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Club Fabio Belli

La Champions arriva a San Marino. Davvero.

Virtus-FCSB apre una nuova era per le squadre del Titano nelle Coppe Europee

Martedì 9 luglio la nuovissima e discussa Champions League, che culminerà con la fase a “campionato” considerata da molti un vero e proprio surrogato della Superlega, aprirà i battenti. Si giocheranno le gare del primo turno preliminare, un programma in cui spicca un appuntamento impossibile da non notare per gli appassionati di un certo tipo di calcio di “nicchia”.

Il cambio di formula infatti ha portato alla cancellazione di quel “preliminare del preliminare” che portava i club campioni nazionali degli ultimi quattro paesi del ranking UEFA a contendersi l’unico posto disponibile per il primo preliminare vero e proprio. Un ragionamento arzigogolato ma chi conosce la situazione sa di cosa stiamo parlando. Sul fondo del ranking, inevitabilmente, c’erano le squadre di San Marino che nella loro storia dunque hanno formalmente disputato sempre una sorta di anticamera della Champions, vivendo come un appuntamento prestigioso gli scontri con squadre nordirlandesi o armene.

Da quest’anno però, come detto, la musica cambia: tutte le squadre partono dall’inizio senza preamboli, nel lungo cammino verso la fase “a campionato” che l’anno scorso (quando si rincorrevano ancora ai gironi) ha portato ad esempio alla ribalta le imprese del KI Klaksvik, capace di eliminare club svedesi e ungheresi per poi accedere alla fine alla fase a gironi di Conference League, traguardo straordinario per un minuscolo club delle Far Oer.

Difficile pensare che per i campioni di San Marino possa succedere lo stesso, ma il sorteggio del primo turno preliminare della Champions League 2024/25 ha regalato comunque una grande soddisfazione agli appassionati del Titano. A Serravalle scenderà infatti in campo, martedì prossimi, l’FCSB, al secolo la Steaua Bucarest a sua volta colpita da un rocambolesco cambio di denominazione negli ultimi anni. Il 31 marzo 2017 il tribunale supremo della Romania ha accolto un ricorso del Ministero della Difesa, obbligando la società a rinunciare anche alla denominazione Steaua (riavocata all’esercito): la società ha cambiato dunque ufficialmente nome in Fotbal Club FCSB, continuando però ad utilizzare informalmente il nome di Steaua Bucarest (avallata in tal senso da UEFA e federcalcio rumena).

Al San Marino Stadium arriverà dunque per una partita ufficiale contro un club locale, per la prima volta nella storia, una squadra Campione d’Europa, con la Steaua che vinse lo storico titolo del 1986 a Siviglia contro il Barcellona grazie alle parate a ripetizione di Helmut Duckadam nella crudele lotteria dei calci di rigore. Ad affrontare la Steaua/FCSB, in maniera altrettanto suggestiva, sarà la Virtus del Castello di Acquaviva, reduce dalla conquista del suo primo Scudetto in assoluto a San Marino.

L’FCSB ha conquistato nella stagione appena trascorsa il suo ventisettesimo titolo di Romania e sembra voler compiere qualche passo verso il suo blasone perduto, considerando che dal 2018 non fa strada nelle Coppe Europee oltre le fasi preliminari (sedicesimi di Europa League persi contro la Lazio). Il punto però è che mai un avversario di tale blasone è sceso in campo a San Marino per un’impresa europea e il fatto che a vivere questo appuntamento sarà un’esordiente assoluta in Champions rende il tutto ancor più suggestivo.

Un’altra curiosità è legata alla presenza di Federico Piovaccari tra le fila della Virtus: il club sammarinese si è rinforzata con il bomber classe 1984, che a 40 anni si rimette in gioco sul palcoscenico della Champions League che ha già calcato proprio con la maglia della Steaua Bucarest, nella stagione 2013/14 che fu l’ultima per il club romeno con la storica denominazione. La Steaua raggiunse partendo dai preliminari la fase a gironi della massima competizione europea e Piovaccari giocò 12 partite segnando anche 4 gol. Ora ci riproverà giocando contro l’FCSB da avversario, con l’appuntamento di martedì 9 luglio 2024 alle ore 21.00 al San Marino Stadium che si preannuncia come la più importante sfida di club mai disputata da un club del Titano.

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Calciatori Fabio Belli

Football Mystery 4×16: Duckadam, tra psicologia e leggenda

di Fabio BELLI

Ci troviamo probabilmente di fronte alla storia della più grande impresa compiuta da un portiere in una finale di Champions League, allora ancora Coppa dei Campioni. Nessun estremo difensore nella storia è mai riuscito a parare tutti i tiri dal dischetto in una finale conclusa ai calci di rigore: a fare 4 su 4 fu una vera icona del calcio dell’Est, di cui si persero quasi completamente le tracce dopo la notte da eroe vissuta a Siviglia, il 7 maggio 1986. Stiamo parlando di Helmuth Duckadam: tra psicologia e leggenda.

Helmut Duckadam fu lo storico portiere della Steaua Bucarest degli anni 80, la prima squadra dell’Est Europa che riuscì a vincere il più ambito trofeo calcistico continentale, la Coppa dei Campioni. La Steaua 1986 fu l’orgoglio della Romania di Ceausescu, che riuscì in un’impresa che nel calcio dell’Est non fu mai completata né dai maestri sovietici, nonostante la Dinamo Kiev del Colonnello Lobanovski dettasse legge in quegli anni, e che fu raggiunta solo 5 anni dopo dai brasiliani d’Europa, gli jugoslavi, con la Stella Rossa del 1991.

Duckadam arriva all’appuntamento della notte più importante della sua carriera da perfetto sconosciuto del calcio europeo: della Steaua si conoscono la classe di Belodedici, la forza di un attaccante come Lacatus e poco altro. Nato in Transilvania, Duckadam sembra un personaggio del castello del conte Dracula: alto, imponente e baffuto, abbia alla prestanza fisica un’agilità non comunque alla sua stazza. Esplode calcisticamente nell’UT Arad, poi come tutti i calciatori migliori del Paese finisce alla Steaua, gestita direttamente dai figli di Ceausescu. In Nazionale è chiuso da Silviu Lung, storico portiere dell’Universitatea Craiova, ma in quegli anni tutti pensano che sia Duckadam il migliore.

