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Club Fabio Belli

Il West Ham degli anni ’60 e i gradini di Wembley

di Fabio Belli

Il calcio a Londra ha mille anime. Rivalità centenarie come quella tra Spurs e Gunners, vecchia e nuova aristocrazia come quella di Queens Park Rangers e Chelsea, realtà passate attraverso mille trasformazioni come il Crystal Palace. Ma ce ne sono altre più fortemente legate alla tradizione che, pur vantando una bacheca decisamente meno ricca di quella delle concorrenti, hanno accumulato un fascino destinato a non tramontare mai. Quella del West Ham è una storia legata a doppio filo agli anni d’oro del calcio inglese e al suo tempio per eccellenza: Wembley.

hammersIl West Ham non ha mai vinto il campionato: ha davvero lottato per il titolo in una sola occasione, nella stagione 1985/86. Fu l’apice del periodo, durato quindici anni, sotto la guida di John Lyall, con Tony Cottee in attacco ed Alan Devonshire a centrocampo a fare da leader in un gruppo partito dalla Seconda Divisione, ma ricco di talento. Alla fine, la vittoria sfumò nella tiratissima volata a tre con Liverpool ed Everton. Tuttavia, qualsiasi tifoso Hammers che si rispetti, identificherebbe l’epoca d’oro del club a cavallo degli anni sessanta, quando il West Ham era guidato da autentici campioni, e soprattutto formava la spina dorsale della Nazionale inglese più forte di sempre.

Era la squadra allenata da Ron Greenwood, maestro della panchina in grado di far sbocciare i talenti del sempre floridissimo settore giovanile degli Hammers. Non per niente uno dei soprannomi più noti del club è “The Academy“, per la sua capacità di portare alla ribalta giovani assi del football. Tra il 1958 ed il 1959, tra di essi emersero tre grandi protagonisti della finale vinta dall’Inghilterra contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale giocato in casa nel 1966. Bobby Moore, il capitano, difensore capace di coniugare grinta ed eleganza; Martin Peters, implacabile incursore di centrocampo; ed il bomber Geoff Hurst, l’autore della storica tripletta di Wembley, e soprattutto del celeberrimo gol fantasma che spezzò l’equilibrio nei supplementari contro i tedeschi, in una delle finali rimaste nella storia del calcio.

Moore, Peters ed Hurst: un trio che per tre anni consecutivi fece la storia del West Ham e dell’Inghilterra, salendo per tre volte consecutive i gradini di Wembley per una premiazione. Nel 1964, quando la FA Cup finì per la prima volta tra le mani degli Hammers grazie al gol di Ronny Boyce a 5′ dalla fine del match, tiratissimo, contro il Preston North End. Nel 1965, quando nella finale di Coppa delle Coppe giocata a Londra, la doppietta di Alan Sealey regalò il primo alloro europeo al West Ham, nel 2-0 al Monaco 1860. In entrambi i casi, fu Bobby Moore ad alzare il trofeo, ma l’anno successivo per il capitano arrivò l’emozione più grande, visto che ricevette dalle mani della Regina Elisabetta la Coppa Rimet, quando fu lui con i suoi compagni Hammers, oltre a tutta l’Inghilterra, ad issarsi sul tetto del mondo. Oltre alla tripletta di Hurst che fece impazzire Wembley e tutto il Paese, infatti, fu Martin Peters a siglare l’altra marcatura nel 4-2 finale in favore dell’Inghilterra. Anni irripetibili, quando pensare West Ham significava dire mondo.

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Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 3×01: l’ineffabile Bakhramov

di Fabio BELLI

Il terzo ciclo dei racconti di Football Mystery parte con quello che viene ricordato, probabilmente, come il gol fantasma più famoso della storia del calcio. Quello che decise il Mondiale del 1966, l’unico vinto dagli inventori del football, gli inglesi. Lo segnò il gioiello della West Ham Academy Geoffrey Hurst, ma la decisione che cambiò la storia di una Coppa del Mondo la prese un guardalinee azero: l’ineffabile Bakhramov.

