazio, reduce da tre sconfitte consecutive, avrebbe dovuto assolutamente far propri match e punti per lasciarsi alle spalle la zona retrocessione. Dopo neanche un quarto d’ora, tuttavia, i varesotti si ritrovarono in vantaggio per 2-0. Per i biancazzurri d’improvviso il baratro della Serie C sembrò inevitabile. Fu a quel punto che un immenso Vincenzo D’Amico prese per mano la squadra, cominciò a lottare come un leone per la “sua” Lazio e da vera bandiera la condusse prima al pareggio e poi alla vittoria finale scacciaincubi.

Era il 6 giugno 1982. Quando oramai tutti sembravano rassegnati al peggio, salì in cattedra proprio lui, Vincenzo D’Amico, il Golden Boy della Banda ’74, che segnò una tripletta fenomenale, ribaltò una partita che sembrava segnata, assicurò la matematica salvezza alla Lazio e le consentì di gettare le basi per risorgere dalle ceneri in cui l’ingrato destino l’aveva gettata.

SERIE B 1981/82

ROMA, 6 GIUGNO 1982

37° TURNO: LAZIO-VARESE 3-2

MARCATORI: 6′ Turchetta, 14′ Bongiorni, 26′ D’Amico (R), 28′ D’Amico, 73′ D’Amico (R)

LAZIO: Moscatelli, Spinozzi, Chiarenza, Pochesci, Pighin, Sanguin, Vagheggi, Badiani, D’Amico, De Nadai, Surro (62′ Bigon).

ALLENATORE: Roberto Clagluna

VARESE: Rampulla, Vincenzi, Salvadè (78′ Palano), Strappa, Limido, Cerantola, Di Giovanni, Mauti (32′ Scaglia), Mastalli, Bongiorni, Turchetta.

ALLENATORE: Eugenio Fascetti

ARBITRO: Luigi Agnolin (Bassano del Grappa)

RISULTATI: Bari-Sambenedettese 0-0, Brescia-Cremonese 2-3, Catania-Cavese 4-1, LAZIO-VARESE 3-2, Lecce-Palermo 2-1, Pescara-Verona 0-0, Pistoiese-Pisa 0-0, Reggiana-Perugia 2-1, Sampdoria-Rimini 0-0, Spal-Foggia 0-1.

CLASSIFICA: Sampdoria e Verona 47; Pisa 46; Bari e Varese 44; Perugia 41; Palermo 40; Catania 38; LAZIO 37; Lecce, Reggiana, Sambenedettese 36; Cavese, Cremonese, Pistoiese 35; Foggia e Rimini 34; Brescia 30; Spal 28; Pescara 17.

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Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Calciatori Fabio Belli

Francesco Dell’Anno, una carriera vissuta con le scarpe slacciate

di Fabio BELLI

Quando nell’autunno del 1984 Juan Carlos Lorenzo fu chiamato al capezzale di una Lazio ormai in disarmo, il sergente di ferro argentino si scontrò subito con un calcio che non frequentava più da oltre 25 anni e che era cambiato enormemente, facendo diventare anacronistici i suoi metodi. Ma un vecchio lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio e passando in rassegna quella rosa così male assortita, tra un giudizio impietoso e l’altro, le uniche parole positive le riservò ad un giovane della Primavera aggregato al gruppo con altri Under 18. “Quel ragazzino è l’unico che può fare il calciatore in prospettiva, qui.” E visto come andò a finire quella stagione, si può dire che Lorenzo fece centro al primo colpo.

Il “ragazzino” si chiamava Francesco Dell’Anno, detto Ciccio, 17 anni anni appena compiuti in quel 1984 a tinte decisamente orwelliane per la Lazio. Non poté far nulla per evitare il naufragio biancoceleste che portò all’ultima retrocessione in ordine di tempo per il più antico sodalizio calcistico capitolino. Ma i lampi di pura classe che dispensò, a partire dall’esordio assoluto nella sfida vinta contro la Cremonese, riempirono di speranza i tifosi che pure si ostinavano a riempire l’Olimpico in quell’annata così sofferta. Quando all’ultima giornata di campionato, a discesa in cadetteria già consumata, con un gioco di gambe finta e controfinta mise a sedere addirittura Le Roi, Michel Platini, i supportes laziali pensarono che da quella rovinosa caduta stava pur nascendo una stella.

