“Quando eravamo re” è uno splendido documentario che racconta l’epopea del mitico scontro per il titolo dei pesi massimi di pugilato che avvenne a Kinshasha, nell’allora Zaire, tra Muhammad Alì e George Foreman. E chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro, il 30 ottobre del 1974, sicuramente sapeva di ammirare due giganti della boxe ma non credeva certo di andare incontro ad un declino inarrestabile e di stare toccando un picco massimo.
Lo stesso è avvenuto nel calcio: nel 1998 a Parigi la finale di Coppa UEFA tra Inter e Lazio sembrava solo l’ennesimo capitolo di un dominio incontrastato a livello internazionale del calcio italiano. Dopo il 1990 (Juventus-Fiorentina), il 1991 (Inter-Roma) e il 1995 (Juventus-Parma), per la quarta volta in nove anni la finale della competizione era tutta italiana. In un decennio avevano raggiunto la finalissima di Coppa UEFA anche il Napoli (1989), il Torino (1992), la Juventus (1993) e ancora l’Inter (1994, 1997). Solo nella stagione 1995-96 (Bayern Monaco-Bordeaux) non ci furono italiane in finale in quel decennio. E in Coppa dei Campioni (che proprio in quegli anni diventava Champions League) la tendenza era la stessa, senza dimenticare la Coppa delle Coppe che si chiuse nel 1999 proprio con un successo della Lazio.
A pensarci oggi, con le italiane che non arrivano in finale di Coppa UEFA (ora divenuta Europa League) da vent’anni, non ci si può credere. Quella sera i flash di Parigi, inconsapevoli di trovarsi di fronte al picco massimo di cui sopra, immortalarono un duello tra due campioni straordinari. Una partita nella partita: quella che vide il Fenomeno, Luis Nazario da Lima detto Ronaldo, sovrastare il miglior difensore della sua generazione, non solo a livello italiano, bensì mondiale, Alessandro Nesta. Entrambi inconsapevoli del futuro: nei mesi successivi sia il brasiliano sia l’azzurro andarono incontro a terrificanti incidenti che forse (nel caso di Ronaldo siamo alla certezza) ne compromisero le potenzialità future, ma non sbarrarono la strada ad un futuro pieno di straordinari successi.
Una sfida strana perché in realtà Nesta aveva vinto un primo round. In campionato, con entrambe le squadre impegnate nella rincorsa scudetto alla Juventus, la Lazio sovrastò l’Inter con un perentorio tre a zero. Ronaldo fu annullato, Nesta un gigante. Le due squadre erano in momenti di forma diametralmente opposti rispetto a quella notte di Parigi, ma l’accorgimento di Eriksson fu quello di affidare il controllo diretto del Fenomeno a Paolo Negro, che da terzino destro in quella stagione si trasformò in centrale di formidabile efficacia. Nesta, con movimenti da quello che in un calcio antico e affascinante sarebbe stato definito un “libero”, chiuse tutte le vie di fuga alternative al brasiliano, che fu così disinnescato.
Gigi Simoni, tecnico di quell’Inter straordinaria anche se poco vincente, non si lasciò scappare, da vecchia volpe qual era, l’accorgimento. E chiese aiuto a Ivan Zamorano, bomber velenoso e capace di far saltare qualsiasi raddoppio di marcatura. Fu lui a scardinare la difesa laziale dopo pochissimi minuti. Con la Lazio subito costretta ad inseguire, Ronaldo fu libero di affrontare un faccia a faccia con Nesta dal quale risultò trionfatore, grazie agli spazi moltiplicatisi di fronte a sé. Il centrale romano non rinunciò a battersi come un leone, ma l’ultimo gol, quello del definitivo tre a zero, siglato dal Fenomeno fu il sigillo alla serata che ebbe un solo vincitore, così come nella boxe.
La notte di Parigi si tinse di nerazzurro: Nesta aspettò un anno per consolarsi e diventare il primo capitano laziale ad alzare un trofeo europeo (anzi, due nel giro di quattro mesi con Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea messe in bacheca a stretto giro di tempo). Quella rimase l’esibizione più bella di un Ronaldo che nei successivi tre anni fu massacrato dai problemi fisici, fino alla resurrezione del 2002 e alla Coppa del Mondo alzata da protagonista col Brasile, da capocannoniere e con doppietta in finale contro la Germania. La storia con l’Inter invece era già finita poche settimane prima, nel paradossale pomeriggio del 5 maggio. Ma quella, è proprio il caso di dirlo, è un’altra storia, di quando la fotografia dei re cominciava già a sbiadirsi.
“C’erano anche le condizioni per tornare alla Lazio prima di andare alla Roma. A Parma andavo molto d’accordo con Crespo a cui ho fatto fare tanti gol. Quando lui venne a Roma la prima cosa che disse fu di prendere Fuser, ma il vice allenatore era Mancini…C’era quella possibilità che non è stata presa in considerazione, poi mi hanno proposto la Roma nel momento in cui era al vertice e ho detto di sì”. Diego Fuser è convinto di non aver mancato di rispetto ai tifosi laziali andando a giocare per due anni alla Roma.
“È vero. Magari i tifosi della Lazio ci possono essere rimasti male, però io penso che un calciatore quando dà tutto, quando va in una società e dimostra che per quella maglia dà tutto…”. Fuser ha dimostrato sul campo, nella sua ventennale carriera, di non risparmiarsi mai. Infatti l’impegno e la corsa, oltre alla tecnica e un gran tiro da fuori, sono le caratteristiche principali del piemontese, funambolo della fascia destra.
Tutta la famiglia di Diego Fuser tifa Torino da sempre, anche per questo motivo il centrocampista di Venaria Reale fa parte degli ultimi “ragazzi del Filadelfia”.
Cresce con la maglia granata addosso, nel mito del Grande Torino e calpestando il prato dello stadio simbolo della gloriosa società torinese.
Esordisce in Serie A il 26 Aprile del 1987, durante il derby della Mole. Junior si tocca l’inguine sul finire del primo tempo, ad inizio ripresa non si presenta in campo: stiramento.
Gigi Radice fa alzare dalla panchina il diciannovenne proveniente dalla Primavera.
Fuser entra in campo e gioca una partita d’applausi contro Platini e compagni. È, insieme a Lentini, protagonista nell’azione del pareggio di Cravero, un debutto da incorniciare.
La consacrazione in campionato arriva l’anno dopo. 38 presenze totati (30 in Serie A e 8 in Coppa Italia), 4 gol. Il 27 Novembre 1988 nella vittoria allo Stadio Olimpico di Roma contro i giallorossi per 3 a 1, arrivano i primi gol nel massimo torneo; una doppietta per il numero 14 che a 20 anni inizia prepotentemente a far parlare di sé.
