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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Calciatori Fabio Belli

Mike Summerbee, che giocò con un casco da poliziotto in testa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio inglese non mancano i personaggi estrosi, anzi essi sono forse presenti in misura maggiore rispetto a qualunque altro paese. Calciatori spesso sopra le righe, a volte afflitti da problemi anche molto gravi, sfociati nell’alcolismo, nella solitudine, nello spreco del proprio talento. Da George Best a Paul Gascoigne fino a Tony Adams gli esempi sono innumerevoli; in altri casi invece l’essere eccentrici non andava di pari passo con la rovina, ed anzi quel che resta di tanti comportamenti curiosi non è altro che un mucchio di aneddoti da ricordare con vero piacere.

Nella stagione appena trascorsa il Manchester City si è nuovamente laureato Campione d’Inghilterra al culmine di un ciclo vincente avviato dalla proprietà degli sceicchi. Ma per ogni tifoso dei “Citizens” il titolo indimenticabile e più romantico è quello del 1968, quando la squadra di Malcom Allison e Joe Mercer, resa immortale dal capolavoro letterario “Manchester United Ruined my Life” di Colin Shindler, si issò sul tetto del calcio britannico partendo da presupposti del tutto differenti rispetto alla squadra attuale. Si trattava di una formazione “fatta in casa“, partita dalla conquista del campionato di Seconda Divisione e giunta a piccoli ma decisi passi alla conquista del titolo nazionale. La micidiale coppia d’attacco composta da Francis Lee e Colin Bell, il carismatico capitano Tony Book, il rapidissimo Neil Young erano solo alcuni tra gli elementi di spicco di una formazione davvero ben costruita e che conquisterà nei due anni successivi anche la FA Cup e la Coppa delle Coppe.

Tra di loro però l’idolo incontrastato dei tifosi era senz’altro Mike Summerbee, astutissimo e tecnicamente dotato centrocampista di destra che proprio con Young aveva il compito di sostenere la temibile linea d’attacco degli sky blues. Summerbee era stato pescato da Allison appena ventitreenne dallo Swindon Town, possedendo le qualità ideali per esaltare con idee e palloni giocabili la vena realizzativa in particolare di Bell. Ma fu il carattere istrionico del ragazzo di Preston a conquistare i tifosi che allora affollavano Maine Road, prima ancora delle sue eccellenti doti che lo portarono a far parte della Nazionale inglese bronzo a Roma ’68 negli Europei vinti dagli azzurri, proprio nell’anno dello scudetto del Manchester City.

L’altra parte della città era in preda al delirio per George Best, fenomeno anche mediatico di impatto planetario e proprio in quegli anni capace di conquistare il Pallone d’Oro e di portare per la prima volta la Coppa dei Campioni in Inghilterra con il suo United. I tifosi del City allora si coccolavano Summerbee e le sue imprevedibili invenzioni. Nelle interruzioni di gioco dava il meglio di sé, mettendosi ironicamente a massaggiare la gamba infortunata di un avversario, quando riteneva simulasse, oppure inscenando siparietti memorabili con gli arbitri. Ma il massimo lo toccò quando, battendo una rimessa laterale, rubò ad un poliziotto il tipico casco da “Bobby” inglese, continuando a giocare con quell’affare in testa per qualche minuto buono tra l’ilarità generale. Ai tempi in cui anelli e catenine indosso ai giocatori erano ancora tollerati, fu un irripetibile tocco di nonsense. Le doti da mattatore a fine carriera valsero a Summerbee anche una parte in “Fuga per la vittoria” e neanche oggi, da fresco settantenne, ha dimenticato i tanti tiri mancini giocati con il suo sorriso a salvadanaio.

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Calciatori Jean Philippe Zito

Le 100 vite calcistiche di Diego Fuser

di Jean Philippe ZITO

C’erano anche le condizioni per tornare alla Lazio prima di andare alla Roma. A Parma andavo molto d’accordo con Crespo a cui ho fatto fare tanti gol. Quando lui venne a Roma la prima cosa che disse fu di prendere Fuser, ma il vice allenatore era Mancini…C’era quella possibilità che non è stata presa in considerazione, poi mi hanno proposto la Roma nel momento in cui era al vertice e ho detto di sì”. Diego Fuser è convinto di non aver mancato di rispetto ai tifosi laziali andando a giocare per due anni alla Roma.

È vero. Magari i tifosi della Lazio ci possono essere rimasti male, però io penso che un calciatore quando dà tutto, quando va in una società e dimostra che per quella maglia dà tutto…”. Fuser ha dimostrato sul campo, nella sua ventennale carriera, di non risparmiarsi mai. Infatti l’impegno e la corsa, oltre alla tecnica e un gran tiro da fuori, sono le caratteristiche principali del piemontese, funambolo della fascia destra.

Tutta la famiglia di Diego Fuser tifa Torino da sempre, anche per questo motivo il centrocampista di Venaria Reale fa parte degli ultimi “ragazzi del Filadelfia”.

Cresce con la maglia granata addosso, nel mito del Grande Torino e calpestando il prato dello stadio simbolo della gloriosa società torinese.

Esordisce in Serie A il 26 Aprile del 1987, durante il derby della Mole. Junior si tocca l’inguine sul finire del primo tempo, ad inizio ripresa non si presenta in campo: stiramento.

Gigi Radice fa alzare dalla panchina il diciannovenne proveniente dalla Primavera.

Fuser entra in campo e gioca una partita d’applausi contro Platini e compagni. È, insieme a Lentini, protagonista nell’azione del pareggio di Cravero, un debutto da incorniciare.