Ma fu il carattere a tradire il giovane Dell’Anno, come troppo spesso accade alle promesse prive di una guida salda dentro e fuori dal campo. Quando in quella stessa stagione un compagno di squadra più anziano lo sgridò pesantemente perché si presentò al campo di allenamento di Tor di Quinto in fuoriserie, un altro provò a prendere le difese del ragazzo che in fondo, con i suoi soldi, poteva fare quello che voleva. Il punto era un altro però, spiegò il più severo dei due: a 17 anni e senza patente non si può proprio guidare l’automobile, altro che fuoriserie! Ragazze, vita notturna, divertimenti vari fecero il resto, e della classe cristallina di Dell’Anno rimasero solo dei lampi abbaglianti e molto occasionali in Serie B tra Arezzo, Taranto e Udine.

Proprio con la maglia dell’Udinese però riconquistò la massima serie e, nella stagione 1992/93, a suon di prodezze regalò ai friulani una salvezza che mancava da 7 anni, dopo le due retrocessioni del 1987 e del 1990. Numeri di classe sopraffina per un calciatore che ormai, a quasi 26 anni, era additato come inaffidabile e quasi perduto. La sorpresa arrivò con l’offerta dell’Inter che, nell’anno dell’epocale passaggio di consegne tra Ernesto Pellegrini e Massimo Moratti, decise di puntare anche sul talento ribelle di Dell’Anno per costruire una squadra in grado di divertire i tifosi. E, pur con i suoi fisiologici alti e bassi, i colpi di genio di Ciccio deliziano San Siro, con l’Inter che, come a volersi mantenere in linea con la sua schizofrenia calcistica, nella stagione successiva trionfò in Europa in Coppa UEFA ma arrivò per la prima volta a sfiorare la Serie B in campionato. Gli ultimi scampoli importanti di carriera Dell’Anno li ha vissuti a Ravenna, in B, dove c’è chi giura di averlo visto giocare con le scarpe slacciate. Salutò la Romagna dopo aver collezionato il suo massimo bottino di gol con una sola squadra, 23, prima di chiudere la carriera alla Ternana.

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Calciatori Fabio Belli

Paolo Sollier: calci, sputi e colpi di testa

di Fabio BELLI

“Alla fine il sessantotto nel calcio è stata solo una questione di look“. Questa frase di Paolo Sollier dice di lui molto di più di quanto serve, ma non solo. Dice tutto anche di come il mondo nel calcio a volte sia impermeabile, ai limiti dell’ottusità, rispetto alla società reale che lo circonda. E forse è proprio questa la grande forza di un gioco capace di unire tutti al di là di differenze sociali, culturali, economiche e politiche. A Sollier però, centrocampista dai buoni polmoni ma dalla tecnica non eccelsa, questo ambiente ha finito con lo stare sempre stretto, anche quando con la maglia del Perugia, negli anni ’70 e nel pieno della contestazione giovanile, si era ritrovato a calcare i campi della massima serie.

url-1Un mondo di “calci, sputi e colpi di testa” quello del pallone, tanto da indurre Sollier ad intitolare così la sua biografia, ormai introvabile e capace di diventare un “cult” della letteratura sportiva. Il fatto è che in un ambiente sostanzialmente convenzionale e conservatore come quello del football, Sollier si è ritagliato una nicchia unica nell’immaginario collettivo per essere stato forse il primo calciatore apertamente di estrema sinistra. E per estrema si intende proprio legata a quegli ambienti che negli anni ’70 si riferivano a quell’ala extraparlamentare, a sinistra anche del PCI, che ballava sulla sottile linea rossa tra la rivoluzione culturale invocata dai sessantottini e la lotta armata poi sfociata nelle tragiche vicende delle BR.

