La maledizione di Béla Guttmann e la nascita dei premi partita

di Fabio Belli

Due finali di Europa League perse negli ultimi due anni, otto finali europee mancate da quando, nel 1962, il Benfica di Eusebio si arrampicò per la seconda volta consecutiva fin sopra la massima gloria europea, interrompendo lo strapotere del Real Madrid che aveva segnato gli albori della Coppa dei Campioni. L’incapacità del Benfica, la più amata e celebre squadra portoghese, di conquistare di nuovo un trofeo continentale a distanza di oltre cinquant’anni, affonda le sue radici in quella che ormai è stata da tutti definita come “La Maledizione di Béla Guttmann“, e alla quale in questi giorni, con l’ennesimo ko delle aquile di Lisbona contro il Siviglia nella finale di Torino, tutti i giornali sportivi hanno riservato almeno una citazione.

bela-2185302“Nessuna squadra portoghese vincerà mai più la Coppa dei Campioni per due anni consecutivi, ed il Benfica non vincerà più nulla in Europa per cento anni”. Questo il contenuto sostanziale dell’anatema lanciato dal tecnico del doppio trionfo in Coppa dei Campioni del Benfica all’alba degli anni ’60. Dopo il trionfo del 1962, Guttmann si trovò a discutere contro il club quella che ai giorni nostri è un’eventualità scontata, ma che allora alle orecchie dei presidenti appariva ancora come una stravaganza: il premio partita, o meglio, il premio ad obiettivo. Per il trionfo del 1962 ad Amsterdam, 5-3 al Real Madrid con doppietta di Eusebio, Guttmann ritenne di doversi veder corrisposto quello che può essere considerato l’equivalente di 4.000 euro attuali. Una richiesta apparsa irragionevole al direttivo del Benfica, visto che, Coppa dei Campioni o no, nel contratto di allora non era previsto un bonus di nessun tipo.

Il contenzioso in breve degenerò fino all’allontanamento di Guttmann, abbastanza clamoroso all’epoca anche perché il Benfica sembrava in grado di poter dare il via a un ciclo vincente simile a quello del leggendario Real. Ferito a morte nell’orgoglio, Guttmann, ungherese di origine ebraica giramondo e considerato l’inventore di fatto del 4-2-4, lanciò la sua terribile maledizione, sulla quale i dirigenti portoghesi si premurarono di riderci su senza timore. L’ilarità iniziò a scemare quando, rispettivamente contro Milan, Inter e Manchester United, il Benfica perse nel resto degli anni ’60 ben tre finali di Coppa dei Campioni.

Passarono gli anni, e l’eco della maledizione di Guttmann si spense: 15 anni dopo il ko contro il Manchester United, il Benfica si ritrovò a giocarsi un alloro europeo nella doppia finale di Coppa UEFA contro l’Anderlecht. Ovviamente perduta, così come negli anni ottanta arrivarono due nuovi ko nella competizione più ambita: sconfitta contro il PSV Eindhoven ai rigori nella Coppa dei Campioni 1988, e due anni dopo contro il Milan di Arrigo Sacchi. Anche una volta scomparso, nel 1981, Guttmann sembrava non aver perdonato la squadra che portò ai massimi livelli assoluti. A nulla valse l’iniziativa dell’allora tecnico dei lusitani Sven Goran Eriksson, che prima della finale del 1990 contro il Milan convinse il club a recarsi a pregare, prima della partenza per Vienna, sede della finale, sulla tomba di Guttmann, per chiedere l’indulgenza a 28 anni dal lancio della maledizione.

E arriviamo così ai giorni nostri, con l’Europa League sfuggita di mano prima contro il Chelsea per un gol di Ivanovic incassato all’ultimo minuto, e quindi al ko ai rigori contro il Siviglia allo Juventus Stadium, in un match nel quale il Benfica aveva pur dalla sua tutti i favori del pronostico. Viene da pensare a Peppino De Filippo e al suo celebre “Non è vero, ma ci credo“. E riflettendo sulle cifre che vengono corrisposte al giorno d’oggi dai club al raggiungimento del pur minimo obiettivo (per fare un esempio, il Paris Saint Germain aveva promesso in questa stagione 450.000 euro a giocatore solo per il raggiungimento della semifinale di Champions League), viene da pensare quanto siano alla fine costati quei 4.000 al club più glorioso del Portogallo.