La Steaua si trova a disputare il 7 maggio 1986 una delle finali di Coppa dei Campioni più strane della storia. Si gioca a Siviglia contro il Barcellona che si gioca in una notte mezzo secolo di complessi rispetto al Real Madrid. I catalani hanno raggiunto la finale vincendo una tiratissima sfida ai rigori contro il Goteborg e sono strafavoriti contro i rumeni. L’allenatore inglese del Barca, Terry Venables, fiuta la trappola: con tanti catalani in campo e uno stadio esaurito con 69700 spettatori del Barcellona e 300 romeni, le gambe tremano ma il tecnico viene tradito proprio dai suoi pretoriani fatti arrivare dall’esterno per vincere in europa: sono impalpabili lo scozzese Steve Archibald ma soprattutto il tedesco Bernd Schuster, fuoriclasse dal carattere difficile che non giocò mai un Mondiale per le liti con i compagni di squadra della Germania Ovest. Al momento della sua sostituzione a 5′ dal novantesimo, Schuster uscì dal campo, andò dritto negli spogliatoi a farsi una doccia, chiamò un taxi e si vide i rigori in televisione a casa sua.

In quanto a stranezze, la Steaua non fu da meno e la finale del 1986 fu la prima che vide un allenatore, Emerich Jenei, mandare in campo il suo vice, Angel Iordanescu. Ufficilalemtne in rosa e futuro CT della Nazionale romena, Iordanescu non giocava da due anni e studiava da allenatore al fianco di Jenei. Ma la sua classe aiutò a spaventare definitivamente il Barcellona. Si andò ai rigori, e qui Duckadam divenne il protagonista assoluto.

I primi quattro tentativi vanno tutti male: Urruti, il portiere basco del Barcellona, è un noto pararigori e neutralizza i primi tentativi di Majearu e Boloni. Dall’altra parte però, Duckadam fa lo stesso contro il capitano Alexanco e Pedraza. “Il primo rigore è sempre il più difficile,” spiegò anni dopo Duckadam raccontando la sua impresa. “Parato quello, ho giocato con il cervello degli avversari: sapevo che Pedraza avrebbe pensato che avrei cambiato angolo, perché Urruti l’aveva fatto e ne aveva parati 2 su 2, così mi sono ributtato a destra”. Il terzo rigore dello Steaua lo tira Lacatus, di potenza, senza pensare, e il pallone finalmente entra. Poi tocca all’eroe della semifinale col Goteborg, Pichi Alonso, e Duckadam si ributta a destra, sicuro che l’avversario avrebbe pensato che stavolta avrebbe cambiato. Quasi blocca il pallone, poi Balint mette dentro il 2-0 e su Marcos Alonso (padre dell’attuale giocatore del Chelsea, ex Fiorentina), Duckadam si sente ormai onnipotente. Basta una lieve finta a destra, stavolta Alonso tira a sinistra ma il portiere ha tutto il tempo di cambiare e di firmare una delle più grandi sorprese della storia del calcio europeo.

La Steaua è campione d’Europa per Duckadam sembra l’inizio di una carriera internazionale luminosa, anche se la Romania non sarà tra le Nazionali che andrà in Messico per i Mondiali del 1986. Nel giro di pochi mesi, nessuno saprà invece più che fine avrà fatto Duckadam: nasce una leggenda inquietante, Valentin Ceausescu gli avrebbe fatto spezzare le mani per non aver consegnato un’automobile ricevuta in regalo da uno sponsor per l’impresa compiuta a Siviglia. Una punizione atroce, che l’avrebbe costretto a ritirarsi, ma smentita dallo stesso Duckadam, ricomparso quasi trent’anni dopo la finale del 1986 come ambasciatore UEFA, in un’intervista:

“In caso di vittoria della Coppa dei Campioni ci era stato promesso un grande premio dall’esercito, ma quando fummo ricevuti da Ceausescu l’accoglienza fu fredda. Il regime era già in crisi e il calcio non avrebbe aiutato certo la propaganda. Ma non è assolutamente vero che venni aggredito o che vennero a rompermi le braccia: proprio perché il dissenso politico in Romania era ormai grande, si sarebbe venuto facilmente a sapere. L’unico tiro mancino che ci fece il regime fu di rimangiarsi il premio per la vittoria, consegnandoci solo delle auto usate, alcune assemblate addirittura da componenti militari dismessi. Smisi di giocare perché pochi mesi dopo la finale in una partita finii all’ospedale a causa di un dolore lancinante al braccio, di origine sconosciuta. Gli esami evidenziarono un aneurisma arterioso periferico, una rara forma di trombosi. Non persi il braccio per miracolo, provai a tornare a giocare a casa all’Arad, ma non potevo più fare il professionista.” E così nella notte di Siviglia il tempo della vita da calciatore di Duckadam si fermò per sempre.

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Calciatori Fabio Belli

Paul Breitner: il Maoista con il Libretto Rosso in una mano ed un dopobarba nell’altra

di Fabio BELLI

I soprannomi: a volte ti si appiccicano addosso, altre sei tu che fai di tutto per farti etichettare in un certo modo. Paul Breitner ha mosso i primi passi nel calcio internazionale con l’etichetta di “Der Afro” per i suoi capelli che, a prima vista, avrebbero indicato più un’appartenenza alla band Kool and the Gang piuttosto che alla nazionale teutonica. In men che non si dica però il terzino sinistro, capace di collezionare 48 “caps” nella nazionale della Germania Ovest tra il 1971 ed il 1982, è diventato “Il Maoista“. Questo per il suo feroce impegno politico che lo portò anche a farsi ritrarre in occasione di alcune interviste con il Libretto Rosso di Mao Tse Tung in bella vista e a offrire lo stesso in regalo ad alcuni avversari prima dell’inizio delle partite.

Nato nel cuore della Bavaria, Breitner è stato uno dei calciatori più vincenti della sua generazione. Ha fatto parte del Bayern Monaco Campione d’Europa nel 1974 prima di passare per tre anni tra le fila del Real Madrid. Un trasferimento aspramente criticato dall’opinione pubblica tedesca che contestava l’incoerenza nell’impegno politico a sinistra contrapposto alla militanza nella squadra del generalissimo Franco. Nel 1977 il ritorno in Germania dove l’unico club disposto ad ingaggiarlo è l’Eintracht Braunschweig, piccola società dalle grandi risorse finanziarie poichè sostenuta dall’allora patron della Jagermeister. Il ritorno in patria del Maoista è però… amaro di nome e di fatto, visto che Breitner predica equità sociale, ma sarà uno dei primi calciatori a strizzare l’occhio allo show business: produce film, fa l’attore, si concede alla pubblicità rinunciando per un aftershave alla barba da intellettuale rivoluzionario.