I FATTI

Il 30 luglio del 1966 a Wembley Inghilterra e Germania Ovest si giocano il titolo. Gli inglesi hanno la spinta del pubblico di casa, ma anche la responsabilità di non deludere una nazione intera. E i tedeschi hanno evitato la sconfitta all’89’ con un gol di Weber, che ha portato la partita ai supplementari. 2-2 al 90′, l’Inghilterra vede all’orizzonte il rischio di una beffa come quella che ha schiantato i brasiliani nel 1950. La storia la cambia una bordata di un superbo centravanti, Hurst, col pallone che sbatte sulla traversa e rimbalza sulla linea. Dentro o fuori? Da 53 anni non c’è una risposta certa a questa domanda, ed è qui che entra in gioco il nostro protagonista: Tofiq Bakhramov.

IL PERSONAGGIO

Quando il pallone va a sbattere sulla traversa e poi sulla linea, tenendo col fiato sospeso i 100.000 di Wembley e, contestualmente, tutta l’Inghilterra e la Germania, l’arbitro della finalissima non è nella posizione migliore per capire. Si tratta dello svizzero Dienst, che immediatamente va a interloquire con il guardalinee meglio posizionato. Si tratta di Bakhramov, azero di
nascita ma sovietico di rappresentanza ai Mondiali del 1966. Passano alcuni interminabili secondi, ne nasce un dialogo paradossale con Dienst che parla solo tedesco e un po’ d’inglese, l’azero oltre alla lingua madre mastica il russo. Ma quello del calcio è un linguaggio universale e Bakhramov, come dimostrerà nel seguito della sua carriera arrivando a diventare segretario della federazione dell’Azerbaigian, ha un talento naturale per la diplomazia e sa prendere la decisione giusta al momento giusto. E’ gol! E l’Inghilterra sarà campione.

LE ACCUSE

Le voci si sprecheranno. I tedeschi accusarono Bakhramov di aver deciso per vendicare l’Unione Sovietica eliminata in semifinale proprio dalla Germania Ovest anche a causa della discussa espulsione, da parte dell’arbitro italiano Concetto Lo Bello. Inoltre, seppur i replay dell’epoca non chiarissero la situazione, i tedeschi lamentavano il fatto che una nuvola di gesso si fosse alzata al momento del rimbalzo della sfera prova inequivocabile che aveva toccato, e quindi non varcato completamente, la linea. Di sicuro l’esperienza non mancava a Bakhramov che non era neanche guardalinee, ma già arbitro Nazionale del 1964. Quella decisione lo rese l’azero più influente nella storia del calcio, tanto che oggi lo stadio della capitale Baku è dedicato a lui. Ma il pallone era entrato o no?

LE CONCLUSIONI

Come detto, la certezza assoluta ancora non c’è, anche se si propende quasi all’unanimità per il no. Nel 1995 uno studio dell’università di Oxford, il più approfondito sulla questione, stabilì con l’aiuto dei computer e della tecnologia come il pallone non avesse varcato completamente la linea. Bakhramov spiegò sempre di aver visto il pallone toccare la rete e non la traversa e poi rimbalzare dentro e di non essersi dunque mai posto il problema se la sfera avesse superato o meno la fatidica linea. Una spiegazione da maestro di diplomazia, sicuramente furba, sicuramente coerente con un personaggio che con una sola decisione ebbe la freddezza di indirizzare un intero Mondiale di calcio, tanto da essere ricordato da tutti col soprannome di “ineffabile” a decenni di distanza.

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

1966: Inghilterra-Germania Ovest 4-2 dts. Alf Ramsey, un tempo per lavorare, un tempo per riposare.

di Fabio Belli

“Signori, non ho molto da dirvi, se non anticiparvi che l’Inghilterra vincerà la prossima Coppa del Mondo. E adesso lasciatemi lavorare”. I giornalisti presenti alla conferenza stampa di presentazione in cui Alf Ramsey, allora ovviamente non ancora “sir”, si svelava come nuovo CT dell’Inghilterra, capirono da quella ventina di parole che nulla sarebbe stato più come prima. Legata alle sue tradizioni già centenarie nel football, l’Inghilterra sembrava però inchiodata al suo passato: i britannici continuavano a ripetersi di essere i più forti, e gli altri vincevano. La storia doveva cambiare, e chi come Ramsey poteva capirlo, visto che era in campo il giorno dell’umiliazione per eccellenza del calcio inglese, quando la Nazionale di Sua Maestà venne battuta nei Mondiali brasiliani del 1950 dai dilettanti statunitensi?

