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Calciatori Fabio Belli

Parigi 1998, Ronaldo vs Nesta: quando eravamo Re

di Fabio BELLI

“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.

Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.

RonaldoNesta1A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.

Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.

Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.

La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.

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Club Fabio Belli

Lazio, da una pallonata in testa nacque il mito della Rondinella

Per i 120 anni della Lazio, riproponiamo un’inchiesta dedicata al calcio dei pionieri. Terzo capitolo dedicato al campo che ha segnato i primi storici passi del club e del calcio romano in generale.

di Fabio BELLI

In casa Lazio il mito del campo della Rondinella nacque per… una pallonata. Per la precisione scagliata sulla testadella signora Annaratone, allora moglie del prefetto di Roma che in una giornata del 1912, vicina all’inizio del primo campionato di Prima Categoria, stazionava dalle parti del Parco dei Daini dove i biancocelesti si stavano allenando. Botta poderosa, scagliata da Saraceni, che mandò addirittura la fragile signora in ospedale priva di sensi. In tempi di poca comprensione per chi praticava il football, lo sfratto da parte del Comune arrivò per la Lazio in maniera fulminea e Saraceni e compagni si ritrovarono senza campo proprio alla vigilia dell’esordio del torneo federale più importante, dopo quasi sei anni di partite al Parco dei Daini.

Fu il presidente Fortunato Ballerini a doversi prodigare per trovare di nuovo una soluzione ai guai combinati dai suoi ragazzi scapestrati: arrivò la concessione per alcuni terreni nel quartiere Flaminio e lì nacque il mito della Rondinella. In anni in cui è partita la corsa forsennata agli stadi di proprietà fa specie pensare come, all’inizio del ventesimo secolo, tutte le formazioni romane che partecipavano ad un campionato di Prima Divisione avessero un quartier generale che ne alimentava storia e senso di appartenenza. La Lazio non fece eccezione nel rendere la Rondinella la sua casa: i lavori per costruire il campo nella sua fisionomia finale vennero garantiti dagli investimenti di un socio biancoceleste che aveva fatto fortuna in Sudamerica, per la precisione in Uruguay: Goffredo Magistrelli. Nel frattempo la Lazio già si allenava nella sua nuova casa, giocando però le partite ufficiali al campo della Farnesina, futuro quartier generale della Juventus Romana. Arrivarono però per Roma e i romani le angustie del primo conflitto mondiale: il campo della Rondinella venne trasformato in orto di guerra, un gesto che varrà alla Lazio, combinato all’eroismo dei soci e dei giocatori partiti per il fronte, la proclamazione ad Ente Morale.

La Rondinella tornò ad ospitare calcio dalla ripresa dell’attività, nel 1919, e lo fece in grande stile: Olindo Bitetti aveva supervisionato dei lavori che portarono l’impianto a sfoggiare una lussuosissima, per i tempi, tribuna con poltroncine in vimini e un parterre capace di ospitare fino a 10.000 tifosi. Per i laziali era consuetudine salire sul tram numero 15, il “tram sportivo” come era chiamato all’epoca, a piazza del Popolo e farsi condurre fino alla Rondinella. Il terreno sorgeva nella zona che oggi si trova tra lo stadio Flaminio e il Palasport di viale Tiziano. Divenne ben presto uno dei campi più eleganti e ambiti di tutta Italia: la progettata fusione nell’AS Roma, che doveva riguardare inizialmente anche la Lazio, vedeva come fondamentale l’acquisizione della Rondinella per le sfide della neonata società. I giallorossi ripiegarono sul Motovelodromo Appio prima della costruzione di campo Testaccio: le prime partite della Serie A a girone unico nel 1929 vennero disputate da entrambe le formazioni capitoline alla Rondinella, con la Lazio che ospitò i cugini prima che la loro nuova casa venisse ultimata.

Esistono filmati dell’Istituto Luce (molto interessante in particolare una sfida tra Lazio e Napoli) che rendono bene l’idea dell’ambiente che si respirava nel fortino della Rondinella. Calcio di altri tempi ma incredibilmente affascinante. Anche nel secondo dopoguerra la Lazio continuò ad utilizzare la Rondinella per l’attività delle giovanili, fino allo spaventoso incendio del 1957 che rese l’impianto praticamente inservibile. La Lazio giocava ormai da tempo allo stadio Nazionale, poi divenuto Torino e quindi Flaminio, poi avvenne il trasferimento all’Olimpico e, con le Olimpiadi del ’60, quel che restava della Rondinella fu spazzato via. La memoria del primo, vero e unico nido delle Aquile non è andata persa: sarebbe un sogno vedere un giorno, in qualche modo, questo patrimonio della storia dello sport cittadino riportato in vita.

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Club Fabio Belli

La Capitale del Calcio: se la Roma del football fosse come Londra

Per i 120 anni della Lazio, riproponiamo un’inchiesta dedicata al calcio dei pionieri. Da quando, dal 9 gennaio 1900 la Lazio mosse i primi passi nel mondo del football e si aggiunsero gli altri club che, prima della fusione, formavano al completo le anime della Capitale del Calcio.

Se Roma fosse come la Londra del Football: quali erano (e quali sarebbero) le squadre che rappresentano le diverse zone della città. Prima della fusione nell’AS Roma, i club che contendevano alla Lazio il primato nei campionati del centro sud, dal periodo antecedente alla Prima Guerra Mondiale fino al 1927. Lazio e Roman squadre della “Roma bene” tra Prati e Parioli, la Fortitudo dalle forti radici cattoliche, nata per donazione di Pio X. L’Alba “popolare” del quartiere Flaminio, la Juventus nata per emulare i bianconeri di Torino e l’Audace del “teatro dei sogni” degli anni ‘20, il Velodromo Appio. La mappa completa.  

di Fabio BELLI

SS Lazio

Da una panchina di piazza della Libertà al campo della “Rondinella”

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I risultati parlano di quattro secondi posti ottenuti nei tempi antecedenti al girone unico e al dualismo con la Roma per i biancocelesti. Nel periodo antecedente alla Prima Guerra Mondiale, la formazione biancoceleste era la regina incontrastata del centro-sud. Nel 1913 e nel 1914 al titolo di Campione dell’Italia Meridionale, fecero seguito le sconfitte nelle finali scudetto contro Pro Vercelli e Casale. Troppo grande il divario con le grandi del nord, così come enorme era la differenza nelle sfide nella Capitale. Il secondo posto del 1915 arriva senza poter disputare la finale per il titolo del centro-sud con l’Internapoli a causa della guerra: lo scudetto verrà assegnato d’ufficio al Genoa. Grifoni che conquistano il loro ottavo scudetto nel 1923 proprio in finale contro la Lazio. Nel bilancio dei derby capitolini di Prima Categoria e poi Prima Divisione, la Lazio è in largo vantaggio su tutte le altre compagini, fatta eccezione per l’Alba, il primo club che riuscì a sfruttare al 100% il coinvolgimento popolare che il football stava spandendo nel primo dopoguerra, adattandosi nel contempo alla perfezione all’esplosione del professionismo. Questo il bilancio completo dei derby tra la Lazio e le altre sette formazioni capitoline di massima serie, dal 1912 al 1926.  [table id=9 /]

ALBA

Due finali scudetto per l’anima popolare di Roma, dal quartiere Flaminio all’Aurelio

ss-alba-roma_fE’ il 1907 quando nell’osteria di Umberto Farneti, nel cuore del quartiere Flaminio, si affollano i clienti per brindare a vino dei Castelli Romani: è nata l’Alba, che da piazzale Flaminio fino a Trastevere vuole regalare una grande squadra di football alla gente, per emulare Lazio e Virtus che si sfidano nei derby fin dal 1904. E proprio alle spalle del Lungotevere Flaminio, dove ora c’è il Maxxi e non molto lontano dall’Auditorium, c’era il campo di piazza Melozzo da Forlì dove le casacche bianche con banda orizzontale verde dell’Alba davano battaglia. E’ solo nel primo dopoguerra però che l’Alba riesce a raggiungere significativi risultati nel girone capitolino di Prima Divisione. Per ben tre volte consecutive tra il 1924 e il 1926 raggiunge la finalissima per il titolo di campione del Centro-Sud. Perde nel 1924 contro il Savoia, l’anno successivo batte l’Anconitana e si gioca lo scudetto contro il Bologna. I felsinei vincono 4-0 allo “Sterlino” e passano 2-0 a Roma, aggiudicandosi il primo titolo della loro storia. Il bis nel 1926: l’Alba è campione centro-meridionale battendo l’Internaples, ma subisce nel doppio confronto con la Juventus per lo scudetto un bruciante 1-12. Le due finali tricolori si giocano allo Stadio Nazionale: nel frattempo l’Alba, dopo la fusione con l’Audace, si sposta al Motovelodromo Appio, e come Alba Audace partecipa al campionato di Divisione Nazionale 1926/27. Al momento della fusione nell’AS Roma, rappresenta con la Fortitudo l’anima popolare del club. Quella più aristocratica, saltata l’inclusione della Lazio nell’operazione, viene incarnata dal Roman, che offre al nuovo club un’organizzazione dirigenziale d’avanguardia. L’Alba offre invece alla nuova Roma un parco giocatori di assoluto rispetto, come Bianchi, Degni, Mattei, Fasanelli, Ziroli, Luduena e il portiere Ballante.

FORTITUDO

Radici cattoliche e lo scudetto conteso al Bologna: un omaggio alla Roma dei Papi

Schermata 04-2457507 alle 17.56.17Sarebbe stata la squadra vicina alla comunità cattolica capitolina, dunque con una base dall’enorme forza. Nata nel rione Borgo, a due passi da San Pietro e grazie ad una donazione di Papa Pio X, la Fortitudo assieme all’Alba rappresentava l’anima popolare del calcio a Roma, così come Lazio e Roman erano esponenti dei ceti più alti. Sanguigna e “trasteverina” l’Alba, popolare e cattolica, apostolica e romana la Fortitudo, che giocava nel campo Aurelio – Madonna del Riposo, sempre sotto gestione sacerdotale. Esordisce in Seconda Divisione nei campionati FIGC, poi due quarti posti nel girone romano prima del conflitto mondiale. Dopo la guerra il boom: nel 1920 la finale di Lega Sud persa 3-2 contro il Livorno, poi nel 1922 il titolo di Campione dell’Italia Centro-Meridionale: 2-0 alla Puteolana con gol di Bramante e autorete di Lo Bianco. E’ storia, anche se la finale scudetto come da pronostico se la aggiudica la Pro Vercelli con un 8-2 complessivo tra andata e ritorno. Nel 1926 assorbe la Pro Roma, e si guadagna l’accesso alla Divisione Nazionale 1926/27, ultima classificata con soli 5 punti in 18 partite in un girone con Torino, Bologna e Milan. Poi la fusione nell’AS Roma con la figura del presidente fortitudino Italo Foschi assolutamente preponderante, e tanti giocatori rossoblu (colori sociali in omaggio alla Roma dei Papi) in giallorosso come Attilio Ferraris, Giuseppe Rapetti, Giovanni Corbjons, Mario De Micheli, Enrico Cappa, Corrado Scocco e Carlo Zamporlini.

JUVENTUS ROMA

Gli emuli dei bianconeri di Torino, di base al campo della Farnesina per tanti derby storici

A dirlo oggi sembra strano, ma c’era una Juventus anche a Roma, nata per diretta emulazione dei bianconeri di Torino. La Juventus Romana è uno dei primi club capitolini attivi nel football dopo la Lazio, e con i biancocelesti condivide l’utilizzo pionieristico del campo di Piazza d’Armi. Raccoglieva i suoi tifosi nell’attuale zona alle spalle della Stazione Termini, fra i rioni Monti e Testaccio. Fece parte del gruppo che diede vita al girone romano del campionato di Prima Categoria, dopo essersi rinforzata dalla diaspora dell’ex Virtus, che fornì alla Juventus molti giocatori. Proprio nel campionato 1912/13 arrivò un secondo posto nel girone alle spalle della Lazio, miglior risultato nella massima serie della Juventus Romana. Nel periodo post Prima Guerra Mondiale, arriva la fusione con un piccolo club, l’Audax: ne deriva il cambio di denominazione in Juventus Audax e lo spostamento al Campo della Farnesina, con la zona dell’attuale Foro Italico-Corso Francia che diventa la base del tifo bianconero romano. Nei campionati del ’21 e del ’22 arrivano due terzi posti nel girone capitolino, poi la retrocessione in Seconda Divisione che fa da preludio alla fusione con la Fortitudo nel 1924. Il fiore all’occhiello resta la vittoria nel torneo romano di guerra dell’aprile 1919, con sei delle otto rivali storiche capitoline del massimo campionato (mancavano all’appello Alba e Roman). La Juventus Romana trionfò piegando nella finalissima la Fortitudo.