La stagione seguente 87/88, gioca 16 partite in serie A e 10 in Coppa Italia. Un anno pieno di rimpianti per il popolo granata. Il Toro infatti ha la peggio nel doppio confronto in finale di Coppa Italia contro la Sampdoria di Mancini e Vialli e in campionato viene sconfitto ai calci di rigore dalla Juventus nello spareggio per la conquista del sesto posto, ultimo piazzamento utile per la qualificazione in Coppa UEFA dell’anno successivo.

La consacrazione in campionato arriva l’anno dopo. 38 presenze totati (30 in Serie A e 8 in Coppa Italia), 4 gol. Il 27 Novembre 1988 nella vittoria allo Stadio Olimpico di Roma contro i giallorossi per 3 a 1, arrivano i primi gol nel massimo torneo; una doppietta per il numero 14 che a 20 anni inizia prepotentemente a far parlare di sé.

Nell’estate del 1989 il Milan di Berlusconi acquista per 7 miliardi di Lire Diego Fuser, che si trasferisce nella squadra campione d’Europa in carica. Arrigo Sacchi è contento del suo arrivo e lo fa esordire immediatamente in una partita ufficiale. Il 23 Agosto debutta in Coppa Italia con la maglia rossonera, nella vittoria ai calci di rigore contro il Parma.

Durante la stagione si ritaglia un buono spazio nonostante l’agguerrita concorrenza. 20 presenze in Serie A e 2 gol di cui 1 nel derby della Madonnina vinto per 3 a 0 (i derby sono una costante nella carriera di Fuser); 8 partite giocate in Coppa Italia, 2 in Coppa dei Campioni, 2 nelle finali di Supercoppa Europea e 1 nella finale di Coppa Intercontinentale. A causa della “fatal Verona” però non vince lo Scudetto.

Fuser si può decisamente consolare però con la Supercoppa Europea vinta contro il Barcellona, con la Coppa Intercontinentale vinta contro il Nacional di Medellin e con la Coppa dei Campioni conquistata contro il Benfica a Vienna per 1 a 0.

Per il ventunenne Diego, il palmares non è tutto. Vuole giocare con maggiore continuità e il Milan lo manda in prestito per un anno alla Fiorentina. L’allenatore della Viola è Sebastião Lazaroni che è ben contento di impiegarlo con continuità. Nel 90/91 infatti raccoglie 39 presenze (32 in Serie A e 7 in Coppa Italia). Mette a segno ben 8 gol, 5 dei quali direttamente su calcio di punizione.

“Lazaroni mi ha insegnato a calciare le punizioni, cosa che io non avevo mai fatto. A fine allenamento stavo mezz’ora, tre quarti d’ora, e lui mi diceva come calciare. Dovevo giocare sulla tensione del portiere…”. Diego Fuser racconta il gol più importante di quella stagione. “Quello con la Juve, su calcio di punizione, forse è stato il più bello. C’era in porta Tacconi. Palo-gol. Fare un gol e vincere la partita 1 a 0 alla fine mi ha permesso di entrare nella storia di Firenze e questa è una cosa che mi fa veramente piacere”.

Arrigo Sacchi è diventato il Commissario Tecnico della Nazionale, Fabio Capello l’ha sostituito sulla panchina del Milan. Diego torna a Milanello con un bagaglio d’esperienza arricchito dall’anno passato a Firenze, ma non riesce a trovare comunque grande spazio. 22 presenze totali tra Campionato (per lo più spezzoni di gara) e coppa nazionale, con un bottino di 4 reti e 3 assist totali. A dispetto dello Scudetto alzato al cielo a fine stagione, Diego vuole giocare titolare e accetta una nuova sfida.

La Lazio di Cragnotti lo acquista (7 miliardi di Lire) per la stagione 1992/93. Fuser parte per Roma con un albo d’oro di notevole importanza per un ragazzo di 24 anni. A Formello trova Dino Zoff come allenatore che gli consegna la fascia destra del centrocampo. I primi gol con la Lazio arrivano con la prima vittoria in campionato: il 4 Ottobre 1992 alla quinta giornata, una doppietta nel 5 a 2 contro il Parma. Il bottino personale a fine annata recita: 33 presenze da titolare (solamente 1 partita saltata per squalifica) e record personale di gol, ben 10 in Serie A. Quarti di finale in Coppa Italia, quinto posto in campionato e qualificazione in Coppa UEFA. La sfida accettata ad inizio stagione è vinta.

Nel 93/94 alcuni piccoli infortuni non consentono a Fuser di fare l’en plein di presenze, è comunque tra coloro che giocano di più (31 presenze e 2 gol complessivi). Con la Lazio ottiene un ottimo quarto posto finale, in Coppa Italia una brutta figura con l’Avellino e in Coppa UEFA il cammino non è fortunato. Nei derby, dopo tre pareggi consecutivi, il 6 Marzo del 1994 arriva la sua prima vittoria. La Lazio vince 1 a 0, con un gol di Beppe Signori tra la nebbia dei fumogeni e un rigore parato da Marchegiani a Giannini sotto la Sud.

L’anno dopo arriva a Roma, direttamente dal “Foggia dei miracoli”, Zdenek Zeman. “All’inizio fu un trauma, perché la prima settimana di ritiro non si mangiava e si correva come dei dannati. Dopo una settimana così, ho detto: io smetto! Però alla fine devo dire che Zeman per me è stato un allenatore eccezionale, una grandissima persona”.