Durante un Lazio-Perugia nel 1976 la tifoseria biancoceleste, tradizionalmente schierata a destra nella sua frangia Ultras, spiegò un eloquente striscione “Sollier Boia“. Il centrocampista piemontese nativo di Chiomonte, d’altronde, non faceva nulla per nascondere le sue idee, anzi le ostentava salutando a pugno chiuso prima di una partita. “Lo facevo per salutare i compagni e gli amici presenti in tribuna quando giocavo nei dilettanti con la Cossatese,” spiegò una volta, “non vedo perché una volta arrivato in Serie A avrei dovuto smettere.” In “Calci, sputi e colpi di testa”, uscito proprio nel 1976, Sollier mise a nudo questi aspetti quando era ancora un calciatore e fu questo a destare scalpore, molto più di quanto avrebbe fatto una biografia dopo il ritiro.

C’è da dire che con i laziali aveva cominciato lui: una stagione prima del famoso striscione, un giornalista lo stuzzicò sulle simpatie destrorse dei tifosi biancocelesti. Lui rispose un po’ generalizzando e un po’ provocando, come amava fare: “Vorrà dire che battere la squadra di Mussolini sarà ancora più bello.” Nel libro racconta poi la tensione del momento, prima del fischio d’inizio all’Olimpico: “Non è corretto parlare dei tifosi della Lazio. E’ meglio parlare dei fascisti della Lazio. Quando giocai contro la squadra biancoceleste entrai nello stadio e mostrai il pugno riuscendo ad attirare la loro attenzione. Mi insultarono in maniera rabbiosa.”

In realtà la carriera di Sollier in Serie A resta molto modesta, con solo una ventina di presenze all’attivo. Più assidua la frequentazione sui campi della cadetteria ma ad interessare erano i suoi racconti di militanza in Avanguardia Operaia, lui, calciatore professionista, che all’epoca il massimo della trasgressione sul rettangolo verde erano stati Gigi Meroni e la sua gallina al guinzaglio. Ora Sollier allena, tra i dilettanti dell’Oleggio, nel settore giovanile e l’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale degli scrittori. Settantenne brizzolato, gli è rimasta la curiosità per i temi sociali ma ora si definisce “non ideologico“: i tempi cambiano per tutti.

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Calciatori Marco Piccinelli

Pedro Riberio Lima: proprietario e giocatore a.. 68 anni!

di Marco PICCINELLI

Si chiama Pedro Riberio Lima (o anche Pedro da Sorda), ha 68 anni ed è il più vecchio calciatore, se non al mondo, sicuramente del Brasile e dell’America Latina.
In Italia, tuttavia, possiamo dire la nostra in merito alla longevità di giocatori: l’ultimo esempio, di cui non penso ci si stancherà mai di ricordarne le gesta, è Marco Ballotta.
Dopo aver dismesso la maglietta di portiere biancoceleste, in cui ha raggiunto il primato di portiere più anziano schierato in campo in una partita di Champions (Lazio – Real Madrid) a 44 anni e 235 giorni, ha continuato a giocare al Calcara Samoggia e al San Cesario, nella prima e seconda categoria emiliana da attaccante (!). Per non parlare del giapponese Kazuyoshi Miura che a 50 anni gioca ancora nella seconda divisione giapponese, vestendo la maglia dello Yokohama e risultando ancora decisivo per la squadra, decidendo partite e facendo conquistare preziosi punti ai suoi.