Gli atteggiamenti da primadonna mal sono digeriti nell’ambiente provinciale del piccolo Eintracht. A cavar d’impaccio Breitner arriva il suo club natale, il Bayern, che se la passa abbastanza male. L’alchimia si ripropone subito: “Der Afro” torna nel 1978 e nel 1981, dopo sei anni di digiuno. il Bayern riconquista il Meisterschale con Breitner votato calciatore tedesco dell’anno. Una seconda giovinezza che lo porterà a disputare con la maglia della nazionale la seconda finale mondiale della sua carriera: Breitner infatti è stato Campione del Mondo nel 1974 trasformando il rigore dell’1-1 contro l’Olanda di Crujyff, prima della zampata vincente di Gerd Muller. Due anni prima, a soli 21 anni, aveva conquistato il titolo Europeo. Il bis nel 1980, a Roma, non ci fu perchè Breitner, per gli atteggiamenti sopra descritti, era divenuto nemico giurato del CT Schoen. La frattura totale ci fu nel 1978, quando Breitner espresse il suo rifiuto all’idea di giocare i Mondiali del 1978 in Argentina, nazione all’epoca stritolata dalla dittatura del generale Videla. Scelta che, oltre ad attirare l’ostracismo di Schoen, gli costò forti critiche da parte dei tifosi tedeschi che rilevarono come le motivazioni politiche non gli impedirono di intascare il ricco ingaggio del Real Madrid. Il ritorno ci sarà solo nel 1981 con l’arrivo di Jupp Derwall in panchina, giusto in tempo per partecipare a Spagna’82 ed aggiungere un argento alla collezione delle medaglie.

Contro l’Italia infatti la Germania Ovest vivrà un destino opposto a quello del 1974 ma Breitner andrà a segno nella finale del Bernabeu proprio come aveva fatto otto anni prima all’Olympiastadion di Monaco contro l’Olanda. Diventa così uno dei quattro giocatori nella storia del calcio ad aver segnato in due differenti finalissime dei Mondiali di Calcio: gli altri sono i brasiliani Pelè e Vavà ed il francese Zidane. Sarà il canto del cigno per il maoista che si ritirerà l’anno successivo e resterà nel suo habitat naturale, la Baviera, dove attualmente lavora come osservatore per il Bayern.

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Calciatori Club Fabio Belli

La maglia numero 7 del Manchester United: la più carica di gloria, di storie e di storia

di Fabio BELLI

C’è una maglia rossa, appoggiata in un angolo in uno spogliatoio, che significa per il calcio più di quanto possa mai immaginare un ragazzino dell’Academy che, in una piovosa giornata tipica di Mancester, la riceve per il primo allenamento all’inizio della prima stagione con lo United.

E’ una maglia indossata da un bel nordirlandese con gli occhi verdi che a fine carriera amava dire, andando in giro per i pub, che se fosse stato più brutto nessuno si sarebbe mai ricordato di quell’altro tizio, quel Pelè. Un calciatore talmente completo e talmente carico di classe ed intelligenza calcistica che forse cominciò a complicarsi la vita da solo perché non c’era nessun avversario che potesse dargli soddisfazione. Un giocherellone che, quando arrivò a disputare la finale di Coppa dei Campioni, quella che avrebbe regalato la prima Coppa in assoluto all’Inghilterra, segnando il gol decisivo dribblò anche il portiere avversario e pensò di fermare la palla sulla linea, sdraiarsi ed appoggiarla in rete con la testa. Non lo fece per non far venire un infarto al suo vecchio Manager che era come un padre per lui, Matt Busby, e quel ragazzo di Belfast un po’ pazzo e un po’ triste era George Best.

E’ una maglia indossata da un colosso francese, spalle larghe e sguardo fiero che rese altrettanto fiero anche quello dei tifosi che andavano all’Old Trafford da 25 anni e che, dai tempi del bel nordirlandese, non avevano più vissuto emozioni di quel tipo. Era sempre un francese in terra inglese e, se lo facevano arrabbiare, spesso perdeva il controllo, come quella volta che prese a calci quasi volando un tifoso in tribuna. Ma i tifosi gli perdonavano tutto, perché quel francese faceva quello che voleva fuori ma soprattutto dentro il campo e si chiamava Eric Cantona.

E’ una maglia indossata da un ragazzo londinese coi capelli biondi e l’aria un po’ distante e trasognata che, ogni due settimane, andava con il papà al Teatro dei Sogni ed ogni tanto restava dietro le grate dei cancelli dell’uscita dei giocatori per vederli più da vicino. Qualcuno si incuriosì di questa presenza abituale e venne fuori che il ragazzo era stato nominato da poco miglior giocatore Under 15 del paese e che giocava in un club di dilettanti, i Brimsdown Rovers. Passò allo United e se ne andò solo dopo aver vinto di nuovo quella Coppa che il nordirlandese aveva portato per la prima volta a Manchester 31 anni prima di lui. Questo dopo essere diventato un’icona di stile proprio grazie al taglio di capelli e a quello sguardo liquido, cosa che in verità non piaceva molto al suo di Manager che una volta su quegli occhioni ci stampò sopra uno scarpino. E David Beckham salutò la fredda Manchester per il cielo di Madrid.

E’ una maglia indossata da un moretto portoghese, che aveva una madre molto devota ed un padre che, quando nacque, era un grande ammiratore del Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan che seguiva da quando faceva l’attore. Dopo quello scarpino lanciato con rabbia il vecchio Manager scozzese, che risponde al nome di Alex Ferguson, si era ripromesso che avrebbe consegnato quella maglia ad un nuovo talento di caratura mondiale. Lo individuò in quel diciottenne dello Sporting Lisbona che divenne un teenager da quasi tredici milioni di sterline. Quando cinque anni dopo, anche grazie ad un suo gol in finale, la Coppa dei Campioni tornò per la terza volta nella bacheca dello United, Ferguson capì di aver compiuto la missione di averne fatto il più grande calciatore del mondo. E poco prima di morire consumato dalla sua passione per la bottiglia, il nordirlandese chiuse il cerchio dicendo di lui, Cristiano Ronaldo: “Ci sono stati tanti calciatori segnalati come “il nuovo George Best”, ma questa è la prima volta che è un complimento per me.