Fuser con l’arrivo di Rambaudi, inizia a giocare come mezzala destra, ottenendo sempre ottime prestazioni. Il cammino in Europa si interrompe ai quarti di finale contro il Borussia Dortmund, in Coppa Italia in semifinale contro la Juventus, mentre in campionato la Lazio arriva seconda dietro i bianconeri.

Nel 95/96, secondo anno di Zeman, la Lazio arriva terza. Ormai è stabilmente nella parte alta della classifica e Diego Fuser è una certezza del campionato italiano (in questa stagione 39 presenze e 6 gol in totale). Snobbato da Arrigo Sacchi nelle convocazioni per i campionati del Mondo del 1994, viene chiamato dallo stesso per disputare gli Europei del 1996 in Inghilterra.

Dopo le fatiche inglesi, Fuser inizia una nuova stagione nella Lazio e a Roma ormai è di casa. Giunto infatti alla sua quinta stagione con l’aquila sul petto, la sua intenzione è quella di rimanere in biancoceleste ma, soprattutto, di vincere un trofeo. Da troppo tempo il popolo laziale non gioisce per una vittoria e Diego con tutte le sue forze vuole regalare questa gioia ai suoi tifosi. La stagione 96/97 vede un avvicendamento in corsa in panchina. Durante la seconda parte della stagione torna Dino Zoff al posto di Zeman. La Lazio arriva al quarto posto confermando di essere nell’élite del calcio italiano, ma non riesce a spingersi troppo oltre in Europa e in Coppa Italia.

Con Sven Goran Eriksson arriva a Roma anche l’esperienza, l’acume tattico e l’infinita classe di Roberto Mancini. Una personalità importante come quella del fantasista marchigiano ha ripercussioni in uno spogliatoio unito e con senatori che, solitamente, hanno l’ultima parola. Signori è il primo a subire questa nuova situazione ed è costretto a lasciare la sua amata Lazio durante la sessione invernale del calciomercato.

Intanto in casa Fuser però c’è una preoccupazione più grande, il figlio Matteo, a causa di una grave malattia, sta molto male e ha bisogno di cure continue. Diego reagisce in campo, con la sua solita dedizione nella stagione in cui ottiene i risultati migliori da quando è alla Lazio. Entra nella storia per aver vinto 4 derby su 4 in una sola stagione, realizzando anche un gol su punizione in uno di essi.

Il più antico club della Capitale poi arriva in finale sia in Coppa Italia che in Coppa UEFA, dove affronta le due milanesi. Il 29 Aprile del 1998 è nei cuori di ogni laziale. Dopo aver perso la finale di Coppa Italia d’andata contro il Milan per 1 a 0 al 90° minuto, un Olimpico colmo di passione crede nell’impresa. La vittoria della finale di ritorno, grazie ad una clamorosa rimonta, per 3 a 1 consente alla Lazio di vincere un trofeo dopo 24 anni e un’altra Coppa Italia dopo 40 anni. Diego Fuser è il capitano ed è lui ad alzare la Coppa. Invece in finale di Coppa UEFA Fuser e compagni si scontrano contro l’Inter del “Fenomeno” Ronaldo; un secco 0-3 che non consente il bis di vittorie.

“Quell’anno lì io andai a vedere una casa, per finire la carriera alla Lazio. C’era qualcuno però che non mi voleva, qualcuno che faceva l’allenatore ma non era l’allenatore. Ci furono dei problemi e io andai via”. I contrasti con Roberto Mancini sono il motivo per cui Diego Fuser, dopo 6 stagioni nelle quali si è legato in maniera profonda al mondo Lazio, va via. L’aspetta a braccia aperte il Parma di Alberto Malesani.

La stagione 1998/99 per Fuser è un’annata da incorniciare: titolare inamovibile, entra fin da subito negli schemi della nuova squadra e gli riesce la doppietta svanita l’anno prima. Infatti vince, nella doppia finale contro la Fiorentina, la Coppa Italia e a Mosca la Coppa UEFA contro il Marsiglia con un rotondo 3 a 0.

L’anno dopo inizia con un altro successo per il Parma di Fuser, vince la Supercoppa Italiana contro il Milan. A fine stagione però non riesce a qualificarsi nella massima competizione europea, perde lo spareggio Champion’s contro l’Inter. L’ultimo anno al Parma vede cambiare tre allenatori: Malesani, Arrigo Sacchi e Renzo Ulivieri. Con quest’ultimo non si è creato un gran feeling, Diego vuole cambiare, vuole tornare a Roma.

“Quando andammo a giocare a Roma (con il Parma n.d.r.) l’ultima partita e la Roma vinse lo scudetto Capello mi chiese se volevo andare alla Roma perché loro facevano la coppa dei Campioni e sulla destra avevano solo Cafù”. Schietto, sincero. Diego Fuser decide coraggiosamente di tornare nella Capitale, questa volta dall’altra parte del Tevere.

Nelle due stagioni con la maglia romanista gioca poco, nella seconda stagione 2001/02 addirittura solo 7 presenze totali e, curiosamente, nei derby è sempre assente.

Fuser ha dichiarato che ha visto poco il campo a causa di “una scelta societaria”.

Con la Roma vince una Supercoppa Italiana da titolare contro la Fiorentina allenata da Roberto Mancini. Si è preso così una piccola rivincita.

L’ultimo anno da professionista Diego Fuser lo disputa al Torino. La stagione 2003/04 in Serie B, lo vede per 29 volte in campo con la maglia con la quale è cresciuto e con la quale decide di appendere al chiodo gli scarpini all’età di 36 anni.

