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Roma-Liverpool: una notte di Coppe e di Campioni che per i tifosi giallorossi non è esistita davvero

di Enrico D’Amelio

C’è chi dice che una sconfitta rimanga impressa nel corso del tempo più di una vittoria. L’ebbrezza del successo contiene il brivido del momento, mentre il lutto sportivo di una disfatta fatica ad esser metabolizzato dal fluire degli anni. Alcune volte non ne bastano più di 30 per abituarsi al ricordo di una fine mai accettata. Una calda notte di Coppe e di Campioni di fine maggio, che avrebbe potuto proiettare la Roma sul tetto più alto d’Europa, è rimasta come l’emblema di quello che poteva essere e non è mai stato. Culmine di un percorso intrapreso anni prima, e coronato con la classica conclusione di un ciclo. Invece, visto che il corso della Storia non si modifica come lo scorrere di un fiume, neanche per una volta Davide ha potuto sentirsi Golia, nonostante l’appoggio di un pubblico amico, pronto a liberare un urlo rimasto strozzato in gola. Il 30 maggio del 1984, per i romanisti di ogni generazione, non è e mai sarà una data come le altre. E’ qualcosa di tragico e maledetto, che racchiude in una partita l’essenza di sofferenza e disillusione intrise in una maglia. La nemesi del fato, dopo che sempre contro una squadra britannica c’era stato un mese prima il regalo degli déi, con la rimonta riuscita in semifinale ai danni del Dundee United, a seguito di un 2-0 della gara d’andata che non lasciava presagire nulla di buono. Invece, visto che sempre il destino s’era divertito a designare la Città Eterna come sede dell’atto conclusivo di quella Coppa dei Campioni – il termine Champions League era ancora impensabile per un calcio troppo romantico -, tutto sembrava scritto per un finale differente.

Però c’era di mezzo un’altra squadra dalle magliette rosse, il Liverpool di Joe Fagan, già 3 volte Campione d’Europa, e che 7 anni prima aveva alzato la sua prima Coppa dalle grandi orecchie proprio all’Olimpico contro il Borussia Monchengladbach. Se il calcio fosse un racconto narrato invece che la cruda realtà degli eventi, qualsiasi sceneggiatore avrebbe concesso ai ragazzi di Liedholm il tributo dei gradini della gloria. Una Roma mai più vista, quella del 1983/84, secondo alcuni più forte di quella laureatasi Campione d’Italia l’anno prima. Con un Vierchowod in meno, ma un Cerezo in più, a formare con Conti, Falcao e Ancelotti un centrocampo di livello europeo. Questo sport, però, oltre a non essere un racconto narrato, è talvolta soggetto alle emozioni degli interpreti. Uomini non abituati a gestire certe tensioni, con una città spesso troppo calorosa e fagocitatrice nel trasmettere l’effetto contrario di troppo amore concesso. I più anziani ricorderanno che quel 30 maggio, allo stadio, c’erano già molte bandiere con la scritta ‘Roma Campione d’Europa’ impressa sulla stoffa giallorossa, con un tetro silenzio sul pullman dei calciatori per la troppa tensione, nel tragitto dall’hotel allo Stadio. Una tensione mai scaricata sul campo, che ha partorito una partita bloccata, come quasi tutte le finali. 120’ di assoluta parità, con bomber Pruzzo che aveva annullato il vantaggio iniziale di Neal, viziato, tra l’altro, da un evidente fallo su Franco Tancredi. Poi la scelta di calciare i rigori sotto la Sud, il primo errore degli inglesi e la bomba di Agostino Di Bartolomei, scelto dal Barone come primo rigorista in corsa al posto di Graziani, che voleva far entrare in porta con tutta la palla un portiere che faceva i versi della scimmia con estrema naturalezza. Roma avanti per la prima volta, e i nastrini giallorossi che iniziavano ad esser preparati sotto la Monte Mario attorno al trofeo. Poi, però, gli errori di due Campioni del Mondo, con due calci di rigore calciati alle stelle, e la pietra tombale su un sogno inseguito per anni.

