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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Club Fabio Belli

Una genovese tra le stelle: la Samp e il volo di Icaro verso la Champions League 1992

di Fabio Belli

“Se mi avessero detto che un giorno una squadra genovese avrebbe disputato una finale di Coppa dei Campioni, gli avrei riso in faccia.” La frase di un vecchio giornalista del Secolo XIX, rende bene l’idea di quando la Sampdoria con due ali da Icaro, il 20 maggio del 1992 si fosse avvicinata a compiere un’impresa senza eguali nella storia del calcio. Wembley per metà blucerchiato, al culmine di un ciclo che aveva visto protagonista una delle squadre più belle e divertenti di tutta la storia del calcio italiano. Ma la Sampdoria, che solo dieci anni prima lottava in cadetteria per ritornare in Serie A, proprio la Sampdoria poteva toccare quasi con mano il Sacro Graal di quella coppa che in Italia solo le cosiddette “strisciate”, le tre grandi storiche del nostro football, sono riuscite ad ottenere.

Tentativi di exploit ce ne sono stati: squadre in grado di farsi rispettare in patria, che hanno provato la campagna europea. Il Toro di Puliciclone negli anni ’70 non ebbe fortuna, nemmeno poté provarci la Lazio, squalificata un anno prima per un’assurda partita di Coppa UEFA contro l’Ipswich Town. Negli anni ’80 il Verona si ritrovò scornato in un duello fratricida contro la solita Juventus che dominava la scena anche in Italia. E poi il Napoli di Maradona, che nella Coppa dei Campioni trovò il suo unico tabù, mentre l’Europa sorrise nell’anno della UEFA. Prima della Samp, in due si erano avvicinate così tanto al sole. Ai tempi della preistoria della Coppa, la Fiorentina invincibile in patria, che si trovò però di fronte la leggenda del Real. E otto anni prima della finale di Wembley, la Roma di Falcao, che visse uno psicodramma dal dischetto proprio sul prato dell’Olimpico.

Ma la Sampdoria era un’altra cosa: dimenticati gli anni a fare la spola tra la B e la A, Paolo Mantovani aveva costruito un gioiello: matti da legare ma fortissimi in campo, i vari Mancini, Vialli, Lombardo, Mannini, Pagliuca e compagnia bella forse avrebbero potuto anche raccogliere di più, se non avessero dissipato tante occasioni negli anni del loro massimo splendore sportivo. Sia chiaro, resta la Samp più vincente di tutti i tempi per una squadra che poteva ricordare la “crazy gang” del Wimbledon, ma che alla goliardia non faceva mai seguire l’indisciplina. Ma nel calcio italiano più competitivo di tutti i tempi, bastava poco per vedersi sfuggire il sogno più grande, lo scudetto.

Vedendo passare gli anni, i ragazzacci terribili misero la testa a posto dopo il Mondiale del 1990, una delusione per Vialli e Mancini, i due “gemelli del gol” blucerchiati. E allora la parola impossibile, scudetto, si materializzò in un dolcissimo pomeriggio di Primavera contro il Lecce. Un “Ferraris” così non si è mai più visto: ma c’era ancora un’idea che ronzava nella testa di una squadra folle ma capace di tutto. E vedere arrivare la Samp fino in fondo fece ancora più impressione perché quella fu la prima edizione della Champions League, che si avviava a diventare un torneo multimilionario e alla portata di pochi. Tra quei pochi, c’era un Barcellona che si presentò però a Wembley afflitto da una maledizione. Mai i blaugrana avevano messo le mani sul trofeo che era invece il maggior vanto degli acerrimi rivali di sempre, il Real Madrid all’epoca ancora a quota sette trionfi.