Nell’estate del 1989 il Milan di Berlusconi acquista per 7 miliardi di Lire Diego Fuser, che si trasferisce nella squadra campione d’Europa in carica. Arrigo Sacchi è contento del suo arrivo e lo fa esordire immediatamente in una partita ufficiale. Il 23 Agosto debutta in Coppa Italia con la maglia rossonera, nella vittoria ai calci di rigore contro il Parma.
Durante la stagione si ritaglia un buono spazio nonostante l’agguerrita concorrenza. 20 presenze in Serie A e 2 gol di cui 1 nel derby della Madonnina vinto per 3 a 0 (i derby sono una costante nella carriera di Fuser); 8 partite giocate in Coppa Italia, 2 in Coppa dei Campioni, 2 nelle finali di Supercoppa Europea e 1 nella finale di Coppa Intercontinentale. A causa della “fatal Verona” però non vince lo Scudetto.
Per il ventunenne Diego, il palmares non è tutto. Vuole giocare con maggiore continuità e il Milan lo manda in prestito per un anno alla Fiorentina. L’allenatore della Viola è Sebastião Lazaroni che è ben contento di impiegarlo con continuità. Nel 90/91 infatti raccoglie 39 presenze (32 in Serie A e 7 in Coppa Italia). Mette a segno ben 8 gol, 5 dei quali direttamente su calcio di punizione.
“Lazaroni mi ha insegnato a calciare le punizioni, cosa che io non avevo mai fatto. A fine allenamento stavo mezz’ora, tre quarti d’ora, e lui mi diceva come calciare. Dovevo giocare sulla tensione del portiere…”. Diego Fuser racconta il gol più importante di quella stagione. “Quello con la Juve, su calcio di punizione, forse è stato il più bello. C’era in porta Tacconi. Palo-gol. Fare un gol e vincere la partita 1 a 0 alla fine mi ha permesso di entrare nella storia di Firenze e questa è una cosa che mi fa veramente piacere”.
Arrigo Sacchi è diventato il Commissario Tecnico della Nazionale, Fabio Capello l’ha sostituito sulla panchina del Milan. Diego torna a Milanello con un bagaglio d’esperienza arricchito dall’anno passato a Firenze, ma non riesce a trovare comunque grande spazio. 22 presenze totali tra Campionato (per lo più spezzoni di gara) e coppa nazionale, con un bottino di 4 reti e 3 assist totali. A dispetto dello Scudetto alzato al cielo a fine stagione, Diego vuole giocare titolare e accetta una nuova sfida.
La Lazio di Cragnotti lo acquista (7 miliardi di Lire) per la stagione 1992/93. Fuser parte per Roma con un albo d’oro di notevole importanza per un ragazzo di 24 anni. A Formello trova Dino Zoff come allenatore che gli consegna la fascia destra del centrocampo. I primi gol con la Lazio arrivano con la prima vittoria in campionato: il 4 Ottobre 1992 alla quinta giornata, una doppietta nel 5 a 2 contro il Parma. Il bottino personale a fine annata recita: 33 presenze da titolare (solamente 1 partita saltata per squalifica) e record personale di gol, ben 10 in Serie A. Quarti di finale in Coppa Italia, quinto posto in campionato e qualificazione in Coppa UEFA. La sfida accettata ad inizio stagione è vinta.
Nel 93/94 alcuni piccoli infortuni non consentono a Fuser di fare l’en plein di presenze, è comunque tra coloro che giocano di più (31 presenze e 2 gol complessivi). Con la Lazio ottiene un ottimo quarto posto finale, in Coppa Italia una brutta figura con l’Avellino e in Coppa UEFA il cammino non è fortunato. Nei derby, dopo tre pareggi consecutivi, il 6 Marzo del 1994 arriva la sua prima vittoria. La Lazio vince 1 a 0, con un gol di Beppe Signori tra la nebbia dei fumogeni e un rigore parato da Marchegiani a Giannini sotto la Sud.
L’anno dopo arriva a Roma, direttamente dal “Foggia dei miracoli”, Zdenek Zeman. “All’inizio fu un trauma, perché la prima settimana di ritiro non si mangiava e si correva come dei dannati. Dopo una settimana così, ho detto: io smetto! Però alla fine devo dire che Zeman per me è stato un allenatore eccezionale, una grandissima persona”.
Fuser con l’arrivo di Rambaudi, inizia a giocare come mezzala destra, ottenendo sempre ottime prestazioni. Il cammino in Europa si interrompe ai quarti di finale contro il Borussia Dortmund, in Coppa Italia in semifinale contro la Juventus, mentre in campionato la Lazio arriva seconda dietro i bianconeri.
Nel 95/96, secondo anno di Zeman, la Lazio arriva terza. Ormai è stabilmente nella parte alta della classifica e Diego Fuser è una certezza del campionato italiano (in questa stagione 39 presenze e 6 gol in totale). Snobbato da Arrigo Sacchi nelle convocazioni per i campionati del Mondo del 1994, viene chiamato dallo stesso per disputare gli Europei del 1996 in Inghilterra.
Dopo le fatiche inglesi, Fuser inizia una nuova stagione nella Lazio e a Roma ormai è di casa. Giunto infatti alla sua quinta stagione con l’aquila sul petto, la sua intenzione è quella di rimanere in biancoceleste ma, soprattutto, di vincere un trofeo. Da troppo tempo il popolo laziale non gioisce per una vittoria e Diego con tutte le sue forze vuole regalare questa gioia ai suoi tifosi. La stagione 96/97 vede un avvicendamento in corsa in panchina. Durante la seconda parte della stagione torna Dino Zoff al posto di Zeman. La Lazio arriva al quarto posto confermando di essere nell’élite del calcio italiano, ma non riesce a spingersi troppo oltre in Europa e in Coppa Italia.
Con Sven Goran Eriksson arriva a Roma anche l’esperienza, l’acume tattico e l’infinita classe di Roberto Mancini. Una personalità importante come quella del fantasista marchigiano ha ripercussioni in uno spogliatoio unito e con senatori che, solitamente, hanno l’ultima parola. Signori è il primo a subire questa nuova situazione ed è costretto a lasciare la sua amata Lazio durante la sessione invernale del calciomercato.
Intanto in casa Fuser però c’è una preoccupazione più grande, il figlio Matteo, a causa di una grave malattia, sta molto male e ha bisogno di cure continue. Diego reagisce in campo, con la sua solita dedizione nella stagione in cui ottiene i risultati migliori da quando è alla Lazio. Entra nella storia per aver vinto 4 derby su 4 in una sola stagione, realizzando anche un gol su punizione in uno di essi.
Il più antico club della Capitale poi arriva in finale sia in Coppa Italia che in Coppa UEFA, dove affronta le due milanesi. Il 29 Aprile del 1998 è nei cuori di ogni laziale. Dopo aver perso la finale di Coppa Italia d’andata contro il Milan per 1 a 0 al 90° minuto, un Olimpico colmo di passione crede nell’impresa. La vittoria della finale di ritorno, grazie ad una clamorosa rimonta, per 3 a 1 consente alla Lazio di vincere un trofeo dopo 24 anni e un’altra Coppa Italia dopo 40 anni. Diego Fuser è il capitano ed è lui ad alzare la Coppa. Invece in finale di Coppa UEFA Fuser e compagni si scontrano contro l’Inter del “Fenomeno” Ronaldo; un secco 0-3 che non consente il bis di vittorie.
