Il miracolo del Profesòr: la storia di Luis Fernando Montoya

di Fabio BELLI

La storia che stiamo per raccontare finisce e comincia con un colpo di pistola: fuori da un campo da calcio e dentro una realtà difficile che undici uomini guidati da un allenatore di calcio speciale, un professore, avevano portato a un passo dal tetto del mondo. Con la conferma che le imprese eccezionali vengono compiute da persone in grado di piegare qualunque tipo di avversità.

Caldas non è una città. È uno dei 32 dipartimenti che formano la Colombia, nazione che va pazza per il fútbol alla stregua di tutte le realtà sudamericane. Gente semplice, di montagna, per la quale il calcio può rappresentare un riscatto sociale, per qualcuno l’unico in un tessuto sociale dove disoccupazione e violenza per le strade sono piaghe sempre aperte. Il capoluogo di Caldas è Manizales, poco meno di 400 mila abitanti e tante difficoltà da affrontare, su tutte una sismicità terribile, che ha portato però la cittadina di montagna, a oltre 2000 metri sul mare, a diventare un avamposto dell’edilizia antisismica. Realtà difficile e logisticamente penalizzata, Manizales vive per l’orgoglio legato alla squadra di calcio locale: l’Once Caldas, che rappresenta con il nome del dipartimento tutto il territorio e che vive della gloria degli anni Cinquanta, quando l’Once Deportivo e il Deportes Caldas unirono le loro forze: da quell’esperienza il club ha ereditato il primo titolo nazionale che appare nella sua bacheca.

Una veduta di Manizales

Difficile competere con le grandi storiche del calcio colombiano, ma alla fine degli anni Novanta qualcosa inizia a cambiare: nel 1998 l’Once Caldas sfiora il titolo Nazionale, perduto contro il Deportivo Calì, e fa il suo esordio in Copa Libertadores, la Champions League sudamericana. Manca qualcosa e come spesso accade, non solo nel calcio, il profeta non si trova in patria, anche se sulla sua provenienza c’è una prima clamorosa coincidenza per la nostra storia. A Medellín, 210 chilometri da Manizales ma a cinque ore di strada visto il tortuoso sentiero di montagna che separa le due città, il prestigioso Atletico Nacional (se lo ricordano bene i tifosi del Milan: erano loro gli avversari a Tokyo quando René Higuita fu bucato da una punizione di Chicco Evani che portò i rossoneri di Sacchi sul tetto del mondo) ha un allenatore diverso in panchina. Classe 1967, arriva in prima squadra dopo una lunga trafila nelle giovanili. Si chiama Luis Fernando Montoya e ha due particolarità: avrebbe potuto diventare un calciatore di talento, ma ha preferito continuare gli studi per aiutare economicamente la famiglia. Questo gli è valso l’acquisizione di modi gentili e colti che l’hanno subito portato ad avere un soprannome, El Profesor, divenuto rapidamente El Profe per brevità. La seconda è che il Profesor è nativo del distretto di Antioquia, quello che ha Medellín come capoluogo, ma incredibilmente viene da una città che si chiama… Caldas. Segno del destino?

Luis Fernando Montoya ai tempi dell’Atletico Nacional di Medellin

Lo avrà pensato probabilmente anche lui quando l’Once lo chiama per tentare quella scalata al titolo mai riuscita al club «unificato» di Manizales. El Profe è fresco del secondo posto nel campionato colombiano con una squadra che comprendeva Milton Patiño, Juan Carlos Ramírez, Freddy Totono Grisales, Iván Champeta Velásquez, Faustino Asprilla: stelle della Nazionale, mentre l’Once è provincia pura del calcio della Cordigliera: la gente mastica e sputa tabacco e guarda inizialmente con diffidenza l’uomo di Caldas che viene da fuori Caldas.

Nessuno pensa che Montoya possa diventare il miglior allenatore del Paese: nel 2003 El Profesor chiama a raccolta Juan Carlos Henao, Samuel Vanegas, Elkin Soto, Arnulfo Valentierra, Sergio Galván Rey, Dayro Moreno: una generazione nuova che non ha nulla a che fare con la Colombia di Francisco Maturana, che a Italia ’90 e USA ’94 partì addirittura col sogno di conquistare il titolo mondiale. Gente nuova, idee nuove e le strade di Manizales sono in festa per la conquista del secondo titolo nazionale della storia del club. Il calcio di Montoya ha principi precisi: chi governa lo spazio in campo governa la partita, e quindi al talento dei funamboli sudamericani deve aggiungersi una feroce applicazione all’europea. Fantasia e sacrificio nel fútbol possono andare a braccetto, una terza via che da quelle parti forse non avevano mai provato: conosce i classici della letteratura ma divora le partite del Milan di Sacchi e del Barcellona di Cruijff, i giocatori con lui possono parlare e si convincono di essere in grado di fare qualsiasi cosa.