ROMAN

Gli aristocratici, i primi del centrosud a sfoggiare uno stadio di calcio: il “Due Pini” proprietà: il “Due Pini”

Schermata 04-2457507 alle 18.19.40Il primo club a potersi fregiare di uno stadio di proprietà a Roma: il Roman era l’espressione dell’aristocrazia capitolina, e scendeva in campo allo stadio “Due Pini”, situato dove sorge l’attuale Tennis Club Parioli. Giocò ininterrottamente nel campionato di Prima Divisione dal 1912 al 1923. Resta storico il campionato 1914/15: nel girone laziale ottenne il primo posto sopravanzando la Lazio. Nella seconda fase del torneo centro/sud furono però i biancocelesti ad ottenere l’accesso alla finale contro l’Internazionale di Napoli, mai disputata per la sospensione bellica. Dopo la Prima Guerra Mondiale, la struttura dirigenziale del club si rinforzò con l’ingresso di facoltosi membri della Comunità Ebraica. Dopo due stagioni in Seconda Divisione, arriva la promozione, ma nel 1926 il Roman mancò l’accesso alla Divisione Nazionale, antesignana dell’attuale Serie A. Al momento della fusione nell’AS Roma, il Roman fornì un contributo più di natura amministrativa che sportiva. I giocatori migliori infatti erano quelli impegnati nella Divisione Nazionale con Alba e Fortitudo. Il Roman vantava però una robusta organizzazione societaria, dirigenti ricchi e capaci tra i quali spiccava Renato Sacerdoti, detto “il banchiere di Testaccio”, passato alla storia come uno dei presidenti più importanti della storia dell’AS Roma. Particolare di grande rilevanza storica, è stato il Roman a fornire alla Roma i colori sociali. Nonostante la costruzione di una tribuna per gli spettatori, una autentica novità per l’epoca, non fu il “Due Pini” il primo stadio della Roma, bensì il Motovelodromo Appio, ereditato dall’Audace, incorporata dall’Alba proprio in previsione dell’utilizzo del campo.

US ROMANA

Piccoli e popolari, ospitarono al “Degli Olmi” le storiche capitoline della Prima Divisione

Schermata 04-2457507 alle 18.19.48La “piccola” della compagnia, con maglia a strisce biancoverdi e l’orgoglio di non essere mai retrocessa nei cinque campionati di massima divisione disputati dopo la Prima Guerra Mondiale, tra il 1919 e il 1924. L’US Romana aveva il suo quartier generale presso il Campo dell’Olmo, nei pressi dell’attuale Piazza Maresciallo Giardino. Una squadra di cui non si conosce moltissimo in termini storici anche perché nacque in un contesto calcistico capitolino ormai fuori dall’epoca pionieristica, con Lazio, Fortitudo, Roman e Audace (e l’aumento enorme di popolarità nel periodo post-bellico dell’Alba) che già catalizzavano le attenzioni degli appassionati di football. Eppure soprattutto nei primissimi anni venti, l’US Romana riuscì a farsi valere in molti infuocati derby del girone romano di Prima Divisione. Spicca il quarto posto del campionato 1922/23, al quale però fece seguito la peggiore stagione in termini di risultati per i biancoverdi. Al momento dell’esplosione del primo conflitto mondiale, l’US Romana raccolse l’eredità dello storico club della Società Ginnastica Roma, diventandone di fatto il proseguimento della sezione calcistica. Nel 1924 arrivò la fusione con la Pro Roma e il trasferimento al Campo Flaminio, dove l’US Pro Roma disputò due campionati prima della successiva, ulteriore fusione con la Fortitudo.

PRO ROMA

Quelli della Piramide, con le leggendarie sfide con la Fortitudo tra don Toncker e fra’ Ciprari

Schermata 04-2457507 alle 18.04.08L’esordio della Pro Roma nel calcio romano è datato 1911: sconfitta 0-7 in un derby contro la Lazio. Il club nasce dall’Ardor, che cessò la sua attività passando il testimone a una società che nasce come presidio di un’altra popolosa e storica zona romana, quella della via Ostiense e della Piramide Cestia. E proprio al campo Piramide le maglie bianche con i risvolti rosso e neri della Pro Roma fanno il loro esordio nella Prima Categoria. I risultati però scarseggiano, e dopo il quarto posto del 1921, miglior risultato nella massima serie, arriva la retrocessione. Il ritorno in Prima Divisione (dopo la fusione con l’US Romana) è solo il preludio alla fusione con la Fortitudo, che come Fortitudo Pro Roma partecipa al campionato di Divisione Nazionale 1926/27, con pochissimi risultati positivi, ma anche una vittoria storica contro il Torino, poi Campione d’Italia. Tra le fila dei proromani giocò per diversi anni Silvio Sensi, padre del presidente del terzo scudetto giallorosso Franco Sensi e architetto di Campo Testaccio. Come la Fortitudo anche la Pro Roma aveva una forte matrice cattolica, e nei match tra le due squadre si scontravano in panchina due sacerdoti: don Toncker nella Pro Roma e frate Ciprari nella Fortitudo. E come il campo della Madonna del Riposo della Fortitudo, il campo della Piramide non aveva tribune né spogliatoi. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il club si spostò dalla Piramide al Campo Flaminio messo a punto da don Toncker in persona, anche se la base del seguito proromano restò sempre sulla via Ostiense fino alla fusione con la Fortitudo.

AUDACE

Eroi di periferia, titolari del “Teatro dei Sogni” degli anni ‘20 a Roma, il Motovelodromo Appio

Schermata 04-2457507 alle 18.12.24Il calcio romano agli inizi del ventesimo secolo si sviluppava soprattutto nei rioni del centro. Se c’è un club che può essere indicato come portabandiera delle periferie, è senza dubbio l’Audace che, pur nascendo in Corso Umberto Primo come società podistica (per poi diventare Audace – Esperia assorbendo il suddetto club nel 1912), negli anni ruggenti del calcio capitolino gioca i suoi match al Motovelodromo Appio, dove non si poteva arrivare se non dopo una camminata di quattro chilometri, una volta scesi con il tram al capolinea di Porta San Giovanni. Club di culto anche se non tecnicamente all’altezza dei migliori, la sua maglia biancorossa a scacchi è altrettanto mitizzata: ne esiste anche una riproduzione per il Subbuteo (vedi foto). Dopo la prima guerra mondiale, nel girone romano della rinnovata Prima Divisione arrivò un sorprendente secondo posto alle spalle della Fortitudo, che portò l’Audace alle “final-six” per il titolo di campione del centro-sud. Nel successivo girone a tre la spuntò il Livorno, ma resta questa la migliore stagione calcistica dei biancorossi a scacchi. Dal 1922 al 1924 in Seconda Divisione, arrivarono poi due quarti posti in Prima Divisione prima della fusione con l’Alba. La polisportiva Audace è ancora attiva a Roma, ha festeggiato quest’anno i 114 anni di età ed è principalmente attiva nella boxe e nelle arti marziali.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Rocchi e Siviglia: dai 9 acquisti in un giorno, sulle orme di Simone Inzaghi

di Jean Philippe ZITO

Io ho sempre rispettato le promesse fatte. Ho comprato buoni giocatori del mercato nazionale e internazionale. Ho affiancato gente esperta a giovani, credo sia la combinazione giusta”. Il 31 Agosto del 2004 è l’ultimo giorno del primo calciomercato di Claudio Lotito come Presidente della Lazio. Il neo patron deve lavorare giorno e notte per risanare una situazione economica disastrosa ereditata dalle precedenti gestioni. Durante le ultime 24 ore di contrattazioni arrivano a Formello ben 9 giocatori: Tommaso Rocchi, Sebastiano Siviglia, Antony Seric, Emanuele e Antonio Filippini, Leonardo Talamonti, Esteban Rojas Gonzalez, Miguel Mea Vitali e Braian Robert.

La rifondazione della più antica squadra della Capitale inizia, per forza di cose, con un drastico ridimensionamento sia sul badget stanziato per gli acquisti, sia sui compensi ai singoli calciatori. La media degli stipendi si deve attestare a circa 500.000 euro. Giocatori come Tommaso Rocchi, reduce da un ottimo campionato con l’Empoli (11 gol realizzati fra questi una roboante tripletta alla Juventus) e Sebastiano Siviglia, trentunenne difensore centrale prelevato in prestito gratuito dal Parma, si devono accontentare di stipendi da 300.000 euro, per l’attaccante veneziano, e di 600.000 euro (il 40% pagato dai ducali) per il tignoso difensore calabrese.

Con la Lazio compio il mio definitivo salto di qualità. Sono contento perché questa società ha dimostrato di volermi più di tutte le altre. Nonostante le ultime vicissitudini, Roma resta sempre una piazza importante e giocare in Europa mi darà nuovi stimoli”. Tommaso Rocchi è entusiasta della nuova avventura, che lo vede competere in attacco con Roberto Muzzi, Goran Pandev, Simone Inzaghi e il figliol prodigo Paolo Di Canio. Rocchi è stato acquistato dall’Empoli per 1,3 milioni di euro in comproprietà, si mette a disposizione del tecnico Mimmo Caso (promosso dalla Primavera alla prima squadra).

Come già detto, Sebastiano Siviglia arriva dal Parma con la formula del prestito gratuito.

È reduce da un ottimo campionato al Lecce (in prestito), dove ha giocato titolare 31 partite su 34. Alla Lazio ha l’arduo compito di non far rimpiangere un veterano come Sinisa Mihajlovic accasatosi a parametro zero all’Inter. Anche Beppe Favalli, il giocatore con più presenze nella ultracentenaria storia del club romano, si trasferisce alla Pinetina. Jaap Stam invece va al Milan (per soli 10 milioni…); Stefano Fiore e Bernardo Corradi al Valencia (come risarcimento per le rate non pagate di Mendieta), Claudio Lopez in Messico all’America; Demetrio Albertini all’Atalanta e “Ciccio” Colonnese al Siena.

Dei “9 in un giorno” fanno parte anche i gemelli Filippini, Antonio ed Emanuele. Il primo esterno, il secondo interno di centrocampo. Prestito secco dal Palermo, 450.000 euro di ingaggio a testa. Antony Seric, terzino sinistro, arriva dall’Hellas Verona, stipendio pagato per metà dal club di appartenenza (350.000 euro). Dal Sudamerica arrivano 4 giocatori: Dal Gimnasia La Plata Esteban Rojas Gonzalez e Braian Robert. Entrambi in prestito, il primo nelle intenzioni è il vice Liverani a centrocampo, il secondo è un fantasista ventenne ed è stato acquistato a titolo definitivo (a zero euro…), biennale da 100.000 euro al giocatore.

Dal Rosario Central viene ingaggiato un altro centrale di difesa: Josè Leonardo Talamonti (200.000 euro l’ingaggio), passaporto da comunitario. Infine, l’ultimo dei 9 è Miguel Angel Mea Vitali. 23 anni, capitano della Nazionale venezuelana in forza al Caracas, che ha firmato un triennale da 150.000 euro a stagione.

Nella turbolenta estate dell’anno zero della gestione Lotito, il 1° Settembre la rosa dei biancocelesti deve competere per una salvezza tranquilla: la sfida più ardua per la società, da vincere a tutti i costi, è tra i faldoni dei tribunali e i conti dei commercialisti. Ai “9 in un giorno”, per onore della cronaca, si aggiunge un decimo acquisto: Matias Lequi, roccioso difensore centrale reduce da una stupefacente annata all’Atletico di Madrid, che arriva a Formello a mercato già chiuso perché svincolatosi dal club madridista.

La stagione 2004/05 si conclude con il 13° posto in classifica, uno storico derby vinto dopo più di quattro anni e con molti di quei 9 giocatori via dalla Lazio. Brian Robert viene ceduto a gennaio del 2005 in prestito al Catanzaro, per poi tornare in Argentina a fine anno (carriera mediocre: smette di giocare a calcio a 27 anni), con lui anche Esteban Gonzales (solamente 3 presenze con la Lazio). I gemelli Filippini, a dispetto di un buon campionato, sia per numero di presenze che per prestazioni sempre convincenti soprattutto dal punto di vista dell’impegno, non vengono riscattati e passano al Treviso. Mea Vitali torna mestamente in Venezuela dopo zero presenze in maglia biancoceleste e Josè Leonardo Talamonti torna in Argentina, acquistato dal River Plate. Antony Seric viene venduto al Panathinaikos, mentre il cartellino di Mathias Lequi è stato comprato dal Celta di Vigo per 750.000 euro.

