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Calciatori Fabio Belli

Aleksandar Arangelovic: il “bomber profugo” di Cinecittà

di Fabio BELLI

A Roma le ferite della Seconda Guerra Mondiale, alla fine degli anni Quaranta, si potevano vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentravano i pezzi di umanità che covavano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercavano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta e la rivalità tra Lazio e Roma tornava lentamente a dividere ma in un certo senso anche unire una città dalle mille anime.

Roma 1949/50
Roma 1949/50

Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma che, dal momento della sua fondazione, aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche, nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù e l’idea geniale per la Roma giunse da Cinecittà ed anche per i tempi non era di certo convenzionale.

Nel popolare quartiere Mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più). Jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi e, si venne poi persino a sapere, aveva sostenuto un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra giallorossa al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.

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Arangelovic al Novara

La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni” perché, pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti e con quattro doppiette inflitte all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.

A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il nome di quello slavo dallo sguardo misterioso che tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.

 

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Alessandro Iacobelli Calciatori

Dirceu: il ragioniere con il mancino fatato

di Alessandro IACOBELLI

Il giudice delle punizioni. Disegnava traiettorie artistiche con la toga sulle spalle e quel piede mancino baciato dalla grazia.
José Guimares Dirceu ha incorniciato la tela del calcio romantico a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Nato il 15 giugno 1952 a Curitiba in Brasile, condivide con il padre la passione per il futebol. La bella madre Diva Delfina pretende dal piccolo funambolo dedizione anche per gli studi. La famiglia Guimaraes si trasforma presto in una simpatica filastrocca. Dirceu infatti accoglie le sorelle Dirce e Dirci con il fratello Darci. Nel periodo adolescenziale il talento della casa prende l’indirizzo della scuola di ragioneria ed aiuta la madre nel bar appena aperto.

Dai tornei di quartiere alle giovanili del Curitiba il salto è brevissimo, il tempo di sorseggiare un caffè. All’alba degli anni settanta entra a far parte del reggimento di fanteria dell’Esercito. Le Olimpiadi di Monaco del 1972 sono un degno palcoscenico e Dirceu riesce ad onorarlo con quattro acuti. L’anno successivo il Botafogo è la società più lesta nel compiere l’affare. Nel 1975 è tra gli artefici dell’affermazione nel campionato nazionale insieme all’amico Jairzinho. Intanto Dirceu diventa una stella dell’armata verdeoro sfoderando prestazioni e reti da urlo. Le due stagioni che seguono sanciscono l’inizio del tour per una carriera internazionale. Con le casacche del Fluminense e del Vasco De Gama colleziona altri due titoli brasiliani.

Nel 1978, in concomitanza con il Mondiale in Argentina, lo ‘zingaro del calcio’ si trasferisce in Messico alla corte dell’America di Città del Messico. Firma un contratto faraonico per l’epoca in un sodalizio finanziato dalla nota emittente Televisa. Un anno prima aveva sposato Vania, la donna della sua vita.
La platea dell’Europa lo aspetta e lo sbarco si materializza in Spagna. L’Atletico Madrid si innamora di lui per tre lunghe stagioni.

Nel 1980 lo stivale riapre le frontiere del calcio. L’asso brasiliano vuole fortemente approdare in quello che dai più viene elevato come il miglior campionato nel vecchio continente. Nell’estate del post Mondiale iberico firma un contratto con il Verona di Osvaldo Bagnoli, appena promosso dalla B. Due perle in ventotto gettoni. Poi la pizza ed il lungomare di Via Caracciolo a Napoli chiamano e lui risponde. Gli azzurri si salvano per il rotto della cuffia ma Dirceu incanta spesso la platea del San Paolo.
I Nomadi cantano “Io vagabondo” e lui riempie la valigia per altre avventure. Nel suo destino ci sono ancora Ascoli, Como e Avellino. In totale 75 presenze e 13 gol. Le punizioni sono sassate che gonfiano la rete come i fulmini squarciano il cielo.
L’itinerario della carriera di Dirceu non ammette soste. Nel 1987 torna per un attimo in patria alla corte del Vasco Da Gama. Le sirene a stelle e strisce sono assordanti. Con la compagine del Miami Sharks si diverte.
La letteratura pallonara narra vicende a dir poco pittoresche. Quello dell’approdo di Dirceu alla formazione dell’Ebolitana in Serie D nel 1989 è un episodio affascinante che neanche Carlo Levi avrebbe mai potuto immaginare. Il sud e la Campania camminano a braccetto con il brasiliano. Ennesima tappa in quel di Benevento. La gita infinita culmina in Messico con l’Atletico Yucatan.
Un maledetto incidente stradale strappa Dirceu alla vita terrena il 15 settembre 1995. Il ragioniere con il mancino fatato.

