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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Alessandro Iacobelli Allenatori

Francesco Guidolin: la misura del successo

di Alessandro IACOBELLI

La misura del successo. La carriera di Francesco Guidolin è stata costantemente dominata da quel limbo tra normalità e gloria. Le luci della grande ribalta, per sua stessa ammissione, non sono mai piaciute al tecnico nativo di Castelfranco Veneto. Da Vicenza a Bologna, passando per Udine e Palermo. Tutte esperienze favolose vissute con un unico comun denominatore: la tensione.

Sì perché lui ci mette cuore, anima e polmoni. Ogni giorno con la testa riempita di schemi, pensieri (propri e altrui), intuizioni, pressioni, problemi e palloni. Da calciatore? Molto meglio. Indossi la divisa, vai in campo e corri. Meno seccature. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 Guidolin è un centrocampista dai piedi efficacemente educati, ma dal fisico fin troppo esile. Scarpini ai piedi porta avanti comunque dignitose stagioni tra A e B con le maglie di Verona, Pistoiese, Sambenedettese, Bologna e Venezia.

Cosa fare da grande? A 31 anni Francesco pensa, gira lo sguardo, vede la panchina e decide di accomodarsi per dettare il gioco da bordo campo. Si comincia dalle origini al timone delle giovanili, e poi della prima squadra del Giorgione. I primi anni (Treviso, Fano, Empoli) si rivelano interlocutori, con l’eccezione della promozione in B con il Ravenna nella stagione 1992-1993. Il visionario Presidente dell’Atalanta Percassi lo sceglie per la panchina nerazzurra. Tre mesi nella massima serie con più ombre che luci. Uno schiaffo doloroso ma assai rilevante per una naturale crescita professionale. Nell’estate del 1994, quella dei mondiali americani, Guidolin accetta la proposta del Vicenza. Il mister, non a caso allievo tatticamente della filosofia sacchiana, conquista la Serie A chiudendo la cadetteria in terza posizione.

Il 4-4-2 biancorosso, equilibrato ma spumeggiante al tempo stesso, diventa un cult. Un nono posto al primo anno di A e poi il trionfo in Coppa Italia nel ’97. Al “Menti” Maini, Rossi e Iannuzzi trafiggono Taglialatela ribaltando l’1-0 dell’andata contro il Napoli.

Il preludio alle dolci notti in Europa. I tifosi sognano in Coppa delle Coppe con la sfida al Chelsea in semifinale. Zauli decide il match di andata. Il ritorno si gioca nel glorioso “Stamford Bridge”. Il “Toro di Sora” Luiso zittisce il pubblico con un destro imparabile. La favola però svanisce con le successive reti inglesi di Poyet, Zola e Hughes. Dopo aver eliminato Legia Varsavia, Shaktar Donetsk e Roda JC Di Carlo e soci salutano la prestigiosa competizione. Più di così sarebbe quasi impossibile. Guidolin allora si sposta in Friuli.

A Udine è appena terminato il ciclo targato Zaccheroni. Il patron Pozzo vuole rilanciare le ambizioni con un allenatore rampante. Il bomber brasiliano Marcio Amoroso catalizza al meglio la mole di gioco bianconera siglando la bellezza di 22 reti. Sesto posto finale e qualificazione in Coppa Uefa. Al culmine del campionato tra dirigenza e mister si aprono incomprensioni e malintesi che non si risolvono in breve. Il destino, però, busserà ancora alla stessa porta. Intanto il tecnico viaggia alla volta di Bologna. Quattro annate intense con le coppe solo sfiorate e tanti fuoriclasse passati al “Dall’Ara”. Da Signori a Cruz, passando per il portiere Pagliuca ed il regista Pecchia.

Nel 2004 scocca l’ora di Palermo. Il vulcanico Zamparini lo chiama per sostituire Silvio Baldini. La truppa rosanero concretizza una cavalcata magnifica con il ritorno in Serie A dopo oltre 30 anni. In A si tocca quasi il paradiso: sesta posizione, 53 punti e Luca Toni autore di 20 gol. Le sirene estere suonano forte. Guidolin sbarca quindi in Ligue 1 al timone del Monaco. Decimo posto a quota 52. Inaspettatamente giunge la richiamata di Zamparini. I due si incontrano a Cannes e concludono l’affare. Il ritorno in Sicilia è un successo. Nel 2006-2007 i rosanero chiudono quinti, corteggiando a lungo anche i preliminari di Champions League. Una stagione particolare, quella dopo Calciopoli, con la Juventus in B e le penalizzazioni di Lazio e Milan. Amauri è il vero top player di quella squadra, ed il suo grave infortunio a novembre complica di molto il cammino dei compagni. L’esonero, con la successiva marcia indietro, in primavera è solo un dettaglio in un anno comunque positivo. La stagione successiva subisce il valzer delle panchine all’ombra del “Barbera”, subentrando a Colantuono per poi essere sollevato dall’incarico in luogo del primo.