Come ogni evento storico che si rispetti, Roma-Liverpool manterrà sempre intatti dei misteri mai svelati, alcuni anche tragici. L’ultima partita dei principali simboli di quella Roma (Liedholm e Di Bartolomei), il rifiuto di tirare un rigore decisivo da parte di Falcao, e il fatto che mai più si ripeterà un’occasione simile fanno di Roma-Liverpool qualcosa di altro rispetto a una semplice occasione persa. Per alcuni questa partita non è stata mai giocata, altri non hanno più voluto rivederla, altri ancora non ne vogliono parlare e la ricordano come la rottura di rapporti consolidati (Di Bartolomei-Falcao). Negli anni sempre più aneddoti e versioni divergenti sono serpeggiate riguardo a quanto successo quella notte, e in quello spogliatoio. Di certo si è rotto qualcosa nella ‘magia’ di quel gruppo, che s’è sfaldato a poco a poco, e nulla è più tornato come prima. La Coppa Italia conquistata pochi giorni dopo contro il Verona ha rappresentato la magra consolazione di una squadra chiamata ‘Rometta’ negli anni ’70 con Anzalone, e arrivata a due calci di rigore dall’essere Regina d’Europa. C’è un documentario di quegli anni in cui un giornalista della RAI domanda a un ragazzo del Commando Ultrà perché la Roma fosse considerata “magica” dai tifosi della Curva Sud. Allora il ragazzo, che avrà avuto sì e no 18 anni, rispose: “Penso che se una squadra è in grado di vincere a Milano, e poi rischia di perdere in casa contro l’Ascoli la domenica successiva può essere considerata soltanto magica”. Poi è venuta la Roma di Eriksson, l’altra bellissima rimonta del 1986 sfumata per una sconfitta contro un Lecce già retrocesso, la finale UEFA persa nel 1991 contro l’Inter sempre all’Olimpico, fino allo Scudetto del 2001 di Batistuta e Capello. In ogni caso, qualcosa di irripetibile come Roma-Liverpool non c’è più stato. Ma, probabilmente, quella partita non s’è mai realmente giocata, e i sogni restano magici e affascinanti solo se conservati all’interno di un cassetto.

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Calciatori Marco Piccinelli

Re Giorgio Corona e gli altri decani del calcio professionistico

di Marco Piccinelli

(tratto dalla Gazzetta del Lazio di venerdì 6 febbraio 2015)

In Lega Pro, nel girone della Lupa Roma, sono presenti i giallorossi del Messina, annaspando tra playout e salvezza.
La stagione non è certo facile e il girone unico non aiuta le squadre che si sono lasciate da poco alle spalle l’ultimo scoglio del dilettantismo italiano: la Lupa Roma, dopo un avvio costellato di vittorie e pareggi contro squadre ben più blasonate, si trova ora a metà della classifica seguita a un poco confortante +2 dal Messina.
Perché dovrebbe interessare una squadra siciliana al lettore di un periodico che è rintracciabile nelle edicole di Roma e del Lazio e che, non a caso, si chiama ‘La Gazzetta del Lazio’?
Perché in realtà parlare del Messina è un pretesto per scrivere di uno dei simboli della rinascita della squadra, dopo essere piombata dalla massima serie alla Serie D: si tratta di Giorgio Corona.
Attaccante, soprannominato ‘Re Giorgio’, non si è fatto molto benvolere – a dirla tutta – dal pubblico romano: nella sua lunga carriera, ancora in corso, ha vestito la maglia della Juve Stabia e il gol del 2 a 0 contro l’Atletico Roma – precisamente all’88’ – ha bruciato per non poco tempo sulla pelle dei tifosi capitolini, sebbene di lì a poco la compagine bianco blu sarebbe fallita e avrebbe cessato di esistere.
Tuttavia, Giorgio Corona ha una notevole carriera alle spalle, anche se qualcuno potrebbe obiettare che non ha mai vestito la maglia della Nazionale, né si è mai distinto per un così alto numero di reti in serie A (solo sette e con la maglia del Catania).

E’ vero: non ha mai alzato Coppe del Mondo né analoghi trofei per club ma i suoi gol sono più importanti sono quelli segnati negli ultimi anni con la maglia del Messina e, dunque, non in Serie A.
Dopo essere tornato al Taranto, concluso il periodo di prestito alla Juve Stabia, decide di rescindere il contratto coi pugliesi e di andare a giocare nella squadra peloritana.
 Corona torna a militare nel Messina nel periodo peggiore e dopo dodici anni che non indossava quella divisa: i giallorossi sono stati appena scaraventati in Serie D con quattro punti di penalizzazione, ma a ‘Re Giorgio’ non importa molto e, anzi, si carica la squadra sulle spalle traghettandola fino ai playoff.
 Nella stagione 2011/2012 il Messina verrà fermato alle fasi eliminatorie dei playoff e alla squadra siciliana sarebbe successivamente toccata un’altra stagione in serie D, così come stava analogamente succedendo al Venezia, fermata dal 3 a 2 contro il Sandonà Jesolo nella seconda stagione in D nel girone C degli arancioneroverdi. 
L’attaccante, nella stagione di ritorno al Messina e alla serie D, disputerà 34 presenze e collezionando 16 centri.

