Che notte quella notte! Lo stadio Delle Alpi pieno zeppo lo si vedeva raramente, soprattutto quando era la sponda granata di Torino a giocarci: la scomodità e la scarsa visuale non invogliavano di certo una città che stava già iniziando a perdere, pian piano, quella contrapposizione storica che faceva di Toro-Juve uno dei derby più belli del mondo.
Ma quella notte non c’erano le luci perché non era San Siro, ma i tifosi del Toro ricordano che erano tutti lì: una volta si diceva “torinisti”, quando la voce di Ciotti graffiava ancora fuori dalla radio, oggi basta dire “del Toro” e già la cosa in sé richiama tutta una serie di sventure calcistiche, più che Corride e melodie spagnoleggianti. Per questo ricordare quella notte, che di spagnoleggiante ebbe molto, fa quasi strano per chi del Toro conosce tutto: perchè la leggenda granata in Italia è già consegnata alla storia, ma a livello internazionale la maledizione aleggia più forte che mai. Perchè il “Grande” non fece in tempo a lasciare il Segno della Storia agli albori della Coppa dei Campioni, perchè il Puliciclone si infranse sulle montagne del calcio atletico degli anni ’70, e perchè le altre campagne europee si risolsero nella classica tempesta in un bicchier d’acqua.
Ma quella notte, proprio quella notte, la curva Maratona sapeva che stava accadendo qualcosa di speciale, anche se non immaginava che quelli sarebbero stati gli ultimi, veri, anni ruggenti per il club, almeno per il momento. Ma il 15 Aprile del ’92, un anno prima di alzare l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia1993 strappata alla Roma, il Torino affrontava il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Coppa UEFA. Proprio il Real Madrid, a Torino a giocarsi una finale europea col Toro, nella stagione in cui la Juventus dopo quasi quarant’anni non partecipava alle Coppe.
Un sogno, e ancora oggi a sgranare come un Rosario la formazione di quella sera (Marchegiani, Bruno, Mussi, Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez, Venturin) i tifosi granata hanno la consapevolezza che al di là dei miti di Superga e degli anni ’70, i tempi belli sono esistiti eccome. C’erano Lentini, pieno di talento e di imprevedibilità, Scifo e Martin Vazquez (strappato l’anno prima proprio al Real, a suon di miliardi!) che portavano l’esperienza internazionale, e soprattutto in panchina c’era un allenatore destinato a restare nel cuore della Maratona, per una sedia alzata in cielo per protestare contro l’ennesima grande ingiustizia subita dai granata, nella finalissima contro l’Ajax.
Eh sì, perché quella notte impossibile sembra ancora oggi tale proprio perché ci fu un lieto fine strepitoso, quasi inedito nella tormentatissima storia del Toro: 2-0 in casa alla squadra più prestigiosa del mondo, un’autorete di Rocha e un gol di Fusi spalancarono le porte del Paradiso, la prima finale europea. Ma il Toro, che altrimenti non sarebbe il Toro, quella finale la perse, tra pali colpiti e rigori negati ad Amsterdam che scatenarono l’ira del “Mondo” di cui sopra. Poi le strade si separarono, e per il Torino furono solo dolori almeno fino alla metà degli anni duemiladieci. Nella speranza di tornare presto a giocare una partita così con uno stadio così. Eh già, che notte quella notte, e che bello per un tifoso granata soprattutto pensare che c’è stata davvero.
L’aria degli spogliatoi dello stadio Pacaembu di San Paolo del Brasile ristagna come quella di un magazzino. L’arredamento, in linea con lo stile un po’ spartano del calcio fine anni ’70, lascia ampi spazi vuoti che fanno risuonare echi di parole e passi, come quelli segnati dal ritmo dei tacchetti dei calciatori che entrano nello stanzone. Uno dopo l’altro sfilano i profili di Wladimir, di Socrates, di Casagrande: leggende dell’epoca per il Corinthians prima, del futbòl paulista poi e di tutto il calcio brasiliano in generale. Si siedono sulle panche e discutono di argomenti della massima importanza per il club, strategie per le partite future, programma degli allenamenti, attorno a loro anche cicche di sigarette e qualche birra. Ma neanche l’ombra di un allenatore.
Quello che sta andando in scena è in realtà un esperimento destinato a restare unico nella storia del calcio mondiale: ovvero il primo caso di autogestione di una squadra con i giocatori che tengono salde le redini del comando. E’ quella che passerà alla storia come la “Democracia Corinthiana“, uno dei segni distintivi del Timao (il soprannome storico del club), assieme al Flamengo la squadra più amata di tutto il Brasile. Non sembra un caso che a cavallo della scomparsa di Socrates siano arrivati i maggiori successi della storia del club, con il “Brasileirao” e la CoppaLibertadores, dopo una rincorsa durata tutta una vita. L’apice della fama internazionale del Coritnthians prima di questo periodo era identificabile proprio nel periodo distintosi per gli interpreti della “Democracia”.
Riguardo Socrates, Pelè affermava che fosse il calciatore “più intelligente di tutti i tempi”, riferendosi sia al suo impegno politico-culturale, sia alla sua sapiente regia palla al piede. Walter Casagrande fu un bomber che raccolse consistenti successi anche nella nostra Serie A con le maglie di Ascoli e Torino. Wladimir Rodrigues dos Santos un terzino infaticabile, capace di far parte della selezione dei migliori giocatori di tutti i tempi del campionato Paulista. Erano i leader carismatici di un gruppo che funzionava come una perfetta democrazia autogestita. Le decisioni venivano prese in gruppo e l’allenatore, Mauro Travaglini, serviva solo come supporto “tecnico” per la preparazione atletica, comunque stabilita in proprio dai calciatori.
L’esperienza durò di fatto un triennio, dal 1982 al 1984, rivelandosi peraltro un autentico successo innanzitutto per le casse del club, che dall’autogestione del gruppo riuscì a ricavare una riduzionedrastica delle spese. Quindi dal punto di vista sportivo: non arrivò il successo nel campionato brasiliano, ma due titoli Paulisti (1982 e 1983) comunque molto rilevanti considerando la grande importanza dei campionati statali in Brasile. L’ambiente del calcio verdeoro era d’altronde ideale per questo tipo di iniziativa, con i calciatori che avevano un fortissimopeso anche ideologico, che andava al di là della questione sportiva in sé. Oltre a gestire il club con pari diritto di voto e di opinione rispetto alla dirigenza, i calciatori potevano usare la maglia del Corinthians per fini propagandistici. Socrates stesso promise che avrebbe fatto saltare il suo trasferimento in Italia in caso di passaggio di una riforma costituzionale in Brasile: ma la storia fece il suo corso, la Democracia Corinthiana vide i suoi protagonisti sparpagliarsi ai quattro angoli del mondo e l’esperimento non fu più ripetuto.
Nella storia del calcio italiano anteguerra c’è uno Scudetto diviso: non parliamo del titolo del 1922, spartito tra Novese e Pro Vercelli a causa di una scissione federale. C’è un campionato mai terminato che ha assegnato uno Scudetto per il quale ufficialmente non esiste delibera. E’ tutto accaduto nel 1915, l’anno dello Scudetto Spezzato.