Per Siviglia e Rocchi invece arrivano le conferme. Restano a Roma, hanno conquistato la fiducia del club e dello staff tecnico. Il difensore calabrese chiude addirittura la carriera con la Lazio nel 2010, dopo 6 stagioni con l’aquila sul petto. Mentre l’attaccante veneziano, dopo 8 anni e mezzo di militanza, fa delle brevi esperienze con Inter, Padova e in Ungheria con l’Haladás e il Tatabánya. Entrambi però si sono legati indissolubilmente con l’ambiente laziale, tutti e due hanno scelto di proseguire nel mondo del Calcio come allenatori.

Io ero felice della mia scelta, sapevo che non era una situazione semplice ma ero pronto e disponibile. La società si è accorta del mio impegno, tanto che l’anno dopo sono stato riconfermato. Ero arrivato in prestito, come tanti. Non pensavo ai problemi, pensavo a risolverli, questo atteggiamento mi ha permesso di vivere sei anni così importanti. I momenti, i ricordi più belli, sono legati alle vittorie. Quelle nel derby, e tra queste prendo il 3 a 0 del Dicembre 2006 con le reti di Ledesma, Oddo e Mutarelli. Poi la Coppa Italia del 2009 contro la Samp, primo trofeo della gestione Lotito, e qualche mese dopo la Supercoppa di Pechino. Un’impresa, contro l’Inter che quell’anno avrebbe poi centrato il triplete. Anche se mi dispiace lasciare fuori il primo giorno che misi piede a Formello, fu un’emozione indescrivibile”.

Sebastiano Siviglia ricorda con amore il suo percorso da calciatore alla Lazio. Da allenatore inizia a praticare questo nuovo mestiere con medesima passione al Monterotondo nel 2011, per poi passare al Potenza (2011/12). Allena la Primavera della Nocerina nel 2012/13, e torna poi alla Lazio come mister dei Giovanissimi Regionali prima (2013/14), e Giovanissimi Nazionali dopo (2014/15). Alla Ternana allena sia la Primavera che la prima squadra nel 2016/2017 e dal 2018 è l’allenatore del Lecce Primavera. Nelle ultime settimane si è paventata l’ipotesi che possa allenare l’anno prossimo la Primavera della Lazio. Siviglia è ovviamente felice per l’exploit del suo ex compagno di squadra Simone Inzaghi sulla panchina della prima squadra: “La Lazio sta girando molto bene. L’entusiasmo è stato ritrovato e Simone sta facendo un grande lavoro. Lo scetticismo iniziale è andato via e tutte le componenti si sono ritrovate”.

È un percorso importante, non vincevamo il titolo da 18 anni e festeggiarlo qui con la tua squadra del cuore è bello, ho visto i ragazzi emozionati ed è stato bello condividere questo insieme alla Primavera, nei loro occhi ho visto la soddisfazione di essere all’Olimpico e avere in mano un loro trofeo. Lotito? Lo ringrazio, c’è stima tra noi, ho iniziato da tre anni, son contento e ho entusiasmo, poi fare l’allenatore qui alla Lazio mi riempie di gioia. Ho ambizione fin da calciatore, da allenatore voglio continuare, ci vuole pazienza e determinazione. Voglio migliorare e crescere giorno dopo giorno. Pensavo solo a giocare, poi una volta smesso ho fatto il corso e con Tare è nata l’ipotesi e ho preso il patentino. Ora giorno dopo giorno mi piace sempre di più. Provo tanto quando entro in campo”.

Tommaso Rocchi per la sua carriera d’allenatore ha colto al volo la possibilità di farlo nella Lazio. Nel 2016 diventa mister dei Giovanissimi Provinciali fascia B, l’anno dopo dell’Under 14, poi Under 15, per tornare nell’ultima stagione a guidare l’Under 14. Con questi ultimi riesce a vincere il Campionato.In finale contro la Roma di Cristian Totti (presente in tribuna anche papà Francesco) è un’apoteosi: 3 a 0 il risultato al 90°. “Per un laziale come me, la soddisfazione è doppia”. Come Siviglia anche Rocchi sta cercando di ricalcare lo stesso “cursus honorum” di Simone Inzaghi: “Sarebbe un sogno poter ripercorrere le sue orme, ma bisogna avere pazienza: vado avanti passo dopo passo senza correre”.

Di questa possibilità, dopo 15 anni, è fautore lo stesso patron Claudio Lotito: “Inzaghi mi ha dimostrato fin da subito il suo attaccamento a questa società. Fu il primo giocatore che quando entrai in società si mise a disposizione per negoziare il contrattato. Gli promisi che gli avrei fatto fare l’allenatore. Si è conquistato tutto da solo partendo dagli Allievi Regionali fino ad arrivare in prima squadra. Spero di poter fare lo stesso percorso con Tommaso Rocchi”.

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Club Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 2×01: 1915, lo Scudetto Spezzato tra Lazio e Genoa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio italiano anteguerra c’è uno Scudetto diviso: non parliamo del titolo del 1922, spartito tra Novese e Pro Vercelli a causa di una scissione federale. C’è un campionato mai terminato che ha assegnato uno Scudetto per il quale ufficialmente non esiste delibera. E’ tutto accaduto nel 1915, l’anno dello Scudetto Spezzato.

Nel maggio 1915 il calcio italiano si appresta a concludere l’ennesima stagione di un’epoca pionieristica. Le squadre del Nord a dominare, quelle del Centro-Sud a muovere i primi passi: la Federazione già da qualche anno ha stabilito come la squadra campione dell’Italia settentrionale, da tutti formalmente già considerata Campione d’Italia per manifesta superiorità, dovesse disputare una finalissima contro la squadra campione dell’Italia centro meridionale. Questo per dare più ampio respiro allo sviluppo a livello nazionale di uno sport come il football per il quale di intravedono enormi potenzialità e che non merita di restare confinato a livello locale.

Certo, la differenza tecnica tra Nord e Sud è enorme. La finale nazionale venne istituita nel 1913, e la regina del calcio centro-meridionale è senza dubbio la Lazio. Che perde però 6-0 la finalissima contro la Pro Vercelli nel 1913 e 7-1 in trasferta e 0-2 in casa la sfida di andata e ritorno contro il Casale nel 1914. Da Bologna in giù la Lazio è senza dubbio la squadra più forte. Marcello Consiglio e Fernando Saraceni sono giocatori moderni per l’epoca, e il coraggio di Angelo Zucchi e Augusto Faccani tiene la linea laziale sempre alta.

Ma contro i giganti del Nord si può fare poco: nel 1915 si giocano il titolo il Genoa già 6 volte Campione d’Italia, ma a secco dal 1904, l’Internazionale scudettata nel 1910 e il Torino che ha scalzato l’altra regina piemontese, la Pro Vercelli 5 volte titolata. Ma quello del 1915 è un campionato strano, perché venti di guerra spirano sempre più forti e il 24 maggio l’Italia entra a far parte del primo conflitto mondiale. Sottobraccio ai giovani il fucile si sostituisce al pallone e tra le squadre chiamate a dare un contributo più consistente alla Patria c’è proprio la Lazio, che in qualità di Polisportiva manda decine di atleti, non solo calcistici, al fronte.

Il campionato però viene sospeso e riprenderà solo nel 1920, quando tanti protagonisti saranno caduti o feriti al fronte. Il titolo non è stato assegnato: la Lazio è prima nel centro-sud, il Genoa al centro-nord ma con lo scontro diretto contro il Torino da giocare: in caso di vittoria, sarebbero stati i granata ad andare in finale. C’è anche una finale meridionale da giocare tra le due squadre di Napoli. Un caos e infatti il titolo non viene assegnato, come sarebbe logico pensare. E a questo punto però che la storia si fa davvero misteriosa.

La sospensione bellica del campionato avvenne il 22 maggio 1915. Il 23 maggio il girone Nord avrebbe dovuto disputare le sue partite decisive, Genoa-Torino e il derby Milan-Inter. Ma quella domenica l’Italia dichiarò guerra all’impero Austro-Ungarico. Nel frattempo, la Lazio vinse il girone dell’Italia centrale battendo il Roman, che l’aveva sopravanzata nella fase regionale precedente, mentre non venne omologata la sfida del campionato meridionale tra Naples e Internazionale di Napoli.

Il campionato restò fermo 4 anni: il Consiglio Federale tornò a riunirsi nel 1919 e e la Federazione decise di attribuire il titolo al Genoa, ignorando i diritti delle formazioni centro-meridionali, nella fattispecie della Lazio, perché considerate non competitive. Normale pensarla così all’epoca, il problema è che l’assegnazione ai rossoblu fu di fatto convenzionale e mai ufficiale. Mai è stata trovata delibera dell’assegnazione del titolo 1915, né testimonianze della proclamazione dello Scudetto da parte della rivista sociale del Genoa, che alcuni individuano nel settembre 1921, né di una cerimonia di premiazione che sarebbe avvenuta nello scorso anno.

Per quasi 95 anni, dal 1921 al 2015, la storia è stata accettata acriticamente così come è stata tramandata. Il 25 maggio del 2015, in occasione del centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, il settimanale romano Nuovo Corriere Laziale rilanciò la questione. L’avvocato capitolino Gian Luca Mignogna, tifoso laziale, riuscì a lanciare una petizione in pochi mesi: i tifosi laziali risposero in massa con 35.000 sottoscrizioni e soprattutto venne ribaltata buona parte della storiografia ufficiale dedicata allo Scudetto del 1915.

La petizione e la rivendicazione di Mignogna chiede l’assegnazione ex aequo del titolo al Genoa, i cui diritti sono a 100 anni di distanza intoccabili, e alla Lazio che di fatto, unica ad aver terminato il proprio girone interzona, restava l’unica certa finalista di quell’edizione del campionato. La richiesta arriva fino alla FIGC: sotto la presidenza Tavecchio si arriva addirittura alla nomina di una commissione di saggi che evidenzia come la Lazio debba essere considerata campione d’Italia, ricongiungendo lo Scudetto spezzato. La FIGC attraversa però una crisi istituzionale che porta all’attuale presidenza Gravina e all’imminente nomina di una nuova commissione.

Ma come è potuto accadere che semplicemente, per 100 anni, uno Scudetto fosse assegnato per “presunzione di superiorità”, senza che nessuno si facesse domande? Lo Scudetto 1915 è stato in realtà al centro di controversie sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale: come si legge sulla pagina Wikipedia dedicata al campionato di Prima Divisione 1914/15, la decisione sull’assegnazione restò congelata a causa dei reclami di Inter e Torino, poi non presi in considerazione. Inoltre la presunta cerimonia di premiazione genoana avrebbe avuto luogo l’11 dicembre del 1921, durante la fase di risoluzione dello scisma, allora in corso, tra la FIGC e la Confederazione Calcistica Italiana (CCI), della quale faceva parte lo stesso Genoa: molti dei neocampioni rossoblù, in primis il terzino Claudio Casanova, non seppero mai della loro vittoria perché scomparsi in guerra. I presunti conflitti di interessi intercorrenti fra Carlo Montù (alla guida della Federazione nel 1919), Luigi Bozino (presidente prima federale e poi confederale negli anni 1921-1922), e i dirigenti genoani Edoardo Pasteur (vicepresidente FIGC e CCI sotto Montù e Bozino) e George Davidson (capo della Federazione Ciclistica Italiana) gettarono, comunque, un’ombra sull’intera vicenda che a oltre 100 anni di distanza, per intervento della FIGC, potrebbe ora arrivare a una risoluzione con una assegnazione postuma del titolo ex aequo a Genoa e Lazio.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Fabio Liverani: dai fischi agli applausi

di Jean Philippe ZITO

“Bella palla di Liverani per Di Caniooooo…”. Queste poche parole pronunciate in una radiocronaca, diventata leggendaria, di Guido De Angelis, scaldano immediatamente il cuore di qualsiasi tifoso della Lazio. Il gol di Paolo Di Canio nel derby del 6 Gennaio 2005, è l’emblema di come nel calcio molto spesso aleggi un qualcosa di inspiegabile ed irrazionale, che rende questo sport diverso da tutti gli altri.

Nel 3 a 1 finale, trionfo laziale nel derby, spiccano i due assist per il primo e il terzo gol di Fabio Liverani. Una partita vissuta intensamente, con lucidità e da padrone del centrocampo che lo riabilita in maniera definitiva agli occhi dell’intera tifoseria.

Acquistato nel Settembre del 2001 dal Perugia, Liverani è stato accolto a Formello da scritte ingiuriose che rimarcano la sua presunta “fede” romanista (il centrocampista è stato immortalato con una bandiera giallorossa in mano qualche mese prima durante i festeggiamenti per il terzo scudetto della Roma). “Sono cresciuto in un quartiere popolare (il Casilino, ndr), queste cose non mi spaventano. Sono tranquillo, penso solo a giocare, a far bene nella Lazio”. Le dichiarazioni del centrocampista dopo le scritte offensive nei suoi riguardi, sono d’impegno e dedizione alla causa laziale.