L’Once Caldas campione di Colombia

Basterebbe il titolo nazionale a Manizales, ma Montoya ha un’idea folle: la Libertadores, che ne dite della Libertadores? I dirigenti del club si limitano a dargli del pazzo, ma dentro di loro pensano di avere a che fare con un eretico: è già stato sacrilego disarcionare per una stagione le grandi del calcio colombiano, figurarsi fare lo sgambetto a brasiliani e argentini in campo internazionale. El Profe se la ride sotto i baffi: certo, servirebbe un sorteggio un po’ fortunato per far prendere le misure ai suoi ragazzi fuori dalla Colombia, abituarsi ai viaggi, capire la competizione. Sì, il girone è agevole. Si comincia a fare sul serio agli ottavi di finale, ma l’Once Caldas è troppo forte anche per gli ecuadoriani del Barcelona di Guayaquil.

L’Estadio Palogrande, casa dell’Once Caldas

Ai quarti la prima grande impresa: fuori il Santos di Robinho, Diego ed Elano con un leggendario gol su punizione di Valentierra al Palogrande, il catino da 40 mila posti dell’Once Caldas. I gol di Herly Alcázar e Jorge Agudelo fanno fuori il San Paolo in semifinale: doppio scalpo brasiliano per arrivare a quella che sembra una montagna troppo alta da scalare. Il Boca Juniors di Carlos Bianchi, che ha ripreso a vincere dopo la surreale parentesi alla Roma, è campione del Sud America e del mondo in carica: ai rigori ha battuto il Milan di Ancelotti. Montoya parla ai suoi con la pazienza del Professore: “Gli argentini sanno tutto di questa competizione, di queste partite, noi niente. Possiamo fare il nostro gioco e farci fregare alla prima distrazione, oppure possiamo annullarci a vicenda e provare a vincerla, questa coppa“. 0-0 alla Bombonera, 1-1 nel match di ritorno, il 1 luglio 2004 al Palogrande: a Manizales tutti col fiato sospeso per i calci di rigore. L’Once ne segna due su quattro, il Boca nessuno, con Bianchi che non porta neanche i suoi a ritirare la medaglia d’argento: il vecchio squalo non può tollerare che i nervi dal dischetto siano saltati ai suoi e non ai pivelli. Manizales esplode di gioia, l’Once Caldas è la seconda squadra colombiana campione del Sud America nella storia, El Profesor ha compiuto un’impresa incredibile.

L’Once Caldas “campeon de la Libertadores”

Il 2 luglio 2004 gli inservienti stanno ancora spazzando, a mattino inoltrato, le tribune del Palogrande. Squilla il telefono negli uffici, la telefonata arriva da Bogotà, il piano della federazione è chiaro: l’Once Caldas deve mettere a disposizione Montoya per la Nazionale colombiana. Un passo inevitabile per un allenatore che ha portato una cittadina di provincia e di montagna a diventare campione continentale. Montoya però chiede tempo: c’è ancora un obiettivo da raggiungere. Dall’altra parte del mondo si è consumato infatti un altro successo a sorpresa: il Porto di un giovane, irriverente allenatore, José Mourinho, è passato davanti al Manchester United di Ferguson, alla Juve di Capello, al Real Madrid dei Galacticos e ha vinto la Champions League. Le due sorprese il 12 dicembre 2004 si affrontano a Yokohama per la Coppa Intercontinentale e il titolo di campione del mondo per club. Mourinho nel frattempo sulla panchina del Porto non c’è più, avendo ceduto alle lusinghe della Premier League e del Chelsea. El Profesor è invece al suo posto, come sempre. La partita è a scacchi e si va di nuovo ai rigori, ma stavolta (quasi) tutti segnano. L’Once Caldas sbaglia con Jonathan Fabbro, che vede schiantarsi sul palo le speranze di un’intera nazione: mai una squadra colombiana era arrivata così vicina al titolo mondiale. L’Once Caldas viene accolto al ritorno a Manizales con un tripudio, ma tutta la Colombia si è innamorata di El Blanco, come viene soprannominata la squadra. Il ciclo però sembra destinato a finire, con Montoya corteggiato da tutto il Sud America ma in procinto di accettare la guida della Nazionale.