Le imprese non finiscono mai. Il condottiero di Castelfranco Veneto alza le braccia al cielo pure a Parma. A settembre sostituisce Cagni e porta la formazione gialloblu in Serie A. Ottima anche la stagione seguente con l’ottavo posto finale. Nel 2010 il ritorno più bello, più sospirato, più atteso… a Udine. Undici anni dopo la famiglia Pozzo alza la cornetta, Guidolin non esita ad accettare. L’avvio però è traumatico: 1 punto nelle prime cinque partite. L’alba del volo. Le giovani stelle bianconere sono pronte a sbocciare. Benatia, Isla, Inler e due assi nella manica: Di Natale e Sanchez. Lo spettacolo è assicurato. Reti a catinelle: 0-7 sul malcapitato Palermo, 0-4 al Cagliari, 2-4 al Genoa, 4-0 al Lecce. Senza dimenticare il pirotecnico 4-4 in casa del Milan. A maggio i friulani sono quarti ai preliminari di Champions League.

Superlativa anche la stagione 2011-2012 terminata in terza posizione. Si scatenano nuove promesse come Pereyra e Asamoah. Da mille e una notte il successo sull’Atletico Madrird, in Europa League, con le firme di Benatia e Floro Flores. Ancora due annate con l’Udinese che registra un quinto ed un tredicesimo posto, con una semifinale di Coppa Italia.

Guidolin allarga gli orizzonti. Nel 2016 infatti si trasferisce in Premier League per traghettare i gallesi dello Swansea alla salvezza totalizzando 27 punti in 16 partite.

Adesso il mister vuole un progetto capace di sognare e far sognare. Italia o estero? Si attendono nuove passionali avventure.

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Calciatori Marco Piccinelli

Riccardo Bocalon, il gondoliere del gol diventa Re di Coppa

di Marco Piccinelli

Bocalon all'Inter
Bocalon all’Inter

La sfida è una di quelle che raramente hanno luogo, specie se si dà un’occhiata alle ultime edizioni del Trofeo. Si sta parlando della Coppa Italia e della partita che ha sancito chi avrebbe approdato alla semifinale. Lo scontro era tra Spezia e Alessandria, due squadre che non rappresentano né la massima serie di calcio italiana, né schierano tra le loro fila dei nomi ultra-blasonati che hanno importanti trascorsi. Lo Spezia milita in Serie B, l’Alessandria in Lega Pro si trovano una di fronte all’altra nella sfida dei Quarti di Finale di Coppa ed entrambe hanno sconfitto compagini ben più quotate di loro (Palermo, Roma, Genoa, solo per fare qualche nome). Passa l’Alessandria per due reti a uno. Passa l’Alessandria con due reti di un figlio della città dei Dogi: Riccardo Bocalon.  L’attaccante nasce in laguna nell’89 e inizia a militare nelle giovanili del Treviso fin da subito: mette a segno quattro presenze (2008) e viene acquistato dall’Inter assieme ad un suo compagno di squadra, Jacopo Fortunato. Inizia un lungo periodo di prestiti ad altre piccole società sportive: Portosummaga, Viareggio, Cremonese, Carpi, SudTirol fino ad arrivare al Venezia, al Prato e all’Alessandria. Nella squadra della sua città, nonostante le sole due stagioni in cui vi ha militato, il ricordo è pressoché indelebile: insieme a D’Appolonia, altro ragazzo lagunare doc con cui condivideva il ruolo nel rettangolo di gioco, formava una coppia quasi imbattibile; assieme a loro, poi, quell’anno vi era anche un decano del calcio italiano, Denis Godeas, ora uomo forte del Monfalcone (Serie D, girone C). Bocalon, infatti, con la maglia arancioneroverde, può vantare una promozione da Seconda Divisione a Prima Divisione, quando la Lega Pro era ancora concepita con due campionati distinti fra loro, e un campionato niente male da neopromosse in quella che una volta era la C1.

La vittoria contro il Monza per tre reti a due rappresenta un momento storico tanto quanto quello della vittoria dello scudetto dilettanti l’anno precedente, quello di Sassarini, dell’esonero nel girone di ritorno del medesimo allenatore e dell’arrivo di Favarin, che molti si ricorderanno per il suo sclero epico dopo il pareggio coi vicentini Sarego (già dati per retrocessi).

Bocalon al Venezia
Bocalon al Venezia

Bocalon, al termine del prestito con l’Unione Venezia, va al Prato e incontra un giocatore che gli arancioneroverdi filo-toscani a guida Sassarini conoscevano bene: l’aretino Giulio Grifoni. Il sistema del prestito si rompe e l’Alessandria decide di acquistare Riccardo Bocalon dall’Inter: i neroazzurri lo lasciano partire, il trasferimento ammonta a 300 mila euro. L’attaccante, dunque, è parte integrante dell’Alessandria e con i grigi viaggia nelle vette alte del campionato di Lega Pro, spina nel fianco del Cittadella primo in classifica. Con la sua personale doppietta nella partita contro lo Spezia, infatti, Bocalon fa proseguire il sogno all’Alessandria: la Coppa Italia prosegue e la piccola comunità calcistica se la dovrà vedere contro i rossoneri del Milan. Prima, infine, si menzionava la coppia che il bomber in questione faceva con D’Appolonia, vedendo come interagiscono sul campo tra di loro Bocalon e Marras, sembra di rivivere le emozioni che forniva quel duo veneziano che indossava la maglia della propria città. E che, al momento del terzo gol contro il Monza, veniva lanciata al vento, facendo esplodere i troppi convenuti rispetto alla capienza.

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Club Enrico D'Amelio

Roma-Liverpool: una notte di Coppe e di Campioni che per i tifosi giallorossi non è esistita davvero

di Enrico D’Amelio

C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.

Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.

Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.

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Calciatori Fabio Belli

Alessandro Iannuzzi, il fascino discreto della meteora

di Fabio Belli

Ci sono giocatori destinati a lasciare il segno. Alcuni, campioni indimenticabili, ci riescono ovunque vanno, basti pensare a Zlatan Ibrahimovic e al suo straordinario record di dieci campionati vinti nelle ultime undici stagioni disputate, con sei casacche diverse, in quattro nazioni differenti. Ma i grandi campioni richiamano quasi sempre grandi squadre, e di conseguenza le grandi opportunità. Più curioso può essere considerato il caso di quella che, da promessa mancata, riesce comunque a entrare nella storia delle formazioni nelle quali milita. Invariabilmente, inesorabilmente.

Foto laziowiki.org
Foto laziowiki.org

Alessandro Iannuzzi risponde perfettamente a questo identikit. La sua carriera nel calcio che conta è stata una rapida fiammata, per poi proseguire comunque fino alle soglie dei quarant’anni nei campionati dilettantistici. Quello che colpisce di questo biondino dal piede fatato, è il suo cammino fino a quando era ancora un Under 23. Esploso in una delle formazioni Primavera più forti di sempre, la Lazio di Nesta, Di Vaio, Flavio Roma in porta e Daniele Franceschini a centrocampo, lo scudetto di quella formazione è indissolubilmente legato alla micidiale punizione in cui, di fronte a 40.000 spettatori allo Stadio Olimpico, consegnò il titolo a quel gruppo di giovani di talento.

Da una punizione all’altra: nella stagione successiva allo scudetto Primavera, Zdenek Zeman lo chiama in campo nell’ennesima partita messasi male per quella Lazio bella e incompiuta. 0-1 in casa contro il Torino (in quella stagione destinato alla retrocessione), a togliere le castagne dal fuoco ci pensa proprio il biondino con la sua specialità: micidiale botta a girare sotto l’incrocio dei pali, e corsa sotto la curva resa ancor più commovente dall’abbraccio con il fratellino raccatapalle, di cui a sua volta si dicevano meraviglie nelle giovanili laziali, senza che le promesse venissero poi mantenute.

Il ragazzo ha talento, ma nei rigidi schemi zemaniani le sue attitudini da attaccante-rifinitore finiscono con l’essere mortificate. Avendo bisogno di giocare, finisce nel Vicenza dei miracoli di Guidolin. In campionato è un’alternativa utilizzata a intermittenza, ma nella magica notte della finale di Coppa Italia contro il Napoli, firma all’ultimo minuto dei supplementari il gol della sicurezza, il 3-0 che fa esplodere di gioia il Romeo Menti e regala il primo titolo della sua storia centenaria al sodalizio berico. Un prestito di un anno, ma Iannuzzi a Vicenza non se lo scorderanno mai più. Torna a Roma nella più sfarzosa Lazio cragnottiana: l’arrivo di Cristian Vieri è sinonimo di ambizioni gigantesche, ma anche di poco spazio in attacco. Un ecatombe di infortuni ad inizio campionato regala una chance proprio contro il Vicenza a “Iannuzzino”, alle spalle di Roberto Mancini: un tempo e pochi minuti per capire che per lui non c’è margine nella SuperLazio. In prestito se lo prende il Milan, dove spazio ce n’é ancora meno: senza mai scendere in campo in campionato, Iannuzzi clamorosamente festeggerà lo scudetto a fine stagione proprio ai danni dei biancocelesti, in testa per metà campionato e poi beffati sul filo di lana dai rossoneri.

Uno scudetto e una Coppa Italia, entrambe lontano da Roma, già nel palmares a 23 anni. Restando nella Capitale Iannuzzi aggiungerebbe un titolo, visto che nel 2000 arriverà finalmente il Giubileo laziale, ma sarà invece girato in prestito alla Reggina nella squadra di Baronio e Pirlo, giovani fenomeni capaci di regalare meraviglie. La terza stella, quella di Iannuzzi, non si accenderà: troppi problemi fisici, che lo tormenteranno fino all’approdo in B in Messina, nel 2002. Dall’altra parte dello Stretto, Iannuzzi troverà finalmente due stagioni di continuità, e la promozione nella massima serie che i peloritani attendevano da quasi quarant’anni, anche e soprattutto grazie alle sue magie e i suoi assist. Ancora un passo nella storia, l’ultimo: a 28 anni non ancora compiuti, nelle cinque successive annate Iannuzzi disputerà solo una stagione (quasi) intera, a Gualdo Tadino nel campionato 2005/06. Poi i dilettanti, e il bagliore, nel suo caso accecante, dei ricordi: calciatori con centinaia di presenze in più tra i professionisti, non hanno vissuto altrettanti momenti di gloria.