“Quell’anno lì io andai a vedere una casa, per finire la carriera alla Lazio. C’era qualcuno però che non mi voleva, qualcuno che faceva l’allenatore ma non era l’allenatore. Ci furono dei problemi e io andai via”. I contrasti con Roberto Mancini sono il motivo per cui Diego Fuser, dopo 6 stagioni nelle quali si è legato in maniera profonda al mondo Lazio, va via. L’aspetta a braccia aperte il Parma di Alberto Malesani.
La stagione 1998/99 per Fuser è un’annata da incorniciare: titolare inamovibile, entra fin da subito negli schemi della nuova squadra e gli riesce la doppietta svanita l’anno prima. Infatti vince, nella doppia finale contro la Fiorentina, la Coppa Italia e a Mosca la Coppa UEFA contro il Marsiglia con un rotondo 3 a 0.
L’anno dopo inizia con un altro successo per il Parma di Fuser, vince la Supercoppa Italiana contro il Milan. A fine stagione però non riesce a qualificarsi nella massima competizione europea, perde lo spareggio Champion’s contro l’Inter. L’ultimo anno al Parma vede cambiare tre allenatori: Malesani, Arrigo Sacchi e Renzo Ulivieri. Con quest’ultimo non si è creato un gran feeling, Diego vuole cambiare, vuole tornare a Roma.
“Quando andammo a giocare a Roma (con il Parma n.d.r.) l’ultima partita e la Roma vinse lo scudetto Capello mi chiese se volevo andare alla Roma perché loro facevano la coppa dei Campioni e sulla destra avevano solo Cafù”. Schietto, sincero. Diego Fuser decide coraggiosamente di tornare nella Capitale, questa volta dall’altra parte del Tevere.
Nelle due stagioni con la maglia romanista gioca poco, nella seconda stagione 2001/02 addirittura solo 7 presenze totali e, curiosamente, nei derby è sempre assente.
Fuser ha dichiarato che ha visto poco il campo a causa di “una scelta societaria”.
Con la Roma vince una Supercoppa Italiana da titolare contro la Fiorentina allenata da Roberto Mancini. Si è preso così una piccola rivincita.
L’ultimo anno da professionista Diego Fuser lo disputa al Torino. La stagione 2003/04 in Serie B, lo vede per 29 volte in campo con la maglia con la quale è cresciuto e con la quale decide di appendere al chiodo gli scarpini all’età di 36 anni.
Insieme all’amico Gianluigi Lentini decide di giocare nelle serie minori, per divertirsi ancora con il pallone tra i piedi. Nel 2011, poi, il dramma personale: il piccolo Matteo non ce la fa e a 15 anni perde la battaglia contro la malattia, lasciando un vuoto incolmabile nella vita dei suoi genitori. Con fatica Diego si è rialzato anche grazie al calcio, la sua grande passione l’ha aiutato a reagire.
Tornando indietro con la memoria Fuser pensa al ricordo più bello da calciatore, aver alzato la Coppa Italia da capitano della Lazio. “È stata una gioia incredibile perché vedevi realizzato un sogno, ci speravano tutti e quindi quello è stato un momento sicuramente molto, molto bello”.
“Ero un diciottenne, mentre lui era già un uomo. Per me era un idolo. In ogni sfida era un guerriero, sempre con la stessa intensità. Ho sempre provato a essere come lui”. Uno dei difensori più forti di tutti i tempi, Alessandro Nesta, parla così del giocatore che l’ha ispirato all’inizio della carriera, diventando un vero e proprio punto di riferimento. “Quando ero un ragazzino della Lazio pendevo dalle sue labbra. Era anche un duro. L’ho rivisto recentemente: è diventato un fanatico religioso”. Chi sta descrivendo il leggendario numero 13? José Antonio Chamot.
La carriera del difensore argentino inizia nel Rosario Central come terzino sinistro. Esordisce in prima squadra nella stagione 1988/89 a diciannove anni, collezionando 19 presenze. Nella stagione successiva con la maglia dei “Canallas” gioca 29 partite, mettendo a segno le sue uniche 3 reti in maglia giallo-blù. Dopo dieci presenze nel 90/91, viene acquistato dal Pisa. Il vulcanico presidente Romeo Anconetani, con un’intuizione delle sue, porta Chamot e Diego Pablo Simeone in Italia.
All’ombra della torre pendente, Chamot si adatta da subito al calcio tattico italiano, esordendo in serie A l’11 Novembre del 1990 nella sconfitta per 4 a 2 a Genova contro la Sampdoria. Gioca da terzino in entrambe le fasce, libero e difensore centrale. L’allenatore dei nerazzurri toscani, Mircea Lucescu, dà fiducia al giovane argentino, tanto che nella seconda parte della stagione Chamot è titolare inamovibile con 15 presenze, che non valgono però la salvezza. Infatti il Pisa retrocede in Serie B.
Nella stagione 1991/92 Chamot gioca con continuità da centrale nel trio difensivo del 3-5-2 di Ilario Castagner. Le buone prestazioni con la maglia pisana fanno sì che molti addetti ai lavori del “calcio che conta” lo tengano sott’occhio. Il 6 Ottobre del 1991 arriva anche il primo gol in Italia, nella vittoria del Pisa per 2 a 0 contro il Pescara. Durante l’anno viene espulso due volte, facendo emergere il suo spiccato agonismo, al limite del consentito.
Nel 92/93 il Pisa cambia l’ennesimo allenatore, ma Josè Antonio Chamot resta il perno della difesa. Gioca titolare per 34 volte, espulso in una sola occasione. Il carattere non manca al “Flaco” e Zdenek Zeman viene colpito anche da questo aspetto durante la partita di Coppa Italia che contrappone il Pisa al Foggia, terminata per 2 a 2 il 2 Settembre del 1992. Il tecnico boemo è pronto ad accogliere Chamot a braccia aperte alla corte dei “Satanelli” pugliesi l’anno successivo.
La prima partita trasmessa in pay per view del calcio italiano è Lazio – Foggia del 29 Agosto del 1993. Chamot ritorna in serie A dopo due anni passati nel campionato cadetto. Il rendimento è costante, confermando tutte le sue qualità. La buona tecnica di base, una grande fisicità e forte temperamento, gli valgono anche la prima chiamata in Nazionale. Debutta nella “Selección” nella finale di andata dello spareggio per le qualificazioni ai Mondiali di USA 94, del 31 Ottobre 1993, Australia 1 Argentina 1. A 24 anni si trova a giocare tra i migliori del suo Paese, affianco al monumento del calcio mondiale Diego Armando Maradona.