Nel maggio 1915 il calcio italiano si appresta a concludere l’ennesima stagione di un’epoca pionieristica. Le squadre del Nord a dominare, quelle del Centro-Sud a muovere i primi passi: la Federazione già da qualche anno ha stabilito come la squadra campione dell’Italia settentrionale, da tutti formalmente già considerata Campione d’Italia per manifesta superiorità, dovesse disputare una finalissima contro la squadra campione dell’Italia centro meridionale. Questo per dare più ampio respiro allo sviluppo a livello nazionale di uno sport come il football per il quale di intravedono enormi potenzialità e che non merita di restare confinato a livello locale.
Certo, la differenza tecnica tra Nord e Sud è enorme. La finale nazionale venne istituita nel 1913, e la regina del calcio centro-meridionale è senza dubbio la Lazio. Che perde però 6-0 la finalissima contro la Pro Vercelli nel 1913 e 7-1 in trasferta e 0-2 in casa la sfida di andata e ritorno contro il Casale nel 1914. Da Bologna in giù la Lazio è senza dubbio la squadra più forte. Marcello Consiglio e Fernando Saraceni sono giocatori moderni per l’epoca, e il coraggio di Angelo Zucchi e Augusto Faccani tiene la linea laziale sempre alta.
Ma contro i giganti del Nord si può fare poco: nel 1915 si giocano il titolo il Genoa già 6 volte Campione d’Italia, ma a secco dal 1904, l’Internazionale scudettata nel 1910 e il Torino che ha scalzato l’altra regina piemontese, la Pro Vercelli 5 volte titolata. Ma quello del 1915 è un campionato strano, perché venti di guerra spirano sempre più forti e il 24 maggio l’Italia entra a far parte del primo conflitto mondiale. Sottobraccio ai giovani il fucile si sostituisce al pallone e tra le squadre chiamate a dare un contributo più consistente alla Patria c’è proprio la Lazio, che in qualità di Polisportiva manda decine di atleti, non solo calcistici, al fronte.
Il campionato però viene sospeso e riprenderà solo nel 1920, quando tanti protagonisti saranno caduti o feriti al fronte. Il titolo non è stato assegnato: la Lazio è prima nel centro-sud, il Genoa al centro-nord ma con lo scontro diretto contro il Torino da giocare: in caso di vittoria, sarebbero stati i granata ad andare in finale. C’è anche una finale meridionale da giocare tra le due squadre di Napoli. Un caos e infatti il titolo non viene assegnato, come sarebbe logico pensare. E a questo punto però che la storia si fa davvero misteriosa.
La sospensione bellica del campionato avvenne il 22 maggio 1915. Il 23 maggio il girone Nord avrebbe dovuto disputare le sue partite decisive, Genoa-Torino e il derby Milan-Inter. Ma quella domenica l’Italia dichiarò guerra all’impero Austro-Ungarico. Nel frattempo, la Lazio vinse il girone dell’Italia centrale battendo il Roman, che l’aveva sopravanzata nella fase regionale precedente, mentre non venne omologata la sfida del campionato meridionale tra Naples e Internazionale di Napoli.
Il campionato restò fermo 4 anni: il Consiglio Federale tornò a riunirsi nel 1919 e e la Federazione decise di attribuire il titolo al Genoa, ignorando i diritti delle formazioni centro-meridionali, nella fattispecie della Lazio, perché considerate non competitive. Normale pensarla così all’epoca, il problema è che l’assegnazione ai rossoblu fu di fatto convenzionale e mai ufficiale. Mai è stata trovata delibera dell’assegnazione del titolo 1915, né testimonianze della proclamazione dello Scudetto da parte della rivista sociale del Genoa, che alcuni individuano nel settembre 1921, né di una cerimonia di premiazione che sarebbe avvenuta nello scorso anno.
Per quasi 95 anni, dal 1921 al 2015, la storia è stata accettata acriticamente così come è stata tramandata. Il 25 maggio del 2015, in occasione del centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, il settimanale romano Nuovo Corriere Laziale rilanciò la questione. L’avvocato capitolino Gian Luca Mignogna, tifoso laziale, riuscì a lanciare una petizione in pochi mesi: i tifosi laziali risposero in massa con 35.000 sottoscrizioni e soprattutto venne ribaltata buona parte della storiografia ufficiale dedicata allo Scudetto del 1915.
La petizione e la rivendicazione di Mignogna chiede l’assegnazione ex aequo del titolo al Genoa, i cui diritti sono a 100 anni di distanza intoccabili, e alla Lazio che di fatto, unica ad aver terminato il proprio girone interzona, restava l’unica certa finalista di quell’edizione del campionato. La richiesta arriva fino alla FIGC: sotto la presidenza Tavecchio si arriva addirittura alla nomina di una commissione di saggi che evidenzia come la Lazio debba essere considerata campione d’Italia, ricongiungendo lo Scudetto spezzato. La FIGC attraversa però una crisi istituzionale che porta all’attuale presidenza Gravina e all’imminente nomina di una nuova commissione.
Ma come è potuto accadere che semplicemente, per 100 anni, uno Scudetto fosse assegnato per “presunzione di superiorità”, senza che nessuno si facesse domande? Lo Scudetto 1915 è stato in realtà al centro di controversie sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale: come si legge sulla pagina Wikipedia dedicata al campionato di Prima Divisione 1914/15, la decisione sull’assegnazione restò congelata a causa dei reclami di Inter e Torino, poi non presi in considerazione. Inoltre la presunta cerimonia di premiazione genoana avrebbe avuto luogo l’11 dicembre del 1921, durante la fase di risoluzione dello scisma, allora in corso, tra la FIGC e la Confederazione Calcistica Italiana (CCI), della quale faceva parte lo stesso Genoa: molti dei neocampioni rossoblù, in primis il terzino Claudio Casanova, non seppero mai della loro vittoria perché scomparsi in guerra. I presunti conflitti di interessi intercorrenti fra Carlo Montù (alla guida della Federazione nel 1919), Luigi Bozino (presidente prima federale e poi confederale negli anni 1921-1922), e i dirigenti genoani Edoardo Pasteur (vicepresidente FIGC e CCI sotto Montù e Bozino) e George Davidson (capo della Federazione Ciclistica Italiana) gettarono, comunque, un’ombra sull’intera vicenda che a oltre 100 anni di distanza, per intervento della FIGC, potrebbe ora arrivare a una risoluzione con una assegnazione postuma del titolo ex aequo a Genoa e Lazio.
“C’erano anche le condizioni per tornare alla Lazio prima di andare alla Roma. A Parma andavo molto d’accordo con Crespo a cui ho fatto fare tanti gol. Quando lui venne a Roma la prima cosa che disse fu di prendere Fuser, ma il vice allenatore era Mancini…C’era quella possibilità che non è stata presa in considerazione, poi mi hanno proposto la Roma nel momento in cui era al vertice e ho detto di sì”. Diego Fuser è convinto di non aver mancato di rispetto ai tifosi laziali andando a giocare per due anni alla Roma.