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Fabio Belli Le Finali Mondiali

2002: Brasile-Germania 2-0. La finale delle finali e il ritorno del Fenomeno

di Fabio Belli

Il Guerin Sportivo, “bibbia” italiana dello sport per eccellenza, li chiamò in una memorabile copertina “gli immondiali“. L’edizione asiatica, la prima di tutti i tempi fuori dal circuito Europa-America, riportò in effetti la rassegna iridata indietro di circa quarant’anni. Ovvero, a Cile 1962, quando arbitri, fattore campo e polemiche sull’organizzazione finirono con lo svilire lo spettacolo. A Giappone e Corea del Sud non si poterono certo imputare lacune organizzative, anche se la logistica, con i lunghi spostamenti tra i due paesi, risultò particolarmente faticosa per tutte le partecipanti. Ma i coreani furono sospinti da arbitraggi sin troppo consenzienti, che li trascinarono fino ad un inimmaginabile, alla vigilia, quarto posto finale.

Brasile "pentacampeao" nel 2002
Brasile “pentacampeao” nel 2002

Si arrivò all’atto conclusivo soprattutto nel segno di Moreno e Ghandour: due arbitri, un ecuadoregno ed un egiziano, che fecero insorgere Italia e Spagna nelle gare degli ottavi e dei quarti, con due direzioni di gara che non si vedevano appunto dai tempi dell’inglese Aston, che fece prendere a pugni in faccia David e Maschio dal cileno Jorge Toro e dai suoi compagni esaltati da tanta impunità. Ma anche gli Stati Uniti, rivelazione del torneo, si videro pesantemente penalizzati nei quarti di finale contro la Germania, e le emozioni finirono con lo scarseggiare. L’impresa del Senegal nella partita inaugurale contro una Francia svuotata dal doppio titolo Mondiale ed Europeo, ed il quarto di finale tra Brasile ed Inghilterra furono alcuni tra i pochi momenti memorabili dell’edizione nippocoreana del 2002.

In tutto questo, Brasile e Germania andarono avanti nel segno delle loro caratteristiche peculiari: allegria e spensieratezza per la Selecao, solido pragmatismo per i teutonici, che dopo la delusione di Euro 2000, aprirono un nuovo ciclo segnato dai gol di Miroslav Klose, la fantasia di Bernd Schneider e le parte di Oliver Kahn, autore di grandi prodezze nel cammino verso Yokohama e la finalissima. Nella squadra allenata da Felipe Scolari, gli elementi decisivi che si combinarono assieme furono quattro. La formidabile spinta sulle fasce di Cafu e Roberto Carlos, l'”addomesticamento” di Denilson, da genio incompreso a playmaker di lusso, anche se ancora un po’ intermittente, il duo Rivaldo-Ronaldinho, genialità allo stato pure, e soprattutto il ritorno del Fenomeno. A un anno dal terribile incidente nella finale di Coppa Italia tra Inter e Lazio, Ronaldo ha trascinato a un passo dallo scudetto i nerazzurri, prima dello psicodramma del 5 Maggio 2002 di nuovo contro i biancocelesti, stavolta fortunatamente solo sportivo.

Ronaldo, tornato assoluto protagonista nei Mondiali del 2002
Ronaldo, tornato assoluto protagonista nei Mondiali del 2002

Ma ai Mondiali Ronaldo spazzò via tutti i dubbi sulla sua tenuta fisica tornando a fare quello che gli riesce meglio: i gol. Si arrivò a Yokohama con Brasile e Germania di fronte. Dopo tante polemiche e delusioni, l’epilogo fu affascinante per due motivi. Si trovavano faccia a faccia le due squadre con più Mondiali in bacheca assieme all’Italia, e nonostante si trattasse di due Nazionali assiduamente presenti nella competizione (i brasiliani addirittura non ne hanno mai saltata una), era il primo confronto iridato in assoluto fra tedeschi e verdeoro, che mai si erano scontrate in nessuna delle edizioni fino ad allora disputate.

Una finale inedita e di assoluto prestigio, quando per il terzo e quarto posto si erano trovate di fronte la Corea del Sud, come detto sospinta da arbitraggi che definire “casalinghi” è riduttivo, e l’incredibile Turchia di Hakan Sukur, poi medaglia di bronzo. E le analogie rispetto al 1962 continuarono fino alla fine, poiché come allora fu il Brasile a salvare il prestigio della competizione, laureandosi Campione del Mondo a suon di magie (da Garrincha & Amarildo a Rivaldo & Ronaldinho), e sfruttando come allora gli errori in finale di quello che era stato il miglior portiere della competizione. Quarant’anni dopo Schrojf, toccò a Oliver Kahn cadere sotto i colpi di Ronaldo, autore di una doppietta che ne segnò la rinascita come l’Araba Fenice. Ma dopo tante prodezze, stavolta ai meriti del Fenomeno si sommarono i demeriti del portiere tedesco, che aveva preso anche le noccioline tirate dagli spalti contro americani e coreani, per poi incappare nella più classica delle papere al momento decisivo. Corsi e ricorsi della storia: di uniche restano le stranezze del Mondiale asiatico, e le prodezze di un Brasile da record, divenuto nella notte di Yokohama “Pentacampeao“.

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Club Fabio Belli

Hibs contro Jambos: l’eterna rivalità ad Edimburgo, da Irvine Welsh alla “Salt & Sauce Final”

di Fabio Belli

Da sempre in Scozia le squadre di Glasgow sono abituate a dominare la scena quasi incontrastate, ma negli ultimi 30 anni la situazione ha assunto contorni quasi imbarazzanti. Nella prima metà degli anni ottanta l’Aberdeen di Alex Ferguson ed il Dundee United rappresentarono le ultime alternative al cosiddetto ‘Old Firm‘, l’eterna sfida tra Rangers e Celtic, che ora, in attesa della risalita del club che fa capo ai protestanti della città, è momentaneamente sospesa.