In panchina c’era Johan Cruyff, in campo Michael Laudrup, Zubizarreta, Koeman, Julio Salinas, Stoichkov, Bakero e un imberbe Pep Guardiola. Dall’altra parte, Vujadin Boskov si ritrovava a combattere l’ultima battaglia: lui stesso sarebbe passato alla guida della Roma, Vialli era già promesso alla Juventus, un’epoca si sarebbe chiusa quel giorno. Ma a discapito della solita leggenda di Davide e Golia, la differenza tecnica in campo non era di quelle incolmabili. E la Sampdoria rischiò di vincerla quella partita, eccome: sia Vialli che Mancini ebbero la chance epocale, in un match in cui comunque la maggiore esperienza internazionale del Barca si faceva sentire, e il numero delle occasioni da gol pendeva decisamente dalla parte dei catalani.

La Samp arrivò ferocemente determinata a giocare quella finale, superando di slancio i primi due turni ad eliminazione diretta, e senza farsi irretire dall’allora inedito meccanismo della fase a gironi, domando in una partita leggendaria la fortissima Stella Rossa campione d’Europa in carica. E c’era da vendicare la sconfitta nella prima finale europea della storia blucerchiata, la Coppa delle Coppe del 1989, perduta a Berna contro quasi gli stessi avversari. Coppa poi vinta l’anno successivo con una doppietta di Vialli contro l’Anderlecht, ma il destino i suoi piani li aveva già scritti forse già in quella tiepida serata svizzera di tre anni prima. Anche le più belle realtà hanno le loro nemesi, e quando a 8′ dalla fine dei supplementari Ronald Koeman prende la sua caratteristica rincorsa, forse tutti i tifosi della Samp sanno già cosa sta per succedere. Le mani di Pagliuca si piegheranno, il Barca spezzerà un tabù quarantennale, e la Samp dopo aver sognato per quasi un decennio, dovrà cominciare a ricordare. Ma quella finale è stata giocata, goduta, la vittoria solo sfiorata, ma Genova ha avuto la sua notte di Coppe e di Campioni. E nessuno ha mai più riso, al riguardo.

[https://www.youtube.com/watch?v=iQx6Za_XzG4]

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Allenatori Calciatori Enrico D'Amelio

Roberto Mancini, la lucida follia della giovinezza

di Enrico D’Amelio

Se non sapessimo nulla della sua storia e lo conoscessimo ora, perfettamente calato nella grigia Manchester dei potenti sceicchi arabi, con tanto di sarto personale e pluriennale contratto faraonico, faticheremmo a credere che sia stato uno dei geni più ribelli e avversi al potere di quasi vent’anni di calcio. Invece, quel carattere difficile e controcorrente, sempre schivo e mai banale, gli ha consentito di raccogliere forse un quarto delle soddisfazioni che meritava in relazione alla sua classe smisurata e sopraffina. Lui, Roberto Mancini, normale non è mai stato. Di difficile collocazione tattica, perché incontrollabile e anarchico, come tutti quelli che rifiutano gli stereotipi o i cliché preconfezionati, ha incarnato per quattro lustri il ruolo di giocatore simbolo di una delle squadre più belle degli anni ‘80, la Sampdoria.

Più volte le sirene dei grandi club del nord hanno provato a farlo vacillare, ma, pur di non dare un dispiacere a Paolo Mantovani (“se non gioca Roberto, non mi diverto”, diceva l’ultimo presidente tifoso che l’aveva preso neanche diciottenne dal Bologna), ha preferito mettere le radici per 15 anni nella città della Lanterna. Una scelta di cuore, spontanea, che ha regalato tante difficoltà e alcune gioie, anche se uniche, come lo scudetto del 1990/91, il solo nella storia della Sampdoria, o la Coppa delle Coppe vinta in Svezia contro l’Anderlecht, dopo il primo tentativo andato a vuoto contro il Barcellona. La stessa squadra che gli ha inflitto la delusione più cocente della carriera, con quel gol di Ronald Koeman a Wembley allo scadere dei supplementari, negandogli la gioia di alzare la Coppa dei Campioni da calciatore. Vita difficilissima in Nazionale, dove mal sopportava gli schemi integralisti di quell’Arrigo Sacchi, che ai giocatori di talento un po’ ribelli, ha sempre preferito i cursori politicamente corretti del suo Milan berlusconiano. Un suo grande amico, Giuseppe Giannini, classe ‘64 come lui, ed epurato senza appello come lui dal sergente di ferro di Fusignano, rispose così a chi gli chiedeva se avesse potuto ancora indossare la maglia azzurra: “Credo che un’opportunità io e Roberto l’avremmo meritata, visto che Sacchi, dopo di noi, ha convocato cani e porci”. Questo ha sancito la fine di ogni possibile apertura per i due numeri 10 incompresi, ma, forse, anche per loro, senza un romagnolo di tutt’altra pasta in panchina come Azeglio Vicini, non sarebbe stata più la stessa cosa.