“È vero. Magari i tifosi della Lazio ci possono essere rimasti male, però io penso che un calciatore quando dà tutto, quando va in una società e dimostra che per quella maglia dà tutto…”. Fuser ha dimostrato sul campo, nella sua ventennale carriera, di non risparmiarsi mai. Infatti l’impegno e la corsa, oltre alla tecnica e un gran tiro da fuori, sono le caratteristiche principali del piemontese, funambolo della fascia destra.
Tutta la famiglia di Diego Fuser tifa Torino da sempre, anche per questo motivo il centrocampista di Venaria Reale fa parte degli ultimi “ragazzi del Filadelfia”.
Cresce con la maglia granata addosso, nel mito del Grande Torino e calpestando il prato dello stadio simbolo della gloriosa società torinese.
Esordisce in Serie A il 26 Aprile del 1987, durante il derby della Mole. Junior si tocca l’inguine sul finire del primo tempo, ad inizio ripresa non si presenta in campo: stiramento.
Gigi Radice fa alzare dalla panchina il diciannovenne proveniente dalla Primavera.
Fuser entra in campo e gioca una partita d’applausi contro Platini e compagni. È, insieme a Lentini, protagonista nell’azione del pareggio di Cravero, un debutto da incorniciare.
La consacrazione in campionato arriva l’anno dopo. 38 presenze totati (30 in Serie A e 8 in Coppa Italia), 4 gol. Il 27 Novembre 1988 nella vittoria allo Stadio Olimpico di Roma contro i giallorossi per 3 a 1, arrivano i primi gol nel massimo torneo; una doppietta per il numero 14 che a 20 anni inizia prepotentemente a far parlare di sé.
Nell’estate del 1989 il Milan di Berlusconi acquista per 7 miliardi di Lire Diego Fuser, che si trasferisce nella squadra campione d’Europa in carica. Arrigo Sacchi è contento del suo arrivo e lo fa esordire immediatamente in una partita ufficiale. Il 23 Agosto debutta in Coppa Italia con la maglia rossonera, nella vittoria ai calci di rigore contro il Parma.
Durante la stagione si ritaglia un buono spazio nonostante l’agguerrita concorrenza. 20 presenze in Serie A e 2 gol di cui 1 nel derby della Madonnina vinto per 3 a 0 (i derby sono una costante nella carriera di Fuser); 8 partite giocate in Coppa Italia, 2 in Coppa dei Campioni, 2 nelle finali di Supercoppa Europea e 1 nella finale di Coppa Intercontinentale. A causa della “fatal Verona” però non vince lo Scudetto.
Per il ventunenne Diego, il palmares non è tutto. Vuole giocare con maggiore continuità e il Milan lo manda in prestito per un anno alla Fiorentina. L’allenatore della Viola è Sebastião Lazaroni che è ben contento di impiegarlo con continuità. Nel 90/91 infatti raccoglie 39 presenze (32 in Serie A e 7 in Coppa Italia). Mette a segno ben 8 gol, 5 dei quali direttamente su calcio di punizione.
“Lazaroni mi ha insegnato a calciare le punizioni, cosa che io non avevo mai fatto. A fine allenamento stavo mezz’ora, tre quarti d’ora, e lui mi diceva come calciare. Dovevo giocare sulla tensione del portiere…”. Diego Fuser racconta il gol più importante di quella stagione. “Quello con la Juve, su calcio di punizione, forse è stato il più bello. C’era in porta Tacconi. Palo-gol. Fare un gol e vincere la partita 1 a 0 alla fine mi ha permesso di entrare nella storia di Firenze e questa è una cosa che mi fa veramente piacere”.
Arrigo Sacchi è diventato il Commissario Tecnico della Nazionale, Fabio Capello l’ha sostituito sulla panchina del Milan. Diego torna a Milanello con un bagaglio d’esperienza arricchito dall’anno passato a Firenze, ma non riesce a trovare comunque grande spazio. 22 presenze totali tra Campionato (per lo più spezzoni di gara) e coppa nazionale, con un bottino di 4 reti e 3 assist totali. A dispetto dello Scudetto alzato al cielo a fine stagione, Diego vuole giocare titolare e accetta una nuova sfida.
La Lazio di Cragnotti lo acquista (7 miliardi di Lire) per la stagione 1992/93. Fuser parte per Roma con un albo d’oro di notevole importanza per un ragazzo di 24 anni. A Formello trova Dino Zoff come allenatore che gli consegna la fascia destra del centrocampo. I primi gol con la Lazio arrivano con la prima vittoria in campionato: il 4 Ottobre 1992 alla quinta giornata, una doppietta nel 5 a 2 contro il Parma. Il bottino personale a fine annata recita: 33 presenze da titolare (solamente 1 partita saltata per squalifica) e record personale di gol, ben 10 in Serie A. Quarti di finale in Coppa Italia, quinto posto in campionato e qualificazione in Coppa UEFA. La sfida accettata ad inizio stagione è vinta.
Nel 93/94 alcuni piccoli infortuni non consentono a Fuser di fare l’en plein di presenze, è comunque tra coloro che giocano di più (31 presenze e 2 gol complessivi). Con la Lazio ottiene un ottimo quarto posto finale, in Coppa Italia una brutta figura con l’Avellino e in Coppa UEFA il cammino non è fortunato. Nei derby, dopo tre pareggi consecutivi, il 6 Marzo del 1994 arriva la sua prima vittoria. La Lazio vince 1 a 0, con un gol di Beppe Signori tra la nebbia dei fumogeni e un rigore parato da Marchegiani a Giannini sotto la Sud.
L’anno dopo arriva a Roma, direttamente dal “Foggia dei miracoli”, Zdenek Zeman. “All’inizio fu un trauma, perché la prima settimana di ritiro non si mangiava e si correva come dei dannati. Dopo una settimana così, ho detto: io smetto! Però alla fine devo dire che Zeman per me è stato un allenatore eccezionale, una grandissima persona”.
Fuser con l’arrivo di Rambaudi, inizia a giocare come mezzala destra, ottenendo sempre ottime prestazioni. Il cammino in Europa si interrompe ai quarti di finale contro il Borussia Dortmund, in Coppa Italia in semifinale contro la Juventus, mentre in campionato la Lazio arriva seconda dietro i bianconeri.
Nel 95/96, secondo anno di Zeman, la Lazio arriva terza. Ormai è stabilmente nella parte alta della classifica e Diego Fuser è una certezza del campionato italiano (in questa stagione 39 presenze e 6 gol in totale). Snobbato da Arrigo Sacchi nelle convocazioni per i campionati del Mondo del 1994, viene chiamato dallo stesso per disputare gli Europei del 1996 in Inghilterra.