Fabio Liverani inizia a giocare a pallone nell’oratorio di Santa Maria Ausiliatrice al Tuscolano. Dopo una breve militanza nella Lodigiani, gioca nelle giovanili di Palermo, Napoli e Cagliari. Aggregato in prima squadra in Sardegna da Giovanni Trapattoni, passa alla Nocerina (solamente 2 presenze), per poi stabilizzarsi alla Viterbese.

Nella stagione 1996/97, a vent’anni, inizia a praticare il calcio da professionista a Viterbo in serie C/2. Per quattro campionati milita in serie C, ottenendo una promozione in C/1 nel 1999. Poi la grande occasione: Luciano Gaucci è il proprietario della Viterbese e del Perugia e dal club umbro mettono gli occhi sul playmaker tutto sinistro, di padre romano e madre somala: “Papà era italiano e cristiano, ma mia mamma era una musulmana di Mogadiscio rifugiata in Italia”.

Stagione 2000/2001 a 24 anni, dopo molta gavetta nelle serie minori, l’approdo in serie A.

Liverani conquista da subito un posto da titolare nel Perugia di Serse Cosmi, che nel frattempo è diventato celebre al grande pubblico soprattutto per l‘imitazione del comico genovese Maurizio Crozza all’interno del programma “Mai dire gol”. I pupilli del mister umbro, subentrato a Carletto Mazzone in panchina, sono proprio il centrocampista e il difensore capitano del “Grifo”, Marco Materazzi.




Improvvisamente il calcio italiano ha scoperto questo regista dal tocco di palla liftato e dal mancino chirurgico. Liverani esordisce con la maglia del Perugia in serie A il 1° Ottobre del 2000 nel match casalingo contro il Lecce, terminato con il punteggio di 1 a 1.

Il primo gol nella massima serie arriva nello scontro salvezza a Reggio Calabria contro la Reggina. Il gol del conclusivo 2 a 0 è una magistrale punizione tirata a giro dai 25 metri, che non lascia scampo a Taibi.

Le sue costanti prestazioni ad alti livelli fanno sì che le maggiori squadre della Serie A inizino ad interessarsi a lui. Nel frattempo il Perugia di Serse Cosmi è diventato la mascotte del campionato, grazie alla grinta del tecnico in panchina e alle belle giocate del regista romano.

L’11 Marzo del 2001, Roberto Mancini esordisce come allenatore in Italia, sedendosi sulla panchina della Fiorentina. Si gioca a Perugia, la partita finisce 2 a 2, Liverani fa l’assist per il primo gol e segna il secondo per gli umbri.

Il culmine di queste grandi performance arriva con la convocazione in Azzurro da parte del C.T. Giovanni Trapattoni, che conosce bene Liverani per averlo allenato nel Caglari. Nel giro di pochissimi mesi dalla serie C, a titolare in Serie A, alla Nazionale. Fabio Liverani è la rivelazione del campionato ottenendo una vera e propria consacrazione popolare.

Il 25 Aprile del 2001, l’Italia gioca un’amichevole contro il Sudafrica proprio a Perugia. In quell’occasione esordiscono dal primo minuto il capitano degli umbri Materazzi e lo stesso Liverani. La partita viene vinta dall’Italia per 1 a 0, confermando il centrocampista a suo agio fra giocatori di primissimo livello.

A fine stagione il Perugia si salva con discreta tranquillità e Liverani è pronto ad iniziare un nuovo anno nel capoluogo umbro. La preparazione estiva lo vede ancora tra i protagonisti, anche se le “sirene” del calciomercato l’hanno più volte accostato alla Juventus.

Dopo aver saltato le prime due partite del campionato 2001/02 per squalifica, Fabio si fa trovare al suo posto in mezzo al campo per la trasferta di Verona del 16 Settembre 2001 contro l’Hellas, nella quale segna il gol (dal dischetto) del momentaneo vantaggio.

Il 28 Settembre, a poche ore dalla fine del calciomercato, al Presidente Gaucci però arriva un’offerta irrinunciabile per il numero 20 dal club di Sergio Cragnotti: 25 miliardi di Lire e metà cartellino di Emanuele Berrettoni. Fabio Liverani diventa così un giocatore della Lazio, grazie ad un blitz notturno della dirigenza capitolina.

Lì per lì, quando me l’hanno annunciato, ho pensato ad uno scherzo. Gradevole quanto vi pare, ma pur sempre uno scherzo. Fin da bambino sono sempre stato tifoso della Roma. E quest’estate ho passato, assieme ad amici di sempre, giorni e giorni a festeggiare lo scudetto della squadra di Capello. Ora mi ritrovo dalla parte opposta del tifo capitolino. Non me ne faccio certo un cruccio. Tutt’altro. Sono un professionista e sono prontissimo ad onorare la nuova situazione”.

Liverani è un ragazzo schietto, sincero e con franchezza non nasconde le sue simpatie romaniste, ma esprime anche tutta la sua contentezza per essere arrivato in una squadra zeppa di campioni.

C’era ancora la gestione Cragnotti quindi stiamo parlando di giocatori di primissimo livello. Gente come Stankovic, Simeone, Crespo, Mihajlovic, Favalli, Nesta, Stam, Peruzzi, Claudio Lopez, Ravanelli… e potrei pure continuare. Questo tanto per capire di che livello fosse la rosa. Una formazione che scendeva in campo per vincere contro chiunque e io mi trovavo in mezzo a loro alla prima grande esperienza”.

Mister Zaccheroni alla Lazio deve sostituire a centrocampo Veron e Nedved venduti durante la sessione estiva di calciomercato, ma anche l’infortunato Diego Pablo Simeone.

Per questo motivo Fabio Liverani esordisce subito da titolare il 30 Settembre 2001 nel pareggio interno a reti bianche contro il Parma, l’accoglienza dei quasi 40.000 dell’Olimpico è stata tiepida nei suoi confronti.

La Curva Nord ce l’ha soprattutto con la presidenza. Lo striscione esposto nel cuore del tifo laziale infatti recita: “Il problema non si risolve con Liverani. Pensa a chi hai venduto ieri e a chi partirà domani”, con due stendardi emblematici (e preveggenti) raffiguranti le maglie di Nesta e Crespo.

Il primo gol di Liverani con la maglia della Lazio arriva nel 4 a 1 contro l’Udinese in Friuli.

Ma è il secondo a conquistare anche gli ultimi scettici tra i laziali, è il gol vittoria della sfida contro la Juventus del 24 Novembre del 2001. Un pallonetto d’esterno sinistro di rara precisione che beffa Buffon da oltre 30 metri. La stagione 2001/02 di Liverani si conclude con 27 presenze totali (26 in Serie A e 1 in Coppa Italia) e 2 gol.

La stagione successiva la Lazio cambia allenatore, dopo il deludente sesto posto ottenuto dalla compagine allenata da Zaccheroni: arriva Roberto Mancini. La società è costretta a vendere per evidenti problemi di bilancio, ma la rosa rimane di grandissimo livello. Liverani viene fermato da un fastidioso infortunio al polpaccio sinistro, che gli compromette tutto il girone d’andata. In quello di ritorno gioca con più continuità ma quasi sempre subentrando dalla panchina.

Nel 2003/04 la “banda Mancini” continua a stupire dopo l’ottima annata precedente conclusasi con un quarto posto in classifica e le semifinali di Coppa Uefa (perse contro il Porto di Josè Mourihno). L’entusiasmo per un bel gioco ritrovato, risultati ottenuti e giocatori di alto profilo, viene smorzato dall’abbandono di Sergio Cragnotti a causa della gravissima crisi finanziaria di cui è vittima il suo gruppo. Finisce un’era che in poco più di 10 anni ha riscritto la storia ultracentenaria del più antica squadra della Capitale.

Liverani gioca con più continuità in tutte e tre le competizioni: 26 presenze in Serie A, 6 in Champion’s League e 7 in Coppa Italia (1 gol), vincendo a fine anno la Coppa Italia in finale contro la Juventus.

L’anno successivo la Lazio rischia di non potersi iscrivere al campionato, ma l’avvento di una nuova proprietà salva l’ultracentenaria storia della sezione calcio. Il Presidente Claudio Lotito rivoluziona lo staff tecnico e la rosa. La Lazio ha gravi problemi economici, deve ricominciare da zero. Nascono delle incomprensioni tra Liverani e il neo Presidente: “Per me si trattò del classico momento sbagliato. Lotito entrava in un mondo nuovo e per lui tutto ciò che rimandava al “vecchio”, Liverani incluso, lo considerava il male assoluto”.

La stagione 2004/05 vede avvicendarsi in panchina per i biancocelesti prima Mimmo Caso, poi Giuseppe Papadopulo. Grazie all’avvento di quest’ultimo Liverani torna ad essere il perno della squadra. Fondamentale nel derby del 6 gennaio 2005, importante con il suo carisma e la sua classe nel fulcro del gioco. 24 presenze in campionato e 1 gol (decisivo nella sfida salvezza contro l’Atalanta), lo rendono protagonista nell’anno zero lotitiano.

Nel 2005/06 arriva Delio Rossi, Liverani è all’ultimo anno di contratto con la Lazio. Sul campo la squadra raggiunge un ottimo 6° posto con la qualificazione in Coppa UEFA, ma con Calciopoli viene riscritta la storia di questo campionato. La storia di Liverani con la Lazio si conclude dopo 5 stagioni intense. “Lotito tentò anche di offrirmi un rinnovo di contratto, una proposta più di facciata per calmare la piazza, ero il capitano, avrei potuto prolungare per altri cinque anni e arrivare a dieci in biancoazzurro, ma il Presidente allora non aveva capito il Liverani uomo, prima che il giocatore”.

Nelle due stagioni successive il centrocampista romano approda alla Fiorentina di Prandelli, con la quale gioca da titolare un gran numero di match ottiene una qualificazione in Champion’s League e raggiunge le semifinali di Coppa Uefa.

A 32 anni approda al Palermo con cui firma un triennale. Negli anni trascorsi in Sicilia incrocia in panchina due sue vecchie conoscenze, Delio Rossi e Serse Cosmi. Con i rosanero ottiene un’incredibile qualificazione in Europa League e gioca la storica finale di Coppa Italia persa contro l’Inter per 3 a 1.

Dopo il ritiro decide di diventare allenatore. Inizia dal 2011 con le giovanili del Genoa, fino alla prima squadra affidatagli nel 2013 per poi essere esonerato dopo sole 7 partite ma con un derby vinto contro la Sampdoria di Delio Rossi, con un rotondo 3 a 0.

Dopo la parentesi inglese al Leyton Orient e alla Ternana in Serie B, nel 2017 approda al Lecce. Fabio Liverani con il gioco che ha sviluppato per la sua squadra ha conquistato la piazza pugliese. Dopo la promozione in serie B dello scorso anno, domenica prossima vincendo in casa contro lo Spezia ha la possibilità di far tornare il Lecce in Serie A senza giocare i play off.

Oggi Liverani è un allenatore che sta macinando record, continuando a stupire. Ma quando si ferma a pensare alla sua carriera da calciatore ha sempre parole al miele per la Lazio: “Dopo le difficoltà iniziali, compreso il “marchio” di tifoso romanista, sono stati cinque anni eccezionali. I ricordi di quel gruppo e di Formello li ho scolpiti nella mente e nel cuore”.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Pastore: “Il Fotogenico Piero” che bucava le reti e… l’obiettivo

di Jean Philippe ZITO

“La partita si è svolta su un terreno reso addirittura impraticabile dalla pioggia caduta nel pomeriggio: un terreno fangoso e vischioso che ha messo a dura prova la solidità degli atleti e di conseguenza la perizia dell’arbitro. Tutte le azioni, o quasi tutte, dell’una e dell’altra parte sono state alla mercé della fortuna: fasi impeccabili di gioco venivano frustrate dal fango: altre, assai più imperfette, trovavano nel fango la loro casuale correzione. Un palcoscenico di questo genere doveva vedere la prevalenza, almeno in linea di stile della squadra più forte: e la squadra più forte oggi si è palesata la Lazio”.

Il 30 Aprile del 1933 si gioca Alessandria-Lazio, in una giornata piovosa che la cronaca de “Il Littoriale” ci descrive come determinante, non solamente per lo stato decisamente precario del campo, ma anche per lo spettacolo offerto dai giocatori contrapposti.

La Lazio si è presentata in Piemonte con questo undici: Capitan Sclavi, Bertagni, Del Debbio, Fantoni (II), Tonali, Serafini, “Filó” Guarisi, Fantoni (I), Pastore, Gabriotti, De Maria. I padroni di casa dell’Alessandria rispondono con: Mosele, Lombardo, Fenoglio, Avalle, Costenaro, Barale (III), Cattaneo, Scagliotti, Notti, Marchina, Borelli.

