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Allenatori Club Fabio Belli

Il Real Torino di Emiliano Mondonico

di Fabio Belli

Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.

Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.

Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia 1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.

Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.

Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.

 

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Club Fabio Belli

Verona 1985: l’ultimo eroico scudetto della provincia

di Fabio BELLI

Lo scudetto del 1985 resta forse l’ultimo da un sapore antico, quando nel calcio le idee non sempre contavano più dei soldi, ma potevano farcela. Lo vinse il Verona, l’Hellas, quando ancora non c’era bisogno di specificarlo, perché il Chievo non era neanche mai stato tra i professionisti, e non giocava neanche al Bentegodi ma al Bottagisio, dove è ancora affissa la targa “campo parrocchiale“. L’Hellas era il Verona, per tutti, e vinse un campionato pazzesco, in una serie A, ancora a sedici squadre, che iniziava proprio allora a veder sbocciare quello che sarebbe stato un quindicennio di dominio mondiale del calcio italiano.

veronaIl Verona vinse il titolo nell’anno in cui in Italia arrivò Diego Armando Maradona, il più importante calciatore del mondo, che a Barcellona, complice un grave infortunio e una clamorosa rissa contro l’Athletic Bilbao, non ebbe tutta la fortuna che si aspettava. C’erano la Juventus di Platini, l’Inter di Rummenigge, la Fiorentina di Antognoni, la Roma di Falcao. Persino il Milan, dopo due anni di B, iniziava a rialzare la testa, mettendo le fondamenta per quella che sarebbe stata l’era-Berlusconi. Maradona giocò la sua prima partita di campionato in Italia proprio a Verona, con gli occhi del mondo puntati sul Bentegodi, quel 16 settembre del 1984: ma fu l’Hellas a vincere, tre a uno, giocando un calcio da favola.

Osservatori e commentatori non diedero troppo peso alla cosa: non lo fecero nemmeno quando i ragazzi di Osvaldo Bagnoli, tecnico abituato a mandare la provincia in Paradiso, mandarono al tappeto la Juventus alla quinta giornata, il 14 ottobre. A segnare un gol decisivo ci pensò un ragazzone danese, appena arrivato a Verona, che aveva un cognome tanto comune, Larsen, che per caratterizzarsi meglio nel mondo del calcio aggiunse quello della madre, e tutti lo conobbero come Elkjaer. Che segnò alla Juve con una delle sue caratteristiche galoppate, e tanta fu la foga che perse una scarpa, ma lui non fece una piega, continuò a correre e fece gol con un piede scalzo. Iniziarono a chiamarlo Cenerentolo, per la scarpa ma anche per ironizzare un po’ sul Verona, che uscì imbattuto dalle trasferte in casa di Roma e Inter, ma che tanto era destinato a crollare, ad andare al massimo in Coppa UEFA. Anche se la prima sconfitta in campionato arrivò a gennaio inoltrato, ad Avellino, il Verona fu campione d’Inverno, ma con l’Inter a un punto, ed il Torino a due, secondo gli esperti era solo questione di tempo e la sorpresa sarebbe rientrata nei ranghi.

E invece il girone di ritorno fu come il quello d’andata, perché gli scaligeri erano una macchina perfetta, sospinta dai gol di Elkjaer e Galderisi, dalle giocate di Pierino Fanna, imprendibile ala destra che sapeva far sognare solo in provincia, dalla concretezza del gigante tedesco Briegel, e dalle spettacolari parate di Garella. Il Verona uscì indenne dagli scontri diretti, non sbandò dopo l’unica sconfitta pesante della stagione, quella contro il Torino ancora lanciato all’inseguimento, ed i tifosi gialloblu, i butei, capirono che era fatta quando dopo Verona-Como 0-0, alla terzultima giornata, i giornali parlarono di festa rimandata, non di crollo imminente della cenerentola. Si erano convinti anche loro, ed il Verona festeggiò due volte: a Bergamo la matematica conquista del titolo, il 12 maggio del 1985. E davanti ai propri, impagabili tifosi la settimana dopo, battendo l’Avellino.

Lo scudetto dell’Hellas del 1985 resta unico perché è l’ultimo nato artigianalmente senza i favori del pronostico o una politica tesa esplicitamente a vincere. Il Napoli due anni dopo trionfò capitalizzando la presenza di un mito come Maradona, ma anche di una squadra costruita intorno a lui senza badare a spese. Quello della Sampdoria fu un progetto pluriennale, anzi in molti si aspettavano che la squadra costruita da Mantovani vincesse prima il titolo. Lazio e Roma, all’alba del 2000, videro concretizzarsi campagne acquisti miliardarie che nulla hanno a che vedere con quanto costruito a Verona in quegli anni: l’ultimo scudetto eroico di un calcio in cui tutto era ancora possibile.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Beniamino Vignola: il furetto di scorta

di Alessandro IACOBELLI

Beniamino Vignola: il nuovo “abatino”. Così Gianni Brera etichettò il furetto in maglia bianconera. Il talento mancino, senza nulla togliere all’immensità dell’irraggiungibile cronista, è stato anche altro.

Correva l’anno 1959. Il 12 giugno Beniamino nasce a Verona. Se fosse venuto alla luce a Rio de Janeiro o Buenos Aires, magari con un nome più afrodisiaco, probabilmente avrebbe conseguito maggior gloria. Mingherlino, debole muscolarmente e poco tosto nei contrasti. Ecco, chissà quante volte il buon Ben ha dovuto ascoltare questa cantilena.

La passione, però, distrugge ogni muro. Lui allora aguzza l’ingegno. Sforna tecnica e fantasia. Il piede sinistro non necessita di potenziamento. I filmati disponibili sul web testimoniano la virtuosità di questo folletto dalle misure non certo colossali. 1,72 cm distribuiti in 64 kg. Un po’ come Maradona per intenderci.

I consumistici anni ’80 sono alle porte ed il giovane Vignola si lascia notare ripetutamente nel settore giovanile del Verona. Nelle due annate con la prima squadra scaligera confeziona oltre 40 gettoni conditi da un paio di reti. Beniamino vuole sfondare nel gotha del pallone italiano. In quel fantasmagorico periodo il calcio dello stivale non ha eguali il tutto il pianeta. Da Nord a Sud si può sognare senza limiti. In Campania, oltre il Napoli, c’è un altro popolo che amoreggia con quella misteriosa sfera. Stiamo parlando della gente irpina. Il frizzante veneto sposa il progetto dell’Avellino. Il Presidente Fausto Maria Sara adora la sua creatura che però, l’anno successivo, passerà nelle mani di Antonio Sibilia. La riapertura delle frontiere spedisce all’ombra del “Partenio” la punta brasiliana Juary. Il balletto intorno alla bandierina, per festeggiare un goal, diventa un vero e proprio cult. Il resto del gruppo è assolutamente rispettabile. I giovani Tacconi, Beruatto e Carnevale viaggiano a mille. Senza dimenticare capitan Di Somma, Pellegrino Valente, Salvatore Campilongo e Guido Ugolotti.