L’anno dopo sarà quello dello scontro con ‘l’altro Messina’ (il ‘Città di Messina’) tra le cui fila militava anche quel Saraniti che ora veste la casacca della Viterbese Castrense: nella stagione 2012/2013 le presenze saranno 33 e i gol 17. L’anno è quello buono e il Messina compie il grande balzo approdando, nuovamente, al professionismo. Facilmente si sarebbe potuto pensare come le strade di Re Giorgio e quelle del Messina fossero destinate a separarsi. Neanche per sogno: a 39 anni gioca per altre 34 partite e mette a segno 11 gol.
Finita? Nient’affatto: nella stagione attuale, a quarant’anni, l’attaccante palermitano ha fatto gol per 7 volte in venti presenze. E il campionato non è ancora terminato.

Questa storia può, senza dubbio, far tornare alla mente qualche altro calciatore che ha appeso gli scarpini al chiodo solo una volta arrivato agli ‘–anta’: Hubner, Vierchowod, Zoff, Oliveira sono solo alcuni esempi.
Dino Zoff, arrivato ai quarant’anni, indossava ancora la maglia della Nazionale mentre Vierchowod contribuiva alle due salvezze del Piacenza tra il 1997 e il 1999; dall’altra parte Hubner, dopo aver militato in Brescia e Piacenza, torna in C1 nel Mantova di Poggi per poi concludere la carriera a 44 anni a Cavenago d’Adda (Prima Categoria bresciana).
C’è, poi, Luis Airton Barroso Oliveira, il brasiliano naturalizzato belga che, dopo aver vestito le maglie di Cagliari e Fiorentina in Serie A, gioca con il Foggia, con il Catania e infine con Venezia e Lucchese.
Lulù, così come lo chiamavano i tifosi della Fiorentina, torna per due anni in Sardegna con la neo promossa Nuorese e finisce la carriera vestendo i colori del Muravera di cui, ora, è allenatore.

Un percorso analogo, infine, l’ha intrapreso Marco Ballotta, il quale è volutamente posto alla fine di questo scritto, perché la sua carriera, a poco più di cinquant’anni, è ancora ‘in fieri’ e fa da contraltare a quella di ‘Re Giorgio’: dopo aver abbandonato la Lazio nel 2008 (43 anni, età in cui stabilisce il primato di calciatore più anziano ad aver mai disputato una partita di Champions League) disputerà un intero campionato come centravanti al Calcara Samoggia centrando 24 reti in 37 presenze. Ma non è tutto, anzi, è solo l’inizio: dopo aver rescisso il contratto con i biancocelesti è iniziata, se è consentito a chi scrive, la seconda vita di Ballotta in cui non c’è soltanto la difesa dei pali della propria squadra, ma anche la messa a segno di gol, posizionandosi in ruoli che lo vedono nella trequarti di campo.
Nel 2011, dopo due stagioni con il Calcara Samoggia, approda al San Cesario, dividendosi fra porta e attacco, così come tornerà a fare tra 2012 e 2014 – nuovamente – al Calcara. Sembra finita e Ballotta decide di assumersi l’incarico da dirigente del settore giovanile della neopromossa Castelvetro (Eccellenza Emiliana) ma vuole tornare fra i pali e ora è il primo portiere, a cinquant’anni e dieci mesi, della compagine modenese.

 

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Allenatori Calciatori Enrico D'Amelio

Roberto Mancini, la lucida follia della giovinezza

di Enrico D’Amelio

Se non sapessimo nulla della sua storia e lo conoscessimo ora, perfettamente calato nella grigia Manchester dei potenti sceicchi arabi, con tanto di sarto personale e pluriennale contratto faraonico, faticheremmo a credere che sia stato uno dei geni più ribelli e avversi al potere di quasi vent’anni di calcio. Invece, quel carattere difficile e controcorrente, sempre schivo e mai banale, gli ha consentito di raccogliere forse un quarto delle soddisfazioni che meritava in relazione alla sua classe smisurata e sopraffina. Lui, Roberto Mancini, normale non è mai stato. Di difficile collocazione tattica, perché incontrollabile e anarchico, come tutti quelli che rifiutano gli stereotipi o i cliché preconfezionati, ha incarnato per quattro lustri il ruolo di giocatore simbolo di una delle squadre più belle degli anni ‘80, la Sampdoria.