Dopo le fatiche inglesi, Fuser inizia una nuova stagione nella Lazio e a Roma ormai è di casa. Giunto infatti alla sua quinta stagione con l’aquila sul petto, la sua intenzione è quella di rimanere in biancoceleste ma, soprattutto, di vincere un trofeo. Da troppo tempo il popolo laziale non gioisce per una vittoria e Diego con tutte le sue forze vuole regalare questa gioia ai suoi tifosi. La stagione 96/97 vede un avvicendamento in corsa in panchina. Durante la seconda parte della stagione torna Dino Zoff al posto di Zeman. La Lazio arriva al quarto posto confermando di essere nell’élite del calcio italiano, ma non riesce a spingersi troppo oltre in Europa e in Coppa Italia.
Con Sven Goran Eriksson arriva a Roma anche l’esperienza, l’acume tattico e l’infinita classe di Roberto Mancini. Una personalità importante come quella del fantasista marchigiano ha ripercussioni in uno spogliatoio unito e con senatori che, solitamente, hanno l’ultima parola. Signori è il primo a subire questa nuova situazione ed è costretto a lasciare la sua amata Lazio durante la sessione invernale del calciomercato.
Intanto in casa Fuser però c’è una preoccupazione più grande, il figlio Matteo, a causa di una grave malattia, sta molto male e ha bisogno di cure continue. Diego reagisce in campo, con la sua solita dedizione nella stagione in cui ottiene i risultati migliori da quando è alla Lazio. Entra nella storia per aver vinto 4 derby su 4 in una sola stagione, realizzando anche un gol su punizione in uno di essi.
Il più antico club della Capitale poi arriva in finale sia in Coppa Italia che in Coppa UEFA, dove affronta le due milanesi. Il 29 Aprile del 1998 è nei cuori di ogni laziale. Dopo aver perso la finale di Coppa Italia d’andata contro il Milan per 1 a 0 al 90° minuto, un Olimpico colmo di passione crede nell’impresa. La vittoria della finale di ritorno, grazie ad una clamorosa rimonta, per 3 a 1 consente alla Lazio di vincere un trofeo dopo 24 anni e un’altra Coppa Italia dopo 40 anni. Diego Fuser è il capitano ed è lui ad alzare la Coppa. Invece in finale di Coppa UEFA Fuser e compagni si scontrano contro l’Inter del “Fenomeno” Ronaldo; un secco 0-3 che non consente il bis di vittorie.
“Quell’anno lì io andai a vedere una casa, per finire la carriera alla Lazio. C’era qualcuno però che non mi voleva, qualcuno che faceva l’allenatore ma non era l’allenatore. Ci furono dei problemi e io andai via”. I contrasti con Roberto Mancini sono il motivo per cui Diego Fuser, dopo 6 stagioni nelle quali si è legato in maniera profonda al mondo Lazio, va via. L’aspetta a braccia aperte il Parma di Alberto Malesani.
La stagione 1998/99 per Fuser è un’annata da incorniciare: titolare inamovibile, entra fin da subito negli schemi della nuova squadra e gli riesce la doppietta svanita l’anno prima. Infatti vince, nella doppia finale contro la Fiorentina, la Coppa Italia e a Mosca la Coppa UEFA contro il Marsiglia con un rotondo 3 a 0.
L’anno dopo inizia con un altro successo per il Parma di Fuser, vince la Supercoppa Italiana contro il Milan. A fine stagione però non riesce a qualificarsi nella massima competizione europea, perde lo spareggio Champion’s contro l’Inter. L’ultimo anno al Parma vede cambiare tre allenatori: Malesani, Arrigo Sacchi e Renzo Ulivieri. Con quest’ultimo non si è creato un gran feeling, Diego vuole cambiare, vuole tornare a Roma.
“Quando andammo a giocare a Roma (con il Parma n.d.r.) l’ultima partita e la Roma vinse lo scudetto Capello mi chiese se volevo andare alla Roma perché loro facevano la coppa dei Campioni e sulla destra avevano solo Cafù”. Schietto, sincero. Diego Fuser decide coraggiosamente di tornare nella Capitale, questa volta dall’altra parte del Tevere.
Nelle due stagioni con la maglia romanista gioca poco, nella seconda stagione 2001/02 addirittura solo 7 presenze totali e, curiosamente, nei derby è sempre assente.
Fuser ha dichiarato che ha visto poco il campo a causa di “una scelta societaria”.
Con la Roma vince una Supercoppa Italiana da titolare contro la Fiorentina allenata da Roberto Mancini. Si è preso così una piccola rivincita.
L’ultimo anno da professionista Diego Fuser lo disputa al Torino. La stagione 2003/04 in Serie B, lo vede per 29 volte in campo con la maglia con la quale è cresciuto e con la quale decide di appendere al chiodo gli scarpini all’età di 36 anni.
Insieme all’amico Gianluigi Lentini decide di giocare nelle serie minori, per divertirsi ancora con il pallone tra i piedi. Nel 2011, poi, il dramma personale: il piccolo Matteo non ce la fa e a 15 anni perde la battaglia contro la malattia, lasciando un vuoto incolmabile nella vita dei suoi genitori. Con fatica Diego si è rialzato anche grazie al calcio, la sua grande passione l’ha aiutato a reagire.
Tornando indietro con la memoria Fuser pensa al ricordo più bello da calciatore, aver alzato la Coppa Italia da capitano della Lazio. “È stata una gioia incredibile perché vedevi realizzato un sogno, ci speravano tutti e quindi quello è stato un momento sicuramente molto, molto bello”.
La storia del Torino fino alla prima metà degli anni Ottanta parla di una squadra abituata a rappresentare il calcio italiano in Europa. La gloria raggiunta negli anni Venti, con uno Scudetto revocato e il primo titolo conquistato, e quella degli anni Settanta, con il settimo Scudetto di Pulici, Graziani e Gigi Radice in panchina, non è nulla rispetto all’epopea degli anni Quaranta, in cui il Toro è stata probabilmente la più forte formazione del mondo.
Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. E’ il Grande Torino, che vinse 5 scudetti e una Coppa Italia tra il 1943 ed il 1949. E chissà cosa avrebbe potuto fare se ci fosse stata già la Coppa dei Campioni, se il campionato non fosse stato interrotto per tre anni per la Seconda Guerra Mondiale, e soprattutto se il Destino non avesse riservato un epilogo tragico a quella squadra, destinata allo schianto tragico sulla collina alle spalle della Basilica di Superga in cui nessuno sopravvisse.
E’ stata narrata in questi decenni la storia dei campioni che perirono nello schianto, dei giornalisti che erano al loro seguito nella trasferta di Lisbona per un’amichevole, persino di chi per un soffio scampò alla tragedia non salendo sull’aereo per una coincidenza, come le riserve Sauro Tomà e Renato Gandolfi, infortunati, il giornalista Niccolò Carosio, l’ex ct della Nazionale Vittorio Pozzo (che ebbe lo straziante compito del riconoscimento dei cadaveri dopo lo schianto) e il futuro allenato della Lazio campione d’Italia, Tommaso Maestrelli, che doveva aggregarsi al Toro in prova in prospettiva di un futuro trasferimento.