L'Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo
L’Inghilterra sfata un tabù centenario e sale sul tetto del mondo

Il viaggio iniziò il giorno di quella conferenza stampa nel 1963, e terminò idealmente quel 30 luglio del 1966 a Wembley. Per presentarsi sotto gli occhi della Regina a giocare nella finale dei Mondiali in casa, Ramsey aveva messo in soffitta il WM del suo storico predecessore, Michael Winterbottom, e un rigido protocollo che vedeva i calciatori della Nazionale scelti dalla Football Association. Decisioni che scatenarono non poche polemiche nell’ultraconservatore ambiente inglese, ma ciò che contava era il risultato finale. L’Inghilterra era lì, e di fronte aveva l’avversario forse più stimolante possibile, quella Germania Ovest che evocava nei sudditi d’Albione slanci patriottici mica da ridere.

Sir Alf Ramsey
Sir Alf Ramsey

C’è da dire che la cifra tecnica del Mondiale fu nettamente superiore a quella della rassegna cilena di quattro anni prima. La Corea del Nord dimostrò a tutti (e a salatissime spese dell’Italia, com’è noto) che c’era un “terzo mondo” calcistico pronto ad affacciarsi sulla scena. Il Portogallo mise in scena un ideale passaggio di consegne, seppur temporaneo, tra Pelé (di nuovo massacrato dagli infortuni) ed un Brasile costretto a lasciare il torneo al primo turno, ed Eusebio, il fenomenale talento del Benfica. L’Urss fece sfoggio di un calcio atletico ammirevole e del solito, formidabile Lev Jašin. Ma fu opinione comune che a giocarsi il titolo arrivarono le squadre migliori. I padroni di casa sfruttarono il fattore campo soprattutto nei quarti di finale contro l’Argentina, mandata a casa da un gol di Geoffrey Hurst e da un clima intimidatorio, che si chiuse col memorabile epiteto di “Animals!” lanciato da Ramsey alla delegazione albiceleste. L’ossatura della squadra era composta dai talenti dell’”Academy” del West Ham Hurts, Moore e Peters, e dagli assi del Manchester United, Bobby Charlton e l’indemoniato mediano Nobby Stiles. La Germania Ovest giocava già un calcio rapido e moderno, guidata da un giovane centrale di centrocampo che andava a comporre una affascinantissima sfida delle sfide con Bobby Charlton nella finale: Franz Beckenbauer.

Con queste premesse, lo spettacolo non poteva certo latitare. Di solito bravi a rimontare, i tedeschi occidentali colpiscono per primi con Helmut Haller, ma subiscono quasi subito il pareggio del solito Hurst. I capovolgimenti di fronte sono tanti, ma i due protagonisti più attesi, Charlton e Beckenbauer, sentono l’affanno della tensione. Quando Peters a meno di un quarto d’ora dalla fine firma il sorpasso, Wembley è in delirio. Ma, è una banalità dirlo nel calcio, guai a dare per morti i tedeschi: allo scadere un tiro-cross di Siggi Held prende una traiettoria folle, con Gordon Banks in porta sbilanciato dai tanti “lisci” in area di rigore: l’ultimo che può arrivare sul pallone, allungandosi, è Weber, e ce la fa: 2-2 e supplementari dopo trentadue anni in una finale dei Mondiali.

