Roberto Mancini, la lucida follia della giovinezza

di Enrico D’Amelio

Se non sapessimo nulla della sua storia e lo conoscessimo ora, perfettamente calato nella grigia Manchester dei potenti sceicchi arabi, con tanto di sarto personale e pluriennale contratto faraonico, faticheremmo a credere che sia stato uno dei geni più ribelli e avversi al potere di quasi vent’anni di calcio. Invece, quel carattere difficile e controcorrente, sempre schivo e mai banale, gli ha consentito di raccogliere forse un quarto delle soddisfazioni che meritava in relazione alla sua classe smisurata e sopraffina. Lui, Roberto Mancini, normale non è mai stato. Di difficile collocazione tattica, perché incontrollabile e anarchico, come tutti quelli che rifiutano gli stereotipi o i cliché preconfezionati, ha incarnato per quattro lustri il ruolo di giocatore simbolo di una delle squadre più belle degli anni ‘80, la Sampdoria.

Più volte le sirene dei grandi club del nord hanno provato a farlo vacillare, ma, pur di non dare un dispiacere a Paolo Mantovani (“se non gioca Roberto, non mi diverto”, diceva l’ultimo presidente tifoso che l’aveva preso neanche diciottenne dal Bologna), ha preferito mettere le radici per 15 anni nella città della Lanterna. Una scelta di cuore, spontanea, che ha regalato tante difficoltà e alcune gioie, anche se uniche, come lo scudetto del 1990/91, il solo nella storia della Sampdoria, o la Coppa delle Coppe vinta in Svezia contro l’Anderlecht, dopo il primo tentativo andato a vuoto contro il Barcellona. La stessa squadra che gli ha inflitto la delusione più cocente della carriera, con quel gol di Ronald Koeman a Wembley allo scadere dei supplementari, negandogli la gioia di alzare la Coppa dei Campioni da calciatore. Vita difficilissima in Nazionale, dove mal sopportava gli schemi integralisti di quell’Arrigo Sacchi, che ai giocatori di talento un po’ ribelli, ha sempre preferito i cursori politicamente corretti del suo Milan berlusconiano. Un suo grande amico, Giuseppe Giannini, classe ‘64 come lui, ed epurato senza appello come lui dal sergente di ferro di Fusignano, rispose così a chi gli chiedeva se avesse potuto ancora indossare la maglia azzurra: “Credo che un’opportunità io e Roberto l’avremmo meritata, visto che Sacchi, dopo di noi, ha convocato cani e porci”. Questo ha sancito la fine di ogni possibile apertura per i due numeri 10 incompresi, ma, forse, anche per loro, senza un romagnolo di tutt’altra pasta in panchina come Azeglio Vicini, non sarebbe stata più la stessa cosa.

Dopo gli anni migliori, e mai più ripetuti, per la Genova blucerchiata, via via cominciavano a lasciare la Liguria i compagni di una vita. Pagliuca si spostava a Milano sponda Inter, Vierchowod tentava di vincere la Champions (e ci riusciva al primo colpo) alla Juventus, e, soprattutto, l’altro gemello del gol Gianluca Vialli era già andato via. Di quella splendida Sampdoria, che nulla aveva vinto prima di lui e che nulla vincerà dopo di lui, era rimasto ben poco. Solo la sua maglia numero 10 e la fascia di capitano bianca al braccio, a coprire il tatuaggio del marinaio “baciccia”, simbolo doriano, con altri dieci giocatori che non parlavano la sua stessa lingua col pallone tra i piedi. Era venuto a mancare il Presidente-papà, e col figlio Enrico che ne aveva preso il posto non s’era creato lo stesso idilliaco rapporto. La Doria iniziava un lento declino, e a 33 anni Roberto tentava il salto nel buio nella Capitale, con la maglia della Lazio, insieme al suo secondo maestro Sven Goran Eriksson. Un altro passo per pochi, un’altra avventura in una squadra che i trofei alzati li aveva visti solo in televisione. Almeno fino ad allora. I risultati? Coppa Italia al primo colpo, Coppa delle Coppe l’anno dopo e Scudetto al terzo. L’ultimo da giocatore per il Mancio. L’unico, insieme allo zar Vierchowod, a vincere due scudetti con due maglie diverse che non fossero di Inter, Juve o Milan.

Poi, dopo una breve esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio, la carriera da allenatore. Fiorentina nel 2001, di nuovo Lazio, fino all’approdo a Milano sulla panchina nerazzurra a soli 40 anni. La prima netta virata per chi non s’era mai messo da “quella parte”. Quattro anni a San Siro, i primi due Scudetti vinti da allenatore, quindi, nel 2008, complice l’arrivo di Mourinho, l’addio. E poi, storia dei giorni nostri, l’esperienza di Manchester alla guida dei citizens. Da giovane calciatore ribelle fuori dagli schemi, a tecnico inserito nei rigidi contesti dei più importanti e facoltosi club europei. La dura e cruda realtà, che sveglia tanti ragazzi di quella generazione, oramai diventati uomini, da un “sogno ormai rattrappito”.

Ma sempre in un’intervista, dell’aprile 2011, quando il City iniziava a diventare quello che è ora, ovvero la migliore squadra d’Inghilterra e, soprattutto per loro, dopo anni di umiliazioni, la prima di Manchester, gli veniva chiesto se la Coppa Campioni non vinta da giocatore potesse essere il suo vero obiettivo da tecnico. La risposta ha fatto riemergere alla mente ricordi oramai assopiti: “E’ vero – ha detto – che la Champions League è un po’ la mia ossessione. Ma la finale persa contro il Barcellona nel 1992 a Wembley è una ferita che non si potrà mai rimarginare. Per riuscirci, e chiudere definitivamente il cerchio, dovrei farlo solo sulla panchina della Sampdoria”. Qualcuno, dalle parti di Marassi o Sampierdarena, ascoltando le sue parole, avrà potuto chiudere gli occhi, e rivivere le immagini di quel decennio, sbiadite ma indelebili, in cui la lucida follia della giovinezza di un genio ha fatto salire una squadra, operaia fino ad allora, quasi sul tetto più alto d’Europa. Poco importa se l’ultimo passo non è stato compiuto. Sarebbe sciocco chiedere ai geni di poter contemplare la perfezione nelle loro imprese.