Al momento quella maglia è ancora lì, quando si gioca la indossa un talentuoso ed ormai esperto cileno, Alexis Sanchez, ma non ce ne voglia se diciamo che ogni appassionato di calcio sa che si tratta solo di un passaggio verso un nuovo capitolo del mito: perché certe storie, semplicemente, sono già scritte nel destino.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Francesco Guidolin: la misura del successo

di Alessandro IACOBELLI

La misura del successo. La carriera di Francesco Guidolin è stata costantemente dominata da quel limbo tra normalità e gloria. Le luci della grande ribalta, per sua stessa ammissione, non sono mai piaciute al tecnico nativo di Castelfranco Veneto. Da Vicenza a Bologna, passando per Udine e Palermo. Tutte esperienze favolose vissute con un unico comun denominatore: la tensione.

Sì perché lui ci mette cuore, anima e polmoni. Ogni giorno con la testa riempita di schemi, pensieri (propri e altrui), intuizioni, pressioni, problemi e palloni. Da calciatore? Molto meglio. Indossi la divisa, vai in campo e corri. Meno seccature. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 Guidolin è un centrocampista dai piedi efficacemente educati, ma dal fisico fin troppo esile. Scarpini ai piedi porta avanti comunque dignitose stagioni tra A e B con le maglie di Verona, Pistoiese, Sambenedettese, Bologna e Venezia.

Cosa fare da grande? A 31 anni Francesco pensa, gira lo sguardo, vede la panchina e decide di accomodarsi per dettare il gioco da bordo campo. Si comincia dalle origini al timone delle giovanili, e poi della prima squadra del Giorgione. I primi anni (Treviso, Fano, Empoli) si rivelano interlocutori, con l’eccezione della promozione in B con il Ravenna nella stagione 1992-1993. Il visionario Presidente dell’Atalanta Percassi lo sceglie per la panchina nerazzurra. Tre mesi nella massima serie con più ombre che luci. Uno schiaffo doloroso ma assai rilevante per una naturale crescita professionale. Nell’estate del 1994, quella dei mondiali americani, Guidolin accetta la proposta del Vicenza. Il mister, non a caso allievo tatticamente della filosofia sacchiana, conquista la Serie A chiudendo la cadetteria in terza posizione.

Il 4-4-2 biancorosso, equilibrato ma spumeggiante al tempo stesso, diventa un cult. Un nono posto al primo anno di A e poi il trionfo in Coppa Italia nel ’97. Al “Menti” Maini, Rossi e Iannuzzi trafiggono Taglialatela ribaltando l’1-0 dell’andata contro il Napoli.

Il preludio alle dolci notti in Europa. I tifosi sognano in Coppa delle Coppe con la sfida al Chelsea in semifinale. Zauli decide il match di andata. Il ritorno si gioca nel glorioso “Stamford Bridge”. Il “Toro di Sora” Luiso zittisce il pubblico con un destro imparabile. La favola però svanisce con le successive reti inglesi di Poyet, Zola e Hughes. Dopo aver eliminato Legia Varsavia, Shaktar Donetsk e Roda JC Di Carlo e soci salutano la prestigiosa competizione. Più di così sarebbe quasi impossibile. Guidolin allora si sposta in Friuli.

A Udine è appena terminato il ciclo targato Zaccheroni. Il patron Pozzo vuole rilanciare le ambizioni con un allenatore rampante. Il bomber brasiliano Marcio Amoroso catalizza al meglio la mole di gioco bianconera siglando la bellezza di 22 reti. Sesto posto finale e qualificazione in Coppa Uefa. Al culmine del campionato tra dirigenza e mister si aprono incomprensioni e malintesi che non si risolvono in breve. Il destino, però, busserà ancora alla stessa porta. Intanto il tecnico viaggia alla volta di Bologna. Quattro annate intense con le coppe solo sfiorate e tanti fuoriclasse passati al “Dall’Ara”. Da Signori a Cruz, passando per il portiere Pagliuca ed il regista Pecchia.

Nel 2004 scocca l’ora di Palermo. Il vulcanico Zamparini lo chiama per sostituire Silvio Baldini. La truppa rosanero concretizza una cavalcata magnifica con il ritorno in Serie A dopo oltre 30 anni. In A si tocca quasi il paradiso: sesta posizione, 53 punti e Luca Toni autore di 20 gol. Le sirene estere suonano forte. Guidolin sbarca quindi in Ligue 1 al timone del Monaco. Decimo posto a quota 52. Inaspettatamente giunge la richiamata di Zamparini. I due si incontrano a Cannes e concludono l’affare. Il ritorno in Sicilia è un successo. Nel 2006-2007 i rosanero chiudono quinti, corteggiando a lungo anche i preliminari di Champions League. Una stagione particolare, quella dopo Calciopoli, con la Juventus in B e le penalizzazioni di Lazio e Milan. Amauri è il vero top player di quella squadra, ed il suo grave infortunio a novembre complica di molto il cammino dei compagni. L’esonero, con la successiva marcia indietro, in primavera è solo un dettaglio in un anno comunque positivo. La stagione successiva subisce il valzer delle panchine all’ombra del “Barbera”, subentrando a Colantuono per poi essere sollevato dall’incarico in luogo del primo.

Le imprese non finiscono mai. Il condottiero di Castelfranco Veneto alza le braccia al cielo pure a Parma. A settembre sostituisce Cagni e porta la formazione gialloblu in Serie A. Ottima anche la stagione seguente con l’ottavo posto finale. Nel 2010 il ritorno più bello, più sospirato, più atteso… a Udine. Undici anni dopo la famiglia Pozzo alza la cornetta, Guidolin non esita ad accettare. L’avvio però è traumatico: 1 punto nelle prime cinque partite. L’alba del volo. Le giovani stelle bianconere sono pronte a sbocciare. Benatia, Isla, Inler e due assi nella manica: Di Natale e Sanchez. Lo spettacolo è assicurato. Reti a catinelle: 0-7 sul malcapitato Palermo, 0-4 al Cagliari, 2-4 al Genoa, 4-0 al Lecce. Senza dimenticare il pirotecnico 4-4 in casa del Milan. A maggio i friulani sono quarti ai preliminari di Champions League.

Superlativa anche la stagione 2011-2012 terminata in terza posizione. Si scatenano nuove promesse come Pereyra e Asamoah. Da mille e una notte il successo sull’Atletico Madrird, in Europa League, con le firme di Benatia e Floro Flores. Ancora due annate con l’Udinese che registra un quinto ed un tredicesimo posto, con una semifinale di Coppa Italia.