E’ qui che Alf Ramsey mette il suo valore aggiunto: la sua rudezza e la sua imperturbabilità sono fondamentali in un momento in cui alla sua squadra potrebbe crollare il mondo addosso. “Li avevamo battuti, vuol dire che possiamo batterli ancora. Adesso”. Sono le parole che servono: le squadre sono stanche alla stessa maniera, ma l’Inghilterra riparte da uno 0-0 ideale che gli fa sfruttare la spinta forsennata di Wembley. Un “bomba” di Hurst, fenomenale nello stoppare, girarsi e tirare, si stampa sulla traversa, e sbatte sulla linea di porta: è gol? A quasi 50 anni di distanza se ne discute ancora. Le immagini tramandate non sono chiare, l’impressione è del gol, ma da un’altra angolatura il dubbio rimane. Il guardalinee Bakhramov, investito di una responsabilità enorme, professa sicurezza. E’ gol, e la storia non può più cambiare, anzi arriva il sigillo sempre di Hurst, che firma la sua tripletta. Il proverbiale aplomb inglese lascia spazio ad una festa che verrà tramandata di generazione in generazione, nei racconti di chi c’era, mentre la Regina consegna la Coppa Rimet nelle mani di Bobby Moore.

Il giorno dopo, di passaggio alla BBC Ramsey incrocia due giornalisti. Non sono due qualunque, ma gli unici che lo hanno difeso con editoriali di fuoco, quando il resto del paese gridava al sacrilegio per la profanazione del metodo-Winterbottom. “Alf… ce l’abbiamo fatta!” dissero avanzando a braccia spalancate verso il tecnico, che nel rispondere fu ancora più stringato che nel giorno della sua prima conferenza stampa: “E’ il mio giorno libero, non ho niente da dirvi”. In pratica, da “lasciatemi lavorare”, a “lasciatemi riposare”: ogni cosa a suo tempo, e caratteraccio a parte, per gli inglesi l’importante fu che Ramsey capì che era arrivato il momento di diventare campioni nei fatti, e non solo a parole.

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Allenatori Fabio Belli

Clough, Benitez e Moyes: se non uccidi il mito, il mito uccide te

di Fabio Belli

Nei corridoi delle sedi delle più prestigiose società calcistiche del mondo, ci sono le foto sui muri. Scatti dei trionfi più belli, dei momenti che hanno fatto la storia, che certe volte sembra quasi riprendano vita sulle pareti. Sembra, certe volte: perchè altre volte è proprio così, il mito fagocita tutto quello che viene dopo di lui, e non c’è terreno più impervio dove costruire le mura di un solido futuro, che quello costituito dalle rovine di un glorioso passato.

David Moyes Manchester UnitedDei quarantaquattro giorni di Brian Clough al Leeds United, nella parte iniziale della stagione 1974/75, si è scritto di tutto è di più. Dal libro al film dedicati al ‘Maledetto United‘, ai racconti di quando Billy Bremner ha messo in scena una scazzottata con Kevin Keegan, nel bel mezzo del Charity Shield a Wembley contro il Liverpool. Si dice che mai crisi di rigetto nel calcio fu così violenta di quella causata dal connubio Clough-Leeds. Di sicuro se ne conosce il motivo, con i senatori della squadra più vincente d’Inghilterra all’alba degli anni ’70, ovvero gli ‘scoto’ Bremner, Lorimer e Jordan, assieme all’irlandese Johnny Giles, che reagirono malissimo a come ‘Cloughie’ aveva tirato giù dal piedistallo Don Revie. Ovvero il padre di quella squadra, al quale i suoi figliocci giurarono fedeltà eterna fino a cannibalizzare il suo successore.

Se con un altro approccio, Clough avrebbe avuto vita più facile allo United, non è dato sapere. Di sicuro, quella squadra nella stessa stagione, dopo il cambio in panchina, raggiunse la finalissima della Coppa dei Campioni, trofeo che Clough stesso vinse due volte negli anni successivi alla guida del Nottingham Forest. Segno che né da una parte né dall’altra mancava il valore, e che i problemi erano squisitamente ambientali. Che questa storia abbia ben poco insegnato al mondo del calcio del futuro, lo si può evincere da alcuni recenti episodi. Come l’avventura di Rafa Benitez all’Inter: il tecnico spagnolo che ha avuto il merito di rianimare un altro mito, quello del Liverpool tornato alla vittoria in Champions League dopo ben 21 anni sotto la sua guida. Ma che si è scontrato nell’Inter con l’eredità di chi, con il leggendario “triplete“, ha fatto superare al club milanese un complesso ultraquarantennale: José Mourinho.