Pochissimo si sa invece del pilota dell’aereo di Superga: Pierluigi Meroni, 34 anni: rintracciata dal Corriere della Sera, la famiglia dell’aviere con compostezza ha sottolineato come, dopo le prime commemorazioni, il padre sia stato progressivamente dimenticato. L’incidente di Superga venne analizzato a lungo, compresa la decisone di atterrare di ritorno da Lisbona a Torino e non a Malpensa come inizialmente stabilito. A tradire il Meroni pilota fu l’altimetro guasto e la fittissima nebbia che lo fece volare a quota pericolsamente bassa, fino allo schianto. Una tragica fatalità, una catena di eventi come spesso accade negli incidenti aerei, che non preservarono la figura di Meroni da polemiche e insinuazioni. “Mia mamma ce l’aveva coi giornalisti per quel che scrivevano – ha raccontato il figlio al Corrriere della Sera -. A casa, parlava poco di mio padre. Però chiese di pubblicare una lettera di rettifica, per difenderne la memoria. I giornali insistevano nel sostenere che il disastro fosse colpa del pilota, ma l’inchiesta stabilì che la strumentazione di bordo era rotta. Nostro padre era un istruttore di volo cieco: volare nella nebbia, era la sua specialità.”
I più attenti hanno però notato un particolare: il nome Meroni e il nome Pierluigi, che può facilmente essere abbreviato in Gigi. Proprio come Gigi Meroni, a sua volta destinato a un destino tragico come quello degli eroi di Superga. Campione degli anni Sessanta e idolo dei giovani per il suo anticonformismo, capelli lunghi, relazione con una donna sposata, a volte in giro per Torino con una gallina al guinzaglio. Un suo gol contro l’Inter a San Siro fece sognare i tifosi granata che avevano finalmente un nuovo idolo dopo Valentino Mazzola. Ma come Mazzola, la vita di Meroni si spezzò in maniera assurda: il 15 ottobre del 1967 venne investito presso corso Re Umberto a Torino, mentre andava a prendere un gelato col compagno di squadra Fabrizio Poletti dopo la partita con la Sampdoria. Poletti venne colpito solo di striscio, Meroni in pieno e per lui non ci fu scampo.
Destinati a piangere i loro eroi, i tifosi del Toro si trovarono però di fronte a un’incredibile, ennesima coincidenza. A investire Meroni fu un ragazzo di 19 anni tifosissimo del Toro, che era conosciuto allo stadio come sosia del campione: “Mi pettinavo come lui, avevo 19 anni, qualcuno fuori dallo stadio mi confondeva con lui e io firmavo autografi ‘Gigi Meroni’. Avevo la stanza piena dei suoi poster. Poi l’ho investito” Un senso di colpa che ha accompagnato per 50 anni Attilio Romero, che nel 2000 fu il manager chiamato dall’allora patron del Toro, Cimminelli, per diventare presidente.
Esatto, il Torino ha avuto come presidente coluì che investì con l’automobile e uccise il campione di cui era sosia e primo fan Gigi Meroni, idolo dei tifosi granata che si chiamava come il pilota dello schianto di Superga in cui perì la squadra forse più forte e leggendaria della storia del calcio italiano. Impossibile dare una spiegazione a un filo invisibile ma quasi fisicamente percettibile che lega tragedie e passione, tenuto stretto solo dalla forza del destino.
È bene riscrivere il nome del paese (Nord Corea: grassetto, corsivo, sottolineato) che ha dato i natali a questo attaccante classe 1998 il quale, vestendo la maglia dei sardi del Cagliari, è entrato di diritto nella Storia del Calcio siglando il primo gol di un nordcoreano in Serie A.
Paolo Tomaselli, sul ‘Corriere della Sera’, il giorno dopo la partita disputata al Sant’Elia contro il Torino che ha visto il nostro segnare per la prima volta nella massima serie italiana, ha scritto: «Un gol tardivo, inutile (2-3 per il Torino nda). Ma storico. Perché per noi dal 19 luglio 1966 e dal gol di Pak D0o-Ik contro gli azzurri al mondiale inglese, la Corea del Nord è semplicemente “la Corea”: la madre di tutte le sconfitte. […] Domenica Han ha segnato con la maglia celebrativa proprio del tricolore (vinto dai sardi) del 1970. Il cerchio in qualche modo si è chiuso».
“L’Italia e la nemesi della Nord Corea”, verrebbe da dire parafrasando e ironizzando un poco. Anche se in questo caso di ‘scherzo’ c’è veramente poco: il classe 1998 nordcoreano, prima di segnare con la Prima Squadra, ha partecipato al Torneo di Viareggio siglando un gol spettacolare in mezza rovesciata con la Primavera rossoblu.
La stampa italiana, tuttavia, anche questa volta, non ha brillato e i grandi gruppi editoriali (così come i siti d’informazione sportiva) si sono mostrati tutti “allineati e coperti” mostrando più facce dello stesso prisma qual è quello del “pensiero unico”: dagli articoli sui gol di Han si passava immediatamente a quelli del «tremendo regime» nordcoreano, si affermava – ma rigorosamente senza citare fonti – che le squadre di calcio subiscono «torture ideologiche» come quelle inflitte alla nazionale dopo il mondiale sudafricano del 2010. E, infine, come Han sì, sia bravo ma deve sperare che non venga convocato (come riporta addirittura l’Ansa!) in nazionale, data la fine che fanno le nazionali nordcoreane. Il punto, però, è che Han in nazionale è già stato convocato e, anzi, ha brillato. Esattamente come con la primavera e con la prima squadra Sarda. Il calcio, in Nord Corea, ha pari dignità di tutte le altre discipline sportive, così come fu nei paesi socialisti dell’Europa dell’Est, dell’URSS e via dicendo. Il calcio, in Nord Corea, ha dato già grandi soddisfazioni nelle giovanili e perfino in un settore che in Italia viene costantemente bistrattato e relegato ai suoi stereotipi, nonostante le manifestazioni di facciata “made in FIGC” che ne vorrebbero la sua «valorizzazione». Si sta parlando, ovviamente, del calcio femminile. La nazionale ‘rosa’ della Nord Corea è una realtà consolidata, dalla prima squadra fino alle giovanili e proprio queste ultime (Under 17 e Under 15) si sono tolte parecchie soddisfazioni in varie occasioni. La stampa, insomma, di fronte al primo gol nordcoreano reagisce citando Razzi e frasi strampalate non verificate di Kim Jong Un. Un classico, verrebbe da dire.
Non è stata da meno, poi, la reazione della politica: Lia Quartapelle e Michele Nicoletti (entrambi del Partito Democratico) hanno addirittura portato la questione alla Camera dei Deputati.