L’Alessandria ha messo in campo tutto l’agonismo possibile fin dalle prime battute, ma si è fatta comunque sorprendere al sesto minuto da un’azione dello sgusciante De Maria, che ha fornito l’assist per il gol decisivo del centrattacco Pietro Pastore, lasciato colpevolmente solo davanti al portiere avversario. Il risultato non cambia nonostante la Lazio finisca la partita in 9 uomini (espulsi De Maria e lo stesso Pastore), contro 10 (rosso per Lombardo).

Il “fotogenico Piero” oltre ad essere un attaccante implacabile sotto porta, da anni è impegnato in numerose pellicole cinematografiche.

Nato a Padova nel 1903, inizia a giocare a pallone da giovanissimo nella squadra della città di Sant’Antonio assieme al fratello Vito. Quest’ultimo, a causa di un contrasto violento, perde la vita durante una partita. La famiglia sconvolta dall’accaduto, vieta a Piero di continuare a fare il calciatore. Ma dopo essersi dedicato per breve tempo al pugilato, decide comunque di tornare alla sua più grande passione: il calcio.

Nel 1923, a vent’anni, si accasa alla Juventus. Mentendo ai genitori, dice che ha trovato lavoro alla FIAT di Torino per trasferirsi nel capoluogo piemontese. In maglia bianconera disputa 4 stagioni (55 gol il suo personale bottino), vincendo il campionato nel 1925/26 mettendo a segno 4 gol, tra andata e ritorno, nella finale contro l’Alba di Roma.

Di questo successo bionconero scrive Vladimiro Caminiti: “Combi, Rosetta, Allemandi, Grabbi, Viola, Bigatto, Munerati, Vojak, Pastore, Hirzer, Munerati. È la Juventus che vince il secondo scudetto, e vi gioca un centrattacco innamorato delle stelle, da intendere come dive e miss, passa le ore parlando di Greta Garbo, cucendosi addosso, mentre segna goal che quasi spaccano la rete, nuove parti da primo attore. Si vede attore, si sogna attore. Fa rima con Pastore.”

Nel 1927 si trasferisce al Milan, indossando la maglia rossonera per due stagioni (59 partite, 39 gol). Nell’estate del 1928, Pastore disputa con l’Italia le Olimpiadi di Amsterdam, ottenendo la medaglia di bronzo dopo che la Nazionale ha sconfitto con un roboante 11 a 3 l’Egitto.

Dopo le Olimpiadi, con il permesso della società meneghina, si aggrega ad una tournée estiva del Brescia negli Stati Uniti. Le “rondinelle” salpano dal porto di Genova il 23 luglio 1928 sul transatlantico Duilio, raggiungendo New York in 10 giorni. Dal 5 Agosto al 5 Settembre il Brescia ha disputato 9 partite; Piero ne ha giocate 5 segnando altrettanti gol.

Durante il viaggio in America, a New York, viene avvicinato da alcuni impresari della Paramount colpiti dalla sua grande somiglianza con Rodolfo Valentino. Il primo sex symbol della storia del Cinema è scomparso prematuramente da un paio d’anni e negli USA sono alla disperata ricerca di un erede. A Piero viene proposto un provino, che viene superato alla grande. Gli impegni calcistici però non gli consentono di accettare l’allettante proposta degli Studios.

Tornato in Italia si trasferisce a Roma, iniziando a giocare per la Lazio. Il regista danese Alfred Lind, giunto nella Capitale per girare il suo nuovo lungometraggio, corteggia Pastore proponendogli un ruolo nel film muto “Ragazze, non scherzate”. Piero acconsente lusingato, debuttando così nel mondo del Cinema. Poco dopo concede il bis, in uno degli ultimi film muti della storia: “La leggenda di Wally”, di Gian Orlando Vassallo.

Nel frattempo con la Lazio nei campionati 1929/30 e 30/31 disputa 57 partite, segnando 23 gol. Dopo una nuova breve parentesi a Milano nel 31/32, sempre sponda milanista, torna alla Lazio. Nella “BrasiLazio” trova poco spazio anche perché sempre più impegnato nella carriera cinematografica: in due stagioni gioca soltanto 18 partite segnando 9 goal.

Nel 1933 lo sceneggiatore Mario Soldati, amico di Pastore dai tempi della Juventus, lo segnala per il ruolo di protagonista al regista Walter Ruttman per il film “Acciaio“, interamente girato nelle acciaierie di Terni. Il debutto di Piero da primo attore, viene unanimemente elogiato dalla critica cinematografica. Come calciatore disputa la penultima stagione al Perugia in serie B nel 1934/35 (3 presenze, 2 gol) e l’ultima nella Roma (4 presenze, 1 gol).

Terminata l’esperienza da calciatore, inizia un lungo percorso che lo vede recitare al fianco di attori del calibro Gino Cervi, Alberto Sordi, Erminio Macario, Totò, Kirk Douglas, Vittorio Gassmann, Anthony Quinn e Sofia Loren. Lavora con registi come Rossellini, Zampa, Comencini, Camerini, Mastrocinque, Mattoli, Steno e lo possiamo ammirare anche nel cult movie dedicato alla città eterna “Vacanze romane”.

Intervistato nel 1955 dalla rivista “Il Calcio Illustrato” dichiara: “Se rinascessi farei il calciatore, senza dubbio. La gente dello sport è diversa, è migliore della gente d’affari”.

A testimoniare come l’amore viscerale, genuino e sincero per il calcio non l’abbia mai abbandonato.

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Finidi George: la gazzella di Porte Harcourt

di Alessandro IACOBELLI

L’ala destra ed il numero 7: questo è il calcio. Una freccia dai connotati africani: Finidi George. Nato a Porte Harcourt il 15 aprile 1971, nella patria del bosco Osun-Osogbo, elude miseria e povertà con un pallone tra i piedi.

Nel 1993 George è già sulla bocca di tutti in casa sua. Spifferi di puro talento giungono ai taccuini dei talent scout olandesi. L’Ajax alza la cornetta e chiama i dirigenti dello Sharks FC. Amsterdam è il nuovo nido per il ragazzetto fulmineo. In maglia biancorossa Finidi conquista il binario destro e non lo lascerà per tre lunghi anni. Un vero stacanovista: 85 gettoni fino all’estate del 1996. Tre titoli olandesi e tre Supercoppe dei Paesi Bassi. Stagione di grazia 1994-1995: i lanceri trionfano nella Champions League contro il Milan per poi ripetersi in Supercoppa e Coppa Intercontinentale.

Finidi è la stella volante. Segna e, soprattutto, fa segnare i compagni. Kanu, Overmars, Ronald De Boer e Litmanen ringraziano. Van Gaal in panchina e un manipolo di tulipani ormai sbocciati: Van Der Sar, Rijkard, Seedorf e Davids.

Gloria e prestigio anche con la Nazionale biancoverde. Braccia al cielo nella Coppa d’Africa del 1994 in Tunisia, nella finalissima contro lo Zambia. Quattro anni più tardi scende in campo la generazione più luccicante del calcio nigeriano. Agli ordini di Bora Milutinovic brillano Okocha, West, Babayaro, Oliseh, Ikpeba e Babangida. 3-2 alla malcapitata Spagna per poi crollare negli ottavi al cospetto della Norvegia (4-1). Paradossale discontinuità che condiziona il cammino in terra francese.

La carriera della freccia George, intanto, si sposta verso l’Andalusia. Finidi passa al Real Betis. Nel 1996, però, c’è un retroscena di mercato paradossale. L’asso nigeriano è praticamente un giocatore della Lazio. Trattativa “chiusa” negli uffici del patron Cragnotti. La società biancoceleste mette sul piatto ben 8 miliardi per le casse dell’Ajax. Tutto fatto, mancano solo le firme. Ecco, quelle firme non arriveranno mai.

La valigia di George, quindi, si riempie per raggiungere la Spagna. Quattro annate al Betis condite da 130 presenze e 38 reti. Da Siviglia all’arcipelago delle Baleari. Il numero 7 veste la casacca del Mallorca nella stagione 2000-2001. Atletismo e rapidità sono caratteristiche ideali per furoreggiare anche in Inghilterra. Finidi sposa allora il progetto dell’Ipswich Town, timbrando il cartellino per 35 volte con 7 gol messi a referto. Le galoppate di George culminano ancora in Spagna, di nuovo nel Mallorca (stagione 2003-2004).

Una vita di corsa, quella della gazzella di Port Harcourt. Finidi George: l’ala numero 7 sul tetto del mondo.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Le 100 vite calcistiche di Diego Fuser

di Jean Philippe ZITO

C’erano anche le condizioni per tornare alla Lazio prima di andare alla Roma. A Parma andavo molto d’accordo con Crespo a cui ho fatto fare tanti gol. Quando lui venne a Roma la prima cosa che disse fu di prendere Fuser, ma il vice allenatore era Mancini…C’era quella possibilità che non è stata presa in considerazione, poi mi hanno proposto la Roma nel momento in cui era al vertice e ho detto di sì”. Diego Fuser è convinto di non aver mancato di rispetto ai tifosi laziali andando a giocare per due anni alla Roma.

È vero. Magari i tifosi della Lazio ci possono essere rimasti male, però io penso che un calciatore quando dà tutto, quando va in una società e dimostra che per quella maglia dà tutto…”. Fuser ha dimostrato sul campo, nella sua ventennale carriera, di non risparmiarsi mai. Infatti l’impegno e la corsa, oltre alla tecnica e un gran tiro da fuori, sono le caratteristiche principali del piemontese, funambolo della fascia destra.

Tutta la famiglia di Diego Fuser tifa Torino da sempre, anche per questo motivo il centrocampista di Venaria Reale fa parte degli ultimi “ragazzi del Filadelfia”.

Cresce con la maglia granata addosso, nel mito del Grande Torino e calpestando il prato dello stadio simbolo della gloriosa società torinese.

Esordisce in Serie A il 26 Aprile del 1987, durante il derby della Mole. Junior si tocca l’inguine sul finire del primo tempo, ad inizio ripresa non si presenta in campo: stiramento.

Gigi Radice fa alzare dalla panchina il diciannovenne proveniente dalla Primavera.

Fuser entra in campo e gioca una partita d’applausi contro Platini e compagni. È, insieme a Lentini, protagonista nell’azione del pareggio di Cravero, un debutto da incorniciare.

La stagione seguente 87/88, gioca 16 partite in serie A e 10 in Coppa Italia. Un anno pieno di rimpianti per il popolo granata. Il Toro infatti ha la peggio nel doppio confronto in finale di Coppa Italia contro la Sampdoria di Mancini e Vialli e in campionato viene sconfitto ai calci di rigore dalla Juventus nello spareggio per la conquista del sesto posto, ultimo piazzamento utile per la qualificazione in Coppa UEFA dell’anno successivo.

La consacrazione in campionato arriva l’anno dopo. 38 presenze totati (30 in Serie A e 8 in Coppa Italia), 4 gol. Il 27 Novembre 1988 nella vittoria allo Stadio Olimpico di Roma contro i giallorossi per 3 a 1, arrivano i primi gol nel massimo torneo; una doppietta per il numero 14 che a 20 anni inizia prepotentemente a far parlare di sé.

Nell’estate del 1989 il Milan di Berlusconi acquista per 7 miliardi di Lire Diego Fuser, che si trasferisce nella squadra campione d’Europa in carica. Arrigo Sacchi è contento del suo arrivo e lo fa esordire immediatamente in una partita ufficiale. Il 23 Agosto debutta in Coppa Italia con la maglia rossonera, nella vittoria ai calci di rigore contro il Parma.

Durante la stagione si ritaglia un buono spazio nonostante l’agguerrita concorrenza. 20 presenze in Serie A e 2 gol di cui 1 nel derby della Madonnina vinto per 3 a 0 (i derby sono una costante nella carriera di Fuser); 8 partite giocate in Coppa Italia, 2 in Coppa dei Campioni, 2 nelle finali di Supercoppa Europea e 1 nella finale di Coppa Intercontinentale. A causa della “fatal Verona” però non vince lo Scudetto.

Fuser si può decisamente consolare però con la Supercoppa Europea vinta contro il Barcellona, con la Coppa Intercontinentale vinta contro il Nacional di Medellin e con la Coppa dei Campioni conquistata contro il Benfica a Vienna per 1 a 0.

Per il ventunenne Diego, il palmares non è tutto. Vuole giocare con maggiore continuità e il Milan lo manda in prestito per un anno alla Fiorentina. L’allenatore della Viola è Sebastião Lazaroni che è ben contento di impiegarlo con continuità. Nel 90/91 infatti raccoglie 39 presenze (32 in Serie A e 7 in Coppa Italia). Mette a segno ben 8 gol, 5 dei quali direttamente su calcio di punizione.