Con Zeman si conferma stopper affidabile, capace di mettere fiducia alla retroguardia rossonera guidata dal portiere Franco Mancini. Ma anche al termine di questo campionato, Chamot viene espulso in due occasioni. Nel rocambolesco 5 a 4 subìto dal Piacenza, Josè non batte ciglio e abbandona il campo mestamente. Invece, nella sconfitta per 2 a 0 contro la Cremonese, è vittima di uno scambio di persona. Non è lui a commettere il fallo da rosso diretto, ma a nulla sono valse le proteste. Il Foggia alla fine rischia di qualificarsi per la Coppa UEFA, arrivando a pochi punti dall’impresa. Chamot colleziona 30 presenze e Zeman, che nel frattempo è diventato l’allenatore della Lazio per la stagione 94/95, chiede al Presidente Cragnotti di acquistare il roccioso difensore argentino.
Nell’estate del 1994, per la cifra di 5 miliardi di Lire, Josè Antonio Chamot è un giocatore laziale. A 25 anni è titolare nella squadra di Zeman, giocando al centro della retroguardia biancoceleste al fianco di Cravero, Bacci, Negro, Bergodi ed un giovanissimo Alessandro Nesta.
Anche quest’anno non è fortunato con i cartellini rossi, nella prima stagione a Roma, viene espulso 3 volte. La prima, ingiustamente, il 2 Ottobre 1994 durante un Fiorentina – Lazio 1 a 1, allontanato dal rettangolo verde reo di aver commesso un fallo da ultimo uomo. Oltre il danno, la beffa, uscendo dal campo viene colpito da una moneta da 500 lire che gli fa perdere sangue dalla testa. La seconda il 4 Dicembre 1994, in Cagliari – Lazio 1 a 1, questa volta giustamente per fallo da ultimo uomo (e calcio di rigore per la squadra sarda), la terza il 12 Febbraio 1995, in un Torino – Lazio 2 a 0.
Il primo gol arriva in un Lazio 4, Genoa 0 il giorno della festa del papà del 1995.
Dopo aver conquistato un eccellente secondo posto in campionato, raggiunte le semifinali di Coppa Italia e i quarti di Coppa UEFA, la stagione successiva lo vede ancora titolare fisso.
Nel 95/96 esordiscono i nomi e i numeri fissi sulle maglie da gioco, Chamot sceglie il numero 6, che è sempre stato il suo numero preferito. 32 presenze in Serie A (1 espulsione, sempre per fallo da ultimo uomo), 4 in Coppa Italia e 1 in Coppa UEFA. Terzo posto nella classifica finale, la Lazio di Zeman è una certezza ai vertici del calcio italiano.
Chamot intanto, inizia un percorso interiore che lo avvicina alla fede e a Dio: “Un giorno ero molto sopraffatto, stanco dei tanti viaggi, ho iniziato a guardare la televisione fino a quando ho trovato un canale cristiano e questo ha cambiato la mia vita perché ho imparato cos’è la Bibbia e chi è Gesù”. Racconta in un’intervista. “Quando si desidera avere denaro e poi ci si rende conto che il denaro non è tutto, cominci a sentire un grande vuoto. Dio ha riempito il mio cuore e cerco sempre di seguire la Sua parola”.
Nel 1996 partecipa come fuori età alle Olimpiadi di Atlanta, Chamot gioca da titolare in tutte le partite che lo vedono protagonista fino alla fine. L‘Argentina però perde 3 a 2 la finale contro la Nigeria con un contestatissimo gol al 90° minuto.
La stagione 1996/97 vede numerosi cambiamenti nell’undici titolare della Lazio: via, tra gli altri, Winter, Di Matteo e Boksic; dentro Protti, Okon e Fish. La concorrenza è alta, anche perché è esploso definitivamente il talento del romano e lazialissimo Nesta. Nonostante tutto, Josè riesce a conquistare per il terzo anno consecutivo i gradi di titolare, prima con Zeman in panchina, poi con Zoff. È una colonna della difesa, che a 27 anni è nel pieno della sua carriera. 34 presenze complessive (29 in Serie A, 2 in Coppa Italia, 3 in Coppa UEFA condite da un gol),
Nel 97/98 arriva Sven Goran Eriksson, in difesa la Lazio acquista Giuseppe Pancaro dal Cagliari e l’esperto Giovanni Lopez dal Vicenza. Chamot ha qualche problema fisico all’inizio della stagione, ed il tecnico svedese pian piano preferisce dar fiducia alla coppia di centrali Nesta-Negro, con Favalli terzino sinistro (capitano) e Pancaro terzino destro.
A fine anno con sole 11 presenze in campionato lascia la Lazio e l’Italia, alzando al cielo la Coppa Italia, destinazione Madrid.
All’Atletico torna a giocare con maggiore continuità e dopo solo una stagione e mezza, nel gennaio del 2000 a quasi 31 anni viene acquistato dal Milan esordendo da titolare il 27 Gennaio contro l’Inter in Coppa Italia. A Milano, sponda rossonera, riabbraccia il suo ex compagno Alessandro Nesta, raccoglie 51 presenze totali, vincendo una Coppa Italia nel 2003 e, soprattutto, la Champions League 2003.
Dopo una sola presenza con gli spagnoli del Leganes nella stagione 2003/04, torna in Argentina nel Rorsario Central. Nel 2006 a 37 anni si ritira proprio nel club dove la sua lunga carriera è iniziata.
Nel 2009 inizia la carriera da allenatore, come secondo, per passare per una sola stagione al River Plate dell’ex compagno laziale Matias Almeyda nel 2011 e tornare poi, nel 2017 al Rosario per esordire come allenatore della prima squadra.
“Alla fine della stagione io e Paul partiamo per l’Italia, ci hanno organizzato dei provini. Ci stabiliamo a Prato da zia Bianca, sorella di papà, zio Egidio e da mio cugino Dimitri. Nella stessa casa vive anche il nonno e ci arrangiamo nella sua stanza: io e Paul dormiamo in un letto a castello, io sopra e lui sotto. Il nonno ha convinto quelli del Prato a farci allenare con loro. Per i primi tempi speriamo nel tesseramento, ma il Prato fa soltanto promesse e non le mantiene”.
Christian Vieri racconta, nella sua autobiografia, il rientro in Italia dopo aver passato l’intera adolescenza a Sidney. Il padre Roberto ha giocato nel Marconi Stallions sin dalla fine degli anni ’70, quindi il piccolo Bobo si è dovuto trasferire in Australia con la famiglia alla tenera età di 4 anni. Dopo aver praticato gli sport più disparati, con sommo stupore del padre, inizia a giocare anche lui a calcio e a quindici anni esordisce nelle giovanili del Marconi. Lega fin da subito con il suo compagno di squadra Paul e nel 1988 vuole tentare la fortuna nel bel paese.