Più volte le sirene dei grandi club del nord hanno provato a farlo vacillare, ma, pur di non dare un dispiacere a Paolo Mantovani (“se non gioca Roberto, non mi diverto”, diceva l’ultimo presidente tifoso che l’aveva preso neanche diciottenne dal Bologna), ha preferito mettere le radici per 15 anni nella città della Lanterna. Una scelta di cuore, spontanea, che ha regalato tante difficoltà e alcune gioie, anche se uniche, come lo scudetto del 1990/91, il solo nella storia della Sampdoria, o la Coppa delle Coppe vinta in Svezia contro l’Anderlecht, dopo il primo tentativo andato a vuoto contro il Barcellona. La stessa squadra che gli ha inflitto la delusione più cocente della carriera, con quel gol di Ronald Koeman a Wembley allo scadere dei supplementari, negandogli la gioia di alzare la Coppa dei Campioni da calciatore. Vita difficilissima in Nazionale, dove mal sopportava gli schemi integralisti di quell’Arrigo Sacchi, che ai giocatori di talento un po’ ribelli, ha sempre preferito i cursori politicamente corretti del suo Milan berlusconiano. Un suo grande amico, Giuseppe Giannini, classe ‘64 come lui, ed epurato senza appello come lui dal sergente di ferro di Fusignano, rispose così a chi gli chiedeva se avesse potuto ancora indossare la maglia azzurra: “Credo che un’opportunità io e Roberto l’avremmo meritata, visto che Sacchi, dopo di noi, ha convocato cani e porci”. Questo ha sancito la fine di ogni possibile apertura per i due numeri 10 incompresi, ma, forse, anche per loro, senza un romagnolo di tutt’altra pasta in panchina come Azeglio Vicini, non sarebbe stata più la stessa cosa.

Dopo gli anni migliori, e mai più ripetuti, per la Genova blucerchiata, via via cominciavano a lasciare la Liguria i compagni di una vita. Pagliuca si spostava a Milano sponda Inter, Vierchowod tentava di vincere la Champions (e ci riusciva al primo colpo) alla Juventus, e, soprattutto, l’altro gemello del gol Gianluca Vialli era già andato via. Di quella splendida Sampdoria, che nulla aveva vinto prima di lui e che nulla vincerà dopo di lui, era rimasto ben poco. Solo la sua maglia numero 10 e la fascia di capitano bianca al braccio, a coprire il tatuaggio del marinaio “baciccia”, simbolo doriano, con altri dieci giocatori che non parlavano la sua stessa lingua col pallone tra i piedi. Era venuto a mancare il Presidente-papà, e col figlio Enrico che ne aveva preso il posto non s’era creato lo stesso idilliaco rapporto. La Doria iniziava un lento declino, e a 33 anni Roberto tentava il salto nel buio nella Capitale, con la maglia della Lazio, insieme al suo secondo maestro Sven Goran Eriksson. Un altro passo per pochi, un’altra avventura in una squadra che i trofei alzati li aveva visti solo in televisione. Almeno fino ad allora. I risultati? Coppa Italia al primo colpo, Coppa delle Coppe l’anno dopo e Scudetto al terzo. L’ultimo da giocatore per il Mancio. L’unico, insieme allo zar Vierchowod, a vincere due scudetti con due maglie diverse che non fossero di Inter, Juve o Milan.

Poi, dopo una breve esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio, la carriera da allenatore. Fiorentina nel 2001, di nuovo Lazio, fino all’approdo a Milano sulla panchina nerazzurra a soli 40 anni. La prima netta virata per chi non s’era mai messo da “quella parte”. Quattro anni a San Siro, i primi due Scudetti vinti da allenatore, quindi, nel 2008, complice l’arrivo di Mourinho, l’addio. E poi, storia dei giorni nostri, l’esperienza di Manchester alla guida dei citizens. Da giovane calciatore ribelle fuori dagli schemi, a tecnico inserito nei rigidi contesti dei più importanti e facoltosi club europei. La dura e cruda realtà, che sveglia tanti ragazzi di quella generazione, oramai diventati uomini, da un “sogno ormai rattrappito”.

Ma sempre in un’intervista, dell’aprile 2011, quando il City iniziava a diventare quello che è ora, ovvero la migliore squadra d’Inghilterra e, soprattutto per loro, dopo anni di umiliazioni, la prima di Manchester, gli veniva chiesto se la Coppa Campioni non vinta da giocatore potesse essere il suo vero obiettivo da tecnico. La risposta ha fatto riemergere alla mente ricordi oramai assopiti: “E’ vero – ha detto – che la Champions League è un po’ la mia ossessione. Ma la finale persa contro il Barcellona nel 1992 a Wembley è una ferita che non si potrà mai rimarginare. Per riuscirci, e chiudere definitivamente il cerchio, dovrei farlo solo sulla panchina della Sampdoria”. Qualcuno, dalle parti di Marassi o Sampierdarena, ascoltando le sue parole, avrà potuto chiudere gli occhi, e rivivere le immagini di quel decennio, sbiadite ma indelebili, in cui la lucida follia della giovinezza di un genio ha fatto salire una squadra, operaia fino ad allora, quasi sul tetto più alto d’Europa. Poco importa se l’ultimo passo non è stato compiuto. Sarebbe sciocco chiedere ai geni di poter contemplare la perfezione nelle loro imprese.