Vignola, in tale complesso, è la ciliegina sulla torta. Segna e fa segnare. Commuove il caloroso pubblico biancoverde domenica dopo domenica. La zona del mister Luis Vinicio è un’orchestra intonatissima. In tre stagioni 88 presenze e 16 marcature. Per l’Avellino si materializza in sequenza un decimo, un ottavo ed un nono posto. Passano in rassegna diversi allenatori. Dal già citato Vinicio a Tobia, passando per Marchioro e Veneranda.

Nel 1983 i tempi sono ormai maturi per sbarcare il lunario. Beniamino non può far altro che accettare le lusinghe della Juventus. Nelle prime due annate con la Vecchia Signora il furetto cresce con ottima costanza alle spalle del genio assoluto chiamato Michel Platini. Di tanto in tanto viene gettato nella mischia, dove risponde con invidiabili prestazioni. Mette a referto 52 apparizioni accompagnate da 6 reti. Numeri più che soddisfacenti, considerando anche le complessità tattiche del calcio d’epoca. Il 16 maggio 1984 a Basilea, nella Finale di Coppa delle Coppe, scrive la sua pagina più emozionante. Un suo splendido diagonale mancino fulmina il guardiano del Porto per il momentaneo vantaggio. Gli avversari pareggiano i conti ma, nel corso della ripresa, di nuovo Vignola lancia al bacio Boniek che insacca per il definitivo raddoppio. Nella medesima primavera contribuisce da assoluto protagonista anche allo scudetto bianconero. Deliziosa pure la successiva annata, con l’accoppiata Coppa Campioni (nella tragica notte dell’Heysel) e Supercoppa europea.

Nel momento in cui la carriera poteva esplodere, paradossalmente, Vignola entra in un limbo senza acuti. Torna al primo amore Verona per una sola corsa sulla giostra gialloblu (19 caps e 2 goal). Tra il 1986 ed il 1988 brilla poco nella seconda esperienza juventina. Appende gli scarpini al chiodo nel 1992, dopo aver rappresentato i colori di Empoli e Mantova (in Serie C2).

Beniamino Vignola: il furetto di scorta. Una favola, in fondo, a lieto fine.

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Calciatori Fabio Belli

Liam Brady: il “calciatore intelligente”

di Fabio BELLI

Il concetto di “calciatore intelligente” è stato sviscerato negli anni spesso in un’unica direzione: ovvero, il giocatore a volte impegnato fuori dal campo, capace di esprimere concetti fuori dal coro, genio e sregolatezza che spesso si riflettevano però sul campo con prestazioni non sempre all’altezza della situazione. Per calciatore intelligente, però, si può anche intendere un termine squisitamente tecnico. Ovvero, il classico faro capace di guidare e leggere il gioco con quell’anticipo indispensabile per prendere in controtempo gli avversari. Tra i più intelligenti di sempre, in questo senso, l’irlandese Liam Brady può ritagliarsi un posto di tutto rispetto.

Aria distinta, forse anche leggermente snob, per tutta la seconda metà degli anni ’70 Brady è stato l’orgoglio dei tifosi dell’Arsenal, proprio per quella qualità superiore, le capacità di tiro e di regia del suo vellutato piede sinistro, che spiccavano in una squadra che, fino all’avvento di Arsene Wenger, era additata come sparagnina ed operaia (il “boring Arsenal nei cori di dileggio dei tifosi avversari). Brady era l’esempio che anche i Gunners potevano avere tra le loro fila un centrocampista raffinato, di dimensione europea, anche se la sua epopea a Londra Nord si esaurì con una FA Cup vinta nel 1979 e la grande delusione della finale di Coppa delle Coppe perduta l’anno successivo contro il Valencia.

Partito capellone, Brady vide la sua fronte perdere progressivamente la chioma nel corso della carriera da calciatore. “Gioca troppo a testa alta e prende troppa aria“, ridacchiavano bonariamente sulle tribune di Highbury i tifosi, in realtà omaggiando la sua grande eleganza palla al piede. Risero meno quando, alla riapertura delle frontiere nel campionato italiano, tra gli stranieri d’importazione il nome di Brady spiccò nella rosa della Juventus che puntò su di lui per garantirsi una solida e raffinata regia a centrocampo, dopo aver perso gli ultimi due assalti allo scudetto. Dopo 235 presenze e 43 gol in sette stagioni nella massima serie inglese, Brady lasciò l’Arsenal fra le lacrime di commozione dei tifosi.

L’ambientamento a Torino fu parecchio complicato, il suo stile per la rocciosa squadra allora allenata da Giovanni Trapattoni era forse troppo compassato per gli aspri ritmi della Serie A. A rimetterlo in riga ci pensò Beppe Furino, il “quattropolmoni” dei bianconeri che non aveva la classe del sinistro di Brady ma che, correndo a centrocampo anche per lui, non aveva problemi riguardo troppi palloni persi e scarso impegno. La musica cambiò già nella seconda metà del campionato 1980/81, conquistato dalla Juventus dopo una lunga sfida a distanza con Roma e Napoli. Il duello più emozionante fu quello dell’anno successivo contro la Fiorentina di Picchio De Sisti in panchina e Giancarlo Antognoni in campo. Le due squadre arrivarono a pari punti all’ultima giornata, in vetta alla classifica: ma mente i viola pareggiarono a Cagliari, la Juventus espugnò il “Ceravolo” di Catanzaro grazie ad un rigore trasformato da Brady con una proverbiale freddezza che i tifosi bianconeri ancora ricordano.