Guidolin allarga gli orizzonti. Nel 2016 infatti si trasferisce in Premier League per traghettare i gallesi dello Swansea alla salvezza totalizzando 27 punti in 16 partite.

Adesso il mister vuole un progetto capace di sognare e far sognare. Italia o estero? Si attendono nuove passionali avventure.

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Calciatori Marco Piccinelli

Pedro Riberio Lima: proprietario e giocatore a.. 68 anni!

di Marco PICCINELLI

Si chiama Pedro Riberio Lima (o anche Pedro da Sorda), ha 68 anni ed è il più vecchio calciatore, se non al mondo, sicuramente del Brasile e dell’America Latina.
In Italia, tuttavia, possiamo dire la nostra in merito alla longevità di giocatori: l’ultimo esempio, di cui non penso ci si stancherà mai di ricordarne le gesta, è Marco Ballotta.
Dopo aver dismesso la maglietta di portiere biancoceleste, in cui ha raggiunto il primato di portiere più anziano schierato in campo in una partita di Champions (Lazio – Real Madrid) a 44 anni e 235 giorni, ha continuato a giocare al Calcara Samoggia e al San Cesario, nella prima e seconda categoria emiliana da attaccante (!). Per non parlare del giapponese Kazuyoshi Miura che a 50 anni gioca ancora nella seconda divisione giapponese, vestendo la maglia dello Yokohama e risultando ancora decisivo per la squadra, decidendo partite e facendo conquistare preziosi punti ai suoi.

Ma torniamo a noi. Pedro Riberio Lima è giocatore e proprietario di una squadra, fondata nel 1992, che si chiama Perilima, prendendo le iniziali dei nomi del ‘nostro’ (PEdro RIberio LIMA) e che è inserita nella seconda divisione del campionato paraibano. Un po’ come se, per i lettori romani, il patron della Vigor Perconti, l’omonimo Maurizio Perconti, indossasse la maglia blaugrana e giocasse di tanto in tanto con la prima squadra, stabilmente nella Promozione laziale da ormai svariati anni.
Non intendiamo trattare, in questa sede, la complessità (e la bellezza) del campionato brasiliano, il lettore sappia semplicemente che il campionato paraibano è una competizione regionale (in realtà si dovrebbe parlare di Stati, dato che il Brasile è uno stato federale) e la seconda divisione di tale competizione equivale a classificarla come sesta serie del Paese.
Secondo Globesporte, sito brasiliano che si occupa di calcio e di altri sport a tutti i livelli, Pedro Riberio Lima ha segnato un gol a 58 anni contro il Campinense, nel campionato paraibano del 2007. «Il portiere sconfitto? – riporta Globesporte – Jaílson, l’attuale portiere del Palmeiras. Seu Pedro (come viene chiamato scherzosamente) mira dritto all’angolo a destra della porta, calcia e Jailson rimane fermo al centro della porta. Nessuno conferma, nessuno sa dire con certezza. Ma alcuni dicono che Jailson facilitò molto il gol del nostro Seu Pedro. È una di quelle notizie che nessuno conosce con certezza ma che circonda la vita di Pedro».

Sempre il sito brasiliano Globesporte, recentemente, ha riportato la vicenda della querelle che avrebbe avuto luogo fra il patron/giocatore e la federazione brasiliana di calcio: quest’ultima avrebbe affermato, in sostanza, che a 68 anni non si poteva più disputare partite, sia pure della seconda divisione di un campionato “regionale”. Tuttavia l’autrice dell’articolo ha precisato, in calce allo stesso, che si trattasse di una svista: Seu Pedro può continuare a giocare dato che la federazione brasiliana ha dichiarato come non esista alcun limite di età e che lo stesso non costituisca alcun tipo di veto.
Chissà che Seu Pedro non riesca davvero infrangere qualche altro record!

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Calciatori Fabio Belli

Dalla D brasiliana al Puskas Award: la folle storia di Wendell Lira

di Fabio Belli (tratto da www.laziochannel.it)

La cerimonia di consegna del Pallone d’Oro nasconde spesso storie nelle storie che sono anche più interessanti del riconoscimento principale. Che da otto anni ormai è cosa di Cristiano Ronaldo e Leo Messi, e per quanto si possa essere d’accordo tecnicamente, è chiaro che la suspance è quella di una cena con delitto con Freddy Krueger tra gli invitati.

Più interessante allora concentrarsi sul Pallone d’Oro femminile, un universo in espansione che solo in Italia trova resistenze culturali insormontabili. A monopolizzare l’attenzione però stavolta è stato il “Puskas Award“, il premio consegnato per il più bel gol della stagione. Nel nostro paese questo riconoscimento ha avuto un richiamo supplementare visto che era l’unico per il quale c’era un italiano il lizza: Alessandro Florenzi, per la rete siglata in Champions League contro il Barcellona. La storia più interessante è stata però quella relativa al vincitore: gli appassionati, quando hanno distrattamente ascoltato il nome di Wendell, avranno pensato: “Ah, quello del Bayer Leverkusen! Che gol avrà mai fatto?” e saranno passati avanti.

Negativo. Il Wendell autore del più bel gol della stagione era in realtà tale Wendell Lira, ventisette anni compiuti da una settimana. E gioca nella Serie D brasiliana. Esatto, è un po’ come se il premio per il gol più bello dell’anno fosse stato assegnato dalla FIFA a Gianni Fabiano del Venezia, per fare un esempio. Una mezza girata spettacolare per il carneade brasiliano, che lui stesso ha definito a metà tra una rovesciata e un colpo di kung fu.

https://www.youtube.com/watch?v=NG-d-aHadKo

La partita in cui tale prodezza è stata compiuta era Goianesia-Atletico Goianiense, al quarto livello del calcio brasiliano. Wendell Lira ci è arrivato da ex talento del Goias, squadra principale della zona, ma non è riuscito a tenere fede alle sue promesse di giovane attaccante come se ne vedono fiorire a centinaia in Brasile. Un paio di gravi infortuni l’avevano anche relegato a lavorare nella caffetteria della mamma, fino all’offerta della Goianesia, e al gol dell’11 marzo scorso nel derby contro l’Atletico che gli ha cambiato la vita.

Lui però non lo sapeva ancora, visto che nel frattempo era salito di un livello, nella C brasiliana alla Tombense di Minas Gerais, arrivando però ben presto alla rescissione del contratto. Il Puskas Award ora potrebbe rappresentare davvero la svolta definitiva di una carriera tormentata. Nella caffetteria della mamma non hanno trattenuto le lacrime, la famiglia Lira si è ritrovata catapultata ai vertici del calcio mondiale da un giorno all’altro. E Wendell potrà giocare in Serie B, visto che per lui è arrivata un’offerta del Vila Nova, club della regione di Goiania militante nel campionato cadetto brasiliano. Come in tutte le favole, tutto è bene quel che finisce bene.