Anche Benitez è caduto nel peccato originale di Clough, cercando di “uccidere il padre”, freudianamente parlando, già dopo i primi giorni dal suo arrivo alla Pinetina. Via le foto, difesa avanti di venti metri, nuova filosofia di gioco e di pensiero. Per la banda composta da Eto’o, Milito, Zanetti, Cambiasso, Snejider & co. (senza dimenticare la grande influenza dell’uomo-spogliatoio Materazzi) troppo tutto insieme. La squadra stenta in campionato come mai era accaduto dopo Calciopoli, Benitez lascia paradossalmente dopo la vittoria nel Mondiale per Club, e dopo uno sfogo mai gradito da Massimo Moratti su mercato ed etica di spogliatoio. Cosa pensasse di lui il gruppo, con diverse interviste ci ha pensato molto bene lo stesso Materazzi a chiarirlo, nel corso degli anni.

E veniamo ai giorni nostri: cioè a David Moyes, che dopo anni di elogi e nessun trofeo all’Everton, passa alla guida del primo Manchester United senza Alex Ferguson dopo ventisette anni. Qui però la storia è destinata a ripetersi nonostante una premessa del tutto differente: al contrario di Clough e di Benitez, Moyes aveva ricevuto la benedizione del proprio predecessore. Una mossa che sir Alex conoscendo i suoi ragazzi, considerava indispensabile per non diventare subito schiavi del passato, alla fine di un ciclo vincente che per numero di successi aveva fatto impallidire anche quello dei “Busby Babes“. Ma vallo a dire a Rooney, Giggs, e compagnia cantante: anche nel calcio, quando una “dittatura” finisce, è impossibile ristabilire subito l’ordine. Ed il Manchester United rischia di non partecipare alle Coppe Europee per la prima volta dopo anni e anni di dominio continentale. Troppo per non convincere lo stesso Ferguson a ritirare la sua benedizione, e a consigliare l’allontanamento dello stesso Moyes dopo la sconfitta in Premier League, ironia della sorte, proprio contro l’Everton. Forse è destino che i miti restino lontani da tutto quello che viene dopo di loro, per non causare l’eterno, impietoso confronto con un passato inarrivabile.

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Calciatori Fabio Belli

Renè Higuita, uno scorpione tra i pali

di Fabio Belli

Alcune cose che non tutti sanno su René Higuita:

Il suo vero cognome è Zapata, in Colombia come in Spagna spesso le persone hanno due cognomi ed il portiere storico della nazionale colombiana ha scelto quello che lo caratterizzava meglio. E’ stato arrestato alla vigilia dei campionati Mondiali del 1994, i secondi di fila che avrebbe disputato con la generazione d’oro del calcio colombiano, assieme a Carlos Valderrama e Freddy Rincon, per aver svolto un ruolo da mediatore per la liberazione di un ostaggio, nell’ambito di un sequestro avvenuto nella rete del narcotraffico. Peccato che si fosse dimenticato di avvertire la polizia di queste sue delicatissime trattative, ed abbia finito per trascorrere sette mesi nelle patrie galere per favoreggiamento. E fu costretto a saltare USA ’94.

higuitaLa prima assoluta mondiale della sua “mossa speciale” più celebre, il colpo dello scorpione, andò in scena nel tempio di Wembley nel 1995, quando risolta la controversia giudiziaria, tornò a difendere i pali della nazionale colombiana. In un’amichevole contro l’Inghilterra, Jamie Redknapp, allora centrocampista del Liverpool, tentò una conclusione piuttosto fiacca verso la porta dei sudamericani. Invece che bloccarla comodamente, Higuita si esibì in un balzo acrobatico in avanti, fece leva sulle braccia per darsi spinta e respinse il pallone con le gambe piegate, all’altezza del tacco, assumendo la postura di uno scorpione. Colpo che lo contraddistinse per tutta la vita, e con il quale ha continuato a deliziare i suoi fans fino ai giorni nostri, nel 2012, in un’amichevole disputata all’età di 46 anni.