Ma torniamo a noi. Pedro Riberio Lima è giocatore e proprietario di una squadra, fondata nel 1992, che si chiama Perilima, prendendo le iniziali dei nomi del ‘nostro’ (PEdro RIberio LIMA) e che è inserita nella seconda divisione del campionato paraibano. Un po’ come se, per i lettori romani, il patron della Vigor Perconti, l’omonimo Maurizio Perconti, indossasse la maglia blaugrana e giocasse di tanto in tanto con la prima squadra, stabilmente nella Promozione laziale da ormai svariati anni.
Non intendiamo trattare, in questa sede, la complessità (e la bellezza) del campionato brasiliano, il lettore sappia semplicemente che il campionato paraibano è una competizione regionale (in realtà si dovrebbe parlare di Stati, dato che il Brasile è uno stato federale) e la seconda divisione di tale competizione equivale a classificarla come sesta serie del Paese.
Secondo Globesporte, sito brasiliano che si occupa di calcio e di altri sport a tutti i livelli, Pedro Riberio Lima ha segnato un gol a 58 anni contro il Campinense, nel campionato paraibano del 2007. «Il portiere sconfitto? – riporta Globesporte – Jaílson, l’attuale portiere del Palmeiras. Seu Pedro (come viene chiamato scherzosamente) mira dritto all’angolo a destra della porta, calcia e Jailson rimane fermo al centro della porta. Nessuno conferma, nessuno sa dire con certezza. Ma alcuni dicono che Jailson facilitò molto il gol del nostro Seu Pedro. È una di quelle notizie che nessuno conosce con certezza ma che circonda la vita di Pedro».

Sempre il sito brasiliano Globesporte, recentemente, ha riportato la vicenda della querelle che avrebbe avuto luogo fra il patron/giocatore e la federazione brasiliana di calcio: quest’ultima avrebbe affermato, in sostanza, che a 68 anni non si poteva più disputare partite, sia pure della seconda divisione di un campionato “regionale”. Tuttavia l’autrice dell’articolo ha precisato, in calce allo stesso, che si trattasse di una svista: Seu Pedro può continuare a giocare dato che la federazione brasiliana ha dichiarato come non esista alcun limite di età e che lo stesso non costituisca alcun tipo di veto.
Chissà che Seu Pedro non riesca davvero infrangere qualche altro record!

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Čestmír Vycpálek, il sergente di ferro dall’animo buono

di Alessandro Iacobelli

La Cecoslovacchia ha regalato al calcio mondiale talenti inestimabili. La lista infinita comprende anche la figura di Čestmír Vycpálek: giocatore ed apprezzabile allenatore del secolo scorso. Nato il 15 maggio del 1921 il buon Cesto, così scherzosamente soprannominato, lega tutti i pensieri e le aspirazioni ad un pallone tra i piedi. La scintilla scocca fin dal principio, quando ancora bambino il padre Premsyl gli ordina di seguire le sorti dello Slavia Praga. Lo stadio ‘Spartan’ diverrà subito il luogo dei sogni. In famiglia, però, c’è chi la pensa diversamente. La madre Jarmila, infatti, attenua l’euforia invitando il ragazzo a porre maggiore attenzione allo studio. Cesto segue alla lettera i dettami e supera con brillantezza gli anni del ginnasio e dell’Accademia Commerciale. Nel frattempo l’esordio con la casacca dello Slavia Praga sembra alle porte. La leggerezza del periodo viene purtroppo spazzata via dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La famiglia Vycpálek assapora sulla propria pelle la terribile malvagità perpetrata da Hitler nel lager nazista in quel di Dachau. “Soltanto chi ha vissuto tali esperienze – afferma Vycpálek – può comprendere il valore della vita e non spaventarsi più di niente”.

Čestmír_Vycpálek,_JuventusAl culmine dell’incubo bellico, lo Slavia Praga è ben felice di accogliere Čestmír in squadra. Nel giro di pochi mesi diventa il faro del centrocampo biancorosso: tecnica, visione di gioco ed intelligenza le sue doti principali. Successivamente si spalancano verdi praterie pure tra le fila della Nazionale boema con prestazioni superlative. Le big del panorama europeo buttano lo sguardo su Vycpálek e Korostelev. La società più scaltra è la Juventus che si aggiudica le due perle. L’esperienza di Čestmír in bianconero dura una stagione (1946-1947) condita da cinque segnature in ventisette gettoni, ma il rapporto con la dirigenza rimane splendido. Nell’estate del ’47 si materializza il trasferimento al Palermo. In Sicilia avviene la svolta professionale. Vycpálek diventa l’idolo del popolo rosanero e capitano indiscusso. In cinque anni il Palermo ritrova la Serie A e l’orgoglio di una terra impantanata nell’arretratezza economica e culturale. Cesto decide di chiudere una dignitosa carriera, dopo altre sei stagioni, nel Parma. Il metodista boemo torna nel cuore del meridione, dove intanto mette su famiglia con la dolce moglie Hana.