Insieme all’amico Gianluigi Lentini decide di giocare nelle serie minori, per divertirsi ancora con il pallone tra i piedi. Nel 2011, poi, il dramma personale: il piccolo Matteo non ce la fa e a 15 anni perde la battaglia contro la malattia, lasciando un vuoto incolmabile nella vita dei suoi genitori. Con fatica Diego si è rialzato anche grazie al calcio, la sua grande passione l’ha aiutato a reagire.

Tornando indietro con la memoria Fuser pensa al ricordo più bello da calciatore, aver alzato la Coppa Italia da capitano della Lazio. “È stata una gioia incredibile perché vedevi realizzato un sogno, ci speravano tutti e quindi quello è stato un momento sicuramente molto, molto bello”.

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Club Fabio Belli

La Lazio sul tetto d’Europa: quando lo United si inchinò alla new wave del calcio italiano

di Fabio Belli

E’ successo in una notte di fine agosto. In un certo senso è stato un viaggio lungo cento anni, anche se mancavano ancora circa quattro mesi per festeggiare quel prestigioso compleanno. Neanche quindici anni prima, quegli stessi tifosi avevano imboccato l’autostrada in direzione opposta, verso Napoli, per scacciare un incubo chiamato Serie C/1 che, quasi sicuramente, avrebbe significato fallimento. Ora il viaggio verso Nord significava invece sfida ai Campioni d’Europa, dopo che per la prima volta, vinta la finale di una coppa europea, era stata la bandiera della Lazio a sventolare mentre gli altoparlanti a Birmingham sparavano a tutto volume “We Are The Champions” dei Queen.

uid_126126ad777.580.0Una scena familiare per tanti padri e bambini davanti alla tv, che guardando le finali del passato chiedevano ai genitori: “Un giorno ci saremo anche noi?”. Quel sogno era diventato realtà nell’ultima Coppa delle Coppe mai disputata, uno sprazzo finale di un calcio romantico che non c’è più. Il viaggio verso Montecarlo era invece la proiezione verso un futuro che in Italia aveva visto salire alla gloria europea squadre storicamente fuori dalla nobiltà del calcio continentale. Il Parma delle due Coppe UEFA, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa. La Sampdoria che a sua volta aveva trionfato in Coppa Coppe a cavallo di tre finali perse, compresa una Champions League che sarebbe entrata nella storia. Il Napoli di Maradona che aprì questo ciclo con la Coppa UEFA del 1989, la Fiorentina finalista nel 1990 e le semifinali europee conquistate da Atalanta, Vicenza, Bologna. Altri tempi, tempi stellari per il calcio italiano, e quel Manchester United-Lazio chiuse un ciclo per certi versi irripetibile.

I Red Devils venivano da una delle più folli, romanzesche vittorie della storia del calcio. Sotto 0-1 a partita finita nella finalissima di Champions, ribaltarono nel recupero il risultato contro un Bayern Monaco che già si sentiva campione, a oltre venti anni di distanza dalle imprese della squadra di Franz Beckenbauer. Sir Alex Ferguson aveva portato a compimento un cammino iniziato nell’estate del 1986, eguagliando finalmente il mito di Matt Busby e George Best. E quella sera a Montecarlo, la Lazio si trovò di fronte al gigante Jaap Stam in difesa, i fratelli Gary e Phil Neville, David Beckham, Roy Keane e Paul Scholes (una linea mediana entrata di diritto nella storia del calcio), e ancora la potenza di Andy Cole e l’eroe di Champions, Teddy Sheringham. C’erano tutti gli invincibili, solo Ryan Giggs rimase in panchina.

Ma dall’altra parte gli avversari, guidati in panchina da Sven Goran Eriksson, si chiamavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Sinisa Mihajlovic, Juan Sebastian Veron, Dejan Stankovic, Roberto Mancini e Marcelo Salas. Sergio Cragnotti aveva allestito una squadra che portava sempre l’aquila sul petto, ma non era più la Lazio del passato. Approssimativa, arruffona, fatta di macchiette e personaggi improbabili, per quanto entrati nei cuori dei tifosi. Era una grande d’Europa, pronta ad affrontare a testa alta i più grandi del momento. E qualcosa accadde, quando il cileno Salas trovò il gol, subentrato a Simone Inzaghi messo ko dall’irruenza di Stam, quando Pippo Pancaro annullò la fantasia di Beckham, quando Marchegiani volò per sventare il pareggio, quando Roberto Mancini poté godersi la più prestigiosa passerella della sua carriera: in parte un risarcimento di quello che sette anni prima gli era sfuggito a Wembley, in maglia blucerchiata.

E così per quella sera, anche i Campioni d’Europa si dovettero inchinare alla Lazio, che si ritrovò sul trono dopo una rincorsa lunga un secolo. In quella stagione, della quale la Supercoppa Europea fu il primo atto ufficiale per i biancocelesti, arrivò uno scudetto più sudato, sentito e vissuto dai tifosi di una finale secca, per quanto suggestiva contro lo United re del continente. Ma quella resta la serata di maggior prestigio e notorietà internazionale della storia della Lazio e di tutta la new wave del calcio italiano, che visse un decennio in cui, se ti chiamavi Vicenza, Atalanta o Bologna, potevi sognare concretamente, prima o poi, di alzare un trofeo al cielo. E se ti chiamavi Parma, Lazio o Samp ne potevi quasi avere la certezza.