Dietro il brasiliano Rogerio Ceni ed il paraguaiano José Chilavert, è il terzo portiere più prolifico della storia del calcio: aveva infatti il vezzo di tirare le punizioni e soprattutto i rigori, che gli valsero il cospicuo bottino di 41 reti in carriera, anche se non gli riuscì mai la prodezza di realizzare un gol su azione in una partita ufficiale, nonostante le sue numerose, folli sortite offensive. Tra i pali al contrario, pur essendo dotati di riflessi ed istinto notevolissimi, era tecnicamente rivedibile. Il suo più grande rimpianto resta la bomba su punizione con la quale Alberigo Evani all’ultimo minuto dei supplementari della Coppa Intercontinentale del 1989 regalò il successo al Milan di Arrigo Sacchi contro il suo Nacional Medellìn, con il quale aveva appena conquistato la Libertadores.

Nonostante la sua popolarità mondiale, cresciuta soprattutto dopo i Mondiali del 1990 nei quali però si fece beffare negli ottavi di finale da Roger Milla, regalando con un suo errore la qualificazione ai quarti di finale al Camerun, giocò in carriera solo la stagione 1992/93 in Europa, ed in una formazione spagnola di seconda fascia, il Valladolid. La sua carriera si è chiusa nel 2009, al Deportivo Pereira, all’età di 43 anni. Prima di allora però, aveva scontato nel 2004 una squalifica per doping, essendo risultato positivo alla cocaina. Approfittò della pausa forzata per partecipare al reality show colombiano “Cambio Extremo“, nel quale i concorrenti si sottopongono a mirati ritocchi di chirurgia estetica. Higuita scelse di cambiare zigomi, labbra, mento e naso, e di farsi dare anche una sistematina alla pancia. Per tornare in campo ringiovanito e quasi irriconoscibile, pronto a regalare alla folla un altro “scorpione”.

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Allenatori Calciatori Enrico D'Amelio

Roberto Mancini, la lucida follia della giovinezza

di Enrico D’Amelio

Se non sapessimo nulla della sua storia e lo conoscessimo ora, perfettamente calato nella grigia Manchester dei potenti sceicchi arabi, con tanto di sarto personale e pluriennale contratto faraonico, faticheremmo a credere che sia stato uno dei geni più ribelli e avversi al potere di quasi vent’anni di calcio. Invece, quel carattere difficile e controcorrente, sempre schivo e mai banale, gli ha consentito di raccogliere forse un quarto delle soddisfazioni che meritava in relazione alla sua classe smisurata e sopraffina. Lui, Roberto Mancini, normale non è mai stato. Di difficile collocazione tattica, perché incontrollabile e anarchico, come tutti quelli che rifiutano gli stereotipi o i cliché preconfezionati, ha incarnato per quattro lustri il ruolo di giocatore simbolo di una delle squadre più belle degli anni ‘80, la Sampdoria.

Più volte le sirene dei grandi club del nord hanno provato a farlo vacillare, ma, pur di non dare un dispiacere a Paolo Mantovani (“se non gioca Roberto, non mi diverto”, diceva l’ultimo presidente tifoso che l’aveva preso neanche diciottenne dal Bologna), ha preferito mettere le radici per 15 anni nella città della Lanterna. Una scelta di cuore, spontanea, che ha regalato tante difficoltà e alcune gioie, anche se uniche, come lo scudetto del 1990/91, il solo nella storia della Sampdoria, o la Coppa delle Coppe vinta in Svezia contro l’Anderlecht, dopo il primo tentativo andato a vuoto contro il Barcellona. La stessa squadra che gli ha inflitto la delusione più cocente della carriera, con quel gol di Ronald Koeman a Wembley allo scadere dei supplementari, negandogli la gioia di alzare la Coppa dei Campioni da calciatore. Vita difficilissima in Nazionale, dove mal sopportava gli schemi integralisti di quell’Arrigo Sacchi, che ai giocatori di talento un po’ ribelli, ha sempre preferito i cursori politicamente corretti del suo Milan berlusconiano. Un suo grande amico, Giuseppe Giannini, classe ‘64 come lui, ed epurato senza appello come lui dal sergente di ferro di Fusignano, rispose così a chi gli chiedeva se avesse potuto ancora indossare la maglia azzurra: “Credo che un’opportunità io e Roberto l’avremmo meritata, visto che Sacchi, dopo di noi, ha convocato cani e porci”. Questo ha sancito la fine di ogni possibile apertura per i due numeri 10 incompresi, ma, forse, anche per loro, senza un romagnolo di tutt’altra pasta in panchina come Azeglio Vicini, non sarebbe stata più la stessa cosa.