Convince a partecipare a questa impresa anche l’amico australiano, che accetta l’ospitalità della famiglia Vieri, passando due mesi in Toscana. Christian decide di rimanere a Prato, mentre Paul Okon torna a Sidney pronto a giocarsi le sue chance nel Marconi Stallions.
Nella squadra degli “italiani di Sidney”, Okon (che è per metà d’origine italiana) si fa notare immediatamente per la sua capacità di sviluppare trame interessanti con la palla al piede e far filtro davanti alla difesa. Un’ottima tecnica, accompagnata da una buona visione di gioco, che lo porta ad essere titolare inamovibile nei celesti di Sidney. Collezionando nelle stagioni 1989/90 e 1990/91, ben 49 presenze, condite da 4 gol e vincendo l’Under 21 Player of the Season in entrami i campionali.
Queste eccellenti prestazioni fanno sì che arrivi anche la prima convocazione nella Nazionale maggiore. Nei “Socceroos” esordisce il 6 Febbraio del 1991, in una serata uggiosa a Paramatta durante l’amichevole persa per 2 a 0 contro la Cecoslovacchia. “È stata una serata piovosa, veramente tanto ed ero già stato convocato quando avevo 17 anni” ricorda Okon. “Sapevo che avrei avuto un’opportunità quella notte. Sono entrato nel secondo tempo”.
Sempre nel ’91 fa parte della spedizione ai Mondiali di Calcio Under 20 come capitano, segna anche un gol nella prima partita del girone C vinta per 2 a 0 contro Trinidad e Tobago. L’avventura dei giovani australiani si conclude con una finale per il terzo posto persa ai rigori contro l’URSS.
A diciannove anni, ormai lanciatissimo in patria, riceve un’allettante offerta dal Belgio.
Okon accetta e si trasferisce al Bruges, giocando fin da subito in una porzione del campo delicata che richiede esperienza e sicurezza. A fine stagione diventa campione di Belgio vincendo la Division 1 e partecipa con la Nazionale alle Olimpiadi di Barcellona.
Gli “Olyroos” superano il girone D insieme al Ghana, ai quarti battono la Svezia per 2 a 1 e in Semifinale affrontano la Polonia. Dopo un primo tempo abbastanza equilibrato, nella seconda parte la Polonia dilaga vincendo 6 a 1; è il peggior passivo registrato dalla Nazionale Olimpica australiana. Dopo aver perso l’anno precedente la finale di consolazione contro l’Unione Sovietica ai Mondiali under 20, Paul Okon perde ancora la finalina, il Ghana si impone 1 a 0.
Messe da parte le Olimpiadi, nel Bruges Paul Okon continua a giocare bene e a vincere. In totale il suo personale palmarès conta: 2 Campionati (91/92 e 95/96), 3 Supercoppe (1992,1994 e 1996) e 2 Coppe di Belgio (1995 e 1996).
A Roma, alla Lazio, occorre un sostituto di Roberto Di Matteo. Il centrocampista è titolare nella squadra di Zeman, ma vuole essere ceduto a seguito di alcune discussioni avute proprio con il tecnico boemo. Quest’ultimo chiede espressamente al direttore sportivo Nello Governato di provare a prendere un giocatore che sta seguendo da tempo, Paul Okon.
L’australiano è reduce da un brutto infortunio ai legamenti del ginocchio destro subito nel Febbraio del 1996, ma si sente pronto ad affrontare il ritiro estivo con la Lazio per la nuova stagione. Dopo cinque anni ricchi di successi con il club e personali, saluta il Bruges e il Belgio liberandosi a parametro zero e firma un contratto di tre anni con la squadra del Presidente Cragnotti.
Non ha paura dei paragoni con Di Matteo, conosce il proprio valore e, per esorcizzare qualsiasi altro timore, decide di indossare la maglia numero 16 lasciata libera proprio dal centrocampista italiano. L’ambientamento con il calcio nostrano non è semplice per nessun calciatore straniero, soprattutto poi se si passa dal placido modo di vivere il calcio in Belgio, al focoso ambiente romano.
Paul Okon dichiara al quotidiano di Dublino The Irish Time: “Per me il Campionato italiano è il migliore del mondo, in Belgio il calcio è lo sport più seguito ma rimane uno sport, ne parlano la domenica, il lunedì e poi non si sente altro fino al venerdì o al sabato. Qui a Roma ad ogni minuto della giornata, ogni canale televisivo ha programmi che si dedicano al calcio…”.
Esordisce con la maglia del più antico club di Roma, il 28 Agosto 1996 nel secondo turno di Coppa Italia nella vittoria della Lazio contro l’Avellino per 1 a 0. È il primo giocatore australiano nei quasi cento anni di storia del sodalizio biancoceleste.
Il debutto in Serie A avviene alla terza giornata, il 21 Settembre 1996, nell’incontro Inter-Lazio 1 a 1. Alla “Scala del calcio” il playmaker è titolare, gioca un ottimo primo tempo facendo vedere la sua classe e precisione nei passaggi. A dieci minuti dalla fine esce al posto di un giovane Roberto Baronio, la forma fisica non riesce a decollare. I problemi al ginocchio non sono superati completamente. Gioca complessivamente 11 gare da titolare nel girone d’andata, saltando ben 7 gare a causa dei consueti tormenti ai legamenti.
Nel frattempo il tecnico boemo viene esonerato, in panchina torna Dino Zoff e proprio Okon, fortemente voluto alla Lazio da Zeman, non le manda a dire sulla preparazione estiva che l’avrebbe danneggiato: “Il ginocchio mi ha dato molti fastidi. Le grane sono nate dal tipo di preparazione fatta con Zeman, molto dura. Non dico che non sia buona, ma non andava bene per me che ero reduce da un lungo infortunio. Senza Zeman il mio rendimento sarebbe stato diverso”.
Il primo anno alla Lazio si conclude con 18 presenze complessive (14 in Campionato, 2 in Coppa Italia e 2 in Coppa UEFA) e con il passaggio di Zeman alla Roma, commentato con sarcasmo da Paul: “Beati quelli della Roma…”.
Nella stagione seguente Sven Goran Eriksson diventa l’allenatore della Lazio. Lo svedese esplicita pubblicamente più volte la sua stima per il numero 16 che però sta vivendo un incubo. A 25 anni la sua carriera è a rischio a seguito della doppia operazione al ginocchio. Si assenta dai campi di gioco per l’intero campionato, la sua unica preoccupazione è quella di tornare a praticare lo sport tanto amato.
Allo scadere del contratto triennale lascia la Lazio vincendo (da spettatore) 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa e 1 Coppa delle Coppe. I tifosi laziali hanno potuto solo intuire la classe dello sventurato regista australiano, sostenendolo comunque nel difficile periodo personale.