Lo staff societario del Palermo gli propone il ruolo di allenatore nel Settore Giovanile. Il promettente trainer accetta una lunga e dura gavetta. Discrete le esperienze al Siracusa in Serie C (terzo posto nel 1960/1961) ed alla guida del Valdagno nella medesima categoria. Nel 1968 si scatena la Primavera di Praga con l’ingresso dell’esercito sovietico nella capitale cecoslovacca, zio Cesto accoglie il nipote Zdenek Zeman. In quel frangente Vycpálek allena la Juventina, piccola compagine presieduta da Renzo Barbera, con sorprendenti risultati. L’anno seguente con il Mazara in Promozione si rivela negativo.

La carriera di Čestmír muta radicalmente dopo qualche mese. La Juventus disputa una partita amichevole con il Palermo. In questa circostanza Vycpálek e Boniperti, vecchi amici, si incontrano. L’amministratore delegato dona al tecnico boemo la cattedra del vivaio bianconero. Nella primavera del 1971 il mister della Prima Squadra Armando Picchi, colpito da un male incurabile, si spegne nello sgomento generale. Il timone tecnico viene quindi affidato a Vycpálek. La doppia finale di Coppa delle Fiere contro il Leeds incorona gli inglesi. Ciononostante il materiale umano per competere ad alti livelli non manca. Il Direttore Sportivo Italo Allodi costruisce un roster in cui si mescolano elementi giovani e uomini maturi. Carmignani in porta. Morini, Salvadore e Spinosi in difesa. Capello, Furino, Haller, Causio e Cuccureddu a centrocampo. La coppa formata da Anastasi e Bettega furoreggia in attacco. Con quel complesso Vycpálek attua al meglio la sua personale idea di calcio, mettendo in pratica i principi della scuola danubiana. La pesantissima assenza del bomber Bettega, a causa di un problema polmonare, trova una geniale soluzione nell’avanzamento di Haller come seconda punta al fianco di Anastasi. Una tragedia però si abbatte su Zio Cesto. Il figlio Cestino perisce, a soli ventiquattro anni, nell’incidente aereo di punta Raisi. La squadra si stringe attorno al suo condottiero, un padre dal cuore tenero, giungendo al trionfo tricolore il 18 maggio 1972 grazie al 2-0 rifilato al Lanerossi Vicenza. La stagione 1972-1973 ricalca in fotocopia quella passata. Un Campionato arduo e combattuto va in archivio con un finale vietato ai deboli di cuore. Causio e soci affrontano la Roma all’Olimpico; le inseguitrici Milan e Lazio giocano rispettivamente con Verona e Napoli. Nel caldo pomeriggio capitolino i giallorossi passano in vantaggio con la rete di Spadoni. Altafini e Cuccureddu rimettono le cose in ordine. Incredibili i responsi dagli altri campi. Il Milan cade per mano dei giallo-blu e la Lazio perde di misura al San Paolo. La Juventus si laurea così Campione d’Italia per la quindicesima volta. Giampiero Boniperti, divenuto Presidente, opta per un rinnovamento tecnico. Vycpálek lascia dunque il posto a Carlo Parola, continuando a far parte del mondo bianconero nella veste di osservatore.

Il 5 maggio 2002, in coincidenza con l’ennesima impresa scudettata firmata da Del Piero e Marcello Lippi, Cesto muore a Palermo. In suo onore la città siciliana ha intitolato nel 2014 il piazzale antistante lo stadio Barbera con l’appellativo di ‘Largo Čestmír Vycpálek’.

