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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Calciatori Fabio Belli

Branco: tre punizioni nella storia

di Fabio BELLI

Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talento brasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.

brancoSchierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.

Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionale brasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.

La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.

Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.

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Allenatori Calciatori Fabio Belli

Boxing Day, il giorno del destino di Brian Clough

di Fabio BELLI

Di Brian Clough, l’allenatore senza peli sulla lingua che portò la classe operaia inglese in Paradiso grazie alle vittorie ottenute alla guida di Derby County e Nottingham Forest, si è detto e scritto davvero molto. In parecchi da tempo lo giudicano l’antesignano di Josè Mourinho negli atteggiamenti, anche se “Cloughie” era profondamente diverso in molti aspetti, soprattutto era molto più rude e ruvido pur essendo stato il primo, alla stregua di quanto poi perfezionato dal portoghese, a comprendere l’importanza e il ruolo dei media e della comunicazione nel calcio.

clougMeno si conosce però del Clough calciatore, autentico flagello divino in linea con le sue caratteristiche fisiche, piccolo attaccante dalla grande rapidità e reattività e soprattutto dal controllo di palla sullo stretto capace di fare impazzire qualsiasi difensore. Del Clough calciatore Bill Shankly, il manager che diede vita alla leggenda del Liverpool, diceva: “E’ peggio della pioggia di Manchester, quella almeno ogni tanto smette.” Sotto porta Clough invece non conosceva soluzione di continuità: con la maglia del Middlesbrough arrivò a segnare 197 reti in 212 apparizioni in campionato e si assestò su quelle medie anche dopo il suo passaggio al Sunderland all’inizio degli anni ’60.

Ma la sua carriera da calciatore si spezzò di fatto quando non aveva ancora compiuto ventotto anni: Clough subì un gravissimo incidente nel giorno di Santo Stefano del 1962, il cosiddetto Boxing Day. Chiamato così perché in Inghilterra è tradizionalmente legato all’usanza, nata nell’Ottocento. di regalare doni ai dipendenti o ai membri delle classi sociali più povere. In particolare, era consuetudine delle famiglie agiate britanniche preparare delle apposite scatole con all’interno alcuni doni e avanzi del ricco pranzo di Natale, da destinare al personale di servizio a cui era concesso libero il giorno successivo al Natale, per far visita alle proprie famiglie. Il 26 dicembre segna ormai da decenni l’inizio della maratona calcistica che gli appassionati di calcio in Gran Bretagna possono gustarsi nel periodo delle feste, quando qualche giorno di ferie aiuta a pensare più spensieratamente al football. Un’atmosfera sempre festosa ma che nel Boxing Day del 1962 segnò la fine del talento di Clough che molti ritenevano avrebbe potuto trovare compimento negli imminenti Mondiali in Cile. Pur considerando che il futuro leggendario allenatore rimase sempre ai margini dei Leoni Bianchi, collezionando solo due apparizioni in Nazionale in carriera, vuoi per la feroce concorrenza dell’epoca, vuoi per un carattere già ai tempi sin troppo schietto.

Ad ogni modo in quel 26 dicembre 1962 era programmata la sfida tra Sunderland e Bury: uno scontro con il portiere della squadra dei sobborghi di Manchester e il legamento crociato salta, un infortunio che segna la fine della carriera, a quei tempi, nella maggior parte dei casi. E Clough non fa eccezione: dopo un anno e mezzo di tentativi andati a vuoto, l’idea del rientro in campo per lui si fa da parte. L’Inghilterra perde un formidabile, astuto attaccante, ma trova nel contempo un allenatore destinato a lasciare sui tempi un segno indelebile. Le rivincite per Clough saranno molteplici, dal portare il Derby County dal fondo della Seconda Divisione alla vetta d’Inghilterra, ed il Nottingham Forest per due volte consecutive sul trono d’Europa. Ma il cerchio col Boxing Day si chiuderà solo ventidue anni dopo, quando Clough farà esordire proprio in occasione del Santo Stefano in campo, alla guida di un Forest ormai affermatissimo, il figlio Nigel appena diciottenne. Il quale inizierà nel 1984 una brillante carriera che lo porterà a partecipare agli Europei del 1992 con la maglia dell’Inghilterra, per seguire infine le orme paterne come allenatore. Un classico, perfetto caso di giustizia poetica.

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Club Enrico D'Amelio

Fields of Anfield Road: Liverpool e la leggenda di Anfield in un coro

di Enrico D’AMELIO

Evitare di cadere nella retorica, quando si narrano certe storie, è difficile quasi quanto non emozionarsi a ricordarle o immaginarle. Svariati scrittori e giornalisti sportivi, nei fiumi di inchiostro riversati su carta in epoche remote o attuali, hanno preso spunto da Pasolini o Galeano per caricare di etica ed estetica uno spettacolo che si consuma da oltre un secolo su un rettangolo verde. Qualcosa di sacro e profano allo stesso tempo, con attori e spettatori distaccati o in simbiosi nelle differenti grida e gli identici silenzi.

In Inghilterra, dove il football ha visto la luce nella seconda metà dell’Ottocento, i contorni degli spalti, gli echi, i canti e i rumori diventano molto spesso il centro della scena, più che la cornice a fare da sfondo. In questi stessi luoghi, il calcio non è visto semplicemente come uno sport, un gioco, o, più comunemente, un fenomeno sociale di massa. Ma come qualcosa a cui approcciarsi con devozione. Lo racconta benissimo Alan Edge, uno scrittore tifoso del Liverpool, che ha intitolato un suo libro ‘La fede dei nostri padri – il calcio come una religione’. Una serie di ricordi riguardo a tutti gli step che un bambino poi diventato uomo avrebbe dovuto superare, per poter essere considerato un vero fan dei Reds dai tifosi di lunga data.

anfield

Proprio dai racconti di questi ultimi, tante generazioni cresciute sui gradoni di Anfield hanno potuto far propria una storia gloriosa, intrisa di epos e leggenda, e omaggiarla con cori da levare al cielo come veri e propri inni sacri. Qualsiasi appassionato di questo sport conosce la canzone ufficiale del Liverpool Football Club – You’ll never walk alone -, intonata all’inizio e alla fine di ogni gara, a prescindere da quale possa essere risultato e posizione di classifica. Il primo documento ufficiale che riporta questo fatto è del 1964, quando un operatore della BBC riprese i tifosi della Kop a cantarla. Un anno dopo, durante la finale di Coppa d’Inghilterra contro il Leeds a Wembley, i sostenitori del Liverpool ripeterono il rito, a sottolineare che i giocatori con la maglia rossa, dovunque si fossero trovati, non avrebbero “mai camminato da soli”. Il telecronista dell’epoca, Kenneth Wolstenholme, lo stesso che poi raccontò l’unico titolo mondiale della Nazionale Inglese nel 1966, elogiò in diretta questa sfumatura, e disse che questa canzone sarebbe diventata “il biglietto da visita del Liverpool in ogni stadio”.