Vinto il secondo scudetto di fila, l’avvocato Agnelli lo sacrificò sull’altare dell’arrivo a Torino di Michel Platini. Brady non fece una piega, passando a dettare i tempi del gioco, sempre a testa alta, a Genova sponda Samp. In Italia si trovò bene, l’Inter lo pagò tre miliardi e mezzo per affidargli le chiavi del centrocampo ma arrivò solo a sfiorare per due anni consecutivi la finale di Coppa UEFA. Quindi, complice qualche acciacco, un passaggio all’Ascoli, allora provinciale di lusso. Nel 1987 decise di tornare in Inghilterra per chiudere la carriera e qualche tifoso dell’Arsenal sperò in un suo ritorno ma la sua scelta cadde sul West Ham: troppo intelligente, Brady, per non capire che le minestre riscaldate difficilmente riescono saporite.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Pastore: “Il Fotogenico Piero” che bucava le reti e… l’obiettivo

di Jean Philippe ZITO

“La partita si è svolta su un terreno reso addirittura impraticabile dalla pioggia caduta nel pomeriggio: un terreno fangoso e vischioso che ha messo a dura prova la solidità degli atleti e di conseguenza la perizia dell’arbitro. Tutte le azioni, o quasi tutte, dell’una e dell’altra parte sono state alla mercé della fortuna: fasi impeccabili di gioco venivano frustrate dal fango: altre, assai più imperfette, trovavano nel fango la loro casuale correzione. Un palcoscenico di questo genere doveva vedere la prevalenza, almeno in linea di stile della squadra più forte: e la squadra più forte oggi si è palesata la Lazio”.

Il 30 Aprile del 1933 si gioca Alessandria-Lazio, in una giornata piovosa che la cronaca de “Il Littoriale” ci descrive come determinante, non solamente per lo stato decisamente precario del campo, ma anche per lo spettacolo offerto dai giocatori contrapposti.

La Lazio si è presentata in Piemonte con questo undici: Capitan Sclavi, Bertagni, Del Debbio, Fantoni (II), Tonali, Serafini, “Filó” Guarisi, Fantoni (I), Pastore, Gabriotti, De Maria. I padroni di casa dell’Alessandria rispondono con: Mosele, Lombardo, Fenoglio, Avalle, Costenaro, Barale (III), Cattaneo, Scagliotti, Notti, Marchina, Borelli.

L’Alessandria ha messo in campo tutto l’agonismo possibile fin dalle prime battute, ma si è fatta comunque sorprendere al sesto minuto da un’azione dello sgusciante De Maria, che ha fornito l’assist per il gol decisivo del centrattacco Pietro Pastore, lasciato colpevolmente solo davanti al portiere avversario. Il risultato non cambia nonostante la Lazio finisca la partita in 9 uomini (espulsi De Maria e lo stesso Pastore), contro 10 (rosso per Lombardo).

Il “fotogenico Piero” oltre ad essere un attaccante implacabile sotto porta, da anni è impegnato in numerose pellicole cinematografiche.

Nato a Padova nel 1903, inizia a giocare a pallone da giovanissimo nella squadra della città di Sant’Antonio assieme al fratello Vito. Quest’ultimo, a causa di un contrasto violento, perde la vita durante una partita. La famiglia sconvolta dall’accaduto, vieta a Piero di continuare a fare il calciatore. Ma dopo essersi dedicato per breve tempo al pugilato, decide comunque di tornare alla sua più grande passione: il calcio.

Nel 1923, a vent’anni, si accasa alla Juventus. Mentendo ai genitori, dice che ha trovato lavoro alla FIAT di Torino per trasferirsi nel capoluogo piemontese. In maglia bianconera disputa 4 stagioni (55 gol il suo personale bottino), vincendo il campionato nel 1925/26 mettendo a segno 4 gol, tra andata e ritorno, nella finale contro l’Alba di Roma.

Di questo successo bionconero scrive Vladimiro Caminiti: “Combi, Rosetta, Allemandi, Grabbi, Viola, Bigatto, Munerati, Vojak, Pastore, Hirzer, Munerati. È la Juventus che vince il secondo scudetto, e vi gioca un centrattacco innamorato delle stelle, da intendere come dive e miss, passa le ore parlando di Greta Garbo, cucendosi addosso, mentre segna goal che quasi spaccano la rete, nuove parti da primo attore. Si vede attore, si sogna attore. Fa rima con Pastore.”

Nel 1927 si trasferisce al Milan, indossando la maglia rossonera per due stagioni (59 partite, 39 gol). Nell’estate del 1928, Pastore disputa con l’Italia le Olimpiadi di Amsterdam, ottenendo la medaglia di bronzo dopo che la Nazionale ha sconfitto con un roboante 11 a 3 l’Egitto.

Dopo le Olimpiadi, con il permesso della società meneghina, si aggrega ad una tournée estiva del Brescia negli Stati Uniti. Le “rondinelle” salpano dal porto di Genova il 23 luglio 1928 sul transatlantico Duilio, raggiungendo New York in 10 giorni. Dal 5 Agosto al 5 Settembre il Brescia ha disputato 9 partite; Piero ne ha giocate 5 segnando altrettanti gol.

Durante il viaggio in America, a New York, viene avvicinato da alcuni impresari della Paramount colpiti dalla sua grande somiglianza con Rodolfo Valentino. Il primo sex symbol della storia del Cinema è scomparso prematuramente da un paio d’anni e negli USA sono alla disperata ricerca di un erede. A Piero viene proposto un provino, che viene superato alla grande. Gli impegni calcistici però non gli consentono di accettare l’allettante proposta degli Studios.

Tornato in Italia si trasferisce a Roma, iniziando a giocare per la Lazio. Il regista danese Alfred Lind, giunto nella Capitale per girare il suo nuovo lungometraggio, corteggia Pastore proponendogli un ruolo nel film muto “Ragazze, non scherzate”. Piero acconsente lusingato, debuttando così nel mondo del Cinema. Poco dopo concede il bis, in uno degli ultimi film muti della storia: “La leggenda di Wally”, di Gian Orlando Vassallo.

Nel frattempo con la Lazio nei campionati 1929/30 e 30/31 disputa 57 partite, segnando 23 gol. Dopo una nuova breve parentesi a Milano nel 31/32, sempre sponda milanista, torna alla Lazio. Nella “BrasiLazio” trova poco spazio anche perché sempre più impegnato nella carriera cinematografica: in due stagioni gioca soltanto 18 partite segnando 9 goal.

Nel 1933 lo sceneggiatore Mario Soldati, amico di Pastore dai tempi della Juventus, lo segnala per il ruolo di protagonista al regista Walter Ruttman per il film “Acciaio“, interamente girato nelle acciaierie di Terni. Il debutto di Piero da primo attore, viene unanimemente elogiato dalla critica cinematografica. Come calciatore disputa la penultima stagione al Perugia in serie B nel 1934/35 (3 presenze, 2 gol) e l’ultima nella Roma (4 presenze, 1 gol).