«La presenza di giocatori nordcoreani a così alto livello – recita la mozione presentata in Parlamento dai due deputati del Partito Democratico – in squadre di Serie A, darebbe massima evidenza alla violazione delle sanzioni internazionali da parte della Corea del Nord, nonché configurerebbe la presenza nel nostro Paese di lavoratori extracomunitari con minori garanzie di godimento dei diritti e delle libertà civili» prendendo a pretesto quello che le “organizzazioni per i diritti umani” scrivono a riguardo della Corea Popolare. Un paese, a dire di queste organizzazioni, in cui è «vietato l’uso di social network», «non c’è internet» e per cui i lavoratori nordcoreani che emigrano andando a lavorare in altri Paesi si dice che «non possono tenere per loro lo stipendio guadagnato» e le comunicazioni «con la Nord Corea possono avvenire solo per corrispondenza».
Kwang-Son Han, in ogni caso, ha mostrato a tutti, nuovamente, che il dilettantismo nei paesi socialisti (e la Corea del Nord lo è, con tanti saluti a Razzi e ai prezzolati giornalisti/giornalai che lo intervistano per i cosiddetti ‘pezzi di colore’ a riguardo) non è sintomo di inferiorità nei confronti del calcio occidentale e del calcio moderno. Nel 1974, infatti, una Germania Est impostata in modo eccellente a livello tattico riuscì a fermare la Germania Ovest e a vincere, addirittura, lo scontro della “Fase a Gruppi” col gol della, come si disse allora, “anonima mezz’ala”: Jürgen Sparwasser. Da lì in poi, Spari, fu un mito per chiunque.
Chissà che non lo diventi anche Kwang-Son Han.
Nel frattempo, il Cagliari, si gode il suo pupillo socialista.
La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.
Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.
In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.
L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.
Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.
Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.
La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.
Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.
La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.
Un tempo c’erano i fratelli. Espressione di romanticismo e dna, a costellare la galassia di un calcio che fu. Uno sport fatto di immagini in bianco e nero sgranate, gradinate scoperte gremite di eleganti spettatori in abito anni ’30 , in cui il concetto dell’attuale professionismo portato all’eccesso era lontano anni luce. Così, se andiamo a togliere le ragnatele da enciclopedie oramai ingiallite, possiamo riscoprire volti di uomini dall’essenza rudimentale, che ci rimandano cronologicamente alla nostalgia dei tempi andati. Dalla dinastia dei Sentimenti – Ennio, Arnaldo, Vittorio, Lucidio e Primo, meglio conosciuti come Sentimenti I, II, III, IV e V – o dei Ferraris, in cui figurava Attilio, il IV, bandiera e anima della Roma di Campo Testaccio. Nativo del Rione Borgo, si narra che il padre, proprietario di una bottega di bambole in via Cola di Rienzo e con 8 figli da mantenere, rispedì al mittente un’offerta irrinunciabile giunta dalla Juventus. “Mio figlio è romano, e giocherà soltanto con la squadra della sua città”, fu la risposta di Secondo Ferraris, a discapito delle sue origini piemontesi.
Poi fu la volta dei padri. Siamo verso la fine degli anni ’40, con il secondo conflitto mondiale alle spalle e un movimento calcistico che inizia ad essere sempre più strutturato. Fu in quel contesto che visse e morì il Mito dal destino maledetto, quello volato in cielo talmente giovane da diventare subito leggenda. La favola del ‘Grande Torino’, tramandata nei racconti dei nonni, e finita a causa di uno schianto sulla maledetta collina di Superga. Lì perse la vita Valentino Mazzola, l’unico calciatore italiano insieme a Francesco Totti ad essere paragonabile ad Alfredo Di Stefano; quello che, secondo i giornalisti più attempati come Giubilo o Sconcerti, era meglio di Maradona o Pelé. A continuare la tradizione di famiglia fu Sandro, protagonista in un’altra squadra fregiatasi dello stesso aggettivo di quella del padre: la ‘Grande Inter’ di Helenio Herrera. Anche qui corsi e ricorsi storici, questa volta a livello dirigenziale, con Massimo Moratti che riporterà la Coppa dalle grandi orecchie nella Milano nerazzurra, 45 anni dopo quella del 1964/65 di papà Angelo. Sarti, Burnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jaìr, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Uno degli ‘undici’ più ricordati di sempre, anche se, nonostante la splendida carriera quasi ventennale, caratterizzata dalla famosa staffetta con Gianni Rivera ai Mondiali in Messico del 1970, Sandro non potrà essere ricordato nella schiera degli eletti come papà Valentino.
Infine vennero i figli. Se ogni società ha delle tappe indelebili che il tempo non potrà cancellare, una di queste è sicuramente l’immagine di un capitano che alza al cielo la prima Coppa dei Campioni. Per la Milano rossonera l’onore di questo gesto è toccato a Cesare Maldini, nella finale di Wembley del 1963. Ironia della sorte, stesso avversario dell’Inter di Sandro Mazzola, quel Benfica che proprio nel 1962 subì la maledizione di Béla Guttmann, l’allenatore ungherese che predisse 100 anni di sventura nelle finali europee per la società lusitana, finora puntualmente avveratasi. Dopo tanta gloria (Maldini padre vinse anche 4 campionati), poteva essere difficile ipotizzare che il figlio di Cesare non potesse subire una legittima paura del confronto. I più maligni misero in dubbio il fatto che il giovane Paolo meritasse di esordire in prima squadra a soli 16 anni, quando il 20 gennaio 1985 Nils Liedholm lo gettò nella mischia sul campo dell’Udinese. Ancora corsi e ricorsi storici, visto che il Friuli era la terra d’origine di papà Cesare. Lì, la prima di 648 presenze in Serie A per uno dei più forti giocatori in senso assoluto. 7 campionati, 5 Coppe dei Campioni, di cui 2 alzate al cielo da Capitano, e una sequela di trofei che si farebbe fatica a contare, ma, soprattutto, un esempio di lealtà e correttezza. Dentro e fuori dal campo. Un simbolo del calcio italiano e della Nazionale, con la maglia azzurra indossata 126 volte, e un primato sfilatogli solo dai compagni Cannavaro e Buffon in tempi recenti. Al Mondiale del 1998 una delle pagine più romantiche del nostro calcio, con papà Cesare in panchina a fare da selezionatore, e Paolo in campo a far parte di una difesa di ferro. Capitano e leader indiscusso di un gruppo fermato solo dalla sfortuna e dai calci di rigore ai quarti di finale contro la Francia poi Campione del Mondo.
C’è un brano di Roberto Vecchioni dedicato al fratello, ‘Canzone per Sergio’, in cui il cantautore milanese afferma un concetto facilmente assimilabile alle varie storie narrate: “Siccome Sergio era mio fratello, mi rivedevo facilmente in lui, perché eravamo stati bambini assieme”. Così è iniziata la favola di molti calciatori. Una palla da prendere a calci insieme, fino a sera. In un campetto dietro casa, o in una piazza. Salvo ritrovarsi 15 anni dopo a scambiarsi i gagliardetti a San Siro, come nel caso di Franco e Beppe Baresi. Questa è la metafora, al netto di tutte le vicissitudini intrecciate attorno a questa sfera rotonda. La contrapposizione, l’agonismo, l’unione, il gioco. In un oratorio, a scuola, o alla Scala del Calcio. Davanti a 80.000 spettatori, e con due maglie a strisce da difendere, perché ‘Milàn l’è semper un gran Milàn’. Prima che si spengano le ‘Luci a San Siro’, e quelle della ribalta del tempo della giovinezza e della notorietà. Senza dimenticare, però, di tornare un po’ bambini e ricominciare a prendere assieme a calci un pallone. Rivedendosi negli occhi dei figli che giocano. Esattamente come 40 anni fa.