Meno noto, ma probabilmente ancora più toccante, l’altro coro che non può mancare ad Anfield durante gli ultimi minuti di gioco della più futile tra le partite, dal titolo ‘The fields of Anfield Road’. E’ un qualcosa che va a toccare nel profondo le radici di questa società, e che rinverdisce i ricordi di miti oramai lontani o addirittura defunti. Uno di questi è Bill Shankly, tecnico dei Reds dal 1959 al 1974, con cui vinse il campionato nel 1964, 1966 e 1973, e la Coppa Uefa sempre nel 1973. Restano impresse alcune sue frasi, come quella pronunciata a un poliziotto durante un giro di campo a fine stagione. L’agente s’era reso responsabile di aver allontanato con i piedi una sciarpa del club, così lui lo fulminò dicendogli: “Non farlo. Per te è solo una sciarpa, per un ragazzo rappresenta la vita”. Oppure, per umiliare l’altra squadra della città, l’Everton: “Ci sono solo due squadre di calcio nel Merseyside: il Liverpool, e le riserve del Liverpool”.

Così la società gli ha intitolato un ingresso di Anfield (Shankly Gates), e i tifosi della Kop l’hanno omaggiato nella strofa iniziale di questo canto, riadattato da una vecchia canzone irlandese di metà Ottocento, ai tempi della Grande Carestia. La sintesi della prima parte del coro è che Shankly non fa più parte del Club, ma ha fatto in tempo a lasciare in eredità un undici granitico, e che anche nel presente e nel futuro, dopo che nel passato, ci sarà gloria per le maglie rosse sui campi di Anfield Road. Lo stesso undici, infatti, si renderà protagonista delle più indimenticabili pagine di storia vissute dal Club pochi anni dopo. Si passa da un mito all’altro, da Bill Shankly a Bob Paisley, una vita per la squadra del Merseyside. Giocatore dal 1939 al 1954, allenatore della squadra riserve dal 1954 al 1959, allenatore in seconda per i successivi 15 anni, e tecnico della prima squadra dal 1974 al 1983. ‘Soli’ 9 anni alla guida dei grandi, ma un palmares da far spavento, con 6 titoli nazionali e 3 Coppe dei Campioni, record ancora imbattuto se raggiunto sulla stessa panchina, e soltanto eguagliato da Carlo Ancelotti nel 2014, ma alla guida prima del Milan (2003 e 2007) e poi del Real Madrid (2014).

A Paisley, oltre ad essere intitolato il cancello opposto a quello di Shankly nel tempio dei Reds, è dedicata la terza strofa del coro, sulla falsariga della prima, in cui viene ricordata la prima Coppa dei Campioni, vinta a Roma nel 1977 in finale contro il Borussia Moenchengladbach. La seconda e la quarta strofa, invece, si ripetono, e sono state riadattate dopo la tragedia di Hillsborough del 1989 in cui morirono 96 persone, tra cui un bambino di soli 10 anni, cugino del futuro capitano Steven Gerrard. Si passa da ‘Re Kenny’ – che sarebbe Kenny Dalglish, leggendario campione scozzese che ha vestito la maglia rossa dal 1977 al 1990, l’epoca d’oro del Liverpool, capace di conquistare 4 delle 5 Coppe dei Campioni della sua storia -, a Steve Heighway, storica ala irlandese degli anni ’70, andato poi negli Stati Uniti a fine carriera. E’ proprio dal 1990, tra l’altro, che il Liverpool non riesce a conquistare la Premier League. Un’assenza che gli ha fatto cedere lo scettro di squadra più titolata d’Inghilterra nel 2011, ai danni degli odiati rivali del Manchester United. Quasi una nemesi del fato dopo le stragi commesse dagli Hooligans del Liverpool in Belgio, nel 1985, e a Hillsborough quattro anni più tardi. La sensazione di malinconia di un’epoca che difficilmente potrà ritornare è mitigata dalla consapevolezza di sostenere una squadra di culto per i tifosi di ogni parte del mondo. Perché grazie alle imprese del passato e ai racconti dei vecchi, di padre in figlio o di nonno in nipote, i giovani tifosi dei Reds, una volta dentro Anfield, potranno rivivere ugualmente le immagini dei tempi andati. Quando il Liverpool era la squadra più forte d’Europa, e vi erano solo successi e gloria sui campi di Anfield Road.

Il testo integrale del coro:

Outside the Shankly Gates
I heared a Kopite callin’
Shankly they have taken you away
But you left a great eleven
Before you went to heaven
Now it’s glory ‘round the fields of Anfield Road

All ‘round the fields of Anfield Road
Where once we watched the King Kenny play (and he could play)
Steve Heighway on the wing
We had dreams and songs to sing
Of the glory ‘round the fields of Anfield Road

Outside the Paisley Gates
I heared a Kopite callin’
Paisely they have taken you away
You led the great eleven
Back in Rome in seventy-seven
And the Redmen, they are still playing the same way

All ‘round the fields of Anfield Road
Where once we watched the King Kenny play (and he could play)
Steve Heighway on the wing
We had dreams and songs to sing
Of the glory ‘round the fields of Anfield Road

https://www.youtube.com/watch?v=FNxDKLzs0zU

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Club Fabio Belli

Blackburn Rovers, ovvero: Tim Sherwood meglio di Zidane

di Fabio Belli

In molti ritengono che le radici del calcio moderno, così come quelle del calcio antico, abbiano origine in Inghilterra. Di sicuro il football d’oltremanica, all’inizio degli anni novanta, è stato il primo che ha saputo riformarsi e trasformarsi in una vera e propria macchina da soldi: parliamo di ricavi, e non i miliardi investiti dai tanti che hanno usato il pallone come vetrina o, perché no, anche come sfizio personale. E non è un caso che a vincere nell’ultimo anno della vecchia Football League sia stato il Leeds United: il passaggio di Eric Cantona dallo Yorkshire agli odiati rivali del Manchester United, e con esso anche lo scettro di squadra padrona d’Inghilterra, ha rappresentato un vero e proprio cambio di epoca.

