Alcuni giocatori sono dei predestinati. Ogni tappa della loro carriera è scandita da una perfezione temporale che nemmeno il miglior regista sarebbe in grado di mettere in ordine. Esordio, primo gol, prima maglia azzurra, fascia da capitano. Tutte circostanze perfette, che incoronano precocemente come Campione un calciatore che più di ogni altro è destinato a lasciare un segno indelebile nella propria squadra d’appartenenza. Poi ci sono altri che rimangono, per una serie di motivi, nella terra di nessuno. Né comprimari, né fuoriclasse, sempre così a metà strada da non riuscire a mettere tutti d’accordo, quasi a spaccare un’intera tifoseria e gran parte della critica. Perché anche se si diventa presto Principe, non è detto che sia automatico il fatto di assurgere al ruolo di Re. Soprattutto se ti ritrovi a giocare nella Roma della metà degli anni ’80 e ad essere l’erede designato di uno che in quella squadra ha appena fatto la storia e che veniva chiamato ‘il Divino’.
A soli 22 anni, però, c’era tutto il tempo per rifarsi, soprattutto se si è entrati in pianta stabile in Nazionale e se sta per arrivare un Mondiale da giocare proprio nella tua città. Anche lì la sfortuna ci mise del suo, con una squadra che finì al terzo posto, imbattuta e con un solo gol subito in sei partite, purtroppo decisivo, segnato da Caniggia e causato da un infortunio dell’amico Zenga. Gli anni, a questo punto, sono 26, e qualcosa inizia a cambiare. Dino Viola, il presidente-papà, muore pochi mesi dopo e con Ottavio Bianchi in panchina il rapporto non sboccia mai. Pessima la stagione 1990/91 in campionato, ma esaltante nelle Coppe, con la terza Coppa Italia personale messa in bacheca e un derby italiano contro l’Inter in finale Uefa da giocare in 180’. Dieci minuti di follia a San Siro obbligano Giannini e compagni a rimontare un passivo di 2-0 nel ritorno in un Olimpico stracolmo. Coreografia da brividi e tifo incessante riescono a spingere in rete solo un gol, quello di Rizzitelli, che non basta alla Roma per alzare il trofeo. Sette anni dopo il Liverpool, ancora una volta sono gli altri a prendersi la Coppa.
Due anni di anonimato sotto la gestione Ciarrapico, fino all’avvento, nel 1993, di Franco Sensi alla presidenza e Carlo Mazzone in panchina. Inesistente il rapporto col presidente, difficile con l’allenatore, anche se, col tempo, diverranno una cosa sola. Per Giannini e per la Roma è una stagione da buttare, con una serie di prestazioni sconcertanti e il baratro della B sempre più vicino. Sono ben 14 le partite senza vittorie per una squadra allo sbando, che perderà il derby di ritorno, anche per un rigore sbagliato dal Principe sotto la Sud. La società ha già deciso di accomiatarlo, ma quindici giorni dopo, come nei migliori thriller, succede qualcosa. Si gioca a Foggia e i rossoneri dopo pochi minuti si portano in vantaggio. Qualcosa, però, è diverso. Soprattutto per il Capitano. Gioca, si diverte, detta i tempi. Come qualche anno prima. Mazzone getta nella mischia un giovanissimo Francesco Totti e al minuto 74, su respinta della difesa, il numero 10 scaglia un bolide di sinistro che si va a insaccare alle spalle di Mancini. 1-1 e corsa liberatoria sotto un settore ospiti impazzito, con tanto di lacrime per tutto quello che aveva dovuto sopportare. Un minuto. In un solo minuto ti passano davanti i sogni di una vita. Quelli mai raggiunti e gli altri gettati alle ortiche per la scelta di infilarti ogni domenica una maglia che è come una seconda pelle. Quella che hai sventolato più volte come una Bandiera sotto la tua Curva dopo tanti gol. Anche se sai che un presidente appena arrivato te la vuole e te la sta per togliere, che non sarai ricordato come altri e che qualcuno potrà sempre dire “però giocava bene solo in Nazionale”. Poco importa. Scudetti e Coppe Campioni da un’altra parte non t’avrebbero mai fatto vivere quel folle pomeriggio a Foggia. Con una maglia addosso, quella maglia. L’unica. Che nessuno potrà mai amare più di te.
Complimenti, ottimo pezzo.