“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.
Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.
Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.
Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.
In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.
La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.
Ci sono giocatori destinati a lasciare il segno. Alcuni, campioni indimenticabili, ci riescono ovunque vanno, basti pensare a Zlatan Ibrahimovic e al suo straordinario record di dieci campionati vinti nelle ultime undici stagioni disputate, con sei casacche diverse, in quattro nazioni differenti. Ma i grandi campioni richiamano quasi sempre grandi squadre, e di conseguenza le grandi opportunità. Più curioso può essere considerato il caso di quella che, da promessa mancata, riesce comunque a entrare nella storia delle formazioni nelle quali milita. Invariabilmente, inesorabilmente.
Alessandro Iannuzzi risponde perfettamente a questo identikit. La sua carriera nel calcio che conta è stata una rapida fiammata, per poi proseguire comunque fino alle soglie dei quarant’anni nei campionati dilettantistici. Quello che colpisce di questo biondino dal piede fatato, è il suo cammino fino a quando era ancora un Under 23. Esploso in una delle formazioni Primavera più forti di sempre, la Lazio di Nesta, Di Vaio, Flavio Roma in porta e Daniele Franceschini a centrocampo, lo scudetto di quella formazione è indissolubilmente legato alla micidiale punizione in cui, di fronte a 40.000 spettatori allo Stadio Olimpico, consegnò il titolo a quel gruppo di giovani di talento.
Da una punizione all’altra: nella stagione successiva allo scudetto Primavera, Zdenek Zeman lo chiama in campo nell’ennesima partita messasi male per quella Lazio bella e incompiuta. 0-1 in casa contro il Torino (in quella stagione destinato alla retrocessione), a togliere le castagne dal fuoco ci pensa proprio il biondino con la sua specialità: micidiale botta a girare sotto l’incrocio dei pali, e corsa sotto la curva resa ancor più commovente dall’abbraccio con il fratellino raccatapalle, di cui a sua volta si dicevano meraviglie nelle giovanili laziali, senza che le promesse venissero poi mantenute.
Il ragazzo ha talento, ma nei rigidi schemi zemaniani le sue attitudini da attaccante-rifinitore finiscono con l’essere mortificate. Avendo bisogno di giocare, finisce nel Vicenza dei miracoli di Guidolin. In campionato è un’alternativa utilizzata a intermittenza, ma nella magica notte della finale di Coppa Italia contro il Napoli, firma all’ultimo minuto dei supplementari il gol della sicurezza, il 3-0 che fa esplodere di gioia il Romeo Menti e regala il primo titolo della sua storia centenaria al sodalizio berico. Un prestito di un anno, ma Iannuzzi a Vicenza non se lo scorderannomai più. Torna a Roma nella più sfarzosa Lazio cragnottiana: l’arrivo di Cristian Vieri è sinonimo di ambizioni gigantesche, ma anche di poco spazio in attacco. Un ecatombe di infortuni ad inizio campionato regala una chance proprio contro il Vicenza a “Iannuzzino”, alle spalle di Roberto Mancini: un tempo e pochi minuti per capire che per lui non c’è margine nella SuperLazio. In prestito se lo prende il Milan, dove spazio ce n’é ancora meno: senza mai scendere in campo in campionato, Iannuzzi clamorosamente festeggerà lo scudetto a fine stagione proprio ai danni dei biancocelesti, in testa per metà campionato e poi beffati sul filo di lana dai rossoneri.
Uno scudetto e una Coppa Italia, entrambe lontano da Roma, già nel palmares a 23 anni. Restando nella Capitale Iannuzzi aggiungerebbe un titolo, visto che nel 2000 arriverà finalmente il Giubileo laziale, ma sarà invece girato in prestito alla Reggina nella squadra di Baronio e Pirlo, giovani fenomeni capaci di regalare meraviglie. La terza stella, quella di Iannuzzi, non si accenderà: troppi problemi fisici, che lo tormenteranno fino all’approdo in B in Messina, nel 2002. Dall’altra parte dello Stretto, Iannuzzi troverà finalmente due stagioni di continuità, e la promozione nella massima serie che i peloritani attendevano da quasi quarant’anni, anche e soprattutto grazie alle sue magie e i suoi assist. Ancora un passo nella storia, l’ultimo: a 28 anni non ancora compiuti, nelle cinque successive annate Iannuzzi disputerà solo unastagione (quasi) intera, a Gualdo Tadino nel campionato 2005/06. Poi i dilettanti, e il bagliore, nel suo caso accecante, dei ricordi: calciatori con centinaia di presenze in più tra i professionisti, non hanno vissuto altrettanti momenti di gloria.
Qualche settimana fa, dopo la vittoria del Torino contro il Bologna, sono spuntati altri fiori in corso Re Umberto. Succede così, da 45 anni. Perché il popolo granata non dimentica mai la sua storia, i suoi miti e le sue tragedie. Quando il passato è troppo ingombrante e carico di leggenda come quello che accompagna questa società, non riesci a staccartene mai più. Perché non esiste tifoso del Torino tra i 50 e i 65 anni, che non sia follemente, irrimediabilmente, fatalmente e perdutamente innamorato di Gigi Meroni. E non sono gli unici, perché quel ragazzo mingherlino, cresciuto a Como e diventato famoso 140 km più lontano, ha fatto innamorare di lui quasi un’intera generazione.
Di sicuro all’inizio furono solo i tifosi granata a comprendere il suo genio. Gli altri lo capirono e lo amarono molto più tardi, quando anche l’Italia intera iniziò a cambiare. D’altronde era difficile accettare nei primi anni sessanta, un ragazzo che viveva spensierato e innamorato della vita come nessun altro. Che dopo una partita di calcio non andava in discoteca ma tornava a casa dalla sua Cristiana per dipingere fino a notte fonda. Che rifiutò la bella vita della Torino borghese per vivere in una mansarda che affacciava sulla piazza più romantica della città. Quella vista e l’amore di quelle quattro mura, lo ispiravano più del castello di Versailles. Era un artista e poi un calciatore. Ma come succede a chi sa farsi ispirare dal propio genio, spesso univa l’arte al calcio e diventava un campione. Chi non lo amava lo odiava. Forse perché aveva i capelli lunghi, la barba incolta e usciva con una gallina al guinzaglio. O forse perchè aveva sempre il sorriso. Mai per provocare ma solo per difendere la sua libertà.