A quelli a cui il calcio moderno non piace, viene facile individuare questo momento come quello della morte dei tempi più romantici e avventurosi del football. Eppure, anche nel rigidissimo scacchiere della Premier League, dal 1993 ad oggi vinta da sole quattro squadre, due di Londra (Arsenal e Chelsea) e due di Manchester (United e City), c’è stata l’eccezione che conferma la regola. E di eccezione si può parlare a tutti gli effetti, visto che negli ultimi 25 anni i titoli nazionali dei campionati di primo livello, quando non sono finiti tra le mani di grandi canoniche, hanno premiato club che avevano effettuato investimenti enormi sulla loro crescita. Lazio e Roma in Italia, ma anche Deportivo La Coruna e Valencia in Spagna, oppure il Wolfsburg in Germania, sono squadre arrivate al titolo allestendo formazioni con fior di campioni, e potendo contare su una potenza economica non indifferente.

Agli occhi di oggi appare incredibile quindi che nel 1995 il titolo sia stato festeggiato dal Blackburn Rovers: espressione di una cittadina di appena centomila abitanti nel cuore del Lancashire, e club passato alla storia per aver posto le basi della nascita del “sistema”, proponendo un 2-3-5 chiamato fantasiosamente “Piramide di Cambridge”. Piccolo particolare, era il 1893: anni ruggenti del calcio inglese, nei quali il Blackburn aggiunse a cinque FA Cup conquistate prima dell’avvento del ventesimo secolo, anche due titoli d’Inghilterra datati 1911 e… 1914. Ritrovare ottantun anni dopo ai vertici del calcio i Rovers non era certo nei piani degli ideatori della ricchissima Premier League, ma quella del 1995 fu una squadra che fece della normalità un lusso.

Nel 1992 il Blackburn si era classificato sesto in seconda divisione: la promozione nella neonata Premier arrivò grazie ad una vittoria da outsider assoluta nei play off. Ma quella squadra era pronta ad esplodere: dal Chelsea arrivò in prestito un diavolo della fascia, feroce progressista e mente geniale, Graeme Le Saux. In attacco, il club aveva speso cinque milioni di sterline per affiancare ad Alan Shearer il quotatissimo Tim Sutton del Norwich City, e alle loro spalle c’era il fantasioso Tim Sherwood, nel quale Kenny Dalglish in panchina riponeva una fiducia cieca. Tanto che per puntare su di lui, il club evitò la stagione successiva al titolo di versare quattro milioni di sterline nelle casse del Bordeaux per un certo… Zinedine Zidane. Roba che probabilmente avrebbero spedito nel Lancashire dalla Francia anche una cassa di vini omaggio per chiudere l’affare.

Tornando alla stagione del titolo, dietro alle imprese del Blackburn c’era il magnate dell’acciaio Jack Walker, tutt’altro che un Berlusconi per l’epoca, soprattutto rispetto alle grandi che spendevano e spandevano, Manchester United in testa. Ferguson diede una bella ripassata a Dalglish sia all’andata che al ritorno, ma contro le cosiddette piccole il Blackburn non perdeva un colpo né in casa né in trasferta. Era la normalità al potere: Alan Shearer segnava come nessun altro in Europa (chiuse il campionato con 34 reti!), e nelle interviste indicava salsicce e fagioli come suo piatto preferito. Era una squadra che non faceva sognare nessuno, tranne i suoi tifosi e i migliaia di simpatizzanti che in Europa ne seguivano l’impassibile scalata.

All’ultima giornata, i Rovers avevano 2 punti di vantaggio sullo United, e dovevano giocare ad Anfield contro il Liverpool. Lo United andava sul campo del West Ham con la certezza di vincere il titolo in caso di arrivo a pari punti, per la migliore differenza reti. Gli Hammers passarono in vantaggio mentre Shearer buttava nel sacco il suo ultimo pallone della stagione. Un lieto fine annunciato? Macché: il Manchester United prese a dominare contro un West Ham senza più obiettivi in campionato, e pareggiò facilmente, bombardando letteralmente il portiere avversario Miklosko, mentre Barnes e Redknapp (al 93′) ribaltano la situazione a Liverpool. I tifosi del Blackburn impallidiscono, mentre la tv inglese negli ultimi 30 secondi tiene la telecamera fissa su Kenny Dalglish, che appare quasi rassegnato a ricevere la notizia più temuta: grazie a Miklosko la beffa però non arriverà mai, e dopo aver assaggiato cos’era un vero thriller, i super-normali festeggiarono un titolo atteso 81 anni. Incredibile ma vero: e con Zidane la storia probabilmente sarebbe continuata, ma in fondo in un angolo del Lancashire sanno bene che non sono loro ad essersi persi Zizou, ma il resto del mondo a non aver ammirato da vicino Tim Sherwood al massimo della sua forma.

 

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Club Enrico D'Amelio

Roma-Liverpool: una notte di Coppe e di Campioni che per i tifosi giallorossi non è esistita davvero

di Enrico D’Amelio

C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.

Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.

Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 14: #ottavi, #Brasile, #Cile, #JulioCesar, #Ames, #Colombia, #Ochoa, #Hupolland

di Fabio Belli

Brasile – Cile 1-1 dts (4-3 dcr)

Brasile, aiuti dall'"alto"?
Brasile, aiuti dall'”alto”?