Dopo gli anni migliori, e mai più ripetuti, per la Genova blucerchiata, via via cominciavano a lasciare la Liguria i compagni di una vita. Pagliuca si spostava a Milano sponda Inter, Vierchowod tentava di vincere la Champions (e ci riusciva al primo colpo) alla Juventus, e, soprattutto, l’altro gemello del gol Gianluca Vialli era già andato via. Di quella splendida Sampdoria, che nulla aveva vinto prima di lui e che nulla vincerà dopo di lui, era rimasto ben poco. Solo la sua maglia numero 10 e la fascia di capitano bianca al braccio, a coprire il tatuaggio del marinaio “baciccia”, simbolo doriano, con altri dieci giocatori che non parlavano la sua stessa lingua col pallone tra i piedi. Era venuto a mancare il Presidente-papà, e col figlio Enrico che ne aveva preso il posto non s’era creato lo stesso idilliaco rapporto. La Doria iniziava un lento declino, e a 33 anni Roberto tentava il salto nel buio nella Capitale, con la maglia della Lazio, insieme al suo secondo maestro Sven Goran Eriksson. Un altro passo per pochi, un’altra avventura in una squadra che i trofei alzati li aveva visti solo in televisione. Almeno fino ad allora. I risultati? Coppa Italia al primo colpo, Coppa delle Coppe l’anno dopo e Scudetto al terzo. L’ultimo da giocatore per il Mancio. L’unico, insieme allo zar Vierchowod, a vincere due scudetti con due maglie diverse che non fossero di Inter, Juve o Milan.

Poi, dopo una breve esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio, la carriera da allenatore. Fiorentina nel 2001, di nuovo Lazio, fino all’approdo a Milano sulla panchina nerazzurra a soli 40 anni. La prima netta virata per chi non s’era mai messo da “quella parte”. Quattro anni a San Siro, i primi due Scudetti vinti da allenatore, quindi, nel 2008, complice l’arrivo di Mourinho, l’addio. E poi, storia dei giorni nostri, l’esperienza di Manchester alla guida dei citizens. Da giovane calciatore ribelle fuori dagli schemi, a tecnico inserito nei rigidi contesti dei più importanti e facoltosi club europei. La dura e cruda realtà, che sveglia tanti ragazzi di quella generazione, oramai diventati uomini, da un “sogno ormai rattrappito”.

Ma sempre in un’intervista, dell’aprile 2011, quando il City iniziava a diventare quello che è ora, ovvero la migliore squadra d’Inghilterra e, soprattutto per loro, dopo anni di umiliazioni, la prima di Manchester, gli veniva chiesto se la Coppa Campioni non vinta da giocatore potesse essere il suo vero obiettivo da tecnico. La risposta ha fatto riemergere alla mente ricordi oramai assopiti: “E’ vero – ha detto – che la Champions League è un po’ la mia ossessione. Ma la finale persa contro il Barcellona nel 1992 a Wembley è una ferita che non si potrà mai rimarginare. Per riuscirci, e chiudere definitivamente il cerchio, dovrei farlo solo sulla panchina della Sampdoria”. Qualcuno, dalle parti di Marassi o Sampierdarena, ascoltando le sue parole, avrà potuto chiudere gli occhi, e rivivere le immagini di quel decennio, sbiadite ma indelebili, in cui la lucida follia della giovinezza di un genio ha fatto salire una squadra, operaia fino ad allora, quasi sul tetto più alto d’Europa. Poco importa se l’ultimo passo non è stato compiuto. Sarebbe sciocco chiedere ai geni di poter contemplare la perfezione nelle loro imprese.