 

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

[https://www.youtube.com/watch?v=iQx6Za_XzG4]

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Calciatori Fabio Belli

Alessandro Iannuzzi, il fascino discreto della meteora

di Fabio Belli

Ci sono giocatori destinati a lasciare il segno. Alcuni, campioni indimenticabili, ci riescono ovunque vanno, basti pensare a Zlatan Ibrahimovic e al suo straordinario record di dieci campionati vinti nelle ultime undici stagioni disputate, con sei casacche diverse, in quattro nazioni differenti. Ma i grandi campioni richiamano quasi sempre grandi squadre, e di conseguenza le grandi opportunità. Più curioso può essere considerato il caso di quella che, da promessa mancata, riesce comunque a entrare nella storia delle formazioni nelle quali milita. Invariabilmente, inesorabilmente.

Foto laziowiki.org
Foto laziowiki.org

Alessandro Iannuzzi risponde perfettamente a questo identikit. La sua carriera nel calcio che conta è stata una rapida fiammata, per poi proseguire comunque fino alle soglie dei quarant’anni nei campionati dilettantistici. Quello che colpisce di questo biondino dal piede fatato, è il suo cammino fino a quando era ancora un Under 23. Esploso in una delle formazioni Primavera più forti di sempre, la Lazio di Nesta, Di Vaio, Flavio Roma in porta e Daniele Franceschini a centrocampo, lo scudetto di quella formazione è indissolubilmente legato alla micidiale punizione in cui, di fronte a 40.000 spettatori allo Stadio Olimpico, consegnò il titolo a quel gruppo di giovani di talento.

Da una punizione all’altra: nella stagione successiva allo scudetto Primavera, Zdenek Zeman lo chiama in campo nell’ennesima partita messasi male per quella Lazio bella e incompiuta. 0-1 in casa contro il Torino (in quella stagione destinato alla retrocessione), a togliere le castagne dal fuoco ci pensa proprio il biondino con la sua specialità: micidiale botta a girare sotto l’incrocio dei pali, e corsa sotto la curva resa ancor più commovente dall’abbraccio con il fratellino raccatapalle, di cui a sua volta si dicevano meraviglie nelle giovanili laziali, senza che le promesse venissero poi mantenute.

Il ragazzo ha talento, ma nei rigidi schemi zemaniani le sue attitudini da attaccante-rifinitore finiscono con l’essere mortificate. Avendo bisogno di giocare, finisce nel Vicenza dei miracoli di Guidolin. In campionato è un’alternativa utilizzata a intermittenza, ma nella magica notte della finale di Coppa Italia contro il Napoli, firma all’ultimo minuto dei supplementari il gol della sicurezza, il 3-0 che fa esplodere di gioia il Romeo Menti e regala il primo titolo della sua storia centenaria al sodalizio berico. Un prestito di un anno, ma Iannuzzi a Vicenza non se lo scorderanno mai più. Torna a Roma nella più sfarzosa Lazio cragnottiana: l’arrivo di Cristian Vieri è sinonimo di ambizioni gigantesche, ma anche di poco spazio in attacco. Un ecatombe di infortuni ad inizio campionato regala una chance proprio contro il Vicenza a “Iannuzzino”, alle spalle di Roberto Mancini: un tempo e pochi minuti per capire che per lui non c’è margine nella SuperLazio. In prestito se lo prende il Milan, dove spazio ce n’é ancora meno: senza mai scendere in campo in campionato, Iannuzzi clamorosamente festeggerà lo scudetto a fine stagione proprio ai danni dei biancocelesti, in testa per metà campionato e poi beffati sul filo di lana dai rossoneri.

Uno scudetto e una Coppa Italia, entrambe lontano da Roma, già nel palmares a 23 anni. Restando nella Capitale Iannuzzi aggiungerebbe un titolo, visto che nel 2000 arriverà finalmente il Giubileo laziale, ma sarà invece girato in prestito alla Reggina nella squadra di Baronio e Pirlo, giovani fenomeni capaci di regalare meraviglie. La terza stella, quella di Iannuzzi, non si accenderà: troppi problemi fisici, che lo tormenteranno fino all’approdo in B in Messina, nel 2002. Dall’altra parte dello Stretto, Iannuzzi troverà finalmente due stagioni di continuità, e la promozione nella massima serie che i peloritani attendevano da quasi quarant’anni, anche e soprattutto grazie alle sue magie e i suoi assist. Ancora un passo nella storia, l’ultimo: a 28 anni non ancora compiuti, nelle cinque successive annate Iannuzzi disputerà solo una stagione (quasi) intera, a Gualdo Tadino nel campionato 2005/06. Poi i dilettanti, e il bagliore, nel suo caso accecante, dei ricordi: calciatori con centinaia di presenze in più tra i professionisti, non hanno vissuto altrettanti momenti di gloria.

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Calciatori Fabio Belli

Mané Garrincha, dalla gloria mondiale alla Prima Categoria col Sacrofano

(articolo tratto da Il Corriere Laziale di martedì 13 maggio 2014)