Terminata l’esperienza da calciatore, inizia un lungo percorso che lo vede recitare al fianco di attori del calibro Gino Cervi, Alberto Sordi, Erminio Macario, Totò, Kirk Douglas, Vittorio Gassmann, Anthony Quinn e Sofia Loren. Lavora con registi come Rossellini, Zampa, Comencini, Camerini, Mastrocinque, Mattoli, Steno e lo possiamo ammirare anche nel cult movie dedicato alla città eterna “Vacanze romane”.

Intervistato nel 1955 dalla rivista “Il Calcio Illustrato” dichiara: “Se rinascessi farei il calciatore, senza dubbio. La gente dello sport è diversa, è migliore della gente d’affari”.

A testimoniare come l’amore viscerale, genuino e sincero per il calcio non l’abbia mai abbandonato.

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Allenatori Fabio Belli

Solo Brian Clough costruì Roma in un giorno

di Fabio BELLI

Rome wasn’t build in a day” è un detto molto popolare oltremanica. Quando lo riferirono a Brian Clough in merito alla pazienza necessaria per costruire un progetto vincente, lui aggiunse a modo suo: “E’ vero, Roma non fu costruita in un giorno: è anche vero però che nessuno mi chiese di prendere parte al progetto.” Perché altrimenti…

Il 20 settembre del 2004, dieci anni fa, “Cloughie” lasciava questo mondo, cedendo alla sofferenza fisica che doveva subire in seguito all’abuso di alcol, che lo costrinse anche ad un trapianto di fegato. Un vizio, quello della bottiglia, che era peggiorato in vecchiaia, in un mondo che cambiava troppo velocemente, e nel quale stentava a riconoscersi, proprio lui che per primo fra tutti aveva intuito certi mutamenti del calcio: l’importanza dei media, e quella dei soldi, due demoni che lui sfruttò a suo favore, per portare la provincia al potere.

Clough e Peter Taylor riuscirono nell’impresa di far vincere al Nottingham Forest più Coppe dei Campioni che scudetti nella sua storia. Non a caso, la biografia del tecnico, chiamata “Walking on water“, si riferiva proprio alla sua capacità di “fabbricare” miracoli, e di ripetere un’esperienza come quella di Derby, che sembrava unica nel suo genere, a Nottingham. Anzi, più che ripeterla completarla, perché al Derby County di Clough mancò la gloria europea, sogno infranto in una semifinale contro la Juventus che, inevitabilmente, segnò la fine dell’idillio col presidente di quella che era stata la sua creatura.

Nonostante a Nottingham la Coppa dei Campioni divenne quasi un’abitudine, il rimpianto più grande della carriera di Brian Clough, almeno stando a quanto disse lui stesso, resta aver lasciato il Derby County. Taylor non lo avrebbe mai fatto: fu la crepa che portò i due a non parlarsi mai più dopo l’ennesimo litigio a Nottingham, quando la gloria, più che i quattrini, non riuscì più a tenere insieme la coppia di tecnici meglio assortita della storia d’Inghilterra.

L’ambizione e l’abilità mediatica di Clough, oltre all’estrema lucidità tattica e alla capacità manageriale, si sposavano perfettamente con le straordinarie qualità di talent scout di Taylor, che trovava sempre nella realtà quei giocatori che l’altro aveva immaginato nella sua mente per fare grandi piccole squadre di provincia. Così arrivarono i fedelissimi come McGovern e O’Hare che seguirono Brian anche a Leeds e a Nottingham, così arrivò l’intuizione di portare Archie Gemmill e soprattutto Trevor Francis al City Ground. Francis è stato l’esempio evidente di come Clough operasse per plasmare le sue creature: spingere i bilanci di club fuori dall’aristocrazia del calcio al limite, al massimo delle loro potenzialità. L’azzardo di investire un milione di sterline, record per l’epoca, su un giocatore che, per le regole di allora, avrebbe potuto scendere in campo solo nell’eventuale finalissima di Coppa dei Campioni. Che il Nottingham giocò, e vinse, con un gol di…? Esatto, neanche a dirlo.

Se Dio avesse voluto che giocassimo per aria, avrebbe messo dell’erba lassù“, è un’altra sua famosissima citazione, emblema della sua predilezione per il gioco palla a terra, quasi un’eresia nel calcio inglese degli anni ’70. Segno che oltre che per quanto riguarda soldi e dichiarazioni a stampa e televisioni, Clough aveva capito in che direzione stava andando il calcio prima di molti altri. Dopo il divorzio da Taylor, l’alba degli anni novanta ne fiaccò lo spirito con una triplice delusione, quasi consecutiva. L’approdo mancato sulla panchina del Galles, lui che era convinto di poter portare la nazionale di Mark Hughes a Ian Rush a Italia ’90; la tragedia di Hillsborough, che spezzò il suo cuore di proletario di Middlesbrough, abituato alle folle oceaniche che vivevano il calcio come un rito in armonia, estranee alla follia degli hooligans; infine, la delusione della finale di FA Cup, l’unico trofeo che gli è sempre sfuggito, perduta contro il Tottenham nel giorno dell’infortunio di Paul Gascoigne.

Guidare una nazionale è il massimo obiettivo per un allenatore“, aveva detto più volte, convinto che il suo anticonformismo, dai e dai, insisti e insisti, non gli avrebbe precluso la panchina dell’Inghilterra. Non arrivò nemmeno quella gallese, e la storia praticamente finì lì. Finché ha potuto, è rimasto a parlare alla radio e alla televisione, con quel tono di chi la sapeva lunga, e la sapeva davvero, non solo a chiacchiere: Brian Clough, se voleva, Roma te la tirava su con una giornata di duro lavoro e un doppio whisky a cose fatte.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Čestmír Vycpálek, il sergente di ferro dall’animo buono

di Alessandro Iacobelli

La Cecoslovacchia ha regalato al calcio mondiale talenti inestimabili. La lista infinita comprende anche la figura di Čestmír Vycpálek: giocatore ed apprezzabile allenatore del secolo scorso. Nato il 15 maggio del 1921 il buon Cesto, così scherzosamente soprannominato, lega tutti i pensieri e le aspirazioni ad un pallone tra i piedi. La scintilla scocca fin dal principio, quando ancora bambino il padre Premsyl gli ordina di seguire le sorti dello Slavia Praga. Lo stadio ‘Spartan’ diverrà subito il luogo dei sogni. In famiglia, però, c’è chi la pensa diversamente. La madre Jarmila, infatti, attenua l’euforia invitando il ragazzo a porre maggiore attenzione allo studio. Cesto segue alla lettera i dettami e supera con brillantezza gli anni del ginnasio e dell’Accademia Commerciale. Nel frattempo l’esordio con la casacca dello Slavia Praga sembra alle porte. La leggerezza del periodo viene purtroppo spazzata via dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La famiglia Vycpálek assapora sulla propria pelle la terribile malvagità perpetrata da Hitler nel lager nazista in quel di Dachau. “Soltanto chi ha vissuto tali esperienze – afferma Vycpálek – può comprendere il valore della vita e non spaventarsi più di niente”.