Hibernian-HeartsOrmai da decenni la capitale Edimburgo fa da comprimaria alle grandi, ma la rivalità tra le squadre locali non è meno sentita, e soprattutto ha contorni simili a quella che si vive a Glasgow. L’anima cattolica e filo – irlandese della città si identifica nell’Hibernian, quella protestante negli Hearts of Midlothian. Noti per avere simpatie progressiste ed operaie i primi, mentre i tifosi degli Hearts, soprannominati “jambos“, sono più vicini agli ambienti ultras destrorsi. Lo scrittore Irvine Welsh, l’autore di “Trainspotting“, nei suoi libri ha sempre abbondato in riferimenti alla scena calcistica locale. Molti dei suoi personaggi, in diversi romanzi ambientati ad Edimburgo, bevono nei pub di Leith, la zona a più alto tasso di tifosi “Hibs” della città, e disprezzano i ‘jambos’, dipinti come autoritari, con tendenze nazi e comunque più inclini al successo sportivo. I Renton di “Trainspotting” ed i Terry Lawson di “Colla” vanno ad Easter Road, tempio dell’Hibernian che non per niente sorge a Leith, a poca distanza comunque da Gorgie Road dove si trova quello degli Hearts, Tynecastle. Ricordano con orgoglio quando George Best vestiva la maglia bianca e verde smeraldo, bevono fiumi di birra e consumano cartocci di fish & chips per cenare dopo le partite.

Proprio ad Edimburgo la ricetta più classica per mangiare pesce e patate fritti è quella del “Salt & Sauce”, ovvero frittura appena cotta servita al volo con una spruzzata di sale e salsa d’aceto. E quando nel 2012 Hibernian ed Hearts si trovarono di fronte per giocarsi la Coppa di Scozia, la sfida di Hampden Park a Glasgow venne proprio chiamata la “Salt & Sauce final“, in onore all’usanza di Edimburgo. Una partita sentitissima, come accaduto anche in Italia pochi mesi fa, quando fu il derby di Roma ad assegnare la Coppa nazionale alla Lazio, e la sfida fu vissuta in un clima di grande emozione tra i tifosi romani. La Coppa di Scozia a livello internazionale può essere percepita come un trofeo minore, ma in patria il suo fascino è grande, essendo considerata la competizione più antica della storia del calcio (la prima fu assegnata nel 1873). La finale tutta a tinte edimburghesi si ripresentava per la seconda volta nella storia, ma la prima, vinta per 3-1 dagli Hearts, si era persa nella notte dei tempi, disputata nel 1896. Centosedici anni dopo, si presentava un nuovo derby in finale per due squadre che non vincono il titolo da oltre cinquant’anni, e per le quali la Coppa rappresenta un’ancora di salvezza per vivere un giorno sotto il sole dopo anni e anni nell’ombra.

Cattolici contro protestanti, bandiere irlandesi contro tartan, ma stavolta non è Celtic contro Rangers, ma Hibs contro Jambos. La variazione sul tema ha avuto una grande rilevanza in Gran Bretagna, e la finale, oltre a far registrare il tutto esaurito, è stata coperta da un grande spiegamento di forze mediatico, che hanno seguito lo spostamento in massa delle due anime della Capitale. Alle ore 15 del 19 maggio 2012 il fischio di inizio ha sancito uno dei trionfi più importanti della storia degli Hearts, che con i gol di Skacel (doppietta), Barr, Grainger e McGowan, hanno travolto per 5-1 i rivali di sempre, capaci di accorciare le distanze solo a fine primo tempo con McPake. I festeggiamenti ‘jambos’ sono durati tutta la notte, fino al rientro ad Edimburgo: la finale ‘Salt & Sauce’ è stata consegnata alla storia, ma la rivalità è destinata a durate, finché il dominio di Glasgow non sarà di nuovo messo finalmente in discussione.

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Club Fabio Belli

Roma-Gornik Zabrze: l’atroce beffa ai tempi della tv in bianco e nero…

di Fabio Belli

Uno dei luoghi comuni che gravitano attorno al calcio, è ripetersi quanto la televisione abbia ucciso quella visione romantica del football di una volta. Le partite raccontate dalla radio gracchiante, giocate solo immaginate ma per questo pervase ancor di più da un alone mitico, il bianco e nero, l’attesa della domenica sera per qualche fugace minuto di immagini. Ora, tra telecamere ad alta definizione e piazzate praticamente dappertutto, spogliatoi compresi, la fruizione casalinga del calcio è un’esperienza a 360 gradi, che ha perso però il fascino d’un tempo, finendo per giunta in alcuni casi (l’Italia ne è uno degli esempi più lampanti) per svuotare gli stadi.

6970romagornik_DSC07741Ma ogni medaglia ha sempre due facce, ed oltre alla comodità dell’HD e del calcio 24 ore su 24, la tv ha anche regalato una percezione più reale di quanto accade sul campo; soprattutto, ha evitato equivoci del passato destinati addirittura ad entrare nella leggenda. Ne sanno qualcosa i tifosi della Roma, che nella primavera del 1970 subirono una singolare beffa a scoppio ritardato. Lo scenario è quello europeo: la squadra giallorossa di allora non è trascendentale, e paga soprattutto la mancanza di un vero bomber, con lo spagnolo Peirò che chiuderà il campionato da centravanti titolare con sole cinque marcature all’attivo. In Italia le delusioni saranno molte, e la squadra allora allenata da Helenio Herrera chiuderà mestamente decima, dopo diverse stagioni anche alle spalle degli eterni rivali della Lazio.