 

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Calciatori Fabio Belli

Luciano Re Cecconi, un centrocampista del futuro incatenato nel passato

di Fabio Belli

Il 18 gennaio del 1977 Luciano Re Cecconi, una delle anime dello scudetto laziale del 1974, restava ucciso al culmine di un tragico scherzo. I racconti di quel tardo pomeriggio romano nella gioielleria Tabocchini si sono susseguiti senza che emergessero mai aspetti in grado di chiudere una volta per tutte la vicenda. La versione ufficiale parlano di uno scherzo al gioielliere sicuramente inopportuno visto che ci si trovava all’apice degli anni di piombo, ma assolutamente innocente nella sua dinamica. Una rapina simulata con due dita che facevano sporgere il bavero della giacca, come i bambini. E un solo colpo di pistola, fatale, dalla mira incredibilmente precisa per un gioielliere che già aveva subito altre (vere) rapine, ma non aveva certo l’attitudine di un giustiziere della notte.

Re Cecconi con Giorgio Chinaglia
Re Cecconi con Giorgio Chinaglia

Destino. E per quanto Re Cecconi era benvoluto non solo dai suoi cari, ma da tutto l’ambiente biancoceleste e del calcio nazionale, la perdita umana risulta ancora incalcolabile. Ma la vicenda anche dal punto calcistico nasconde una morale amarissima: il nome di Re Cecconi viene indissolubilmente, inevitabilmente legato alla grottesca vicenda della sua morte, quando il giocatore in sé avrebbe meritato ben altra considerazione nell’immaginario collettivo. Re Cecconi rappresentava infatti il prototipo del centrocampista moderno, una delle creature più belle della macchina costruita da Tommaso Maestrelli, scomparso per ironia macabra di quel destino cinico e beffardo che ha avvolto quella squadra, poco più di un mese prima dell’angelo biondo.

All’epoca, la Lazio del 1974 visse il suo massimo splendore di pari passo con l’apogeo dell’esplosione del calcio atletico olandese e tedesco. La finale di Monaco ’74 assunse agli occhi di tutti i contorni di una svolta epocale, nel passaggio tecnico-tattico da quelli che erano stati i contenuti del Mondiale messicano di quattro anni prima. In molti trovarono analogie tra la Lazio e quell’Olanda, ma il modello vincente che si impose in quel periodo, proprio per le vittorie conseguite sul campo, fu quello teutonico. Il Bayern Monaco tre volte campione d’Europa si contrapponeva all’altra grande del periodo, il Borussia Monchengladbach. Che a centrocampo schierava una sorta di fotocopia di Re Cecconi, Gunter Netzer: stessi capelli biondi, stessa fisionomia, stesse movenze.

Gunter Netzer
Gunter Netzer

O meglio, quasi: il dinamismo di Re Cecconi, Netzer non lo ha mai avuto. Piedi più “nobili” sì, e questo ne compensava alcune carenze nella corsa. Tanto che il tedesco, pur soffrendo in Nazionale la rivalità con i colossi del Bayern, arrivò alla maglia del Real Madrid. In Italia “Cecconetzer”, come fu ribatezzato da alcuni, restava il fulcro di una Lazio che si giovava delle sue particolarità, uomo ovunque del centrocampo capace di siglare anche gol eroici come quello contro il Milan che fece esplodere l’Olimpico all’ultimo minuto, negli anni d’oro dell’epoea di Maestrelli. In quell’inizio di 1977 la Nazionale azzurra era in piena rifondazione, pronta a vivere una rinascita che dai Mondiali argentini sarebbe culminata nel titolo del 1982. Nonostante essere fuori dal circuito delle grandi squadre del Nord avesse sempre penalizzato Re Cecconi, difficile pensare che nella rifondazione di Bearzot non ci sarebbe stato spazio per “Cecconetzer”. L’orologio della sorte si fermò però per sempre su quel maledetto 18 gennaio del 1977, e l’immagine di Re Cecconi finì incatenata a quell’assurdo, tragico scherzo, mettendo in secondo piano le straordinarie qualità del calciatore, addirittura epocali a livello tattico.