87. Se la traversa di Pinilla all’ultimo minuto dei tempi supplementari fosse entrata, come l’avremmo chiamato? “Mineirazo”? Di sicuro lo spettro del “Maracanazo” i padroni di casa potranno scrollarselo di dosso solo vincendo il Mondiale; d’altra parte, sin dalla partita contro la Croazia, c’è “qualcosa”, una forza ineluttabile, che sembra voler tenere in gioco i padroni di casa. L’arbitraggio di Webb è stato perfetto, stavolta sono stati i legni ed uno strepitoso Julio Cesar a tenere in vita la Selecao e a buttare fuori il Cile di Sampaoli, per organizzazione tattica forse la più bella realtà di Brasile 2014.

 

La resurrezione di Julio Cesar
La resurrezione di Julio Cesar

88. Già, Julio Cesar: togliersi sassolini dalle scarpe prima della fine di una competizione è sempre pericoloso, ma il portiere che con l’Inter ha messo in fila 14 trofei, dopo aver compiuto cose davvero grandi contro il Cile, si è lasciato andare ad un pianto liberatorio. Metà per quello che ha passato, metà per quello che sta passando: la pressione di ritrovarsi fuori squadra nel Queens Park Rangers, ed allenarsi da solo al parco e implorare un prestito al Toronto per giocare in vista dei Mondiali; e quella dovuta agli occhi addosso di una nazione intera, che sogna solo di mettersi alle spalle quella parola, sempre e solo quella parola: “Maracanazo”.

Colombia – Uruguay 2-0

"Ames" eroe nazionale in Colombia
“Ames” eroe nazionale in Colombia

89. Si chiama James Rodriguez, ma tutti lo chiamano “Ames”, perché la J alla spagnola diventa muta. Nulla a che vedere con James Bond, ma questo nuovo idolo latino è da tempo noto a chi segue il calcio. E conosce la qualità degli osservatori del Porto nello scovare talenti in Sudamerica. Di sicuro chi “Ames” l’ha scoperto ai Mondiali è arrivato davvero tardi, considerando che su di lui si sono già riversati i rubli del Monaco, dove ha già sfornato nell’ultima stagione gol e soprattutto assist a ripetizione. Di sicuro, mai come in questi Mondiali Rodriguez ha trovato la continuità del fuoriclasse vero. Con quello di Van Persie alla Spagna e quello dell’australiano Cahill all’Olanda, la sua bordata infilatasi tra la mano tesa di Muslera e la traversa irrompe sul podio dei gol più belli di Brasile 2014. E tra Neymar, Messi, Robben e Muller, “Ames” è pronto a giocarsi la palma di stella del Mùndial.

Campioni in salsa "Come Eravamo"
Campioni in salsa “Come Eravamo”

90. L’Uruguay di Tabarez ha ceduto invece a un certo tremendismo. Dopo la vittoria contro l’Italia, la difesa di Suàrez è andata oltre il buonsenso, e questo non ha giocato all’ambiente, oltre che a una squadra appesantita dal ritorno di un Forlan non più proponibile a certi livelli. Addirittura al Maracanà era stato provato a vietare l’ingresso di tifosi con la maglia del “pistolero” del Liverpool: misura forse eccessiva. La squalifica di nove partite, e soprattutto il divieto di accesso per quattro mesi alle manifestazioni sportive di qualsiasi tipo (una sorta di “Daspo” internazionale) restano una punizione esemplare, ma inevitabile per tanta recidività. E l’umorismo della rete nel frattempo impazza…

Olanda – Messico 2-1

C'è qualcosa che ci spinge a simpatizzare per l'Olanda...
C’è qualcosa che ci spinge a simpatizzare per l’Olanda…

91. Così come il Brasile, anche l’Olanda sembra sospinta da una forza di galleggiamento che la riporta a galla nei momenti difficili. Il secondo tempo contro la Spagna è stato un autentico capolavoro, contro Australia e Messico invece Van Gaal ha trovato la giocata giusta al momento giusto. Stavolta, a salvare la baracca è stato il redivivo Sneijder, colpevole la difesa messicana a non serrare le fila proprio nei minuti finali dopo il gol di Giovani Dos Santos, ma una “stecca” così il dieci olandese non la tirava dai tempi nerazzurri. Nel frattempo, l’Olanda sembra aver già vinto il Mondiale delle bellezze allo stadio, e delle tifose in generale. Difficile non simpatizzare per gli orange, con tali supporters..

Mexico power!
Mexico power!

92. Va detto che col Messico il Mondiale perde una vagonata di protagonisti. Dal piojo Herrera in panchina, all’incredibile Ochoa che anche stavolta si è esibito in parate al limite del possibile. Svincolato, il portiere messicano è stato al centro di un appello di un tifoso dell’Ajaccio, in Francia, che per trattenerlo ha messo ufficialmente in vendita casa… e tutta la famiglia. Il Messico oltre che squadra simpatia (la campagna “peperoncini messicani vs. arance” ha scatenato moltissimi sorrisi su Twitter) ha dimostrato di essere anche organizzato e ben orchestrato da Herrera. Gli affondi di Robben hanno fatto cedere gli argini sul più bello: e il tabù ottavi di finale persiste per la “Tri”, fuori subito dopo la fase a gironi per il settimo anno consecutivo.

 

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 11: #Italia, #Morso, #Rimorso, #Suarez, #Dimissioni, #Grecia, #Samaras, #Mondragon, #Selfie

di Fabio Belli

Italia – Uruguay 0-1

Le nuove frontiere del cibo italiano
Le nuove frontiere del cibo italiano

66. Abbiamo già parlato di quanto i deja vu siano frequenti nei Mondiali. L’Italia si ritrova coinvolta in un’eliminazione tra grandi controversie arbitrali, come già avvenuto nel 1962 e nel 2002, quando un arbitro chiamato Moreno, così come in questo caso, scatenò l’ira dei tifosi azzurri. Il Moreno attuale è messicano e soprannominato Dracula, con il centravanti della squadra avversaria, Suarez, famoso per avere il “vizietto” di mordere gli avversari. Possibile che ci ricaschi con Dracula al fischietto? E soprattutto che Dracula non se ne accorga? Ovviamente sì: e il morso di Suarez a Chiellini rischia di diventare (anzi, forse già lo è) un cult alla pari della testata di Zidane a Materazzi nel 2006. In quel caso Horacio Elizondo non fece finta di non vedere, stavolta Dracula-Moreno sì: e questo è costato a lui le prossime partite del Mondiale, a Suarez una probabile, lunga squalifica, e all’Italia l’eliminazione. In una sorta di circolo inesauribile della storia mondiale azzurra.