In Europa però la Roma suona un’altra musica: disputando la Coppa delle Coppe grazie al successo nella Coppa Italia del 1969, i giallorossi arrivano in semifinale eliminando in serie i nordirlandesi dell’Ards, gli olandesi del PSV Eindhoven ed i turchi del Goztepe. Il sorteggio tra le prime quattro sembra sorridere alla formazione del “mago” Herrera. Due delle grandi favorite per la vittoria finale, il Manchester City e lo Schalke 04, si scontrano fra di loro. Alla Roma toccano in sorte i polacchi del Gornik Zabrze, temibili ma meno quotati di tedeschi ed inglesi. All’andata all'”Olimpico“, però, il primo aprile del 1970, i giallorossi non riescono a passare: si chiude sull’uno a uno (Banas sorprende Ginulfi nel primo tempo, la Roma risponde nella ripresa con Salvori), ed il match di quindici giorni dopo in Polonia, a Katowice, assume contorni insidiosi. La Roma, con davanti la prospettiva della possibile prima finale europea della propria storia, sfodera però una prestazione di carattere, imponendo il pari al Gornik ai supplementari, grazie ad una rete siglata ad un minuto dalla fine da Scaratti. Si chiude sul 2-2, e all’epoca i calci di rigore non sono previsti.

E’ necessaria la ripetizione, una settimana dopo, sul campo neutro di Strasburgo. Ed è lì che la nostra storia assume contorni incredibili, soprattutto per chi è rimasto a Roma per seguire la partita trasmessa dalla RAI. Il match si risolve infatti con un nuovo pareggio: al gol polacco di Lubanski risponde Fabio Capello su calcio di rigore, si va di nuovo ai supplementari ma il risultato non cambia ancora. Non è prevista però un’ulteriore ripetizione, ma il lancio della monetina, consuetudine a quei tempi, seppur crudele, per decidere chi deve andare avanti in una manifestazione calcistica. L’Italia raggiunse così la finale degli Europei del 1968 eliminando l’URSS in semifinale, e proprio la Roma negli ottavi di quella edizione di Coppa delle Coppe si sbarazzò grazie al sorteggio del PSV Eindhoven.

I capitani si avvicinano al centro del campo, l’arbitro lancia la moneta, e la raccoglie. Sono attimi di tensione, in particolar modo per chi da Roma segue la diretta tv e vede arrivare dalla Francia immagini sfocate e poco chiare del sorteggio. Ma ad esultare, dopo che l’arbitro mostra la fatidica monetina, sono le maglie scure nel bianco e nero televisivo, ovvero quelle della Roma. Nei salotti della Capitale l’esultanza è sfrenata e dura per decine di secondi. Poi, piano piano, la voce del cronista che aveva lui stesso annunciato la festa delle maglie giallorosse, riporta tutti alla realtà: la moneta ha detto Gornik, saranno i polacchi ad affrontare il Manchester City in finale. Com’è possibile? Semplicemente, prima del sorteggio molti giocatori si erano scambiati la maglia: i calciatori con la divisa della Roma esultanti erano dunque in realtà quelli del Gornik. Una beffa atroce, e ancor di più lo è stata per i tifosi che, alla vista dei festeggiamenti giallorossi, hanno spento immediatamente il televisore per riversarsi in strada, a festeggiare il raggiungimento della finale. In un’epoca senza riscontri possibili con internet, televideo ed altri mezzi, fu il giornale del mattino a comunicare loro che la Roma, in verità, aveva perso

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Calciatori Enrico D'Amelio

Giuseppe Giannini: quel pomeriggio a Foggia che forse cambiò la storia della Roma… ma non la sua

di Enrico D’Amelio

Alcuni giocatori sono dei predestinati. Ogni tappa della loro carriera è scandita da una perfezione temporale che nemmeno il miglior regista sarebbe in grado di mettere in ordine. Esordio, primo gol, prima maglia azzurra, fascia da capitano. Tutte circostanze perfette, che incoronano precocemente come Campione un calciatore che più di ogni altro è destinato a lasciare un segno indelebile nella propria squadra d’appartenenza. Poi ci sono altri che rimangono, per una serie di motivi, nella terra di nessuno. Né comprimari, né fuoriclasse, sempre così a metà strada da non riuscire a mettere tutti d’accordo, quasi a spaccare un’intera tifoseria e gran parte della critica. Perché anche se si diventa presto Principe, non è detto che sia automatico il fatto di assurgere al ruolo di Re. Soprattutto se ti ritrovi a giocare nella Roma della metà degli anni ’80 e ad essere l’erede designato di uno che in quella squadra ha appena fatto la storia e che veniva chiamato ‘il Divino’.