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Club Fabio Belli

La Lazio sul tetto d’Europa: quando lo United si inchinò alla new wave del calcio italiano

di Fabio Belli

E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.

uid_126126ad777.580.0Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.

I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.

Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.

E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.

 

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Calciatori Enrico D'Amelio

Totò Di Natale, ovvero: dei treni da prendere e di quelli da lasciar passare

di Enrico D’Amelio

Il quartiere 219 di Pomigliano d’Arco è un luogo che opprime gli adulti e fa sognare i bambini. Padri impegnati dalla mattina alla sera a lavorare in uno dei poli industriali più famosi del Mezzogiorno, e figli che corrono dietro a un pallone nella speranza di un futuro lontano da umiliazioni e incertezze, da stenti e rassegnazione. Come per i fiori che sbocciano in primavera, però, anche il talento degli uomini, per formarsi ed emergere, ha bisogno del suo habitat naturale. Se alla Napoli di fine anni ’80 si sostituisce la tranquilla provincia toscana, un ragazzo cresciuto sotto il mito di Maradona può sbocciare ugualmente, ma probabilmente più in là nel tempo. Perché la luce del fiore che sembrava prodigio può essersi temporaneamente offuscata. In quel quartiere nasce Antonio Di Natale. Lì inizia a giocare a calcio, lì comincia la sua storia.

Notato dal talent-scout Lorenzo D’Amato alla Scuola Calcio San Nicola a Castello di Cisterna, lascia la terra d’origine nel 1990, a soli 13 anni, per trasferirsi ad Empoli. Dal gioco al professionismo, con la storia che diventa viaggio. Il treno della vita, che si dice passi una sola volta, viene preso, anche se non a cuor leggero. A 500 km da casa iniziano le nostalgie e le profonde crisi interiori, figlie della lontananza da papà Salvatore e mamma Giovanna, ma soprattutto dai quattro fratelli (il più piccolo chiamato affettuosamente ‘Masaniello’) e dalla sorella Anna. Nonostante la classe superiore a quella dei coetanei, Totò vorrebbe mollar tutto e fare ritorno a casa, per vivere una vita forse più difficile, ma certamente più normale, almeno per un adolescente. Viene convinto dal ‘fratello maggiore’ Vincenzo Montella (uno dei partenopei trasferitisi in Toscana, come Nicola Caccia e Francesco Lodi) a stringere i denti e ad andare avanti. Così succede che il viaggio prosegue, anche se con qualche sosta di rito, come tutti quelli da compiere nel nostro paese. Nessun esordio precoce in Serie A, ma due anni a fare esperienza tra la provincia di Bologna (Iperzola) e Viareggio, prima del ritorno a Empoli nel 1999, ad ormai 22 anni. Tre stagioni in Serie B, con la prima annata in doppia cifra (16 gol nel 2001/02) che coincide con la promozione nella massima serie. Il debutto nel grande calcio arriva a 25 anni. Un po’ tardi per chi poteva già essere su altri palcoscenici, ma a fare la differenza a certi livelli non sono solo i mezzi tecnici, ma quelli interiori. Una vita da atleta irreprensibile e il matrimonio con Ilenia, oltre ad una fisiologica maturazione anagrafica, consentono una conferma anche nella categoria maggiore, con 13 marcature e l’esordio nella Nazionale allenata da Giovanni Trapattoni, in un’amichevole contro la Turchia.

A 27 anni il treno riparte e porta ancor più lontano, questa volta nel luogo della maturità e della definitiva consacrazione: Udine. Nulla di più agli antipodi per uno nato nell’hinterland napoletano, ma un posto forse freddo e discreto nel modo giusto per non far implodere un fiore dal cuore troppo caldo. La prima parentesi, con Luciano Spalletti in panchina, è memorabile a livello di squadra, con la qualificazione ai preliminari di Champions League (prima volta per la società bianconera), ma meno per quel che riguarda l’impatto personale, costellato da 7 segnature in 33 presenze. Diventano 8 i gol nella stagione successiva, fino a una doppia cifra raggiunta con stabilità per tre campionati consecutivi (11, 17 e 12). I compagni di squadra cambiano, come nella politica della famiglia Pozzo, ma Totò diventa sempre più un punto di riferimento, tanto che arrivano la maglia numero 10 e la fascia di Capitano. E’ nel 2009/10, a 32 anni, quando un calciatore ha già dato il meglio del suo repertorio, che il fiore sboccia del tutto, con 29 gol in 35 presenze, e le prime attenzioni dei club più importanti del nostro calcio (Juventus e Milan su tutti) a metterne in dubbio il futuro in Friuli. Un’altra scelta da fare, a distanza di quasi 20 anni, questa volta a livello professionale: essere una Bandiera della società friulana, o giocarsi le proprie carte in un top club, con una carriera sicuramente più breve, e anche più marginale? Un attento esame interiore spinge verso la scelta meno ambiziosa, ma probabilmente più saggia, se guardata a posteriori. Il Capitano diventa il giocatore più prolifico di sempre in maglia bianconera, oltre che quello con più gettoni di presenza in tutte le competizioni. Non più Zico, dunque, protagonista di due fugaci stagioni a Udine nella metà degli anni ’80, ma Di Natale al primo posto nell’immaginario collettivo friulano, con il recente sorpasso su Roberto Baggio nella classifica dei cannonieri di tutti i tempi della Serie A.

Il viaggio parallelo, quello con la maglia azzurra, è fatto di alcune soddisfazioni, ma non perdona i troppi ritardi accumulati. Più tranquillo e a proprio agio nelle gare di qualificazione, che non nella pressione del Grande Evento. Non convocato per il Mondiale del 2006, dove invece si laurea Campione del Mondo il compagno di squadra Vincenzo Iaquinta, e protagonista di una Nazionale scarica dal trionfo precedente, con le magre figure agli Europei del 2008 e al Mondiale in Sudafrica del 2010. Il vuoto lasciato dagli addii di Totti e Del Piero non viene colmato, un po’ per un carattere non allenato ai grandissimi palcoscenici, un po’ per un movimento calcistico che ha oramai perso la generazione migliore. Nel primo biennio di Prandelli, però, passa l’ennesimo treno da prendere al volo, con l’orgoglio ferito italiano che tenta il canto del cigno agli Europei del 2012 in Ucraina. Un gol a Casillas nella prima gara del girone ai pluricampioni spagnoli dà l’illusione di un finale diverso, con un trofeo finalmente da poter conquistare. Sempre contro gli iberici, però, arriva la delusione della medaglia d’argento con un sonoro 4-0 in finale, e l’ultima presenza con la seconda maglia più amata di sempre.