di Fabio Belli

Nei bar di Roma si parla di calcio. Sempre, o quasi sempre. E sempre o quasi sempre di Lazio e di Roma, di Roma e di Lazio. Si va nello specifico, si commenta l’attualità, si fantastica sul futuro, sul mercato: “vedrai l’anno prossimo…”. Ma si parla anche di passato, tanto. L’album dei ricordi è sempre aperto, soprattutto quando seduti ai tavolini ci sono i più anziani. E se qualcuno ponesse la domanda: “Qual’è stato il più grande calciatore che ha giocato nella Capitale?” allora quasi novant’anni di derby riprenderebbero forma in un baleno. Dalla parte giallorossa, c’è chi non scorda il “Divino” Falcao, simbolo di una stagione nella quale la Roma si arrampicò a un passo dalla gloria europea. In casa biancoceleste, i fasti dell’era-Cragnotti hanno permesso di veder sfilare delle stelle di prima grandezza: autentici assi come Mancini, figli del popolo laziale come Nesta, Pavel Nedved proiettato verso la gloria del Pallone d’Oro, Juan Sebastian Veron e tanti ancora. E poi il mito Chinaglia, fino ad arrivare a Ghiggia e Schiaffino in maglia giallorossa, e così via fino ad affondare le radici ai tempi di Silvio Piola e Fulvio Bernardini. Eppure, il più grande calciatore di tutti i tempi passato per la Capitale, potrebbe non aver vestito né la maglia della Lazio, né quella della Roma. L’onore spetta infatti al Sacrofano, la cui squadra locale, attualmente militante in Prima Categoria, rappresenta un comune di circa 7000 abitanti.

foto ©thebegbieinside.com
foto ©thebegbieinside.com

Sono in pochissimi a conoscere questa storia, venuta alla luce grazie al lavoro della redazione di thebegbieinside.com, sito di controcultura calcistica, che prende come simbolo per la propria filosofia l’indimenticabile personaggio di “Trainspotting”. E il nome in questione è quello di uno dei miti assoluti del calcio di tutti i tempi, favoloso interprete del Brasile campione del mondo nel 1958 e nel 1962. Stiamo parlando di quello che viene considerato il più grande “dribblatore” di tutti i tempi, quel Mané Garrincha che finì col morire povero ed alcolizzato, a soli quarantanove anni nel 1983.

Ma come c’è arrivato Garrincha a Sacrofano? Nonostante un carattere estroso e naif, generoso ed ingenuo fuori quanto scaltro e geniale in campo, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, Garrincha era una stella di prima grandezza. Nato con una malformazione che gli aveva causato una differenza di sei centimetri di lunghezza tra una gamba e l’altra, oltre a problemi al bacino, Mané sfruttò queste particolarità, e grazie alle cure riuscì non solo a giocare al calcio, ma a rendersi imprendibile per qualsiasi avversario, grazie proprio alla classica andatura ciondolante. E’ stato il primo rifornitore di assist per il giovane Pelé, anche se l’alleanza nella Selecao era solo una pausa nell’eterna rivalità che vedeva “O Rey” simbolo del Santos, e Mané del Botafogo.

La storia portata alla luce da thebegbieinside.com non trova però nel suo scenario iniziale un campo da calcio, ma nel pieno del personaggio Garrincha, c’è il fumoso scenario di un night club, fumo, whisky e una meravigliosa ballerina e cantante, Elza Soares. E’ il 1969, e la carriera del ragazzino che dalla favela di Pau Grande, ai bordi di periferia di Rio de Janeiro, era arrivato a toccare il tetto del pianeta per due volte (vincendo anche il Mondiale cileno del 1962 da capocannoniere), è ormai al tramonto. Già da quattro anni, “l’uccellino” (il soprannome Garrincha deriva proprio da quello di una specie di passerotto) ha lasciato il Botafogo, e vaga già tra i fantasmi degli amori finiti, dell’abuso di alcool e soprattutto di una denuncia penale per un incidente stradale, per la quale per diverso tempo sarà ricercato dalla polizia brasiliana. Elza Soares è una soubrette molto richiesta in Europa, e a Roma all’epoca la “Dolce Vita” è in piena espansione. Mané decide di seguire Elza, e prova a costruirsi un angolo di pace a Torvaianica. Lei balla nei locali della Roma bene, lui si accontenta di un modesto salario corrisposto dall’Istituto Brasiliano del Caffé in Italia, per il quale accetta di fare da testimonial. Il calcio sembra essere un ricordo lontano.

Ma anche a Roma gli amici e gli estimatori non mancano. Uno di essi, il leggendario bomber della Roma, noncé ex compagno di squadra di Garrincha al Botafogo, Dino Da Costa, ha appeso le scarpe al chiodo da un po’ e nel 1970 si trova ad allenare per diletto proprio il Sacrofano. Tra i dilettanti Da Costa è fresco di vittoria, la squadra è salita in Prima Categoria, l’ambiente è buono per divertirsi e fare calcio senza alcun tipo di pressione. L’ideale per far ritrovare all’amico Mané, col passare del tempo nella sua permanenza a Roma di nuovo persosi tra i demoni dell’alcol e l’amore burrascoso per Elza, quella “allegria del popolo” del quale lui si è sempre reso orgoglioso ambasciatore. Garrincha è nato povero, sa che probabilmente povero morirà, e che l’unica missione nella vita che gli abbia dato soddisfazione, è stata regalare allegria, attraverso il calcio, ai poveri come lui.

1E allora Da Costa riesce nell’impossibile: convincere il due volte campione del mondo a vestire la maglia del Sacrofano, e a trascinarlo alla vittoria in un torneo a Mignano Monte Lungo. Nella finalissima Garrincha segna due gol direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Nonostante sia appesantito, non allenato, e sfrutti tutti i momenti liberi possibili per attaccarsi alla bottiglia, la sua classe e la sua genialità in campo lo rendono una sorta di fenomeno paranormale, in mezzo a quei volenterosi dilettanti. Quella manciata esigua di partite viene quasi persa nella memoria, tanto che questa storia viene tramandata attraverso i racconti di chi era lì, perchè negli almanacchi ovviamente non ve n’é traccia. Ormai presa la triste china che lo porterà alla morte, Garrincha non è certo il massimo dell’affidabilità, e Da Costa sa che reclutarlo per un campionato intero sarebbe impossibile, anche se farebbe forse più bene al “passerotto” che al Sacrofano, per restare in campo lontano dai suoi demoni.