Čestmír_Vycpálek,_JuventusAl culmine dell’incubo bellico, lo Slavia Praga è ben felice di accogliere Čestmír in squadra. Nel giro di pochi mesi diventa il faro del centrocampo biancorosso: tecnica, visione di gioco ed intelligenza le sue doti principali. Successivamente si spalancano verdi praterie pure tra le fila della Nazionale boema con prestazioni superlative. Le big del panorama europeo buttano lo sguardo su Vycpálek e Korostelev. La società più scaltra è la Juventus che si aggiudica le due perle. L’esperienza di Čestmír in bianconero dura una stagione (1946-1947) condita da cinque segnature in ventisette gettoni, ma il rapporto con la dirigenza rimane splendido. Nell’estate del ’47 si materializza il trasferimento al Palermo. In Sicilia avviene la svolta professionale. Vycpálek diventa l’idolo del popolo rosanero e capitano indiscusso. In cinque anni il Palermo ritrova la Serie A e l’orgoglio di una terra impantanata nell’arretratezza economica e culturale. Cesto decide di chiudere una dignitosa carriera, dopo altre sei stagioni, nel Parma. Il metodista boemo torna nel cuore del meridione, dove intanto mette su famiglia con la dolce moglie Hana.

Lo staff societario del Palermo gli propone il ruolo di allenatore nel Settore Giovanile. Il promettente trainer accetta una lunga e dura gavetta. Discrete le esperienze al Siracusa in Serie C (terzo posto nel 1960/1961) ed alla guida del Valdagno nella medesima categoria. Nel 1968 si scatena la Primavera di Praga con l’ingresso dell’esercito sovietico nella capitale cecoslovacca, zio Cesto accoglie il nipote Zdenek Zeman. In quel frangente Vycpálek allena la Juventina, piccola compagine presieduta da Renzo Barbera, con sorprendenti risultati. L’anno seguente con il Mazara in Promozione si rivela negativo.

La carriera di Čestmír muta radicalmente dopo qualche mese. La Juventus disputa una partita amichevole con il Palermo. In questa circostanza Vycpálek e Boniperti, vecchi amici, si incontrano. L’amministratore delegato dona al tecnico boemo la cattedra del vivaio bianconero. Nella primavera del 1971 il mister della Prima Squadra Armando Picchi, colpito da un male incurabile, si spegne nello sgomento generale. Il timone tecnico viene quindi affidato a Vycpálek. La doppia finale di Coppa delle Fiere contro il Leeds incorona gli inglesi. Ciononostante il materiale umano per competere ad alti livelli non manca. Il Direttore Sportivo Italo Allodi costruisce un roster in cui si mescolano elementi giovani e uomini maturi. Carmignani in porta. Morini, Salvadore e Spinosi in difesa. Capello, Furino, Haller, Causio e Cuccureddu a centrocampo. La coppa formata da Anastasi e Bettega furoreggia in attacco. Con quel complesso Vycpálek attua al meglio la sua personale idea di calcio, mettendo in pratica i principi della scuola danubiana. La pesantissima assenza del bomber Bettega, a causa di un problema polmonare, trova una geniale soluzione nell’avanzamento di Haller come seconda punta al fianco di Anastasi. Una tragedia però si abbatte su Zio Cesto. Il figlio Cestino perisce, a soli ventiquattro anni, nell’incidente aereo di punta Raisi. La squadra si stringe attorno al suo condottiero, un padre dal cuore tenero, giungendo al trionfo tricolore il 18 maggio 1972 grazie al 2-0 rifilato al Lanerossi Vicenza. La stagione 1972-1973 ricalca in fotocopia quella passata. Un Campionato arduo e combattuto va in archivio con un finale vietato ai deboli di cuore. Causio e soci affrontano la Roma all’Olimpico; le inseguitrici Milan e Lazio giocano rispettivamente con Verona e Napoli. Nel caldo pomeriggio capitolino i giallorossi passano in vantaggio con la rete di Spadoni. Altafini e Cuccureddu rimettono le cose in ordine. Incredibili i responsi dagli altri campi. Il Milan cade per mano dei giallo-blu e la Lazio perde di misura al San Paolo. La Juventus si laurea così Campione d’Italia per la quindicesima volta. Giampiero Boniperti, divenuto Presidente, opta per un rinnovamento tecnico. Vycpálek lascia dunque il posto a Carlo Parola, continuando a far parte del mondo bianconero nella veste di osservatore.

Il 5 maggio 2002, in coincidenza con l’ennesima impresa scudettata firmata da Del Piero e Marcello Lippi, Cesto muore a Palermo. In suo onore la città siciliana ha intitolato nel 2014 il piazzale antistante lo stadio Barbera con l’appellativo di ‘Largo Čestmír Vycpálek’.

 

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Calciatori Enrico D'Amelio

Totò Di Natale, ovvero: dei treni da prendere e di quelli da lasciar passare

di Enrico D’Amelio

Il quartiere 219 di Pomigliano d’Arco è un luogo che opprime gli adulti e fa sognare i bambini. Padri impegnati dalla mattina alla sera a lavorare in uno dei poli industriali più famosi del Mezzogiorno, e figli che corrono dietro a un pallone nella speranza di un futuro lontano da umiliazioni e incertezze, da stenti e rassegnazione. Come per i fiori che sbocciano in primavera, però, anche il talento degli uomini, per formarsi ed emergere, ha bisogno del suo habitat naturale. Se alla Napoli di fine anni ’80 si sostituisce la tranquilla provincia toscana, un ragazzo cresciuto sotto il mito di Maradona può sbocciare ugualmente, ma probabilmente più in là nel tempo. Perché la luce del fiore che sembrava prodigio può essersi temporaneamente offuscata. In quel quartiere nasce Antonio Di Natale. Lì inizia a giocare a calcio, lì comincia la sua storia.