“Lazaroni mi ha insegnato a calciare le punizioni, cosa che io non avevo mai fatto. A fine allenamento stavo mezz’ora, tre quarti d’ora, e lui mi diceva come calciare. Dovevo giocare sulla tensione del portiere…”. Diego Fuser racconta il gol più importante di quella stagione. “Quello con la Juve, su calcio di punizione, forse è stato il più bello. C’era in porta Tacconi. Palo-gol. Fare un gol e vincere la partita 1 a 0 alla fine mi ha permesso di entrare nella storia di Firenze e questa è una cosa che mi fa veramente piacere”.

Arrigo Sacchi è diventato il Commissario Tecnico della Nazionale, Fabio Capello l’ha sostituito sulla panchina del Milan. Diego torna a Milanello con un bagaglio d’esperienza arricchito dall’anno passato a Firenze, ma non riesce a trovare comunque grande spazio. 22 presenze totali tra Campionato (per lo più spezzoni di gara) e coppa nazionale, con un bottino di 4 reti e 3 assist totali. A dispetto dello Scudetto alzato al cielo a fine stagione, Diego vuole giocare titolare e accetta una nuova sfida.

La Lazio di Cragnotti lo acquista (7 miliardi di Lire) per la stagione 1992/93. Fuser parte per Roma con un albo d’oro di notevole importanza per un ragazzo di 24 anni. A Formello trova Dino Zoff come allenatore che gli consegna la fascia destra del centrocampo. I primi gol con la Lazio arrivano con la prima vittoria in campionato: il 4 Ottobre 1992 alla quinta giornata, una doppietta nel 5 a 2 contro il Parma. Il bottino personale a fine annata recita: 33 presenze da titolare (solamente 1 partita saltata per squalifica) e record personale di gol, ben 10 in Serie A. Quarti di finale in Coppa Italia, quinto posto in campionato e qualificazione in Coppa UEFA. La sfida accettata ad inizio stagione è vinta.

Nel 93/94 alcuni piccoli infortuni non consentono a Fuser di fare l’en plein di presenze, è comunque tra coloro che giocano di più (31 presenze e 2 gol complessivi). Con la Lazio ottiene un ottimo quarto posto finale, in Coppa Italia una brutta figura con l’Avellino e in Coppa UEFA il cammino non è fortunato. Nei derby, dopo tre pareggi consecutivi, il 6 Marzo del 1994 arriva la sua prima vittoria. La Lazio vince 1 a 0, con un gol di Beppe Signori tra la nebbia dei fumogeni e un rigore parato da Marchegiani a Giannini sotto la Sud.

L’anno dopo arriva a Roma, direttamente dal “Foggia dei miracoli”, Zdenek Zeman. “All’inizio fu un trauma, perché la prima settimana di ritiro non si mangiava e si correva come dei dannati. Dopo una settimana così, ho detto: io smetto! Però alla fine devo dire che Zeman per me è stato un allenatore eccezionale, una grandissima persona”.

Fuser con l’arrivo di Rambaudi, inizia a giocare come mezzala destra, ottenendo sempre ottime prestazioni. Il cammino in Europa si interrompe ai quarti di finale contro il Borussia Dortmund, in Coppa Italia in semifinale contro la Juventus, mentre in campionato la Lazio arriva seconda dietro i bianconeri.

Nel 95/96, secondo anno di Zeman, la Lazio arriva terza. Ormai è stabilmente nella parte alta della classifica e Diego Fuser è una certezza del campionato italiano (in questa stagione 39 presenze e 6 gol in totale). Snobbato da Arrigo Sacchi nelle convocazioni per i campionati del Mondo del 1994, viene chiamato dallo stesso per disputare gli Europei del 1996 in Inghilterra.

Dopo le fatiche inglesi, Fuser inizia una nuova stagione nella Lazio e a Roma ormai è di casa. Giunto infatti alla sua quinta stagione con l’aquila sul petto, la sua intenzione è quella di rimanere in biancoceleste ma, soprattutto, di vincere un trofeo. Da troppo tempo il popolo laziale non gioisce per una vittoria e Diego con tutte le sue forze vuole regalare questa gioia ai suoi tifosi. La stagione 96/97 vede un avvicendamento in corsa in panchina. Durante la seconda parte della stagione torna Dino Zoff al posto di Zeman. La Lazio arriva al quarto posto confermando di essere nell’élite del calcio italiano, ma non riesce a spingersi troppo oltre in Europa e in Coppa Italia.

Con Sven Goran Eriksson arriva a Roma anche l’esperienza, l’acume tattico e l’infinita classe di Roberto Mancini. Una personalità importante come quella del fantasista marchigiano ha ripercussioni in uno spogliatoio unito e con senatori che, solitamente, hanno l’ultima parola. Signori è il primo a subire questa nuova situazione ed è costretto a lasciare la sua amata Lazio durante la sessione invernale del calciomercato.

Intanto in casa Fuser però c’è una preoccupazione più grande, il figlio Matteo, a causa di una grave malattia, sta molto male e ha bisogno di cure continue. Diego reagisce in campo, con la sua solita dedizione nella stagione in cui ottiene i risultati migliori da quando è alla Lazio. Entra nella storia per aver vinto 4 derby su 4 in una sola stagione, realizzando anche un gol su punizione in uno di essi.

Il più antico club della Capitale poi arriva in finale sia in Coppa Italia che in Coppa UEFA, dove affronta le due milanesi. Il 29 Aprile del 1998 è nei cuori di ogni laziale. Dopo aver perso la finale di Coppa Italia d’andata contro il Milan per 1 a 0 al 90° minuto, un Olimpico colmo di passione crede nell’impresa. La vittoria della finale di ritorno, grazie ad una clamorosa rimonta, per 3 a 1 consente alla Lazio di vincere un trofeo dopo 24 anni e un’altra Coppa Italia dopo 40 anni. Diego Fuser è il capitano ed è lui ad alzare la Coppa. Invece in finale di Coppa UEFA Fuser e compagni si scontrano contro l’Inter del “Fenomeno” Ronaldo; un secco 0-3 che non consente il bis di vittorie.

“Quell’anno lì io andai a vedere una casa, per finire la carriera alla Lazio. C’era qualcuno però che non mi voleva, qualcuno che faceva l’allenatore ma non era l’allenatore. Ci furono dei problemi e io andai via”. I contrasti con Roberto Mancini sono il motivo per cui Diego Fuser, dopo 6 stagioni nelle quali si è legato in maniera profonda al mondo Lazio, va via. L’aspetta a braccia aperte il Parma di Alberto Malesani.

La stagione 1998/99 per Fuser è un’annata da incorniciare: titolare inamovibile, entra fin da subito negli schemi della nuova squadra e gli riesce la doppietta svanita l’anno prima. Infatti vince, nella doppia finale contro la Fiorentina, la Coppa Italia e a Mosca la Coppa UEFA contro il Marsiglia con un rotondo 3 a 0.

L’anno dopo inizia con un altro successo per il Parma di Fuser, vince la Supercoppa Italiana contro il Milan. A fine stagione però non riesce a qualificarsi nella massima competizione europea, perde lo spareggio Champion’s contro l’Inter. L’ultimo anno al Parma vede cambiare tre allenatori: Malesani, Arrigo Sacchi e Renzo Ulivieri. Con quest’ultimo non si è creato un gran feeling, Diego vuole cambiare, vuole tornare a Roma.

“Quando andammo a giocare a Roma (con il Parma n.d.r.) l’ultima partita e la Roma vinse lo scudetto Capello mi chiese se volevo andare alla Roma perché loro facevano la coppa dei Campioni e sulla destra avevano solo Cafù”. Schietto, sincero. Diego Fuser decide coraggiosamente di tornare nella Capitale, questa volta dall’altra parte del Tevere.

Nelle due stagioni con la maglia romanista gioca poco, nella seconda stagione 2001/02 addirittura solo 7 presenze totali e, curiosamente, nei derby è sempre assente.

Fuser ha dichiarato che ha visto poco il campo a causa di “una scelta societaria”.

Con la Roma vince una Supercoppa Italiana da titolare contro la Fiorentina allenata da Roberto Mancini. Si è preso così una piccola rivincita.

L’ultimo anno da professionista Diego Fuser lo disputa al Torino. La stagione 2003/04 in Serie B, lo vede per 29 volte in campo con la maglia con la quale è cresciuto e con la quale decide di appendere al chiodo gli scarpini all’età di 36 anni.

Insieme all’amico Gianluigi Lentini decide di giocare nelle serie minori, per divertirsi ancora con il pallone tra i piedi. Nel 2011, poi, il dramma personale: il piccolo Matteo non ce la fa e a 15 anni perde la battaglia contro la malattia, lasciando un vuoto incolmabile nella vita dei suoi genitori. Con fatica Diego si è rialzato anche grazie al calcio, la sua grande passione l’ha aiutato a reagire.

Tornando indietro con la memoria Fuser pensa al ricordo più bello da calciatore, aver alzato la Coppa Italia da capitano della Lazio. “È stata una gioia incredibile perché vedevi realizzato un sogno, ci speravano tutti e quindi quello è stato un momento sicuramente molto, molto bello”.

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Calciatori Jean Philippe Zito

José Antonio Chamot, il Guerriero che scoprì la Bibbia

di Jean Philippe ZITO

Ero un diciottenne, mentre lui era già un uomo. Per me era un idolo. In ogni sfida era un guerriero, sempre con la stessa intensità. Ho sempre provato a essere come lui”. Uno dei difensori più forti di tutti i tempi, Alessandro Nesta, parla così del giocatore che l’ha ispirato all’inizio della carriera, diventando un vero e proprio punto di riferimento. “Quando ero un ragazzino della Lazio pendevo dalle sue labbra. Era anche un duro. L’ho rivisto recentemente: è diventato un fanatico religioso”. Chi sta descrivendo il leggendario numero 13? José Antonio Chamot.

La carriera del difensore argentino inizia nel Rosario Central come terzino sinistro. Esordisce in prima squadra nella stagione 1988/89 a diciannove anni, collezionando 19 presenze. Nella stagione successiva con la maglia dei “Canallas” gioca 29 partite, mettendo a segno le sue uniche 3 reti in maglia giallo-blù. Dopo dieci presenze nel 90/91, viene acquistato dal Pisa. Il vulcanico presidente Romeo Anconetani, con un’intuizione delle sue, porta Chamot e Diego Pablo Simeone in Italia.

All’ombra della torre pendente, Chamot si adatta da subito al calcio tattico italiano, esordendo in serie A l’11 Novembre del 1990 nella sconfitta per 4 a 2 a Genova contro la Sampdoria. Gioca da terzino in entrambe le fasce, libero e difensore centrale. L’allenatore dei nerazzurri toscani, Mircea Lucescu, dà fiducia al giovane argentino, tanto che nella seconda parte della stagione Chamot è titolare inamovibile con 15 presenze, che non valgono però la salvezza. Infatti il Pisa retrocede in Serie B.

Nella stagione 1991/92 Chamot gioca con continuità da centrale nel trio difensivo del 3-5-2 di Ilario Castagner. Le buone prestazioni con la maglia pisana fanno sì che molti addetti ai lavori del “calcio che conta” lo tengano sott’occhio. Il 6 Ottobre del 1991 arriva anche il primo gol in Italia, nella vittoria del Pisa per 2 a 0 contro il Pescara. Durante l’anno viene espulso due volte, facendo emergere il suo spiccato agonismo, al limite del consentito.

Nel 92/93 il Pisa cambia l’ennesimo allenatore, ma Josè Antonio Chamot resta il perno della difesa. Gioca titolare per 34 volte, espulso in una sola occasione. Il carattere non manca al “Flaco” e Zdenek Zeman viene colpito anche da questo aspetto durante la partita di Coppa Italia che contrappone il Pisa al Foggia, terminata per 2 a 2 il 2 Settembre del 1992. Il tecnico boemo è pronto ad accogliere Chamot a braccia aperte alla corte dei “Satanelli” pugliesi l’anno successivo.

La prima partita trasmessa in pay per view del calcio italiano è Lazio – Foggia del 29 Agosto del 1993. Chamot ritorna in serie A dopo due anni passati nel campionato cadetto. Il rendimento è costante, confermando tutte le sue qualità. La buona tecnica di base, una grande fisicità e forte temperamento, gli valgono anche la prima chiamata in Nazionale. Debutta nella “Selección” nella finale di andata dello spareggio per le qualificazioni ai Mondiali di USA 94, del 31 Ottobre 1993, Australia 1 Argentina 1. A 24 anni si trova a giocare tra i migliori del suo Paese, affianco al monumento del calcio mondiale Diego Armando Maradona.