Le eliminazioni dell'Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa
Le eliminazioni dell’Italia ai Mondiali nel 1954 e nel 2014, trattate con enfasi differente dalla stampa

 

67. Insomma, ce ne sarà di chi parlare a lungo, ma l’aspetto tecnico del match contro l’Uruguay non è scivolato in secondo piano. Anche e soprattutto perché l’espulsione (ingiustificabile errore, va detto) di Marchisio ha accelerato una deriva del match che, dopo un primo tempo di buon contenimento, aveva portato l’Italia ad arretrare paurosamente il baricentro dopo l’espulsione del nervoso, instabile ma probabilmente indispensabile (sì, qui andiamo controcorrente) Balotelli. Una scelta difensiva implosa quando qualcosa è andato storto, e non è un caso che invece di gridare all’ingiustizia (come avvenne nel 2002), i media italiani si siano scatenati contro il non-gioco espresso dagli azzurri dopo due anni di preparazione ed una finale europea. A parte qualche sprazzo contro l’Inghilterra peggiore dagli anni ’70, contro Costa Rica ed Uruguay i tiri in porta si sono contati sulle dita di una mano. A sessant’anni di distanza, si può comunque ammirare come sia cambiato il modo di reagire da parte dei giornali italiani ad un’eliminazione dell’Italia ai Mondiali.

"Prandelli, stai sereno".
“Prandelli, stai sereno”.

68. E parte la solita sequela del tutti contro tutti: Prandelli attacca la stampa, Abete se la prende col sistema, Marchisio con Suarez, Verratti con l’arbitro e tutti, ma proprio tutti, con Balotelli. Da Bearzot a Vicini a Sacchi, da Zoff a Trapattoni a Lippi, il rito delle dimissioni in Italia fa sempre scalpore, forse perché inusuale. Di sicuro ci troviamo ad un punto che ha riportato il calcio italiano indietro di circa 50 anni: dopo lo scandalo di Cile ’62, arrivò il diluvio Corea del Nord a svegliare un football azzurro addormentato (ma che allora già dominava con le milanesi a livello internazionale di club). Due eliminazioni al primo turno che tornano clamorosamente d’attualità, ora che dopo un’edizione del 2010 giocata colpevolmente (e lo si capisce ora) con la pancia piena e senza stimoli, si torna di nuovo a casa. Via Prandelli, via Abete, la Nazionale ha bisogno però di protagonisti veri anche in campo: perché il sistema-calcio italiano sarà in crisi profonda e non si può negare, ma paesi come la Costa Rica e lo stesso Uruguay, non si può dire che raggiungano risultati superiori ai nostri con investimenti finanziari maggiori e politiche più lungimiranti. Lavorare bene, alla lunga, paga più che lavorare tanto, al di là dei luoghi comuni.

Costa Rica – Inghilterra 0-0

I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez
I giornali inglesi i più severi nei confronti di Suarez

69. Partita che aveva poco da dire: i “Ticos” hanno dimostrato una volta di più di meritare la qualificazione e il primo posto, gestendo il pari che serviva loro per chiudere in testa. Inghilterra senza stimoli, tanto che i giornali inglesi hanno preferito concentrarsi sul caso-Suarez, stella della Premier League. E in barba agli interessi del Liverpool, la stampa britannica c’è andata giù pesante, con titoli del tipo “squalificate questo mostro”. Con due morsi e una squalifica per razzismo già alle spalle, Suarez (che si era affidato anche a uno psicologo per evitare di cadere di nuovo in questo tipo di comportamenti) potrebbe andare incontro ad una squalifica a tempo che coinvolgerebbe anche i Reds.

Giappone – Colombia 1-4

Faryd (nelle figurine italianizzato in "Fabio") Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA '94
Faryd Camilo Mondragòn, recordman dei Mondiali a 43 anni, ai tempi di USA ’94

70. Se non ci fosse Suarez, la storia del giorno sarebbe sicuramente la sua: Faryd Mondragòn, classe ’71, a fine partita si è piazzato tra i pali della Colombia ed è diventato il giocatore più anziano della storia dei Mondiali. A 43 anni, c’era già ad USA ’94, ed è allla sua terza Coppa del Mondo solo perché la Colombia era assente dalla rassegna dal ’98. Un momento emozionante, in parte rovinato dalla FIFA che non ha permesso al numero uno il giro di campo finale in compagnia dei figlioletti.

Grecia – Costa D’Avorio 2-1

71. Il collegamento tra Grecia ed Epica è sin troppo facile, ma da dieci anni a questa parte la Nazionale ellenica, a fronte di risorse decisamente limitate, sta riuscendo ad ottenere risultati incredibili. E soprattutto a sovvertire situazioni sulla carta irrimediabili. L’impresa di Euro 2004 è agli atti e nella storia, ma anche due anni fa negli Europei in Polonia e in Ucraina, si guadagnarono un quarto di finale contro la Germania quando l’eliminazione sembrava inevitabile. Stesso copione stavolta: dopo il rovescio iniziale contro la Colombia e lo scialbo pari contro i giapponesi, chi si aspettava la coppia Samaris-Samaras (a proposito: con il messicano Ochoa è il secondo svincolato decisivo a Brasile 2014, dov’è l’errore?) agli ottavi? E contro la Costa Rica, poi: comunque vada, tra le prime otto del Mondiale ci sarà una prima volta assoluta ed inaspettata.

Rimasugli di Croazia – Messico 1-3

72. Non ce ne vogliano Bradley Cooper, Ellen DeGeneres e le stelle degli Oscar, ma a nostro avviso il “selfie” dell’anno è questo. Que viva Mexico, Que viva Héctor Herrera!