Notato dal talent-scout Lorenzo D’Amato alla Scuola Calcio San Nicola a Castello di Cisterna, lascia la terra d’origine nel 1990, a soli 13 anni, per trasferirsi ad Empoli. Dal gioco al professionismo, con la storia che diventa viaggio. Il treno della vita, che si dice passi una sola volta, viene preso, anche se non a cuor leggero. A 500 km da casa iniziano le nostalgie e le profonde crisi interiori, figlie della lontananza da papà Salvatore e mamma Giovanna, ma soprattutto dai quattro fratelli (il più piccolo chiamato affettuosamente ‘Masaniello’) e dalla sorella Anna. Nonostante la classe superiore a quella dei coetanei, Totò vorrebbe mollar tutto e fare ritorno a casa, per vivere una vita forse più difficile, ma certamente più normale, almeno per un adolescente. Viene convinto dal ‘fratello maggiore’ Vincenzo Montella (uno dei partenopei trasferitisi in Toscana, come Nicola Caccia e Francesco Lodi) a stringere i denti e ad andare avanti. Così succede che il viaggio prosegue, anche se con qualche sosta di rito, come tutti quelli da compiere nel nostro paese. Nessun esordio precoce in Serie A, ma due anni a fare esperienza tra la provincia di Bologna (Iperzola) e Viareggio, prima del ritorno a Empoli nel 1999, ad ormai 22 anni. Tre stagioni in Serie B, con la prima annata in doppia cifra (16 gol nel 2001/02) che coincide con la promozione nella massima serie. Il debutto nel grande calcio arriva a 25 anni. Un po’ tardi per chi poteva già essere su altri palcoscenici, ma a fare la differenza a certi livelli non sono solo i mezzi tecnici, ma quelli interiori. Una vita da atleta irreprensibile e il matrimonio con Ilenia, oltre ad una fisiologica maturazione anagrafica, consentono una conferma anche nella categoria maggiore, con 13 marcature e l’esordio nella Nazionale allenata da Giovanni Trapattoni, in un’amichevole contro la Turchia.

A 27 anni il treno riparte e porta ancor più lontano, questa volta nel luogo della maturità e della definitiva consacrazione: Udine. Nulla di più agli antipodi per uno nato nell’hinterland napoletano, ma un posto forse freddo e discreto nel modo giusto per non far implodere un fiore dal cuore troppo caldo. La prima parentesi, con Luciano Spalletti in panchina, è memorabile a livello di squadra, con la qualificazione ai preliminari di Champions League (prima volta per la società bianconera), ma meno per quel che riguarda l’impatto personale, costellato da 7 segnature in 33 presenze. Diventano 8 i gol nella stagione successiva, fino a una doppia cifra raggiunta con stabilità per tre campionati consecutivi (11, 17 e 12). I compagni di squadra cambiano, come nella politica della famiglia Pozzo, ma Totò diventa sempre più un punto di riferimento, tanto che arrivano la maglia numero 10 e la fascia di Capitano. E’ nel 2009/10, a 32 anni, quando un calciatore ha già dato il meglio del suo repertorio, che il fiore sboccia del tutto, con 29 gol in 35 presenze, e le prime attenzioni dei club più importanti del nostro calcio (Juventus e Milan su tutti) a metterne in dubbio il futuro in Friuli. Un’altra scelta da fare, a distanza di quasi 20 anni, questa volta a livello professionale: essere una Bandiera della società friulana, o giocarsi le proprie carte in un top club, con una carriera sicuramente più breve, e anche più marginale? Un attento esame interiore spinge verso la scelta meno ambiziosa, ma probabilmente più saggia, se guardata a posteriori. Il Capitano diventa il giocatore più prolifico di sempre in maglia bianconera, oltre che quello con più gettoni di presenza in tutte le competizioni. Non più Zico, dunque, protagonista di due fugaci stagioni a Udine nella metà degli anni ’80, ma Di Natale al primo posto nell’immaginario collettivo friulano, con il recente sorpasso su Roberto Baggio nella classifica dei cannonieri di tutti i tempi della Serie A.

Il viaggio parallelo, quello con la maglia azzurra, è fatto di alcune soddisfazioni, ma non perdona i troppi ritardi accumulati. Più tranquillo e a proprio agio nelle gare di qualificazione, che non nella pressione del Grande Evento. Non convocato per il Mondiale del 2006, dove invece si laurea Campione del Mondo il compagno di squadra Vincenzo Iaquinta, e protagonista di una Nazionale scarica dal trionfo precedente, con le magre figure agli Europei del 2008 e al Mondiale in Sudafrica del 2010. Il vuoto lasciato dagli addii di Totti e Del Piero non viene colmato, un po’ per un carattere non allenato ai grandissimi palcoscenici, un po’ per un movimento calcistico che ha oramai perso la generazione migliore. Nel primo biennio di Prandelli, però, passa l’ennesimo treno da prendere al volo, con l’orgoglio ferito italiano che tenta il canto del cigno agli Europei del 2012 in Ucraina. Un gol a Casillas nella prima gara del girone ai pluricampioni spagnoli dà l’illusione di un finale diverso, con un trofeo finalmente da poter conquistare. Sempre contro gli iberici, però, arriva la delusione della medaglia d’argento con un sonoro 4-0 in finale, e l’ultima presenza con la seconda maglia più amata di sempre.

L’ultima parte della storia è tutta da scrivere, e quella del viaggio ancora da percorrere. Un inizio, un tragitto, una fine. Tanta strada battuta, per ritornare, come spesso capita ad ogni ‘Eroe’, al punto di partenza. Forse proprio lì, al 219 di Pomigliano d’Arco, ad osservare altri bambini che giocano, vincono e perdono, ancora nel mito immortale di Diego. Oppure, più probabilmente, nella quiete friulana. Nella speranza che i ragazzi di quella terra abbiano acquisito un esempio da raggiungere e un idolo da emulare. Non con la maglia di Juventus, Milan o Inter, ma, finalmente, con quella dell’Udinese. Questa sarà la definitiva consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Sui treni presi al momento giusto, e su quelli che è stato saggio lasciar passare.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (seconda parte)

di Fabio Belli

La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.

La Juventus del quinquennio d'oro
La Juventus del quinquennio d’oro

Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.

La "prima" europea del Napoli
La “prima” europea del Napoli

In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.

Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934
Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934

L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.

Meazza capocannoniere d'Europa
Meazza capocannoniere d’Europa

Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.

Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.