Rigori, da benedetti a maledetti: l’Once Caldas battuto dal Porto a Yokohama

Abbiamo però detto che questa storia finisce e comincia, contemporaneamente, con un colpo di pistola. Il 22 dicembre 2004 El Profesor si appresta a passare il Natale in famiglia, appena tornato dalla finale di Yokohama. Attende sotto casa la moglie Adriana Herrera che ha prelevato denaro da un bancomat, prima di andare a cena, ma si accorge che degli uomini accelerano il passo dietro di lei, per aggredirla e rapinarla: Montoya interviene e un proiettile lo colpisce alla colonna vertebrale. La Colombia passa il Natale del 2004 sotto choc: il suo miglior allenatore è in fin di vita e i chirurghi lo operano per ore per salvargli la vita. Ci riescono, anche se la prognosi è terribile: El Profesor resta tetraplegico, immobilizzato in un letto, gambe e braccia sono fuori uso per sempre. Gli aggressori vengono individuati e quasi piagnucolano davanti alla polizia dopo aver scoperto chi è la loro vittima: una scena surreale che non li risparmierà da una durissima condanna.

La Colombia piange, ma l’eccezionalità di Montoya sta di nuovo per emergere in maniera incredibile. Il corpo è stato offeso ma la mente è sempre quella, il dolore della riabilitazione viene superato con una tenacia senza pari. El Profesor ha raccontato di quei giorni: “Ho dovuto dare l’esempio a mio figlio che, anche se stavo attraversando un momento difficile, non potevo arrendermi. Ho passato momenti molto complicati e questo mi ha rafforzato mentalmente. Penso di essere stato preparato in anticipo a ciò che stava arrivando“. La preparazione è l’insegnamento di vita che Montoya non mancava di dare ai suoi giocatori, forgiato dagli anni di studio e di lavoro con ragazzini del settore giovanile strappati alla strada: «Siamo capaci di superare tutto se ci mettiamo in testa di farlo».

Adriana è una figura centrale nella ripresa del Profesor. Montoya la conosce da quando era bambino, ma si sono fidanzati solo a ventisei anni: da allora non si sono più lasciati, con Adriana che l’ha seguito sui campi di tutto il mondo. Una storia d’amore meravigliosa. Non può di certo abbandonarlo nella sua sfida più difficile, così come il figlio José Fernando, che nel 2004 ha solo tre anni. A tutt’oggi El Profesor lavora dalle quattro alle cinque ore al giorno con il fisioterapista. “La cosa più importante è la perseveranza, perseverare affinché un giorno io possa muovere le braccia per abbracciare di nuovo mio figlio, sarebbe più bello di qualunque coppa alzata al cielo“.

Montoya oggi con la sua famiglia: la mogie Adriana e il figlio José Fernando

A quello di El Profesor si è aggiunto un altro soprannome per Montoya, campeón de la vida: il suo recupero è stato giudicato miracoloso dai medici tanto quanto la conquista della Libertadores da parte dell’Once Caldas. Pep Guardiola, Jürgen Klopp, José Mourinho, Diego Simeone, Marcelo Bielsa e Hans-Dieter Flick sono i suoi allenatori preferiti, quelli con cui continua a relazionarsi e a lavorare. Ha ricevuto il premio come miglior allenatore del Sud America, un riconoscimento ottenuto solo da altri tre tecnici colombiani nella storia: Francisco Maturana (1993), Hernán Darío Gómez (1996) e Reinaldo Rueda (2016). Anche dalla sedia a rotelle, l’occhio sul calcio e sulla vita del Profesor è quello di sempre. Nella sua ultima intervista ha raccontato: «Mi è sempre piaciuto il buon calcio, all’Once Caldas non avevo grande ricchezza tecnica e ho dovuto adattarmi». Un’attitudine che probabilmente lo ha salvato: vincere oltre ogni pronostico. E al mondo in difficoltà, nel 2020, ha ricordato la sua ricetta per i tempi difficili: “La pandemia è come una partita di calcio, la chiave sta nell’impegno che si mette e nella responsabilità verso se stessi e verso chi ci circonda. Prendiamoci cura di noi stessi, sempre“.