Gigi Meroni, il volo senza fine della farfalla granata

di Emiliano Storace

Qualche settimana fa, dopo la vittoria del Torino contro il Bologna, sono spuntati altri fiori in corso Re Umberto. Succede così, da 45 anni. Perché il popolo granata non dimentica mai la sua storia, i suoi miti e le sue tragedie. Quando il passato è troppo ingombrante e carico di leggenda come quello che accompagna questa società, non riesci a staccartene mai più. Perché non esiste tifoso del Torino tra i 50 e i 65 anni, che non sia follemente, irrimediabilmente, fatalmente e perdutamente innamorato di Gigi Meroni.  E non sono gli unici, perché quel ragazzo mingherlino, cresciuto a Como e diventato famoso 140 km più lontano, ha fatto innamorare di lui quasi un’intera generazione.

Di sicuro all’inizio furono solo i tifosi granata a comprendere il suo genio. Gli altri lo capirono e lo amarono molto più tardi, quando anche l’Italia intera iniziò a cambiare. D’altronde era difficile accettare  nei primi anni sessanta, un ragazzo che viveva spensierato e innamorato della vita come nessun altro. Che dopo una partita di calcio non andava in discoteca ma tornava a casa dalla sua Cristiana per dipingere fino a notte fonda. Che rifiutò la bella vita della Torino borghese per vivere in una mansarda che affacciava sulla piazza più romantica della città. Quella vista e l’amore di quelle quattro mura, lo ispiravano più del castello di Versailles. Era un artista e poi un calciatore. Ma come succede a chi sa farsi ispirare dal propio genio, spesso univa l’arte al calcio e diventava un campione. Chi non lo amava lo odiava. Forse perché aveva i capelli lunghi, la barba incolta e usciva con una gallina al guinzaglio. O forse perchè aveva sempre il sorriso. Mai per provocare ma solo per difendere la sua libertà. 

meroniMa la loro, era solo invidia, ed a nulla serviva denigrarlo. Un giorno si travestì da giornalista e andò per la città chiedendo cosa ne pensasse la gente di un certo Meroni. Era fatto così, era un ingenuo esibizionismo mai davvero sopra le righe. Nel 1965 anche la Nazionale dovette inchinarsi alla sua bravura e lo convocò per la partita contro la Polonia a Varsavia. La stampa italiana si scatenò contro di lui perché la divisa azzurra non poteva essere indossata da un ragazzo che aveva i capelli lunghi. Edmondo Fabbri, CT dell’epoca, gli disse che la maglia numero sette sarebbe stata sua se avesse tagliato i capelli. Meroni rifiutò con cortesia, come aveva sempre fatto nella sua vita. Disse al suo ritorno a Torino: “è stato come se avessero attentato alla mia vita personale. Sono un uomo che da tutto al calcio, si allena in modo serio e professionale e non litiga mai con nessuno. Chiedo solo un po’ di rispetto per la mia libertà”. Lui, che libero lo era sempre stato, non poteva accettare compromessi. Un anno dopo ritornò in Nazionale come voleva lui. La sua condotta dentro e fuori dal campo era senza macchia. Perché a lui interessava solo amare la sua Cristiana, disegnare vestiti, dipingere quadri e giocare a calcio. Il resto era solo contorno. E non gli interessava se pensassero che fosse un peccatore, un poco di buono. Lui amava la sua donna anche se questa era già sposata. Ogni giorno le portava un rosa e le dedicava un quadro. Ogni domenica le dedicava un goal, un dribbling oppure un semplice saluto.

Per Meroni esistevano solo Cristiana e i tifosi del Toro, che per lui scesero in piazza impedendo alla società di venderlo alla Juventus. Perchè Meroni era il Torino, era la loro farfalla granata. Di li a poco lo amarono tutti, anche chi in passato gli aveva dedicato appena una citazione o peggio, l’indifferenza. Il goal che segnò all’Inter a San Siro, rivive ancora negli occhi di una generazione. Lui dipingeva i suoi goal, mai banali come la sua vita. Era diventato il simbolo di un’epoca quasi senza volerlo. Lo diventò ancora di più quando il 15 ottobre del 1967,  la sua esistenza fu interrotta nel modo peggiore da un uomo che era anche il suo primo tifoso. Un incidente pieno di mistero e di dolore. Geniale e dannato. Come il suo Torino. Un città intera e anche più, gli rese omaggio tra le lacrime e il rimpianto. Nonostante c’era ancora chi lo giudicasse un peccatore, Torino abbracciò il suo angelo cercando di ricompensarlo almeno da morto. Lui però non se ne andò subito. La domenica successiva giocò dal cielo il derby contro la Juventus insieme ai suoi compagni, regalando alla sua gente la vittoria più bella. Una vittoria piena di lacrime, che tanti bambini di allora, portano ancora nel cuore insieme ai suoi gol. Lui era diverso, lui era altro.