Nella stagione 1999/2000 rimane in Italia, passando alla Fiorentina. Nei viola gioca solamente un anno, accumulando 11 presenze in totale. L’anno dopo va in Inghilterra al Middlesbrough e ci rimane per due stagioni. Gioca con più continuità il primo anno, recuperando una condizione accettabile. Nel 2001/02 invece si ferma nuovamente per infortunio.
Brevi parentesi al Watford prima e al Leeds poi, permettono a Paul Okon di ritrovare un certo feeling con il campo. Nel 2003/04 torna in Italia, in serie B va al Vicenza allenato da Beppe Iachini. Anche in quest’occasione però non riesce ad esprimersi al meglio.
Per questo motivo decide di tornare in Belgio, nazione che lo ha cresciuto calcisticamente e come uomo. A 32 anni accetta le lusinghe dell’Ostenda; in maglia gialla torna ad essere un calciatore affidabile e continuo, giocando da titolare 28 partite su 34. Paul si sente finalmente quello di un tempo, ma ha il rimpianto di non riuscire a salvare l’Ostenda dalla retrocessione.
Il calvario però ricomincia nel campionato successivo. Si trasferisce a Cipro, all’Apoel dove nel 2005/06 scende in campo solamente in 2 occasioni. Il ginocchio non lo lascia in pace.
Per il Maestro Paul Okon è tempo di tornare a casa con la famiglia, si trasferisce al Newcastle United Jets Football Club per l’ultima stagione da professionista della sua travagliata carriera.
Nel 2006/07, alla soglia dei 35 anni, è voglioso di far vedere di nuovo ai suoi connazionali che è ancora in grado di saper stupire: “Voglio fare bene, voglio che la squadra faccia bene e voglio giocare il maggior numero possibile di partite. Richiedo molto a me stesso, spero di essere in grado, prima di tutto di soddisfare me e poi tutti quelli dei Jets”.
Essere così meticoloso, dedito alla disciplina, gli ha permesso di regalare lampi di ottimo calcio per quasi tutte le partite della stagione.
Solamente una persona con grande carattere, forza di volontà e amore viscerale per il proprio lavoro, avrebbe potuto perseverare senza abbattersi o, addirittura, rinunciare.
Paul Okon ha il calcio dentro, è il suo modo di comunicare efficacemente. Appena ha appeso gli scarpini al chiodo ha iniziato ad allenare nel Paese natio, prima i giovani Socceroos e poi per le squadre di club. La sua passione è travolgente, come la voglia di non smettere mai.
E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.
Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.
I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.
Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.
E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.
Il fascino del calcio rispetto agli altri sport di squadra, è cosa abbastanza nota, consiste nella sua imprevedibilità. Difficilmente il pronostico può essere sovvertito quando il divario tecnico è troppo ampio: e così nel basket, nella pallavolo, nell’hockey e in tutte le altre discipline, si può assistere a finali olimpiche o lotte per il titolo all’ultimo sangue, ma difficilmente si può arrivare a vedere sciupare occasioni le squadre di testa opposte a formazioni destinate alla retrocessione.
Il 20 aprile del 1986 il calcio italiano ha fatto registrare uno dei più clamorosi testacoda della sua ormai ultracentenaria storia. L’Italia amante del pallone era sintonizzata sulle frequenze di “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con lo stesso stato d’animo di un lettore di gialli pronto a scoprire il nome dell’assassino. Il thrilling era garantito dall’incredibile rimonta che la Roma aveva messo in piedi ai danni della Juventus di Trapattoni. Un campionato a due strappi, quello della stagione 1985/86. La Juventus, inarrestabile, chiude il girone d’andata a 26 punti sui 30 disponibili. Secondo è il Napoli a -6, a otto punti di distanza seguono Inter e Roma. Già, i giallorossi: spettacolari e poco concreti come erano già stati sotto la guida di Sven Goran Eriksson nella precedente stagione, la questione-scudetto in inverno non sembrava proprio aperta.
E invece: nelle successive tredici sfide, la Roma ottiene 23 punti su 26, vincendone 11 (compreso lo scontro diretto contro la Juve con uno spettacolare 3-0 all’Olimpico), pareggiando a Firenze e perdendo solo a Verona. La Juventus avanza invece alla sconcertante media di un punto a partita. Un calo certificato anche dall’eliminazione in Coppa dei Campioni per mano del Barcellona. Si arriva alla penultima giornata con gli otto punti completamente rimontati. Il calendario recita: Roma-Lecce e Como-Roma per i giallorossi, Juventus-Milan e Lecce-Juventus per i bianconeri. Parlare di Lecce arbitro dello scudetto è però quasi roba da ridere: i salentini, al loro primo campionato in assoluto in Serie A della loro storia, di punti ne hanno messi insieme in tutto 14, e sono mestamente già retrocessi in cadetteria. Secondo gli esperti, non ci sono dubbi: saranno il Milan e il Como a decidere le sorti del titolo.
Il fattore psicologico però è da non sottovalutare: mentre la Roma è lanciatissima e col morale alle stelle per l’aggancio, la Juventus è evidentemente in affanno e affronta un Milan pronto a iniziare l’era-Berlusconi e a riacquistare quarti di nobiltà perduti ormai da oltre 15 anni di bocconi amari e cadute in B. Se sarà sorpasso, difficilmente i giallorossi perderanno l’occasione al “Sinigaglia” contro un Como coriaceo ma già salvo. Come detto, in questi calcoli della vigilia il Lecce non viene neppure considerato. Gli uomini di Fascetti scendono in campo in un Olimpico pavesato a festa: il Sindaco DC Nicola Signorello e il presidente giallorosso Dino Viola si esibiscono in un giro di campo quasi preludio di festeggiamenti ancora da conquistare. Chi in tribuna fa gli scongiuri, lo fa con la mente rivolta esclusivamente alla Juventus: se i bianconeri battessero il Milan, lo spareggio poi sarebbe comunque da giocare. Ma altri scenari funesti non vengono evocati, anzi anche uno spareggio, con la Roma in tali condizioni, da molti viene visto come una formalità, anche alla luce del 3-0 di poche settimane prima.
Graziani dopo 7′ porta in vantaggio la Roma, e non potrebbe essere altrimenti. L’Olimpico non esplode, si limita a proseguire nelle feste e nelle esultanze del prepartita, sperando di ricevere buone notizie dal “Comunale” di Torino. Impossibile preoccuparsi neanche quando Alberto Di Chiara, cresciuto nel settore giovanile giallorosso (al contrario del fratello Stefano, ex Lazio e anche lui presente in campo con la maglia del Lecce) beffa il fuorigioco di Eriksson e sigla il pareggio. Poco dopo, uno scellerato passaggio in orizzontale di Giannini, di quelli che fanno infuriare il Cruyff allenatore, regala il via libera a Pasculli atterrato da Tancredi. Barbas, dal dischetto, non sbaglia.