gianniniCi sono state tante occasioni, in una storia d’amore lunga 15 anni e interrotta nel peggiore dei modi da un presidente ingrato, per far sì che Giuseppe Giannini potesse diventare quel che credeva e non è mai stato. Alla Roma decise di dedicare una carriera, anche dopo le più cocenti delusioni, nonostante la corte serrata che solo un erede al trono poteva ricevere dalle più prestigiose squadre italiane. Mai avrebbe potuto vestire quella maglia bianconera a cui era legato il ricordo del primo gol in A segnato con la casacca del cuore. Proprio al vecchio “Comunale”, lo stadio dove nel 1981 s’era consumato il furto d’uno scudetto arrivato solo due anni dopo. Un obbligo morale per un ragazzo romanista, a cui, nel frattempo, erano stati assegnati numero di maglia e fascia di capitano del poi compianto Agostino, che non poteva tradire una città intera. Il giallorosso nel cuore e nel destino, tant’è che la prima occasione di fare l’ultimo passo si presentò in un caldo pomeriggio di primavera del 1986. L’Olimpico vestito a festa e zittito inspiegabilmente da un Lecce già retrocesso, che spense i sogni di gloria della seconda Roma di Eriksson, una delle più belle di sempre.

A soli 22 anni, però, c’era tutto il tempo per rifarsi, soprattutto se si è entrati in pianta stabile in Nazionale e se sta per arrivare un Mondiale da giocare proprio nella tua città. Anche lì la sfortuna ci mise del suo, con una squadra che finì al terzo posto, imbattuta e con un solo gol subito in sei partite, purtroppo decisivo, segnato da Caniggia e causato da un infortunio dell’amico Zenga. Gli anni, a questo punto, sono 26, e qualcosa inizia a cambiare. Dino Viola, il presidente-papà, muore pochi mesi dopo e con Ottavio Bianchi in panchina il rapporto non sboccia mai. Pessima la stagione 1990/91 in campionato, ma esaltante nelle Coppe, con la terza Coppa Italia personale messa in bacheca e un derby italiano contro l’Inter in finale Uefa da giocare in 180’. Dieci minuti di follia a San Siro obbligano Giannini e compagni a rimontare un passivo di 2-0 nel ritorno in un Olimpico stracolmo. Coreografia da brividi e tifo incessante riescono a spingere in rete solo un gol, quello di Rizzitelli, che non basta alla Roma per alzare il trofeo. Sette anni dopo il Liverpool, ancora una volta sono gli altri a prendersi la Coppa.

Due anni di anonimato sotto la gestione Ciarrapico, fino all’avvento, nel 1993, di Franco Sensi alla presidenza e Carlo Mazzone in panchina. Inesistente il rapporto col presidente, difficile con l’allenatore, anche se, col tempo, diverranno una cosa sola. Per Giannini e per la Roma è una stagione da buttare, con una serie di prestazioni sconcertanti e il baratro della B sempre più vicino. Sono ben 14 le partite senza vittorie per una squadra allo sbando, che perderà il derby di ritorno, anche per un rigore sbagliato dal Principe sotto la Sud. La società ha già deciso di accomiatarlo, ma quindici giorni dopo, come nei migliori thriller, succede qualcosa. Si gioca a Foggia e i rossoneri dopo pochi minuti si portano in vantaggio. Qualcosa, però, è diverso. Soprattutto per il Capitano. Gioca, si diverte, detta i tempi. Come qualche anno prima. Mazzone getta nella mischia un giovanissimo Francesco Totti e al minuto 74, su respinta della difesa, il numero 10 scaglia un bolide di sinistro che si va a insaccare alle spalle di Mancini. 1-1 e corsa liberatoria sotto un settore ospiti impazzito, con tanto di lacrime per tutto quello che aveva dovuto sopportare. Un minuto. In un solo minuto ti passano davanti i sogni di una vita. Quelli mai raggiunti e gli altri gettati alle ortiche per la scelta di infilarti ogni domenica una maglia che è come una seconda pelle. Quella che hai sventolato più volte come una Bandiera sotto la tua Curva dopo tanti gol. Anche se sai che un presidente appena arrivato te la vuole e te la sta per togliere, che non sarai ricordato come altri e che qualcuno potrà sempre dire “però giocava bene solo in Nazionale”. Poco importa. Scudetti e Coppe Campioni da un’altra parte non t’avrebbero mai fatto vivere quel folle pomeriggio a Foggia. Con una maglia addosso, quella maglia. L’unica. Che nessuno potrà mai amare più di te.

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Allenatori Calciatori Enrico D'Amelio

Roberto Mancini, la lucida follia della giovinezza

di Enrico D’Amelio

Se non sapessimo nulla della sua storia e lo conoscessimo ora, perfettamente calato nella grigia Manchester dei potenti sceicchi arabi, con tanto di sarto personale e pluriennale contratto faraonico, faticheremmo a credere che sia stato uno dei geni più ribelli e avversi al potere di quasi vent’anni di calcio. Invece, quel carattere difficile e controcorrente, sempre schivo e mai banale, gli ha consentito di raccogliere forse un quarto delle soddisfazioni che meritava in relazione alla sua classe smisurata e sopraffina. Lui, Roberto Mancini, normale non è mai stato. Di difficile collocazione tattica, perché incontrollabile e anarchico, come tutti quelli che rifiutano gli stereotipi o i cliché preconfezionati, ha incarnato per quattro lustri il ruolo di giocatore simbolo di una delle squadre più belle degli anni ‘80, la Sampdoria.