“Qui riposa in pace colui che fu la Gioia del Popolo, Mané Garrincha” recita la scritta sulla lapide del campione. Quei due gol dalla bandierina col Sacrofano restano una perla inestimabile, sepolta nella nebbia della sua storia italiana. A Roma vederlo in campo è stata una rarità, molto più frequente era possibile osservarlo rincorrere Elza nei locali notturni della Capitale. Mentre lei lavorava, a volte se ne andava a Campo de’ Fiori a palleggiare o a improvvisare partitelle con i ragazzetti, con una folla che puntualmente si radunava ad osservare quello sbalorditivo giocoliere, senza sapere di avere davanti agli occhi il grande Garrincha, magari ammirato in televisione, quando ancora assistere ad una partita internazionale era un evento che faceva radunare le persone nei bar, nelle finalissime del 1958 e del 1962. E allora, tornando all’inizio, a Sacrofano hanno una carta unica da giocarsi nelle disfide da bar: Lazio e Roma hanno avuto campioni amati, vincenti, a volte anche invidiati dai più grandi club del mondo, ma non possono dire di aver visto con i loro occhi la Gioia del Popolo in azione.

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Allenatori Calciatori Enrico D'Amelio

Roberto Mancini, la lucida follia della giovinezza

di Enrico D’Amelio

Se non sapessimo nulla della sua storia e lo conoscessimo ora, perfettamente calato nella grigia Manchester dei potenti sceicchi arabi, con tanto di sarto personale e pluriennale contratto faraonico, faticheremmo a credere che sia stato uno dei geni più ribelli e avversi al potere di quasi vent’anni di calcio. Invece, quel carattere difficile e controcorrente, sempre schivo e mai banale, gli ha consentito di raccogliere forse un quarto delle soddisfazioni che meritava in relazione alla sua classe smisurata e sopraffina. Lui, Roberto Mancini, normale non è mai stato. Di difficile collocazione tattica, perché incontrollabile e anarchico, come tutti quelli che rifiutano gli stereotipi o i cliché preconfezionati, ha incarnato per quattro lustri il ruolo di giocatore simbolo di una delle squadre più belle degli anni ‘80, la Sampdoria.

Più volte le sirene dei grandi club del nord hanno provato a farlo vacillare, ma, pur di non dare un dispiacere a Paolo Mantovani (“se non gioca Roberto, non mi diverto”, diceva l’ultimo presidente tifoso che l’aveva preso neanche diciottenne dal Bologna), ha preferito mettere le radici per 15 anni nella città della Lanterna. Una scelta di cuore, spontanea, che ha regalato tante difficoltà e alcune gioie, anche se uniche, come lo scudetto del 1990/91, il solo nella storia della Sampdoria, o la Coppa delle Coppe vinta in Svezia contro l’Anderlecht, dopo il primo tentativo andato a vuoto contro il Barcellona. La stessa squadra che gli ha inflitto la delusione più cocente della carriera, con quel gol di Ronald Koeman a Wembley allo scadere dei supplementari, negandogli la gioia di alzare la Coppa dei Campioni da calciatore. Vita difficilissima in Nazionale, dove mal sopportava gli schemi integralisti di quell’Arrigo Sacchi, che ai giocatori di talento un po’ ribelli, ha sempre preferito i cursori politicamente corretti del suo Milan berlusconiano. Un suo grande amico, Giuseppe Giannini, classe ‘64 come lui, ed epurato senza appello come lui dal sergente di ferro di Fusignano, rispose così a chi gli chiedeva se avesse potuto ancora indossare la maglia azzurra: “Credo che un’opportunità io e Roberto l’avremmo meritata, visto che Sacchi, dopo di noi, ha convocato cani e porci”. Questo ha sancito la fine di ogni possibile apertura per i due numeri 10 incompresi, ma, forse, anche per loro, senza un romagnolo di tutt’altra pasta in panchina come Azeglio Vicini, non sarebbe stata più la stessa cosa.

Dopo gli anni migliori, e mai più ripetuti, per la Genova blucerchiata, via via cominciavano a lasciare la Liguria i compagni di una vita. Pagliuca si spostava a Milano sponda Inter, Vierchowod tentava di vincere la Champions (e ci riusciva al primo colpo) alla Juventus, e, soprattutto, l’altro gemello del gol Gianluca Vialli era già andato via. Di quella splendida Sampdoria, che nulla aveva vinto prima di lui e che nulla vincerà dopo di lui, era rimasto ben poco. Solo la sua maglia numero 10 e la fascia di capitano bianca al braccio, a coprire il tatuaggio del marinaio “baciccia”, simbolo doriano, con altri dieci giocatori che non parlavano la sua stessa lingua col pallone tra i piedi. Era venuto a mancare il Presidente-papà, e col figlio Enrico che ne aveva preso il posto non s’era creato lo stesso idilliaco rapporto. La Doria iniziava un lento declino, e a 33 anni Roberto tentava il salto nel buio nella Capitale, con la maglia della Lazio, insieme al suo secondo maestro Sven Goran Eriksson. Un altro passo per pochi, un’altra avventura in una squadra che i trofei alzati li aveva visti solo in televisione. Almeno fino ad allora. I risultati? Coppa Italia al primo colpo, Coppa delle Coppe l’anno dopo e Scudetto al terzo. L’ultimo da giocatore per il Mancio. L’unico, insieme allo zar Vierchowod, a vincere due scudetti con due maglie diverse che non fossero di Inter, Juve o Milan.