Hector Herrera re dei "selfie"
Héctor Herrera re dei “selfie”
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Allenatori Fabio Belli

Clough, Benitez e Moyes: se non uccidi il mito, il mito uccide te

di Fabio Belli

Nei corridoi delle sedi delle più prestigiose società calcistiche del mondo, ci sono le foto sui muri. Scatti dei trionfi più belli, dei momenti che hanno fatto la storia, che certe volte sembra quasi riprendano vita sulle pareti. Sembra, certe volte: perchè altre volte è proprio così, il mito fagocita tutto quello che viene dopo di lui, e non c’è terreno più impervio dove costruire le mura di un solido futuro, che quello costituito dalle rovine di un glorioso passato.

David Moyes Manchester UnitedDei quarantaquattro giorni di Brian Clough al Leeds United, nella parte iniziale della stagione 1974/75, si è scritto di tutto è di più. Dal libro al film dedicati al ‘Maledetto United‘, ai racconti di quando Billy Bremner ha messo in scena una scazzottata con Kevin Keegan, nel bel mezzo del Charity Shield a Wembley contro il Liverpool. Si dice che mai crisi di rigetto nel calcio fu così violenta di quella causata dal connubio Clough-Leeds. Di sicuro se ne conosce il motivo, con i senatori della squadra più vincente d’Inghilterra all’alba degli anni ’70, ovvero gli ‘scoto’ Bremner, Lorimer e Jordan, assieme all’irlandese Johnny Giles, che reagirono malissimo a come ‘Cloughie’ aveva tirato giù dal piedistallo Don Revie. Ovvero il padre di quella squadra, al quale i suoi figliocci giurarono fedeltà eterna fino a cannibalizzare il suo successore.

Se con un altro approccio, Clough avrebbe avuto vita più facile allo United, non è dato sapere. Di sicuro, quella squadra nella stessa stagione, dopo il cambio in panchina, raggiunse la finalissima della Coppa dei Campioni, trofeo che Clough stesso vinse due volte negli anni successivi alla guida del Nottingham Forest. Segno che né da una parte né dall’altra mancava il valore, e che i problemi erano squisitamente ambientali. Che questa storia abbia ben poco insegnato al mondo del calcio del futuro, lo si può evincere da alcuni recenti episodi. Come l’avventura di Rafa Benitez all’Inter: il tecnico spagnolo che ha avuto il merito di rianimare un altro mito, quello del Liverpool tornato alla vittoria in Champions League dopo ben 21 anni sotto la sua guida. Ma che si è scontrato nell’Inter con l’eredità di chi, con il leggendario “triplete“, ha fatto superare al club milanese un complesso ultraquarantennale: José Mourinho.

Anche Benitez è caduto nel peccato originale di Clough, cercando di “uccidere il padre”, freudianamente parlando, già dopo i primi giorni dal suo arrivo alla Pinetina. Via le foto, difesa avanti di venti metri, nuova filosofia di gioco e di pensiero. Per la banda composta da Eto’o, Milito, Zanetti, Cambiasso, Snejider & co. (senza dimenticare la grande influenza dell’uomo-spogliatoio Materazzi) troppo tutto insieme. La squadra stenta in campionato come mai era accaduto dopo Calciopoli, Benitez lascia paradossalmente dopo la vittoria nel Mondiale per Club, e dopo uno sfogo mai gradito da Massimo Moratti su mercato ed etica di spogliatoio. Cosa pensasse di lui il gruppo, con diverse interviste ci ha pensato molto bene lo stesso Materazzi a chiarirlo, nel corso degli anni.

E veniamo ai giorni nostri: cioè a David Moyes, che dopo anni di elogi e nessun trofeo all’Everton, passa alla guida del primo Manchester United senza Alex Ferguson dopo ventisette anni. Qui però la storia è destinata a ripetersi nonostante una premessa del tutto differente: al contrario di Clough e di Benitez, Moyes aveva ricevuto la benedizione del proprio predecessore. Una mossa che sir Alex conoscendo i suoi ragazzi, considerava indispensabile per non diventare subito schiavi del passato, alla fine di un ciclo vincente che per numero di successi aveva fatto impallidire anche quello dei “Busby Babes“. Ma vallo a dire a Rooney, Giggs, e compagnia cantante: anche nel calcio, quando una “dittatura” finisce, è impossibile ristabilire subito l’ordine. Ed il Manchester United rischia di non partecipare alle Coppe Europee per la prima volta dopo anni e anni di dominio continentale. Troppo per non convincere lo stesso Ferguson a ritirare la sua benedizione, e a consigliare l’allontanamento dello stesso Moyes dopo la sconfitta in Premier League, ironia della sorte, proprio contro l’Everton. Forse è destino che i miti restino lontani da tutto quello che viene dopo di loro, per non causare l’eterno, impietoso confronto con un passato inarrivabile.

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Calciatori Fabio Belli

Renè Higuita, uno scorpione tra i pali

di Fabio Belli

Alcune cose che non tutti sanno su René Higuita:

Il suo vero cognome è Zapata, in Colombia come in Spagna spesso le persone hanno due cognomi ed il portiere storico della nazionale colombiana ha scelto quello che lo caratterizzava meglio. E’ stato arrestato alla vigilia dei campionati Mondiali del 1994, i secondi di fila che avrebbe disputato con la generazione d’oro del calcio colombiano, assieme a Carlos Valderrama e Freddy Rincon, per aver svolto un ruolo da mediatore per la liberazione di un ostaggio, nell’ambito di un sequestro avvenuto nella rete del narcotraffico. Peccato che si fosse dimenticato di avvertire la polizia di queste sue delicatissime trattative, ed abbia finito per trascorrere sette mesi nelle patrie galere per favoreggiamento. E fu costretto a saltare USA ’94.

higuitaLa prima assoluta mondiale della sua “mossa speciale” più celebre, il colpo dello scorpione, andò in scena nel tempio di Wembley nel 1995, quando risolta la controversia giudiziaria, tornò a difendere i pali della nazionale colombiana. In un’amichevole contro l’Inghilterra, Jamie Redknapp, allora centrocampista del Liverpool, tentò una conclusione piuttosto fiacca verso la porta dei sudamericani. Invece che bloccarla comodamente, Higuita si esibì in un balzo acrobatico in avanti, fece leva sulle braccia per darsi spinta e respinse il pallone con le gambe piegate, all’altezza del tacco, assumendo la postura di uno scorpione. Colpo che lo contraddistinse per tutta la vita, e con il quale ha continuato a deliziare i suoi fans fino ai giorni nostri, nel 2012, in un’amichevole disputata all’età di 46 anni.