L’ultima parte della storia è tutta da scrivere, e quella del viaggio ancora da percorrere. Un inizio, un tragitto, una fine. Tanta strada battuta, per ritornare, come spesso capita ad ogni ‘Eroe’, al punto di partenza. Forse proprio lì, al 219 di Pomigliano d’Arco, ad osservare altri bambini che giocano, vincono e perdono, ancora nel mito immortale di Diego. Oppure, più probabilmente, nella quiete friulana. Nella speranza che i ragazzi di quella terra abbiano acquisito un esempio da raggiungere e un idolo da emulare. Non con la maglia di Juventus, Milan o Inter, ma, finalmente, con quella dell’Udinese. Questa sarà la definitiva consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Sui treni presi al momento giusto, e su quelli che è stato saggio lasciar passare.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (seconda parte)

di Fabio Belli

La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.

La Juventus del quinquennio d'oro
La Juventus del quinquennio d’oro

Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.

La "prima" europea del Napoli
La “prima” europea del Napoli

In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.

Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934
Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934

L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.

Meazza capocannoniere d'Europa
Meazza capocannoniere d’Europa

Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.

Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.

Polemiche dopo la partita d'andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937
Polemiche dopo la partita d’andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937

La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.

La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese
La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese

Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.

La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (prima parte)

di Fabio Belli

Il calcio europeo ha vissuto uno sviluppo di ampio respiro una volta placatisi definitivamente i venti di guerra. L’UEFA nasce nel 1954 per iniziativa italo-belga-francese e, a cent’anni dai primi passi mossi in Inghilterra, rende realtà i sogni di tutti i pionieri del football del novecento: creare competizioni che rappresentino un metro di misura tra i club a livello internazionale. Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa UEFA animeranno i sogni di decine di milioni di sportivi continentali per decenni, fino alle attuali trasformazioni in Champions League ed Europa League.

La Coppa dell'Europa Centrale
La Coppa dell’Europa Centrale

Quando però negli anni ’30 un nuovo ordine mondiale sembrava andare prefigurandosi, poi sconvolto dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale diretta conseguenza dell’ascesa del nazifascismo, si era lavorato per mettere a confronto realtà di club di paesi diversi: la Coppa della Mittel-Europa, proprio lei, la Mitropa Cup, è stata la prima vera competizione europea per club. All’epoca era più facile vederla chiamata sui giornali col suo nome di “Coppa dell’Europa Centrale”, che col senno di poi le dava il sapore di una Champions League d’antan.

Troppo instabile la penisola iberica, troppo disorganizzate (nel football) Francia e Germania, troppo altera l’Inghilterra: il resto d’Europa si sentiva però pronta al confronto, e non bisogna credere che fosse una discriminante negative. All’epoca le squadre di club austriache e ceke avevano ben altra forza rispetto alle realtà emergenti nei paesi attualmente leader del calcio mondiale. Chi trionfava nella Mitropa poteva ben dirsi Campione d’Europa: di una sola parte di essa, certo, ma quella che più contava, all’epoca, a livello di club, ovviamente escluse le leggende inglesi.

L’evoluzione del torneo va di pari passo con quello che poteva essere e non è stato, all’epoca, del Vecchio Continente. Inizio in sordina dal 1927 al 1933 con un torneo, per quanto prestigioso, ad 8 squadre, poi il boom con le 5 edizioni a 16 e 20 squadre che possono essere considerate la versione embrionale di quella che vent’anni dopo sarà la Coppa dei Campioni. Poi l’improvviso declino, con la finale del 1939 mai disputata a causa dell’invasione della Polonia: in Europa non sarà tempo di pallone per un bel po’.

Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa
Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa

L’Italia è assente dalle prime due edizioni vinte da Sparta Praga e Ferencvaros: ceki e ungheresi hanno la meglio in entrambe le occasioni in finale sul Rapid Vienna. La riforma dei campionati vede l’Italia presentare, in attesa del girone unico, due rappresentanti uscite da un girone di spareggi nel 1929. Sono Genoa e Juventus le prime squadre a misurarsi in campo europeo a livello di club: entrambe escono subito ai quarti di finale, con gli ungheresi dell’Ujpest che alzeranno il trofeo ai danni dello Slavia Praga.

Nel 1930, di nuovo fuori ai quarti il Genoa, è l’Inter la prima squadra a passare un turno in Europa. Per domare i campioni uscenti dell’Ujpest serviranno 4 partite. Vittoria 4-2 a Milano, sconfitta con lo stesso pareggio in Ungheria, poi spareggio in parità (1-1) e alla fine vittoria di quella che nel frattempo è già diventata Ambrosiana. In semifinale sarà lo Sparta Praga ad estromettere i nerazzurri, ma a conquistare la Coppa, dopo due finali perse, sarà il Rapid Vienna.

Resoconto d'epoca della sfida tra Roma e First Vienna
Resoconto d’epoca della sfida tra Roma e First Vienna

L’anno successivo farà registrare la migliore performance della Roma, semifinalista battuta dai futuri campioni del First Vienna dopo aver piegato lo Slavia Praga nei quarti, fatali invece alla Juventus che non riuscirà nemmeno nel 1932 ad arrivare in finale. I bianconeri saranno però diretti responsabili del primo trionfo europeo italiano, quello del Bologna. I bianconeri infatti termineranno in una rissa furibonda la semifinale contro lo Slavia Praga: entrambe le squadre saranno squalificate e i felsinei, vincenti sul First Vienna, saranno proclamati campioni d’ufficio.

L'Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l'Inter
L’Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l’Inter

Nonostante la vittoria del Bologna, dunque la prima squadra italiana a giocare la finale della competizione sarà l’Inter nel 1933: Juventus ancora fuori in semifinale, sarà l’Austria Vienna a vedersela con l’Ambrosiana. A Milano il 3 settembre del 1933 un micidiale uno-due di Levratto e Meazza permette ai nerazzurri di prendere il largo, ma un gol di Viertl nel finale suona come un sinistro presagio. Cinque giorni dopo una tripletta della leggenda del calcio austriaco, Matthias Sindelar, manda in delirio i 58.000 del Prater di Vienna, e nega all’Inter la possibilità di alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale.