Poi, dopo una breve esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio, la carriera da allenatore. Fiorentina nel 2001, di nuovo Lazio, fino all’approdo a Milano sulla panchina nerazzurra a soli 40 anni. La prima netta virata per chi non s’era mai messo da “quella parte”. Quattro anni a San Siro, i primi due Scudetti vinti da allenatore, quindi, nel 2008, complice l’arrivo di Mourinho, l’addio. E poi, storia dei giorni nostri, l’esperienza di Manchester alla guida dei citizens. Da giovane calciatore ribelle fuori dagli schemi, a tecnico inserito nei rigidi contesti dei più importanti e facoltosi club europei. La dura e cruda realtà, che sveglia tanti ragazzi di quella generazione, oramai diventati uomini, da un “sogno ormai rattrappito”.

Ma sempre in un’intervista, dell’aprile 2011, quando il City iniziava a diventare quello che è ora, ovvero la migliore squadra d’Inghilterra e, soprattutto per loro, dopo anni di umiliazioni, la prima di Manchester, gli veniva chiesto se la Coppa Campioni non vinta da giocatore potesse essere il suo vero obiettivo da tecnico. La risposta ha fatto riemergere alla mente ricordi oramai assopiti: “E’ vero – ha detto – che la Champions League è un po’ la mia ossessione. Ma la finale persa contro il Barcellona nel 1992 a Wembley è una ferita che non si potrà mai rimarginare. Per riuscirci, e chiudere definitivamente il cerchio, dovrei farlo solo sulla panchina della Sampdoria”. Qualcuno, dalle parti di Marassi o Sampierdarena, ascoltando le sue parole, avrà potuto chiudere gli occhi, e rivivere le immagini di quel decennio, sbiadite ma indelebili, in cui la lucida follia della giovinezza di un genio ha fatto salire una squadra, operaia fino ad allora, quasi sul tetto più alto d’Europa. Poco importa se l’ultimo passo non è stato compiuto. Sarebbe sciocco chiedere ai geni di poter contemplare la perfezione nelle loro imprese.

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Calciatori Fabio Belli

Roberto Mancini e il colpo di tacco che fece la storia al “Tardini”

di Fabio Belli

“Ma che hai fatto? Che hai fatto???” L’entusiasmo di Bobo Vieri, quasi fanciullesco, faceva forse parte del carattere di un personaggio che, tra gli spigoli della sua indole, ha sempre mostrato di divertirsi, giocando a pallone. Ma quella sera, correndo incontro la compagno di squadra che aveva appena siglato il gol del vantaggio, non aveva fatto altro che esternare il pensiero di milioni di persone che, quel gol, l’avevano visto in diretta televisiva.

“Il gol più bello della storia”, fu il titolo dell’editoriale dell’allora direttore del Corriere dello Sport, Mario Sconcerti, il lunedì successivo alla partita. Forse iperbolico, ma senza mettersi a questionare sullo slalom di Diego Armando Maradona a Messico ’86 contro l’Inghilterra, sulla rovesciata del cigno di Marco Van Basten nella finalissima di Euro ’88, o sulle prodezze di Roberto Baggio, Pelè, Ronaldo, Messi o chi per loro, va detto che il colpo di tacco con il quale Roberto Mancini, con indosso la maglia della Lazio, ammutolì il “Tardini” di Parma in una sfida-scudetto del 1999, fu l’apoteosi del gesto tecnico in questione. Cross da calcio d’angolo ed impatto perfetto con il pallone, spalle alla porta, con sfera piazzata all‘incrocio dei pali, dove Gianluigi Buffon, allora estremo difensore degli emiliani e già della Nazionale, proprio non poteva arrivare.

In quegli anni Buffon aveva un conto aperto con la Lazio: neanche un anno dopo dal colpo di tacco di Mancini, subì un clamoroso gol da quasi 40 metri dal mediano biancoceleste Almeyda, una prodezza al volo irripetibile per l’interditore argentino, polmoni poderosi ma piedi poco nobili, ma forse per chiunque. Ma quel colpo di tacco fu una magia improvvisa, in una partita fino a quel momento equilibrata tra due squadre che si stavano giocando il primo posto. Una nuova scala del calcio, composta in quella stagione anche dalla Fiorentina allenata da Trapattoni, che si fece beffare sul filo di lana dal Milan di Zaccheroni, forse il più sparagnino della storia, ma trascinato da una forza irresistibile, quella della sorte, verso il suo sedicesimo scudetto.

La Lazio si riprenderà dalla delusione l’anno successivo, quello della pioggia di Perugia. Ma se si parla con la maggioranza dei tifosi biancocelesti, quasi tutti diranno che era quella squadra, quella che vinse a Parma con il colpo folle di Mancini, la più forte in assoluto della pur munifica gestione Cragnotti. In quella stagione e all’alba di quella successiva arrivarono due trofei europei a stretto giro di tempo, ma non lo scudetto, anche se la notte del “Tardini” sembrava spalancare a quella formazione qualunque possibilità. Mancini segnò il secondo gol laziale, ma quella partita finì tre a uno: il tris lo firmò proprio Vieri, conclusione di collo pieno, potentissima, alle spalle di Buffon nel finale di partita. Dopo quel gol, Bobo prese il pallone e se lo portò via, come per dire: dopo quello che vi abbiamo fatto vedere, questo ce lo portiamo a casa noi. E se non fu il più bello della storia, poco ci mancò…