Dietro il brasiliano Rogerio Ceni ed il paraguaiano José Chilavert, è il terzo portiere più prolifico della storia del calcio: aveva infatti il vezzo di tirare le punizioni e soprattutto i rigori, che gli valsero il cospicuo bottino di 41 reti in carriera, anche se non gli riuscì mai la prodezza di realizzare un gol su azione in una partita ufficiale, nonostante le sue numerose, folli sortite offensive. Tra i pali al contrario, pur essendo dotati di riflessi ed istinto notevolissimi, era tecnicamente rivedibile. Il suo più grande rimpianto resta la bomba su punizione con la quale Alberigo Evani all’ultimo minuto dei supplementari della Coppa Intercontinentale del 1989 regalò il successo al Milan di Arrigo Sacchi contro il suo Nacional Medellìn, con il quale aveva appena conquistato la Libertadores.

Nonostante la sua popolarità mondiale, cresciuta soprattutto dopo i Mondiali del 1990 nei quali però si fece beffare negli ottavi di finale da Roger Milla, regalando con un suo errore la qualificazione ai quarti di finale al Camerun, giocò in carriera solo la stagione 1992/93 in Europa, ed in una formazione spagnola di seconda fascia, il Valladolid. La sua carriera si è chiusa nel 2009, al Deportivo Pereira, all’età di 43 anni. Prima di allora però, aveva scontato nel 2004 una squalifica per doping, essendo risultato positivo alla cocaina. Approfittò della pausa forzata per partecipare al reality show colombiano “Cambio Extremo“, nel quale i concorrenti si sottopongono a mirati ritocchi di chirurgia estetica. Higuita scelse di cambiare zigomi, labbra, mento e naso, e di farsi dare anche una sistematina alla pancia. Per tornare in campo ringiovanito e quasi irriconoscibile, pronto a regalare alla folla un altro “scorpione”.

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Calciatori Club Enrico D'Amelio

Steven Gerrard e il mito di Anfield

di Enrico D’Amelio

Il calcio è un fenomeno sociale, specchio dell’antagonismo che storicamente ha contraddistinto ogni uomo. Questo, con tutta probabilità, lo ha portato ad essere un rito così longevo, con una storia plurisecolare, destinato a durare nel tempo nei vari angoli del mondo. Ogni paese, però, è figlio della propria cultura che da sempre ne ha caratterizzato l’essenza. Se pensiamo all’Inghilterra, ad esempio, una sola parola può balenare alla nostra mente: tradizione. Lì, il 26 ottobre del 1863, è nato il football. Regno Unito sinonimo di storia e leggende, come quelle esibitesi in un tempio (chiamarlo stadio sarebbe riduttivo) che non ha eguali nel mondo come fascino e mito: Anfield.

urlQuando si varcano quei cancelli, da spettatore o attore protagonista, nulla potrà più rimanere come prima. Centinaia di migliaia coloro i quali ne hanno fatto parte in 129 anni di vita (la fondazione risale al lontano 1884), una sola la presenza costante: quella delle undici maglie rosse del Liverpool Football Club. Non ce ne vogliano i più giovani, possibili simpatizzanti di un Chelsea diventato dalla fine degli anni ’90 una delle squadre più in vista del paese e non solo, o di quell’Arsenal raccontato magistralmente dallo scrittore Nick Hornby in un libro oramai di culto, ma la rivalità che da sempre spacca in due il paese della Regina è quella che vede protagoniste Liverpool e Manchester United. Circa 80 i chilometri che dividono le due metropoli, lontane non solo logisticamente dalla Londra cosmopolita e multietnica. La working class al potere, con storie che vanno oltre il campanilismo puramente calcistico. Si narra che un tassista di Liverpool, ogni qual volta dovesse condurre un passeggero nell’odiata città rivale, abbassasse il finestrino e sputasse a terra una volta arrivato a destinazione, per sottolinearne odio e disprezzo.

Da alcuni anni, complice l’egida quasi trentennale di Sir Alex Ferguson, i Red Devils sono diventati la squadra più titolata d’Inghilterra, con 19 titoli nazionali contro i 18 dei rivali, ma i Reds sono avanti 5 a 3 a livello di Coppe dei Campioni, con l’ultimo successo arrivato nel 2004/05, al termine di una rocambolesca, storica finale contro il Milan di Carlo Ancelotti in quel di Istanbul. La rete di capitan Maldini, la doppietta di Hernan Crespo, per un 3-0 all’intervallo che aveva il sapore dell’umiliazione. Lì, dopo alcuni anni di anonimato, l’anima della Merseyside è riemersa dalle ceneri, con protagonista un ragazzo di Liverpool entrato nella leggenda: Steven Gerrard. E’ lui, con il gol che ha accorciato le distanze, a prendere per mano i suoi. Poi tocca a Smicer segnare la rete del 3-2, fino al pareggio arrivato grazie a Xabi Alonso, dopo che il tiro dagli undici metri era stato respinto da Nelson Dida. E poi i supplementari, le parate incredibili di Dudek su Shevchenko e, infine, la lotteria dei rigori.