Con Zeman si conferma stopper affidabile, capace di mettere fiducia alla retroguardia rossonera guidata dal portiere Franco Mancini. Ma anche al termine di questo campionato, Chamot viene espulso in due occasioni. Nel rocambolesco 5 a 4 subìto dal Piacenza, Josè non batte ciglio e abbandona il campo mestamente. Invece, nella sconfitta per 2 a 0 contro la Cremonese, è vittima di uno scambio di persona. Non è lui a commettere il fallo da rosso diretto, ma a nulla sono valse le proteste. Il Foggia alla fine rischia di qualificarsi per la Coppa UEFA, arrivando a pochi punti dall’impresa. Chamot colleziona 30 presenze e Zeman, che nel frattempo è diventato l’allenatore della Lazio per la stagione 94/95, chiede al Presidente Cragnotti di acquistare il roccioso difensore argentino.

Nell’estate del 1994, per la cifra di 5 miliardi di Lire, Josè Antonio Chamot è un giocatore laziale. A 25 anni è titolare nella squadra di Zeman, giocando al centro della retroguardia biancoceleste al fianco di Cravero, Bacci, Negro, Bergodi ed un giovanissimo Alessandro Nesta.

Anche quest’anno non è fortunato con i cartellini rossi, nella prima stagione a Roma, viene espulso 3 volte. La prima, ingiustamente, il 2 Ottobre 1994 durante un Fiorentina – Lazio 1 a 1, allontanato dal rettangolo verde reo di aver commesso un fallo da ultimo uomo. Oltre il danno, la beffa, uscendo dal campo viene colpito da una moneta da 500 lire che gli fa perdere sangue dalla testa. La seconda il 4 Dicembre 1994, in Cagliari – Lazio 1 a 1, questa volta giustamente per fallo da ultimo uomo (e calcio di rigore per la squadra sarda), la terza il 12 Febbraio 1995, in un Torino – Lazio 2 a 0.

Impiegato anche come terzino sinistro, Chamot spinge molto sulla fascia e crea numerosi pericoli. Uno di questi sblocca i quarti di finale di Coppa UEFA contro il Borussia Dortmund

Il primo gol arriva in un Lazio 4, Genoa 0 il giorno della festa del papà del 1995.

Dopo aver conquistato un eccellente secondo posto in campionato, raggiunte le semifinali di Coppa Italia e i quarti di Coppa UEFA, la stagione successiva lo vede ancora titolare fisso.

Nel 95/96 esordiscono i nomi e i numeri fissi sulle maglie da gioco, Chamot sceglie il numero 6, che è sempre stato il suo numero preferito. 32 presenze in Serie A (1 espulsione, sempre per fallo da ultimo uomo), 4 in Coppa Italia e 1 in Coppa UEFA. Terzo posto nella classifica finale, la Lazio di Zeman è una certezza ai vertici del calcio italiano.

Chamot intanto, inizia un percorso interiore che lo avvicina alla fede e a Dio: “Un giorno ero molto sopraffatto, stanco dei tanti viaggi, ho iniziato a guardare la televisione fino a quando ho trovato un canale cristiano e questo ha cambiato la mia vita perché ho imparato cos’è la Bibbia e chi è Gesù”. Racconta in un’intervista. “Quando si desidera avere denaro e poi ci si rende conto che il denaro non è tutto, cominci a sentire un grande vuoto. Dio ha riempito il mio cuore e cerco sempre di seguire la Sua parola”.

Nel 1996 partecipa come fuori età alle Olimpiadi di Atlanta, Chamot gioca da titolare in tutte le partite che lo vedono protagonista fino alla fine. L‘Argentina però perde 3 a 2 la finale contro la Nigeria con un contestatissimo gol al 90° minuto.

La stagione 1996/97 vede numerosi cambiamenti nell’undici titolare della Lazio: via, tra gli altri, Winter, Di Matteo e Boksic; dentro Protti, Okon e Fish. La concorrenza è alta, anche perché è esploso definitivamente il talento del romano e lazialissimo Nesta. Nonostante tutto, Josè riesce a conquistare per il terzo anno consecutivo i gradi di titolare, prima con Zeman in panchina, poi con Zoff. È una colonna della difesa, che a 27 anni è nel pieno della sua carriera. 34 presenze complessive (29 in Serie A, 2 in Coppa Italia, 3 in Coppa UEFA condite da un gol),

Nel 97/98 arriva Sven Goran Eriksson, in difesa la Lazio acquista Giuseppe Pancaro dal Cagliari e l’esperto Giovanni Lopez dal Vicenza. Chamot ha qualche problema fisico all’inizio della stagione, ed il tecnico svedese pian piano preferisce dar fiducia alla coppia di centrali Nesta-Negro, con Favalli terzino sinistro (capitano) e Pancaro terzino destro.

A fine anno con sole 11 presenze in campionato lascia la Lazio e l’Italia, alzando al cielo la Coppa Italia, destinazione Madrid.

All’Atletico torna a giocare con maggiore continuità e dopo solo una stagione e mezza, nel gennaio del 2000 a quasi 31 anni viene acquistato dal Milan esordendo da titolare il 27 Gennaio contro l’Inter in Coppa Italia. A Milano, sponda rossonera, riabbraccia il suo ex compagno Alessandro Nesta, raccoglie 51 presenze totali, vincendo una Coppa Italia nel 2003 e, soprattutto, la Champions League 2003.

Dopo una sola presenza con gli spagnoli del Leganes nella stagione 2003/04, torna in Argentina nel Rorsario Central. Nel 2006 a 37 anni si ritira proprio nel club dove la sua lunga carriera è iniziata.

Nel 2009 inizia la carriera da allenatore, come secondo, per passare per una sola stagione al River Plate dell’ex compagno laziale Matias Almeyda nel 2011 e tornare poi, nel 2017 al Rosario per esordire come allenatore della prima squadra.

Oggi Josè Antonio Chamot è il tecnico del squadra paraguaiana del Libertad, continua a vivere il calcio con passione, grinta e coraggio.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Paul Okon: piede lirico, ginocchio traditore, volontà invincibile

di Jean Philippe ZITO

Alla fine della stagione io e Paul partiamo per l’Italia, ci hanno organizzato dei provini. Ci stabiliamo a Prato da zia Bianca, sorella di papà, zio Egidio e da mio cugino Dimitri. Nella stessa casa vive anche il nonno e ci arrangiamo nella sua stanza: io e Paul dormiamo in un letto a castello, io sopra e lui sotto. Il nonno ha convinto quelli del Prato a farci allenare con loro. Per i primi tempi speriamo nel tesseramento, ma il Prato fa soltanto promesse e non le mantiene”.

Christian Vieri racconta, nella sua autobiografia, il rientro in Italia dopo aver passato l’intera adolescenza a Sidney. Il padre Roberto ha giocato nel Marconi Stallions sin dalla fine degli anni ’70, quindi il piccolo Bobo si è dovuto trasferire in Australia con la famiglia alla tenera età di 4 anni. Dopo aver praticato gli sport più disparati, con sommo stupore del padre, inizia a giocare anche lui a calcio e a quindici anni esordisce nelle giovanili del Marconi. Lega fin da subito con il suo compagno di squadra Paul e nel 1988 vuole tentare la fortuna nel bel paese.

Convince a partecipare a questa impresa anche l’amico australiano, che accetta l’ospitalità della famiglia Vieri, passando due mesi in Toscana. Christian decide di rimanere a Prato, mentre Paul Okon torna a Sidney pronto a giocarsi le sue chance nel Marconi Stallions.

Nella squadra degli “italiani di Sidney”, Okon (che è per metà d’origine italiana) si fa notare immediatamente per la sua capacità di sviluppare trame interessanti con la palla al piede e far filtro davanti alla difesa. Un’ottima tecnica, accompagnata da una buona visione di gioco, che lo porta ad essere titolare inamovibile nei celesti di Sidney. Collezionando nelle stagioni 1989/90 e 1990/91, ben 49 presenze, condite da 4 gol e vincendo l’Under 21 Player of the Season in entrami i campionali.

Queste eccellenti prestazioni fanno sì che arrivi anche la prima convocazione nella Nazionale maggiore. Nei “Socceroos” esordisce il 6 Febbraio del 1991, in una serata uggiosa a Paramatta durante l’amichevole persa per 2 a 0 contro la Cecoslovacchia. “È stata una serata piovosa, veramente tanto ed ero già stato convocato quando avevo 17 anni” ricorda Okon. “Sapevo che avrei avuto un’opportunità quella notte. Sono entrato nel secondo tempo”.

Sempre nel ’91 fa parte della spedizione ai Mondiali di Calcio Under 20 come capitano, segna anche un gol nella prima partita del girone C vinta per 2 a 0 contro Trinidad e Tobago. L’avventura dei giovani australiani si conclude con una finale per il terzo posto persa ai rigori contro l’URSS.

A diciannove anni, ormai lanciatissimo in patria, riceve un’allettante offerta dal Belgio.

Okon accetta e si trasferisce al Bruges, giocando fin da subito in una porzione del campo delicata che richiede esperienza e sicurezza. A fine stagione diventa campione di Belgio vincendo la Division 1 e partecipa con la Nazionale alle Olimpiadi di Barcellona.

Gli “Olyroos” superano il girone D insieme al Ghana, ai quarti battono la Svezia per 2 a 1 e in Semifinale affrontano la Polonia. Dopo un primo tempo abbastanza equilibrato, nella seconda parte la Polonia dilaga vincendo 6 a 1; è il peggior passivo registrato dalla Nazionale Olimpica australiana. Dopo aver perso l’anno precedente la finale di consolazione contro l’Unione Sovietica ai Mondiali under 20, Paul Okon perde ancora la finalina, il Ghana si impone 1 a 0.

Messe da parte le Olimpiadi, nel Bruges Paul Okon continua a giocare bene e a vincere. In totale il suo personale palmarès conta: 2 Campionati (91/92 e 95/96), 3 Supercoppe (1992,1994 e 1996) e 2 Coppe di Belgio (1995 e 1996).

Nel 1995 vince la scarpa d’oro belga, eletto a soli 23 anni miglior giocatore del torneo. Okon è incredulo, sale sul palco e durante la premiazione viene omaggiato da un’esibizione del cantante italiano Andrea Bocelli. Nel 1996 viene eletto miglior giocatore d’Oceania con 94 punti, precedendo Christian Karembeu, è l’apice della sua carriera.

A Roma, alla Lazio, occorre un sostituto di Roberto Di Matteo. Il centrocampista è titolare nella squadra di Zeman, ma vuole essere ceduto a seguito di alcune discussioni avute proprio con il tecnico boemo. Quest’ultimo chiede espressamente al direttore sportivo Nello Governato di provare a prendere un giocatore che sta seguendo da tempo, Paul Okon.

L’australiano è reduce da un brutto infortunio ai legamenti del ginocchio destro subito nel Febbraio del 1996, ma si sente pronto ad affrontare il ritiro estivo con la Lazio per la nuova stagione. Dopo cinque anni ricchi di successi con il club e personali, saluta il Bruges e il Belgio liberandosi a parametro zero e firma un contratto di tre anni con la squadra del Presidente Cragnotti.

Non ha paura dei paragoni con Di Matteo, conosce il proprio valore e, per esorcizzare qualsiasi altro timore, decide di indossare la maglia numero 16 lasciata libera proprio dal centrocampista italiano. L’ambientamento con il calcio nostrano non è semplice per nessun calciatore straniero, soprattutto poi se si passa dal placido modo di vivere il calcio in Belgio, al focoso ambiente romano.

Paul Okon dichiara al quotidiano di Dublino The Irish Time: “Per me il Campionato italiano è il migliore del mondo, in Belgio il calcio è lo sport più seguito ma rimane uno sport, ne parlano la domenica, il lunedì e poi non si sente altro fino al venerdì o al sabato. Qui a Roma ad ogni minuto della giornata, ogni canale televisivo ha programmi che si dedicano al calcio…”.

Esordisce con la maglia del più antico club di Roma, il 28 Agosto 1996 nel secondo turno di Coppa Italia nella vittoria della Lazio contro l’Avellino per 1 a 0. È il primo giocatore australiano nei quasi cento anni di storia del sodalizio biancoceleste.

Il debutto in Serie A avviene alla terza giornata, il 21 Settembre 1996, nell’incontro Inter-Lazio 1 a 1. Alla “Scala del calcio” il playmaker è titolare, gioca un ottimo primo tempo facendo vedere la sua classe e precisione nei passaggi. A dieci minuti dalla fine esce al posto di un giovane Roberto Baronio, la forma fisica non riesce a decollare. I problemi al ginocchio non sono superati completamente. Gioca complessivamente 11 gare da titolare nel girone d’andata, saltando ben 7 gare a causa dei consueti tormenti ai legamenti.