Cosa accada nell’intervallo non è dato sapere: c’è chi parla, ovviamente senza che mai arrivino conferme ufficiali, di ammiccamenti tra i due spogliatoi, col Lecce che se “incentivato”, non ci terrebbe a guastare la festa. Il pensiero indecente, se mai balenato nella mente di qualcuno, viene subito cancellato: troppo forte la Roma per non ribaltare comodamente il risultato, sugli spalti c’è chi è sicuro di una vittoria finale con vantaggio almeno doppio, come accaduto nella trasferta di Pisa una settimana prima, nella partita dell’aggancio. Parlando di scommesse però, il Totocalcio successivamente farà balenare un particolare quantomeno curioso: i tredici saranno 128 quella domenica, un’enormità se si pensa a quanto improbabile era considerata nel sentore popolare la vittoria del Lecce all’Olimpico.
Al rientro in campo, la Juventus sta comunque pur sempre pareggiando contro il Milan. La Roma riparte completamente proiettata all’attacco, e puntualmente la zona di Eriksson regala quegli spazi che permettono a Barbas, ancora lui, di firmare il 3-1. Impossibile ma vero: al “Comunale” i tifosi spingono letteralmente la Juventus verso la vittoria, e quando Laudrup porta in vantaggio i bianconeri, all’Olimpico inizia a consumarsi il dramma. La Roma spreca tanto, trova finalmente il gol a 8′ dalla fine con Pruzzo, ma ormai i cavalli sono proverbialmente scappati dal recinto.
Il Lecce, re per una notte, andrà ko all’ultima giornata, stavolta come previsto, contro la Juventus, mentre una Roma agghiacciata da quanto accaduto la settimana precedente sarà sconfitta anche dal Como. A distanza di quasi 30 anni, è davvero difficile ipotizzare cosa sia accaduto quel giorno. La storia di Davide e Golia stavolta è poco plausibile, considerando l’enorme differenza di motivazioni che intercorreva tra le due squadre, al di là dello scalino tecnico altrettanto ampio. Come sempre gossip, voci e veleni si rincorsero alla fine di una stagione che fu funestata dal secondo scandalo del calcioscommesse.
Nel libro di Oliviero Beha e Andrea Di Caro “Indagine sul Calcio”, il figlio del presidente giallorosso Viola, Ettore, dichiarò: ” Mio padre alla fine della partita era distrutto, incredulo, ma non sospettò mai nulla. Ai giocatori della Roma conveniva vincere. Mio padre aveva messo in palio per lo scudetto un premio clamoroso. La verità mai rivelata è che ci arrivarono voci insistenti di un premio a vincere o a pareggiare, che fu promesso al Lecce dalla Juventus. Giocarono la partita con una vis agonistica insolita per una squadra già retrocessa”. Ma nello stesso volume il bomber della Roma, Roberto Pruzzo, propone un’analisi che resterà per sempre quella ufficiale: “So che girarono voci, ma erano stronzate. Io ero un leader dello spogliatoio, non passava nulla che io non sapessi. E se qualcuno si fosse giocato la partita io l’avrei saputo. La verità è che nello spogliatoio non si giocava. Il Lecce rappresentò un incubo che può essere compreso solo se si considera quella partita come una follia isolata. Quella rincorsa ci causò un incredibile dispendio di energie fisiche e nervose. Avevamo finito la benzina,ecco la verità. Il calcio è bello anche perché esistono gare come quella. Purtroppo capitò a noi viverla”.
C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.
Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.
Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.
Due finali di Europa League perse negli ultimi due anni, otto finali europee mancate da quando, nel 1962, il Benfica di Eusebio si arrampicò per la seconda volta consecutiva fin sopra la massima gloria europea, interrompendo lo strapotere del Real Madrid che aveva segnato gli albori della Coppa dei Campioni. L’incapacità del Benfica, la più amata e celebre squadra portoghese, di conquistare di nuovo un trofeo continentale a distanza di oltre cinquant’anni, affonda le sue radici in quella che ormai è stata da tutti definita come “La Maledizione di Béla Guttmann“, e alla quale in questi giorni, con l’ennesimo ko delle aquile di Lisbona contro il Siviglia nella finale di Torino, tutti i giornali sportivi hanno riservato almeno una citazione.
“Nessuna squadra portoghese vincerà mai più la Coppa dei Campioni per due anni consecutivi, ed il Benfica non vincerà più nulla in Europa per cento anni”. Questo il contenuto sostanziale dell’anatema lanciato dal tecnico del doppio trionfo in Coppa dei Campioni del Benfica all’alba degli anni ’60. Dopo il trionfo del 1962, Guttmann si trovò a discutere contro il club quella che ai giorni nostri è un’eventualità scontata, ma che allora alle orecchie dei presidenti appariva ancora come una stravaganza: il premio partita, o meglio, il premio ad obiettivo. Per il trionfo del 1962 ad Amsterdam, 5-3 al Real Madrid con doppietta di Eusebio, Guttmann ritenne di doversi veder corrisposto quello che può essere considerato l’equivalente di 4.000 euro attuali. Una richiesta apparsa irragionevole al direttivo del Benfica, visto che, Coppa dei Campioni o no, nel contratto di allora non era previsto un bonus di nessun tipo.
Il contenzioso in breve degenerò fino all’allontanamento di Guttmann, abbastanza clamoroso all’epoca anche perché il Benfica sembrava in grado di poter dare il via a un ciclo vincente simile a quello del leggendario Real. Ferito a morte nell’orgoglio, Guttmann, ungherese di origine ebraica giramondo e considerato l’inventore di fatto del 4-2-4, lanciò la sua terribile maledizione, sulla quale i dirigenti portoghesi si premurarono di riderci su senza timore. L’ilarità iniziò a scemare quando, rispettivamente contro Milan, Inter e Manchester United, il Benfica perse nel resto degli anni ’60 ben tre finali di Coppa dei Campioni.
Passarono gli anni, e l’eco della maledizione di Guttmann si spense: 15 anni dopo il ko contro il Manchester United, il Benfica si ritrovò a giocarsi un alloro europeo nella doppia finale di Coppa UEFA contro l’Anderlecht. Ovviamente perduta, così come negli anni ottanta arrivarono due nuovi ko nella competizione più ambita: sconfitta contro il PSV Eindhoven ai rigori nella Coppa dei Campioni 1988, e due anni dopo contro il Milan di Arrigo Sacchi. Anche una volta scomparso, nel 1981, Guttmann sembrava non aver perdonato la squadra che portò ai massimi livelli assoluti. A nulla valse l’iniziativa dell’allora tecnico dei lusitani Sven Goran Eriksson, che prima della finale del 1990 contro il Milan convinse il club a recarsi a pregare, prima della partenza per Vienna, sede della finale, sulla tomba di Guttmann, per chiedere l’indulgenza a 28 anni dal lancio della maledizione.