Steven Gerrard il predestinato. Quello che, nella sua autobiografia, ha rivelato di giocare per il cugino Joh-Paul Gilhooley, morto a dieci anni nella tragedia del 1989 di Hillsborough durante la semifinale di Coppa di Lega contro il Nottingham Forest. Quello che a 19 anni, dopo essere stato sorpreso insieme ad alcuni suoi giovani compagni in un pub a tarda notte, ebbe la maturità di dire: “Mi vergogno. Non per me stesso. Ma perché con la mia bravata ho infangato il nome del Liverpool Football Club”. Quello che rinuncia ad andare nei club più forti d’Europa per alzare la Champions League con la maglia rossa, il numero 8 sulle spalle e la fascia di capitano al braccio. Quello che, con una moglie bellissima e tre splendide figlie, ha l’ardore di dire: “Quando starò per morire, non portatemi in ospedale, ma ad Anfield. Qui sono nato e qui voglio morire”. Certamente, Steven. Ma prima altre battaglie t’aspettano. Con la maglia rossa, all’interno del tempio. E con una curva capace di spingere il pallone in rete, quei 20000 vessilli che sventolano e un canto che risuona incessante, sulle inconfondibili note di “You’ll never walk alone”.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Giuseppe Giannini: quel pomeriggio a Foggia che forse cambiò la storia della Roma… ma non la sua

di Enrico D’Amelio

Alcuni giocatori sono dei predestinati. Ogni tappa della loro carriera è scandita da una perfezione temporale che nemmeno il miglior regista sarebbe in grado di mettere in ordine. Esordio, primo gol, prima maglia azzurra, fascia da capitano. Tutte circostanze perfette, che incoronano precocemente come Campione un calciatore che più di ogni altro è destinato a lasciare un segno indelebile nella propria squadra d’appartenenza. Poi ci sono altri che rimangono, per una serie di motivi, nella terra di nessuno. Né comprimari, né fuoriclasse, sempre così a metà strada da non riuscire a mettere tutti d’accordo, quasi a spaccare un’intera tifoseria e gran parte della critica. Perché anche se si diventa presto Principe, non è detto che sia automatico il fatto di assurgere al ruolo di Re. Soprattutto se ti ritrovi a giocare nella Roma della metà degli anni ’80 e ad essere l’erede designato di uno che in quella squadra ha appena fatto la storia e che veniva chiamato ‘il Divino’.

gianniniCi sono state tante occasioni, in una storia d’amore lunga 15 anni e interrotta nel peggiore dei modi da un presidente ingrato, per far sì che Giuseppe Giannini potesse diventare quel che credeva e non è mai stato. Alla Roma decise di dedicare una carriera, anche dopo le più cocenti delusioni, nonostante la corte serrata che solo un erede al trono poteva ricevere dalle più prestigiose squadre italiane. Mai avrebbe potuto vestire quella maglia bianconera a cui era legato il ricordo del primo gol in A segnato con la casacca del cuore. Proprio al vecchio “Comunale”, lo stadio dove nel 1981 s’era consumato il furto d’uno scudetto arrivato solo due anni dopo. Un obbligo morale per un ragazzo romanista, a cui, nel frattempo, erano stati assegnati numero di maglia e fascia di capitano del poi compianto Agostino, che non poteva tradire una città intera. Il giallorosso nel cuore e nel destino, tant’è che la prima occasione di fare l’ultimo passo si presentò in un caldo pomeriggio di primavera del 1986. L’Olimpico vestito a festa e zittito inspiegabilmente da un Lecce già retrocesso, che spense i sogni di gloria della seconda Roma di Eriksson, una delle più belle di sempre.

A soli 22 anni, però, c’era tutto il tempo per rifarsi, soprattutto se si è entrati in pianta stabile in Nazionale e se sta per arrivare un Mondiale da giocare proprio nella tua città. Anche lì la sfortuna ci mise del suo, con una squadra che finì al terzo posto, imbattuta e con un solo gol subito in sei partite, purtroppo decisivo, segnato da Caniggia e causato da un infortunio dell’amico Zenga. Gli anni, a questo punto, sono 26, e qualcosa inizia a cambiare. Dino Viola, il presidente-papà, muore pochi mesi dopo e con Ottavio Bianchi in panchina il rapporto non sboccia mai. Pessima la stagione 1990/91 in campionato, ma esaltante nelle Coppe, con la terza Coppa Italia personale messa in bacheca e un derby italiano contro l’Inter in finale Uefa da giocare in 180’. Dieci minuti di follia a San Siro obbligano Giannini e compagni a rimontare un passivo di 2-0 nel ritorno in un Olimpico stracolmo. Coreografia da brividi e tifo incessante riescono a spingere in rete solo un gol, quello di Rizzitelli, che non basta alla Roma per alzare il trofeo. Sette anni dopo il Liverpool, ancora una volta sono gli altri a prendersi la Coppa.

Due anni di anonimato sotto la gestione Ciarrapico, fino all’avvento, nel 1993, di Franco Sensi alla presidenza e Carlo Mazzone in panchina. Inesistente il rapporto col presidente, difficile con l’allenatore, anche se, col tempo, diverranno una cosa sola. Per Giannini e per la Roma è una stagione da buttare, con una serie di prestazioni sconcertanti e il baratro della B sempre più vicino. Sono ben 14 le partite senza vittorie per una squadra allo sbando, che perderà il derby di ritorno, anche per un rigore sbagliato dal Principe sotto la Sud. La società ha già deciso di accomiatarlo, ma quindici giorni dopo, come nei migliori thriller, succede qualcosa. Si gioca a Foggia e i rossoneri dopo pochi minuti si portano in vantaggio. Qualcosa, però, è diverso. Soprattutto per il Capitano. Gioca, si diverte, detta i tempi. Come qualche anno prima. Mazzone getta nella mischia un giovanissimo Francesco Totti e al minuto 74, su respinta della difesa, il numero 10 scaglia un bolide di sinistro che si va a insaccare alle spalle di Mancini. 1-1 e corsa liberatoria sotto un settore ospiti impazzito, con tanto di lacrime per tutto quello che aveva dovuto sopportare. Un minuto. In un solo minuto ti passano davanti i sogni di una vita. Quelli mai raggiunti e gli altri gettati alle ortiche per la scelta di infilarti ogni domenica una maglia che è come una seconda pelle. Quella che hai sventolato più volte come una Bandiera sotto la tua Curva dopo tanti gol. Anche se sai che un presidente appena arrivato te la vuole e te la sta per togliere, che non sarai ricordato come altri e che qualcuno potrà sempre dire “però giocava bene solo in Nazionale”. Poco importa. Scudetti e Coppe Campioni da un’altra parte non t’avrebbero mai fatto vivere quel folle pomeriggio a Foggia. Con una maglia addosso, quella maglia. L’unica. Che nessuno potrà mai amare più di te.