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Calciatori Fabio Belli Nazionali

Robert Gadocha, il Garrincha polacco che fece impazzire due volte Monaco di Baviera

di Fabio Belli

Monaco ’72 e Monaco ’74: le doppiette Olimpiadi-Mondiali nella stessa location non sono infrequenti nella storia dello sport (la prossima volta capiterà a Rio de Janeiro, Mondiali di calcio nel 2014 ed Olimpiadi nel 2016); meno consuete sono le occasioni in cui un protagonista di una manifestazione lo sia anche nell’altra. C’è però chi ella storia ci è riuscito, eccome, ed anche se non si tratta di uno di quei nomi che risuonano subito chiari alle orecchie degli appassionati, allora l’Olympiastadion si riempiva solo per vedere le prodezze di questa guizzante seconda punta, all’occorrenza utilizzabile, secondo gli standard tattici dell’epoca, come ala sinistra.

Robert Gadocha è stato una delle stelle del Mondiale del 1974, quello del trionfo del calcio atletico tedesco e del calcio totale olandese. Una sintesi ideale di questi modelli era però la Polonia. In una squadra ricca di talento, Gadocha era l’espressione più esaltante. Quella Polonia aveva già conquistato l’oro alle Olimpiadi del ’72, battendo nella finalissima l’Ungheria grazie alla doppietta di Deyna, regista dalla classe cristallina. Quindi partì l’assalto al campionato del mondo: in porta c’era la leggenda Tomaszewski, che con le sue parate a Wembley nel girone di qualificazione scrisse la parola fine sul ciclo dell’Inghilterra di Alf Ramsey. C’erano Zmuda, il fenomeno Lato (che sarà capocannoniere del torneo iridato) ed il già citato Deyna.

Insomma, una formazione di primissimo livello. Ma Gadocha era il beniamino del pubblico, aveva quel qualcosa in più che faceva innamorare a prima vista: la somiglianza più evidente era con Garrincha, sia per tipo di gioco che per comportamento in campo. La sua azione era simile a quella del giocoliere brasiliano: ricevuta la sfera, puntava l’avversario saltandolo in dribbling, talvolta addirittura irridendolo tornando sui propri passi per poi ricominciare da capo. Gli avversari lo conoscono poco (gioca nel Legia Varsavia ai tempi della cortina di ferro: l’apparizione internazionale più consistente con il suo club è una semifinale di Coppa dei Campioni disputata contro il Feyenoord nel 1970) e riesce così a far spiovere decine di palloni in area durante la partita, esaltando le qualità da bomber di Lato.

Nel girone eliminatorio pagheranno dazio a queste doti Argentina e Italia, messe in riga dai polacchi. Nella seconda fase, domate Svezia e Jugoslavia, la Polonia si gioca la finalissima contro la Germania Ovest padrona di casa della manifestazione. Si gioca a Francoforte, nell’erba inzuppata del Walstadion: dal maltempo, ma anche dai giardinieri tedeschi, per limitare le doti tecniche di Lato, Deyna e Gadocha. Il quale non si fa però intimorire dal pantano, e nel primo tempo fa impazzire Berti Vogts, nascondendogli il pallone a più riprese, ai limiti dell’irriverenza. Alla Germania la finale non sfuggirà grazie al solito Gerd Muller, capace di trovare la zampata vincente ad un quarto d’ora dalla fine di un match tiratissimo, ma la Polonia riuscirà a togliersi un’ultima soddisfazione, battendo nella finale per il terzo posto il Brasile di Rivelino grazie ai duetti tra Lato e Gadocha. Che dopo una fugace esperienza al Nantes, chiuderà la carriera negli Stati Uniti, dove si stabilirà definitivamente con la sua famiglia ricordando per sempre le prodezze di Monaco.