Nel frattempo il tecnico boemo viene esonerato, in panchina torna Dino Zoff e proprio Okon, fortemente voluto alla Lazio da Zeman, non le manda a dire sulla preparazione estiva che l’avrebbe danneggiato: “Il ginocchio mi ha dato molti fastidi. Le grane sono nate dal tipo di preparazione fatta con Zeman, molto dura. Non dico che non sia buona, ma non andava bene per me che ero reduce da un lungo infortunio. Senza Zeman il mio rendimento sarebbe stato diverso”.

Il primo anno alla Lazio si conclude con 18 presenze complessive (14 in Campionato, 2 in Coppa Italia e 2 in Coppa UEFA) e con il passaggio di Zeman alla Roma, commentato con sarcasmo da Paul: “Beati quelli della Roma…”.

Nella stagione seguente Sven Goran Eriksson diventa l’allenatore della Lazio. Lo svedese esplicita pubblicamente più volte la sua stima per il numero 16 che però sta vivendo un incubo. A 25 anni la sua carriera è a rischio a seguito della doppia operazione al ginocchio. Si assenta dai campi di gioco per l’intero campionato, la sua unica preoccupazione è quella di tornare a praticare lo sport tanto amato.

Lo sfortunato Paul riesce a tornare all’attività agonistica solamente sul finire della stagione 1998/99, vincendo sì la Coppa delle Coppe, ma partecipando come titolare alla sconfitta 1 a 3 con la Juventus del 17 Aprile 1999 e al pareggio 1 a 1 a Firenze del 15 Maggio, che consegnano lo scudetto nelle mani del Milan.

Allo scadere del contratto triennale lascia la Lazio vincendo (da spettatore) 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa e 1 Coppa delle Coppe. I tifosi laziali hanno potuto solo intuire la classe dello sventurato regista australiano, sostenendolo comunque nel difficile periodo personale.

Nella stagione 1999/2000 rimane in Italia, passando alla Fiorentina. Nei viola gioca solamente un anno, accumulando 11 presenze in totale. L’anno dopo va in Inghilterra al Middlesbrough e ci rimane per due stagioni. Gioca con più continuità il primo anno, recuperando una condizione accettabile. Nel 2001/02 invece si ferma nuovamente per infortunio.

Brevi parentesi al Watford prima e al Leeds poi, permettono a Paul Okon di ritrovare un certo feeling con il campo. Nel 2003/04 torna in Italia, in serie B va al Vicenza allenato da Beppe Iachini. Anche in quest’occasione però non riesce ad esprimersi al meglio.

Per questo motivo decide di tornare in Belgio, nazione che lo ha cresciuto calcisticamente e come uomo. A 32 anni accetta le lusinghe dell’Ostenda; in maglia gialla torna ad essere un calciatore affidabile e continuo, giocando da titolare 28 partite su 34. Paul si sente finalmente quello di un tempo, ma ha il rimpianto di non riuscire a salvare l’Ostenda dalla retrocessione.

Il calvario però ricomincia nel campionato successivo. Si trasferisce a Cipro, all’Apoel dove nel 2005/06 scende in campo solamente in 2 occasioni. Il ginocchio non lo lascia in pace.

Per il Maestro Paul Okon è tempo di tornare a casa con la famiglia, si trasferisce al Newcastle United Jets Football Club per l’ultima stagione da professionista della sua travagliata carriera.

Nel 2006/07, alla soglia dei 35 anni, è voglioso di far vedere di nuovo ai suoi connazionali che è ancora in grado di saper stupire: “Voglio fare bene, voglio che la squadra faccia bene e voglio giocare il maggior numero possibile di partite. Richiedo molto a me stesso, spero di essere in grado, prima di tutto di soddisfare me e poi tutti quelli dei Jets”.

Essere così meticoloso, dedito alla disciplina, gli ha permesso di regalare lampi di ottimo calcio per quasi tutte le partite della stagione.

Solamente una persona con grande carattere, forza di volontà e amore viscerale per il proprio lavoro, avrebbe potuto perseverare senza abbattersi o, addirittura, rinunciare.

Paul Okon ha il calcio dentro, è il suo modo di comunicare efficacemente. Appena ha appeso gli scarpini al chiodo ha iniziato ad allenare nel Paese natio, prima i giovani Socceroos e poi per le squadre di club. La sua passione è travolgente, come la voglia di non smettere mai.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Mark Fish: il primo sudafricano della Serie A, tra Nelson Mandela e la Lazio

di Jean Philippe ZITO

Lo sport ha la capacità di realizzare imprese straordinarie. Nel Sudafrica appena riemerso da più di 40 anni di apartheid, i mondiali di rugby del 1995 diventano l’archetipo delle gesta fuori dal normale.

Il presidente Nelson Mandela vuole riappacificare il Paese anche tramite la nazionale di rugby, da troppi anni associata esclusivamente ai “bianchi razzisti”. La stragrande maggioranza della popolazione del Sudafrica è di colore e ha sempre tifato contro gli “Springbok”. Grazie al carisma di Mandela e al coraggio del capitano della squadra, François Pienaar, i numerosi tentativi di riconciliazione hanno successo.

La narrazione di quegli avvenimenti sono divenuti leggendari, tanto da convincere Clint Eastwood a farne un lungometraggio. “Invictus” riesce a raccontare magistralmente il delicato sviluppo della vicenda, con un epilogo che ben si presta alla narrazione cinematografica. Infatti il Sudafrica vince ai tempi supplementari nella finale contro gli “All Blacks” della Nuova Zelanda con il punteggio di 15 a 12. È festa grande sugli spalti e nel Paese; non sono solamente i 15 in campo a trionfare, ma un popolo intero.

Pochi mesi dopo si svolge sempre in Sudafrica anche la Coppa d’Africa di calcio, dopo la rinuncia del Kenya. Sull’onda lunga emotiva del successo ottenuto dalla nazionale della “palla ovale”, le gare si svolgono in un clima festoso per quello che è l’esordio dei Bafana Bafana nel massimo torneo continentale dopo una lunga esclusione dovuta all’apartheid.

Il Sudafrica passa il girone A da primo in classifica, avendo battuto sonoramente i leoni del Camerun per 3 a 0 (Masinga al 15′, Williams al 37′ e Moshoeu al 55′), poi l’Angola per 1 a 0 (Williams al 57′) e perso, in maniera indolore, con l’Egitto per 1 a 0.

Al centro della difesa si fa notare il ventunenne Mark Fish, titolarissimo degli Orlando Pirates; abile nel gioco aereo, legge in anticipo le mosse degli avversari e ha un fisico esplosivo. Il numero 5 dei Bafana Bafana è reduce da un’annata memorabile.

Nel 1995, assieme ai suoi compagni, entra nella storia del calcio africano: gli Orlando Pirates, infatti, sono la prima squadra del Sudafrica a vincere la “Coppa dei Campioni” del continente nero. Un risultato eccezionale conquistato d’assoluto protagonista e, come capitano della squadra, alza al cielo anche la Supercoppa africana del ’96 giocata contro il JS Kabylie.

Colosso di quasi un metro e novanta, si trova a suo agio nel ruolo di libero, adattandosi bene sia come centrale difensivo di destra che di sinistra. Disputa tutte le partite del torneo per novanta minuti, dando sicurezza all’intero reparto.

Nei quarti di finale della Coppa d’Africa del ’96, contro l’Algeria segna addirittura il gol del vantaggio al minuto 72, dopo aver accompagnato l’azione offensiva dei compagni, su una ribattuta entra in scivolata e beffa il portiere avversario. Quest’ultima pareggia al minuto 84 con Lazizi, ma dopo poco più di un minuto arriva il gol vittoria di Moshoeu che regala le semifinali, stravinte contro il Ghana per 3 a 0 (Al 22′ e 87′ Moshoeu, al 46′ Bartlett).

In finale a Johannesburg il 3 febbraio 1996, il Sudafrica incontra la Tunisia. A quasi un quarto d’ora dal termine la partita è in equilibrio, poi, con la sostituzione di Masinga (attaccante della Salernitana, poi al Bari per 4 stagioni) con Mark Williams, la gara svolta improvvisamente. Quest’ultimo appena entrato mette a segno un uno-due che decide l’incontro al minuto 73 e al 75°.

I Bafana Bafana vincono la Coppa d’Africa, lo stadio è in delirio, per questa vittoria che è sicuramente coinvolgente e sentita. Il calcio è lo sport più popolare in Sudafrica e lo stesso Nelson Mandela è al settimo cielo durante la premiazione.

Il giovane Mark Fish si è conquistato sul campo la possibilità di andare a giocare in Europa. La Lazio infatti l’acquista per 2 miliardi e 600 milioni di lire dagli Orlando Pirates per la stagione successiva.

La trattativa viene portata avanti da Vincenzo D’Ippolito, che convince Nello Governato (DS della Lazio) ad acquistare il giovane difensore. Lo stesso D’Ippolito chiude l’affare con il Presidente degli Orlando Pirates in un casinò di Johannesburg, il primo tra una squadra africana di club e una italiana.

A Roma l’attende un sistema di gioco molto complesso, con la stagione 1996/97 si è entrati nel terzo anno della gestione Zeman. Il tecnico boemo viene da un secondo e terzo posto conquistato negli anni precedenti, facendo giocare al sodalizio biancoceleste un calcio meraviglioso, ma molto dispendioso.

La Lazio nella nuova stagione perde pedine importanti: a centrocampo vengono venduti due colonne come Roberto Di Matteo e Aron Winter. In attacco parte in direzione Torino bianconera, Alen Boksic. Per sopperire a queste gravi perdite, vengono acquistati tra gli altri, il promettente centrocampista del Brescia Roberto Baronio, il miglior giocatore dell’Oceania, Paul Okon (voluto fortissimamente da Zeman al posto di Di Matteo), il capocannoniere in carica Igor Protti e il talento ceco Pavel Nedved.

Fish si guadagna la fiducia del tecnico ed esordisce con la maglia biancoceleste da titolare in Coppa Italia nel secondo turno il 28 agosto 1996 contro l’Avellino.

La prima partita di Campionato lo vede sempre partire dal 1° minuto, in casa del neopromosso Bologna. La sconfitta per 1 a 0 fa intuire che il proseguo della stagione per la Lazio non sarà semplice.

Il centrale sudafricano torna titolare alla sesta giornata, collezionando buone prestazioni, soprattutto per essere un difensore esordiente in serie A nella retroguardia di una squadra Zeman. Arrivati quasi al giro di boa, alla sedicesima giornata, nel pareggio al Bentegodi per 1 a 1, arriva anche il primo (e unico) gol con la Lazio.

Gli alti e bassi in Campionato, le prestazioni a volte poco convincenti, le troppe sconfitte e i dissapori con la società, fanno terminare l’avventura del tecnico boemo con la Lazio il 27 gennaio 1997. Dopo la sconfitta in casa, un girone dopo sempre contro i felsinei, avviene l’inevitabile esonero, creando il precedente unico in Italia di un Presidente-allenatore; Dino Zoff è tornato l’allenatore della Lazio.

Con il tecnico friulano Mark Fish vede poche volte il campo. Saranno 140 i minuti totali giocati nel girone di ritorno, 90 dei quali nel derby del 4 Maggio 1997 pareggiato nei minuti di recupero da Igor Protti (con il dubbio del gol di Balbo forse salvato proprio da Mark Fish sulla linea) e festeggiato con il consueto “trenino”, sotto la Sud.

L’unica stagione alla Lazio di Mark Fish si conclude con 17 presenze (15 in campionato e 2 in Coppa Italia), un gol all’attivo e un prezioso quarto posto.

Nella stagione successiva viene venduto al Bolton, facendo fare alla società una plusvalenza di circa 2 miliardi di Lire. Dopo otto stagioni nel Campionato inglese (tra Bolton, Charlton e Ipswich Town), evento irripetibile per un calciatore sudafricano narrato anche in un libro, si ritira a seguito di un grave infortunio al ginocchio.

La travagliata vita sentimentale, con due matrimoni alle spalle, i problemi economici e addirittura di droga, farebbero pensare al peggio. Mark Fish invece, da sempre legato alla lotta per i diritti civili e contro la discriminazione razziale (risulta essere attualmente iscritto all’ANC), decide di dar vita ad una fondazione per aiutare i bambini poveri del Sudafrica: la Mark Fish Foundation.

Dopo aver collaborato con il Ministero dello Sport Sudafricano per l’organizzazione dei mondiali del 2010, supera anche un grave problema di salute, continuando a dedicarsi al calcio grazie alla beneficenza e perseguendo il suo nobile scopo nel vivido ricordo di Nelson Mandela.