E arriviamo così ai giorni nostri, con l’Europa League sfuggita di mano prima contro il Chelsea per un gol di Ivanovic incassato all’ultimo minuto, e quindi al ko ai rigori contro il Siviglia allo Juventus Stadium, in un match nel quale il Benfica aveva pur dalla sua tutti i favori del pronostico. Viene da pensare a Peppino De Filippo e al suo celebre “Non è vero, ma ci credo“. E riflettendo sulle cifre che vengono corrisposte al giorno d’oggi dai club al raggiungimento del pur minimo obiettivo (per fare un esempio, il Paris Saint Germain aveva promesso in questa stagione 450.000 euro a giocatore solo per il raggiungimento della semifinale di Champions League), viene da pensare quanto siano alla fine costati quei 4.000 al club più glorioso del Portogallo.
Se non sapessimo nulla della sua storia e lo conoscessimo ora, perfettamente calato nella grigia Manchester dei potenti sceicchi arabi, con tanto di sarto personale e pluriennale contratto faraonico, faticheremmo a credere che sia stato uno dei geni più ribelli e avversi al potere di quasi vent’anni di calcio. Invece, quel carattere difficile e controcorrente, sempre schivo e mai banale, gli ha consentito di raccogliere forse un quarto delle soddisfazioni che meritava in relazione alla sua classe smisurata e sopraffina. Lui, Roberto Mancini, normale non è mai stato. Di difficile collocazione tattica, perché incontrollabile e anarchico, come tutti quelli che rifiutano gli stereotipi o i cliché preconfezionati, ha incarnato per quattro lustri il ruolo di giocatore simbolo di una delle squadre più belle degli anni ‘80, la Sampdoria.
Più volte le sirene dei grandi club del nord hanno provato a farlo vacillare, ma, pur di non dare un dispiacere a Paolo Mantovani (“se non gioca Roberto, non mi diverto”, diceva l’ultimo presidente tifoso che l’aveva preso neanche diciottenne dal Bologna), ha preferito mettere le radici per 15 anni nella città della Lanterna. Una scelta di cuore, spontanea, che ha regalato tante difficoltà e alcune gioie, anche se uniche, come lo scudetto del 1990/91, il solo nella storia della Sampdoria, o la Coppa delle Coppe vinta in Svezia contro l’Anderlecht, dopo il primo tentativo andato a vuoto contro il Barcellona. La stessa squadra che gli ha inflitto la delusione più cocente della carriera, con quel gol di Ronald Koeman a Wembley allo scadere dei supplementari, negandogli la gioia di alzare la Coppa dei Campioni da calciatore. Vita difficilissima in Nazionale, dove mal sopportava gli schemi integralisti di quell’Arrigo Sacchi, che ai giocatori di talento un po’ ribelli, ha sempre preferito i cursori politicamente corretti del suo Milan berlusconiano. Un suo grande amico, Giuseppe Giannini, classe ‘64 come lui, ed epurato senza appello come lui dal sergente di ferro di Fusignano, rispose così a chi gli chiedeva se avesse potuto ancora indossare la maglia azzurra: “Credo che un’opportunità io e Roberto l’avremmo meritata, visto che Sacchi, dopo di noi, ha convocato cani e porci”. Questo ha sancito la fine di ogni possibile apertura per i due numeri 10 incompresi, ma, forse, anche per loro, senza un romagnolo di tutt’altra pasta in panchina come Azeglio Vicini, non sarebbe stata più la stessa cosa.
Dopo gli anni migliori, e mai più ripetuti, per la Genova blucerchiata, via via cominciavano a lasciare la Liguria i compagni di una vita. Pagliuca si spostava a Milano sponda Inter, Vierchowod tentava di vincere la Champions (e ci riusciva al primo colpo) alla Juventus, e, soprattutto, l’altro gemello del gol Gianluca Vialli era già andato via. Di quella splendida Sampdoria, che nulla aveva vinto prima di lui e che nulla vincerà dopo di lui, era rimasto ben poco. Solo la sua maglia numero 10 e la fascia di capitano bianca al braccio, a coprire il tatuaggio del marinaio “baciccia”, simbolo doriano, con altri dieci giocatori che non parlavano la sua stessa lingua col pallone tra i piedi. Era venuto a mancare il Presidente-papà, e col figlio Enrico che ne aveva preso il posto non s’era creato lo stesso idilliaco rapporto. La Doria iniziava un lento declino, e a 33 anni Roberto tentava il salto nel buio nella Capitale, con la maglia della Lazio, insieme al suo secondo maestro Sven Goran Eriksson. Un altro passo per pochi, un’altra avventura in una squadra che i trofei alzati li aveva visti solo in televisione. Almeno fino ad allora. I risultati? Coppa Italia al primo colpo, Coppa delle Coppe l’anno dopo e Scudetto al terzo. L’ultimo da giocatore per il Mancio. L’unico, insieme allo zar Vierchowod, a vincere due scudetti con due maglie diverse che non fossero di Inter, Juve o Milan.
Poi, dopo una breve esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio, la carriera da allenatore. Fiorentina nel 2001, di nuovo Lazio, fino all’approdo a Milano sulla panchina nerazzurra a soli 40 anni. La prima netta virata per chi non s’era mai messo da “quella parte”. Quattro anni a San Siro, i primi due Scudetti vinti da allenatore, quindi, nel 2008, complice l’arrivo di Mourinho, l’addio. E poi, storia dei giorni nostri, l’esperienza di Manchester alla guida dei citizens. Da giovane calciatore ribelle fuori dagli schemi, a tecnico inserito nei rigidi contesti dei più importanti e facoltosi club europei. La dura e cruda realtà, che sveglia tanti ragazzi di quella generazione, oramai diventati uomini, da un “sogno ormai rattrappito”.
Ma sempre in un’intervista, dell’aprile 2011, quando il City iniziava a diventare quello che è ora, ovvero la migliore squadra d’Inghilterra e, soprattutto per loro, dopo anni di umiliazioni, la prima di Manchester, gli veniva chiesto se la Coppa Campioni non vinta da giocatore potesse essere il suo vero obiettivo da tecnico. La risposta ha fatto riemergere alla mente ricordi oramai assopiti: “E’ vero – ha detto – che la Champions League è un po’ la mia ossessione. Ma la finale persa contro il Barcellona nel 1992 a Wembley è una ferita che non si potrà mai rimarginare. Per riuscirci, e chiudere definitivamente il cerchio, dovrei farlo solo sulla panchina della Sampdoria”. Qualcuno, dalle parti di Marassi o Sampierdarena, ascoltando le sue parole, avrà potuto chiudere gli occhi, e rivivere le immagini di quel decennio, sbiadite ma indelebili, in cui la lucida follia della giovinezza di un genio ha fatto salire una squadra, operaia fino ad allora, quasi sul tetto più alto d’Europa. Poco importa se l’ultimo passo non è stato compiuto. Sarebbe sciocco chiedere ai geni di poter contemplare la perfezione nelle loro imprese.