Polemiche dopo la partita d'andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937
Polemiche dopo la partita d’andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937

La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.

La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese
La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese

Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.

La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (prima parte)

di Fabio Belli

Il calcio europeo ha vissuto uno sviluppo di ampio respiro una volta placatisi definitivamente i venti di guerra. L’UEFA nasce nel 1954 per iniziativa italo-belga-francese e, a cent’anni dai primi passi mossi in Inghilterra, rende realtà i sogni di tutti i pionieri del football del novecento: creare competizioni che rappresentino un metro di misura tra i club a livello internazionale. Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa UEFA animeranno i sogni di decine di milioni di sportivi continentali per decenni, fino alle attuali trasformazioni in Champions League ed Europa League.

La Coppa dell'Europa Centrale
La Coppa dell’Europa Centrale

Quando però negli anni ’30 un nuovo ordine mondiale sembrava andare prefigurandosi, poi sconvolto dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale diretta conseguenza dell’ascesa del nazifascismo, si era lavorato per mettere a confronto realtà di club di paesi diversi: la Coppa della Mittel-Europa, proprio lei, la Mitropa Cup, è stata la prima vera competizione europea per club. All’epoca era più facile vederla chiamata sui giornali col suo nome di “Coppa dell’Europa Centrale”, che col senno di poi le dava il sapore di una Champions League d’antan.

Troppo instabile la penisola iberica, troppo disorganizzate (nel football) Francia e Germania, troppo altera l’Inghilterra: il resto d’Europa si sentiva però pronta al confronto, e non bisogna credere che fosse una discriminante negative. All’epoca le squadre di club austriache e ceke avevano ben altra forza rispetto alle realtà emergenti nei paesi attualmente leader del calcio mondiale. Chi trionfava nella Mitropa poteva ben dirsi Campione d’Europa: di una sola parte di essa, certo, ma quella che più contava, all’epoca, a livello di club, ovviamente escluse le leggende inglesi.

L’evoluzione del torneo va di pari passo con quello che poteva essere e non è stato, all’epoca, del Vecchio Continente. Inizio in sordina dal 1927 al 1933 con un torneo, per quanto prestigioso, ad 8 squadre, poi il boom con le 5 edizioni a 16 e 20 squadre che possono essere considerate la versione embrionale di quella che vent’anni dopo sarà la Coppa dei Campioni. Poi l’improvviso declino, con la finale del 1939 mai disputata a causa dell’invasione della Polonia: in Europa non sarà tempo di pallone per un bel po’.

Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa
Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa

L’Italia è assente dalle prime due edizioni vinte da Sparta Praga e Ferencvaros: ceki e ungheresi hanno la meglio in entrambe le occasioni in finale sul Rapid Vienna. La riforma dei campionati vede l’Italia presentare, in attesa del girone unico, due rappresentanti uscite da un girone di spareggi nel 1929. Sono Genoa e Juventus le prime squadre a misurarsi in campo europeo a livello di club: entrambe escono subito ai quarti di finale, con gli ungheresi dell’Ujpest che alzeranno il trofeo ai danni dello Slavia Praga.

Nel 1930, di nuovo fuori ai quarti il Genoa, è l’Inter la prima squadra a passare un turno in Europa. Per domare i campioni uscenti dell’Ujpest serviranno 4 partite. Vittoria 4-2 a Milano, sconfitta con lo stesso pareggio in Ungheria, poi spareggio in parità (1-1) e alla fine vittoria di quella che nel frattempo è già diventata Ambrosiana. In semifinale sarà lo Sparta Praga ad estromettere i nerazzurri, ma a conquistare la Coppa, dopo due finali perse, sarà il Rapid Vienna.

Resoconto d'epoca della sfida tra Roma e First Vienna
Resoconto d’epoca della sfida tra Roma e First Vienna

L’anno successivo farà registrare la migliore performance della Roma, semifinalista battuta dai futuri campioni del First Vienna dopo aver piegato lo Slavia Praga nei quarti, fatali invece alla Juventus che non riuscirà nemmeno nel 1932 ad arrivare in finale. I bianconeri saranno però diretti responsabili del primo trionfo europeo italiano, quello del Bologna. I bianconeri infatti termineranno in una rissa furibonda la semifinale contro lo Slavia Praga: entrambe le squadre saranno squalificate e i felsinei, vincenti sul First Vienna, saranno proclamati campioni d’ufficio.

L'Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l'Inter
L’Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l’Inter

Nonostante la vittoria del Bologna, dunque la prima squadra italiana a giocare la finale della competizione sarà l’Inter nel 1933: Juventus ancora fuori in semifinale, sarà l’Austria Vienna a vedersela con l’Ambrosiana. A Milano il 3 settembre del 1933 un micidiale uno-due di Levratto e Meazza permette ai nerazzurri di prendere il largo, ma un gol di Viertl nel finale suona come un sinistro presagio. Cinque giorni dopo una tripletta della leggenda del calcio austriaco, Matthias Sindelar, manda in delirio i 58.000 del Prater di Vienna, e nega all’Inter la possibilità di alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale.

(continua…)

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Club Fabio Belli

20 aprile 1986, Roma-Lecce: indagine su una partita al di sopra di ogni sospetto

di Fabio Belli

Il fascino del calcio rispetto agli altri sport di squadra, è cosa abbastanza nota, consiste nella sua imprevedibilità. Difficilmente il pronostico può essere sovvertito quando il divario tecnico è troppo ampio: e così nel basket, nella pallavolo, nell’hockey e in tutte le altre discipline, si può assistere a finali olimpiche o lotte per il titolo all’ultimo sangue, ma difficilmente si può arrivare a vedere sciupare occasioni le squadre di testa opposte a formazioni destinate alla retrocessione.

Il 20 aprile del 1986 il calcio italiano ha fatto registrare uno dei più clamorosi testacoda della sua ormai ultracentenaria storia. L’Italia amante del pallone era sintonizzata sulle frequenze di “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con lo stesso stato d’animo di un lettore di gialli pronto a scoprire il nome dell’assassino. Il thrilling era garantito dall’incredibile rimonta che la Roma aveva messo in piedi ai danni della Juventus di Trapattoni. Un campionato a due strappi, quello della stagione 1985/86. La Juventus, inarrestabile, chiude il girone d’andata a 26 punti sui 30 disponibili. Secondo è il Napoli a -6, a otto punti di distanza seguono Inter e Roma. Già, i giallorossi: spettacolari e poco concreti come erano già stati sotto la guida di Sven Goran Eriksson nella precedente stagione, la questione-scudetto in inverno non sembrava proprio aperta.