(continua…)

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Calciatori Marco Piccinelli

Re Giorgio Corona e gli altri decani del calcio professionistico

di Marco Piccinelli

(tratto dalla Gazzetta del Lazio di venerdì 6 febbraio 2015)

In Lega Pro, nel girone della Lupa Roma, sono presenti i giallorossi del Messina, annaspando tra playout e salvezza.
La stagione non è certo facile e il girone unico non aiuta le squadre che si sono lasciate da poco alle spalle l’ultimo scoglio del dilettantismo italiano: la Lupa Roma, dopo un avvio costellato di vittorie e pareggi contro squadre ben più blasonate, si trova ora a metà della classifica seguita a un poco confortante +2 dal Messina.
Perché dovrebbe interessare una squadra siciliana al lettore di un periodico che è rintracciabile nelle edicole di Roma e del Lazio e che, non a caso, si chiama ‘La Gazzetta del Lazio’?
Perché in realtà parlare del Messina è un pretesto per scrivere di uno dei simboli della rinascita della squadra, dopo essere piombata dalla massima serie alla Serie D: si tratta di Giorgio Corona.
Attaccante, soprannominato ‘Re Giorgio’, non si è fatto molto benvolere – a dirla tutta – dal pubblico romano: nella sua lunga carriera, ancora in corso, ha vestito la maglia della Juve Stabia e il gol del 2 a 0 contro l’Atletico Roma – precisamente all’88’ – ha bruciato per non poco tempo sulla pelle dei tifosi capitolini, sebbene di lì a poco la compagine bianco blu sarebbe fallita e avrebbe cessato di esistere.
Tuttavia, Giorgio Corona ha una notevole carriera alle spalle, anche se qualcuno potrebbe obiettare che non ha mai vestito la maglia della Nazionale, né si è mai distinto per un così alto numero di reti in serie A (solo sette e con la maglia del Catania).

E’ vero: non ha mai alzato Coppe del Mondo né analoghi trofei per club ma i suoi gol sono più importanti sono quelli segnati negli ultimi anni con la maglia del Messina e, dunque, non in Serie A.
Dopo essere tornato al Taranto, concluso il periodo di prestito alla Juve Stabia, decide di rescindere il contratto coi pugliesi e di andare a giocare nella squadra peloritana.
 Corona torna a militare nel Messina nel periodo peggiore e dopo dodici anni che non indossava quella divisa: i giallorossi sono stati appena scaraventati in Serie D con quattro punti di penalizzazione, ma a ‘Re Giorgio’ non importa molto e, anzi, si carica la squadra sulle spalle traghettandola fino ai playoff.
 Nella stagione 2011/2012 il Messina verrà fermato alle fasi eliminatorie dei playoff e alla squadra siciliana sarebbe successivamente toccata un’altra stagione in serie D, così come stava analogamente succedendo al Venezia, fermata dal 3 a 2 contro il Sandonà Jesolo nella seconda stagione in D nel girone C degli arancioneroverdi. 
L’attaccante, nella stagione di ritorno al Messina e alla serie D, disputerà 34 presenze e collezionando 16 centri.

L’anno dopo sarà quello dello scontro con ‘l’altro Messina’ (il ‘Città di Messina’) tra le cui fila militava anche quel Saraniti che ora veste la casacca della Viterbese Castrense: nella stagione 2012/2013 le presenze saranno 33 e i gol 17. L’anno è quello buono e il Messina compie il grande balzo approdando, nuovamente, al professionismo. Facilmente si sarebbe potuto pensare come le strade di Re Giorgio e quelle del Messina fossero destinate a separarsi. Neanche per sogno: a 39 anni gioca per altre 34 partite e mette a segno 11 gol.
Finita? Nient’affatto: nella stagione attuale, a quarant’anni, l’attaccante palermitano ha fatto gol per 7 volte in venti presenze. E il campionato non è ancora terminato.

Questa storia può, senza dubbio, far tornare alla mente qualche altro calciatore che ha appeso gli scarpini al chiodo solo una volta arrivato agli ‘–anta’: Hubner, Vierchowod, Zoff, Oliveira sono solo alcuni esempi.
Dino Zoff, arrivato ai quarant’anni, indossava ancora la maglia della Nazionale mentre Vierchowod contribuiva alle due salvezze del Piacenza tra il 1997 e il 1999; dall’altra parte Hubner, dopo aver militato in Brescia e Piacenza, torna in C1 nel Mantova di Poggi per poi concludere la carriera a 44 anni a Cavenago d’Adda (Prima Categoria bresciana).
C’è, poi, Luis Airton Barroso Oliveira, il brasiliano naturalizzato belga che, dopo aver vestito le maglie di Cagliari e Fiorentina in Serie A, gioca con il Foggia, con il Catania e infine con Venezia e Lucchese.
Lulù, così come lo chiamavano i tifosi della Fiorentina, torna per due anni in Sardegna con la neo promossa Nuorese e finisce la carriera vestendo i colori del Muravera di cui, ora, è allenatore.

Un percorso analogo, infine, l’ha intrapreso Marco Ballotta, il quale è volutamente posto alla fine di questo scritto, perché la sua carriera, a poco più di cinquant’anni, è ancora ‘in fieri’ e fa da contraltare a quella di ‘Re Giorgio’: dopo aver abbandonato la Lazio nel 2008 (43 anni, età in cui stabilisce il primato di calciatore più anziano ad aver mai disputato una partita di Champions League) disputerà un intero campionato come centravanti al Calcara Samoggia centrando 24 reti in 37 presenze. Ma non è tutto, anzi, è solo l’inizio: dopo aver rescisso il contratto con i biancocelesti è iniziata, se è consentito a chi scrive, la seconda vita di Ballotta in cui non c’è soltanto la difesa dei pali della propria squadra, ma anche la messa a segno di gol, posizionandosi in ruoli che lo vedono nella trequarti di campo.
Nel 2011, dopo due stagioni con il Calcara Samoggia, approda al San Cesario, dividendosi fra porta e attacco, così come tornerà a fare tra 2012 e 2014 – nuovamente – al Calcara. Sembra finita e Ballotta decide di assumersi l’incarico da dirigente del settore giovanile della neopromossa Castelvetro (Eccellenza Emiliana) ma vuole tornare fra i pali e ora è il primo portiere, a cinquant’anni e dieci mesi, della compagine modenese.