Dopo gli anni migliori, e mai più ripetuti, per la Genova blucerchiata, via via cominciavano a lasciare la Liguria i compagni di una vita. Pagliuca si spostava a Milano sponda Inter, Vierchowod tentava di vincere la Champions (e ci riusciva al primo colpo) alla Juventus, e, soprattutto, l’altro gemello del gol Gianluca Vialli era già andato via. Di quella splendida Sampdoria, che nulla aveva vinto prima di lui e che nulla vincerà dopo di lui, era rimasto ben poco. Solo la sua maglia numero 10 e la fascia di capitano bianca al braccio, a coprire il tatuaggio del marinaio “baciccia”, simbolo doriano, con altri dieci giocatori che non parlavano la sua stessa lingua col pallone tra i piedi. Era venuto a mancare il Presidente-papà, e col figlio Enrico che ne aveva preso il posto non s’era creato lo stesso idilliaco rapporto. La Doria iniziava un lento declino, e a 33 anni Roberto tentava il salto nel buio nella Capitale, con la maglia della Lazio, insieme al suo secondo maestro Sven Goran Eriksson. Un altro passo per pochi, un’altra avventura in una squadra che i trofei alzati li aveva visti solo in televisione. Almeno fino ad allora. I risultati? Coppa Italia al primo colpo, Coppa delle Coppe l’anno dopo e Scudetto al terzo. L’ultimo da giocatore per il Mancio. L’unico, insieme allo zar Vierchowod, a vincere due scudetti con due maglie diverse che non fossero di Inter, Juve o Milan.

Poi, dopo una breve esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio, la carriera da allenatore. Fiorentina nel 2001, di nuovo Lazio, fino all’approdo a Milano sulla panchina nerazzurra a soli 40 anni. La prima netta virata per chi non s’era mai messo da “quella parte”. Quattro anni a San Siro, i primi due Scudetti vinti da allenatore, quindi, nel 2008, complice l’arrivo di Mourinho, l’addio. E poi, storia dei giorni nostri, l’esperienza di Manchester alla guida dei citizens. Da giovane calciatore ribelle fuori dagli schemi, a tecnico inserito nei rigidi contesti dei più importanti e facoltosi club europei. La dura e cruda realtà, che sveglia tanti ragazzi di quella generazione, oramai diventati uomini, da un “sogno ormai rattrappito”.

Ma sempre in un’intervista, dell’aprile 2011, quando il City iniziava a diventare quello che è ora, ovvero la migliore squadra d’Inghilterra e, soprattutto per loro, dopo anni di umiliazioni, la prima di Manchester, gli veniva chiesto se la Coppa Campioni non vinta da giocatore potesse essere il suo vero obiettivo da tecnico. La risposta ha fatto riemergere alla mente ricordi oramai assopiti: “E’ vero – ha detto – che la Champions League è un po’ la mia ossessione. Ma la finale persa contro il Barcellona nel 1992 a Wembley è una ferita che non si potrà mai rimarginare. Per riuscirci, e chiudere definitivamente il cerchio, dovrei farlo solo sulla panchina della Sampdoria”. Qualcuno, dalle parti di Marassi o Sampierdarena, ascoltando le sue parole, avrà potuto chiudere gli occhi, e rivivere le immagini di quel decennio, sbiadite ma indelebili, in cui la lucida follia della giovinezza di un genio ha fatto salire una squadra, operaia fino ad allora, quasi sul tetto più alto d’Europa. Poco importa se l’ultimo passo non è stato compiuto. Sarebbe sciocco chiedere ai geni di poter contemplare la perfezione nelle loro imprese.