E invece: nelle successive tredici sfide, la Roma ottiene 23 punti su 26, vincendone 11 (compreso lo scontro diretto contro la Juve con uno spettacolare 3-0 all’Olimpico), pareggiando a Firenze e perdendo solo a Verona. La Juventus avanza invece alla sconcertante media di un punto a partita. Un calo certificato anche dall’eliminazione in Coppa dei Campioni per mano del Barcellona. Si arriva alla penultima giornata con gli otto punti completamente rimontati. Il calendario recita: Roma-Lecce e Como-Roma per i giallorossi, Juventus-Milan e Lecce-Juventus per i bianconeri. Parlare di Lecce arbitro dello scudetto è però quasi roba da ridere: i salentini, al loro primo campionato in assoluto in Serie A della loro storia, di punti ne hanno messi insieme in tutto 14, e sono mestamente già retrocessi in cadetteria. Secondo gli esperti, non ci sono dubbi: saranno il Milan e il Como a decidere le sorti del titolo.

Il fattore psicologico però è da non sottovalutare: mentre la Roma è lanciatissima e col morale alle stelle per l’aggancio, la Juventus è evidentemente in affanno e affronta un Milan pronto a iniziare l’era-Berlusconi e a riacquistare quarti di nobiltà perduti ormai da oltre 15 anni di bocconi amari e cadute in B. Se sarà sorpasso, difficilmente i giallorossi perderanno l’occasione al “Sinigaglia” contro un Como coriaceo ma già salvo. Come detto, in questi calcoli della vigilia il Lecce non viene neppure considerato. Gli uomini di Fascetti scendono in campo in un Olimpico pavesato a festa: il Sindaco DC Nicola Signorello e il presidente giallorosso Dino Viola si esibiscono in un giro di campo quasi preludio di festeggiamenti ancora da conquistare. Chi in tribuna fa gli scongiuri, lo fa con la mente rivolta esclusivamente alla Juventus: se i bianconeri battessero il Milan, lo spareggio poi sarebbe comunque da giocare. Ma altri scenari funesti non vengono evocati, anzi anche uno spareggio, con la Roma in tali condizioni, da molti viene visto come una formalità, anche alla luce del 3-0 di poche settimane prima.

Graziani dopo 7′ porta in vantaggio la Roma, e non potrebbe essere altrimenti. L’Olimpico non esplode, si limita a proseguire nelle feste e nelle esultanze del prepartita, sperando di ricevere buone notizie dal “Comunale” di Torino. Impossibile preoccuparsi neanche quando Alberto Di Chiara, cresciuto nel settore giovanile giallorosso (al contrario del fratello Stefano, ex Lazio e anche lui presente in campo con la maglia del Lecce) beffa il fuorigioco di Eriksson e sigla il pareggio. Poco dopo, uno scellerato passaggio in orizzontale di Giannini, di quelli che fanno infuriare il Cruyff allenatore, regala il via libera a Pasculli atterrato da Tancredi. Barbas, dal dischetto, non sbaglia.

Cosa accada nell’intervallo non è dato sapere: c’è chi parla, ovviamente senza che mai arrivino conferme ufficiali, di ammiccamenti tra i due spogliatoi, col Lecce che se “incentivato”, non ci terrebbe a guastare la festa. Il pensiero indecente, se mai balenato nella mente di qualcuno, viene subito cancellato: troppo forte la Roma per non ribaltare comodamente il risultato, sugli spalti c’è chi è sicuro di una vittoria finale con vantaggio almeno doppio, come accaduto nella trasferta di Pisa una settimana prima, nella partita dell’aggancio. Parlando di scommesse però, il Totocalcio successivamente farà balenare un particolare quantomeno curioso: i tredici saranno 128 quella domenica, un’enormità se si pensa a quanto improbabile era considerata nel sentore popolare la vittoria del Lecce all’Olimpico.

Al rientro in campo, la Juventus sta comunque pur sempre pareggiando contro il Milan. La Roma riparte completamente proiettata all’attacco, e puntualmente la zona di Eriksson regala quegli spazi che permettono a Barbas, ancora lui, di firmare il 3-1. Impossibile ma vero: al “Comunale” i tifosi spingono letteralmente la Juventus verso la vittoria, e quando Laudrup porta in vantaggio i bianconeri, all’Olimpico inizia a consumarsi il dramma. La Roma spreca tanto, trova finalmente il gol a 8′ dalla fine con Pruzzo, ma ormai i cavalli sono proverbialmente scappati dal recinto.

Il Lecce, re per una notte, andrà ko all’ultima giornata, stavolta come previsto, contro la Juventus, mentre una Roma agghiacciata da quanto accaduto la settimana precedente sarà sconfitta anche dal Como. A distanza di quasi 30 anni, è davvero difficile ipotizzare cosa sia accaduto quel giorno. La storia di Davide e Golia stavolta è poco plausibile, considerando l’enorme differenza di motivazioni che intercorreva tra le due squadre, al di là dello scalino tecnico altrettanto ampio. Come sempre gossip, voci e veleni si rincorsero alla fine di una stagione che fu funestata dal secondo scandalo del calcioscommesse.

Nel libro di Oliviero Beha e Andrea Di Caro “Indagine sul Calcio”, il figlio del presidente giallorosso Viola, Ettore, dichiarò: ” Mio padre alla fine della partita era distrutto, incredulo, ma non sospettò mai nulla. Ai giocatori della Roma conveniva vincere. Mio padre aveva messo in palio per lo scudetto un premio clamoroso. La verità mai rivelata è che ci arrivarono voci insistenti di un premio a vincere o a pareggiare, che fu promesso al Lecce dalla Juventus. Giocarono la partita con una vis agonistica insolita per una squadra già retrocessa”. Ma nello stesso volume il bomber della Roma, Roberto Pruzzo, propone un’analisi che resterà per sempre quella ufficiale: “So che girarono voci, ma erano stronzate. Io ero un leader dello spogliatoio, non passava nulla che io non sapessi. E se qualcuno si fosse giocato la partita io l’avrei saputo. La verità è che nello spogliatoio non si giocava. Il Lecce rappresentò un incubo che può essere compreso solo se si considera quella partita come una follia isolata. Quella rincorsa ci causò un incredibile dispendio di energie fisiche e nervose. Avevamo finito la benzina,ecco la verità. Il calcio è bello anche perché esistono gare come quella. Purtroppo capitò a noi viverla”.

 

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

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