Ma la loro, era solo invidia, ed a nulla serviva denigrarlo. Un giorno si travestì da giornalista e andò per la città chiedendo cosa ne pensasse la gente di un certo Meroni. Era fatto così, era un ingenuo esibizionismo mai davvero sopra le righe. Nel 1965 anche la Nazionale dovette inchinarsi alla sua bravura e lo convocò per la partita contro la Polonia a Varsavia. La stampa italiana si scatenòcontro di lui perché la divisa azzurra non poteva essere indossata da un ragazzo che aveva i capelli lunghi. Edmondo Fabbri, CT dell’epoca, gli disse che la maglia numero sette sarebbe stata sua se avesse tagliato i capelli. Meroni rifiutò con cortesia, come aveva sempre fatto nella sua vita. Disse al suo ritorno a Torino: “è stato come se avessero attentato alla mia vita personale. Sono un uomo che da tutto al calcio, si allena in modo serio e professionale e non litiga mai con nessuno. Chiedo solo un po’ di rispetto per la mia libertà”. Lui, che libero lo era sempre stato, non poteva accettare compromessi. Un anno dopo ritornò in Nazionale come voleva lui. La sua condotta dentro e fuori dal campo era senza macchia. Perché a lui interessava solo amare la sua Cristiana, disegnare vestiti, dipingere quadri e giocare a calcio. Il resto era solo contorno. E non gli interessava se pensassero che fosse un peccatore, un poco di buono. Lui amava la sua donna anche se questa era già sposata. Ogni giorno le portava un rosa e le dedicava un quadro. Ogni domenica le dedicava un goal, un dribbling oppure un semplice saluto.
Per Meroni esistevano solo Cristiana e i tifosi del Toro, che per lui scesero in piazza impedendo alla società di venderlo alla Juventus. Perchè Meroni era il Torino, era la loro farfalla granata. Di li a poco lo amarono tutti, anche chi in passato gli aveva dedicato appena una citazione o peggio, l’indifferenza. Il goal che segnò all’Inter a San Siro, rivive ancora negli occhi di una generazione. Lui dipingeva i suoi goal, mai banali come la sua vita. Era diventato il simbolo di un’epoca quasi senza volerlo. Lo diventò ancora di più quando il 15 ottobre del 1967, la sua esistenza fu interrotta nel modo peggiore da un uomo che era anche il suo primo tifoso. Un incidente pieno di mistero e di dolore. Geniale e dannato. Come il suo Torino. Un città intera e anche più, gli rese omaggio tra le lacrime e il rimpianto. Nonostante c’era ancora chi lo giudicasse un peccatore, Torino abbracciò il suo angelo cercando di ricompensarlo almeno da morto. Lui però non se ne andò subito. La domenica successiva giocò dal cielo il derby contro la Juventus insieme ai suoi compagni, regalando alla sua gente la vittoria più bella. Una vittoria piena di lacrime, che tanti bambini di allora, portano ancora nel cuore insieme ai suoi gol. Lui era diverso, lui era altro.
A volte la vita è come un film. Un momento, una decisione o una fatalità possono cambiare per sempre i nostri destini. Se Robert Anthony Boggi, arbitro della sezione di Salerno, ma nato a New York, non avesse convalidato il gol di Balbo nel derby di ritorno Roma-Lazio della stagione 1996/97, cosa ne sarebbe stato di Francesco Statuto? Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, o avesse la memoria ingiallita da 15 anni di calcio, facciamo un tuffo nel passato.
La Roma del duo Liedholm-Sella, subentrati da qualche domenica al tecnico argentino Carlos Bianchi, voluto fortemente dal presidente Franco Sensi, ma mai amato dal popolo giallorosso, sta portando a termine una delle più nefaste stagioni della propria storia. 1 punto nelle ultime 5 partite e tanta voglia di conquistare al più presto quei risultati che le garantirebbero la matematica salvezza, per poi ripartire da zero l’anno dopo. Ultimo appuntamento allettante della stagione, nemmeno a dirlo, la stracittadina contro la Lazio di Dino Zoff, anch’egli subentrato all’esonerato Zdenek Zeman. Lo stadio è colorato per 3/4 di giallorosso, con una coreografia fantastica a dispetto degli ultimi disastrosi risultati, in un infuocato pomeriggio di inizio maggio. Il primo tempo scivola via abbastanza noioso fino al minuto trentacinque, quando Abel Balbo, lanciato in verticale da Jonas Thern, supera Marchegiani dopo un rimpallo. La palla scivola lentissima verso la fatidica linea bianca, con il centrale sudafricano Mark Fish che tenta un disperatorecupero.
Il difensore laziale, in scivolata, scalcia via il pallone quando ha appena varcato la linea di porta. E qui interviene il nostro. Francesco Statuto, a poco più d’un metro dalla porta, anche se in posizione defilata, riceve la sfera, e, forse per eccesso di sicurezza, forse per paura, tenta un improbabile esterno destro con la palla che termina a lato. Inutile il tentativo di Tommasi di rimettere la palla nel sacco. Grazie al cielo per i romanisti e per Statuto, Boggi ha già convalidato la rete del vantaggio, su suggerimento del guardalinee. Il derby, come molto spesso in quegli anni, termina 1-1, grazie alla zampata di Protti a tempo scaduto. Una beffa che fotografa al meglio tutta la stagione romanista. L’ultima di Francesco Statuto, centrocampista dalle scarse doti tecniche, ma dalla buona sostanza, inficiata da un brutto infortunio al perone subito 2 anni prima, con la maglia della Roma. Cresciuto nel settoregiovanile romanista, ha mosso i primi passi tra i professionisti con le maglie di Casertana e Cosenza, fino alla prima stagione in Serie A con la maglia dell’Udinese, nel campionato 1993/94. Deludente dal punto di vista sportivo, visto che la squadra friulana retrocesse, ma importante sotto quello personale, dal momento che la Roma si accorse di lui e lo riportò alla base.
Buono il primo anno, con Carlo Mazzone in panchina; 20 volte titolare e una discreta duttilitàtattica che gli valse l’attenzione di Arrigo Sacchi e l’esordio in Nazionale maggiore. 3 presenze in maglia azzurra, poi il brutto infortunio che ne segnò definitivamente la carriera. A 26 anni fu costretto a fare un passo indietro e a ripartire da Udine, per poi approdare a Piacenza, dove, però, si tolse lo sfizio di prendersi la rivincita contro la “sua” Roma, segnandole un gol nella gara di ritorno del 1998/99, finita 2-0 per i biancorossi al ‘Garilli’. Una sfida che segnò irrimediabilmente il destino di Zdenek Zeman sulla panchina giallorossa, compromettendo le ultime speranze di agganciare il quarto posto, conquistato dal Parma di Alberto Malesani. Poi un passaggio a Torino tra le fila granata, 2 anni a Padova, fino alla conclusione della carriera vicino casa, con la maglia della Viterbese. Gli scarpini appesi al chiodo, la vita che ti obbliga a virare su altro e gli anni che iniziano ad avanzare. Però, ne siamo certi, ogni tanto gli tornerà alla mente quel caldo pomeriggio di maggio con la palla che scottava tra i piedi e non voleva saperne di entrare. Un pensiero, e poi il sospiro di sollievo racchiuso in un malinconico sorriso. Tanto Boggi, oramai, quel gol di Balbo non potrà più annullarlo.