Più volte le sirene dei grandi club del nord hanno provato a farlo vacillare, ma, pur di non dare un dispiacere a Paolo Mantovani (“se non gioca Roberto, non mi diverto”, diceva l’ultimo presidente tifoso che l’aveva preso neanche diciottenne dal Bologna), ha preferito mettere le radici per 15 anni nella città della Lanterna. Una scelta di cuore, spontanea, che ha regalato tante difficoltà e alcune gioie, anche se uniche, come lo scudetto del 1990/91, il solo nella storia della Sampdoria, o la Coppa delle Coppe vinta in Svezia contro l’Anderlecht, dopo il primo tentativo andato a vuoto contro il Barcellona. La stessa squadra che gli ha inflitto la delusione più cocente della carriera, con quel gol di Ronald Koeman a Wembley allo scadere dei supplementari, negandogli la gioia di alzare la Coppa dei Campioni da calciatore. Vita difficilissima in Nazionale, dove mal sopportava gli schemi integralisti di quell’Arrigo Sacchi, che ai giocatori di talento un po’ ribelli, ha sempre preferito i cursori politicamente corretti del suo Milan berlusconiano. Un suo grande amico, Giuseppe Giannini, classe ‘64 come lui, ed epurato senza appello come lui dal sergente di ferro di Fusignano, rispose così a chi gli chiedeva se avesse potuto ancora indossare la maglia azzurra: “Credo che un’opportunità io e Roberto l’avremmo meritata, visto che Sacchi, dopo di noi, ha convocato cani e porci”. Questo ha sancito la fine di ogni possibile apertura per i due numeri 10 incompresi, ma, forse, anche per loro, senza un romagnolo di tutt’altra pasta in panchina come Azeglio Vicini, non sarebbe stata più la stessa cosa.

Dopo gli anni migliori, e mai più ripetuti, per la Genova blucerchiata, via via cominciavano a lasciare la Liguria i compagni di una vita. Pagliuca si spostava a Milano sponda Inter, Vierchowod tentava di vincere la Champions (e ci riusciva al primo colpo) alla Juventus, e, soprattutto, l’altro gemello del gol Gianluca Vialli era già andato via. Di quella splendida Sampdoria, che nulla aveva vinto prima di lui e che nulla vincerà dopo di lui, era rimasto ben poco. Solo la sua maglia numero 10 e la fascia di capitano bianca al braccio, a coprire il tatuaggio del marinaio “baciccia”, simbolo doriano, con altri dieci giocatori che non parlavano la sua stessa lingua col pallone tra i piedi. Era venuto a mancare il Presidente-papà, e col figlio Enrico che ne aveva preso il posto non s’era creato lo stesso idilliaco rapporto. La Doria iniziava un lento declino, e a 33 anni Roberto tentava il salto nel buio nella Capitale, con la maglia della Lazio, insieme al suo secondo maestro Sven Goran Eriksson. Un altro passo per pochi, un’altra avventura in una squadra che i trofei alzati li aveva visti solo in televisione. Almeno fino ad allora. I risultati? Coppa Italia al primo colpo, Coppa delle Coppe l’anno dopo e Scudetto al terzo. L’ultimo da giocatore per il Mancio. L’unico, insieme allo zar Vierchowod, a vincere due scudetti con due maglie diverse che non fossero di Inter, Juve o Milan.

Poi, dopo una breve esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio, la carriera da allenatore. Fiorentina nel 2001, di nuovo Lazio, fino all’approdo a Milano sulla panchina nerazzurra a soli 40 anni. La prima netta virata per chi non s’era mai messo da “quella parte”. Quattro anni a San Siro, i primi due Scudetti vinti da allenatore, quindi, nel 2008, complice l’arrivo di Mourinho, l’addio. E poi, storia dei giorni nostri, l’esperienza di Manchester alla guida dei citizens. Da giovane calciatore ribelle fuori dagli schemi, a tecnico inserito nei rigidi contesti dei più importanti e facoltosi club europei. La dura e cruda realtà, che sveglia tanti ragazzi di quella generazione, oramai diventati uomini, da un “sogno ormai rattrappito”.

Ma sempre in un’intervista, dell’aprile 2011, quando il City iniziava a diventare quello che è ora, ovvero la migliore squadra d’Inghilterra e, soprattutto per loro, dopo anni di umiliazioni, la prima di Manchester, gli veniva chiesto se la Coppa Campioni non vinta da giocatore potesse essere il suo vero obiettivo da tecnico. La risposta ha fatto riemergere alla mente ricordi oramai assopiti: “E’ vero – ha detto – che la Champions League è un po’ la mia ossessione. Ma la finale persa contro il Barcellona nel 1992 a Wembley è una ferita che non si potrà mai rimarginare. Per riuscirci, e chiudere definitivamente il cerchio, dovrei farlo solo sulla panchina della Sampdoria”. Qualcuno, dalle parti di Marassi o Sampierdarena, ascoltando le sue parole, avrà potuto chiudere gli occhi, e rivivere le immagini di quel decennio, sbiadite ma indelebili, in cui la lucida follia della giovinezza di un genio ha fatto salire una squadra, operaia fino ad allora, quasi sul tetto più alto d’Europa. Poco importa se l’ultimo passo non è stato compiuto. Sarebbe sciocco chiedere ai geni di poter contemplare la perfezione nelle loro imprese.