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Club Fabio Belli

Rayo Vallecano, i Matagigantes

di Fabio BELLI

Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanti sono i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del football è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid ma, alle spalle delle merengues, il cammino dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa. Tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di decine e decine di titoli nazionali e internazionali conquistati dalle due formazioni, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.

Schermata 03-2456374 alle 19.08.39Il Rayo Vallecano è la terza squadra di Madrid per risultati, ma probabilmente la prima per determinazione e forza di volontà. Il soprannome dei giocatori del Rayo da sempre è “Matagigantes“, ammazzagrandi, coniato nell’anno della prima promozione nella Liga, stagione 1977/78. I giganti del calcio spagnolo cominciarono infatti a fare i conti con quella squadra che, con una maglia che si dice sia un omaggio a quella del River Plate ed il segno distintivo di un’ape disegnata sul petto (a volte anche grandissima, come negli anni ’80), con un budget mostruosamente inferiore a quello delle big, riusciva spesso ad ottenere risultati sbalorditivi. Come negli anni ’90, quando la squadra che vantava gioielli come Toni Polster e Hugo Sanchez, ex leggenda del Santiago Bernabeu, si divertiva ad impallinare Barcellona e Real Madrid. Storiche sono le vittorie casalinghe contro il Real, 2-0 nel 1992/93 e di misura il 19 febbraio del 1997, 1-0, fino al successo nell’ultimo scontro finora disputato in campionato contro le merengues, sempre per 1-0 nel 2019. Ancor di più lo fu però la prima vittoria di sempre al Bernabeu, stagione 1995/96, 2-1 per il Rayo, con gol decisivo rimasto nella storia del brasiliano Guilherme. Il Camp Nou venne invece espugnato per la prima ed ultima volta alla terzultima giornata del campionato 1999/00, il migliore della storia del Rayo con la qualificazione in Coppa UEFA, 2-0 e blaugrana ammutoliti.

Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è poi risollevato tornando a giocare nella Liga, per poi retrocedere di nuovo in “Segunda” nella scorsa stagione. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madrepadrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi siano stati costretti nella loro carriera farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.

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Calciatori Jean Philippe Zito

José Antonio Chamot, il Guerriero che scoprì la Bibbia

di Jean Philippe ZITO

Ero un diciottenne, mentre lui era già un uomo. Per me era un idolo. In ogni sfida era un guerriero, sempre con la stessa intensità. Ho sempre provato a essere come lui”. Uno dei difensori più forti di tutti i tempi, Alessandro Nesta, parla così del giocatore che l’ha ispirato all’inizio della carriera, diventando un vero e proprio punto di riferimento. “Quando ero un ragazzino della Lazio pendevo dalle sue labbra. Era anche un duro. L’ho rivisto recentemente: è diventato un fanatico religioso”. Chi sta descrivendo il leggendario numero 13? José Antonio Chamot.

La carriera del difensore argentino inizia nel Rosario Central come terzino sinistro. Esordisce in prima squadra nella stagione 1988/89 a diciannove anni, collezionando 19 presenze. Nella stagione successiva con la maglia dei “Canallas” gioca 29 partite, mettendo a segno le sue uniche 3 reti in maglia giallo-blù. Dopo dieci presenze nel 90/91, viene acquistato dal Pisa. Il vulcanico presidente Romeo Anconetani, con un’intuizione delle sue, porta Chamot e Diego Pablo Simeone in Italia.

All’ombra della torre pendente, Chamot si adatta da subito al calcio tattico italiano, esordendo in serie A l’11 Novembre del 1990 nella sconfitta per 4 a 2 a Genova contro la Sampdoria. Gioca da terzino in entrambe le fasce, libero e difensore centrale. L’allenatore dei nerazzurri toscani, Mircea Lucescu, dà fiducia al giovane argentino, tanto che nella seconda parte della stagione Chamot è titolare inamovibile con 15 presenze, che non valgono però la salvezza. Infatti il Pisa retrocede in Serie B.

Nella stagione 1991/92 Chamot gioca con continuità da centrale nel trio difensivo del 3-5-2 di Ilario Castagner. Le buone prestazioni con la maglia pisana fanno sì che molti addetti ai lavori del “calcio che conta” lo tengano sott’occhio. Il 6 Ottobre del 1991 arriva anche il primo gol in Italia, nella vittoria del Pisa per 2 a 0 contro il Pescara. Durante l’anno viene espulso due volte, facendo emergere il suo spiccato agonismo, al limite del consentito.

Nel 92/93 il Pisa cambia l’ennesimo allenatore, ma Josè Antonio Chamot resta il perno della difesa. Gioca titolare per 34 volte, espulso in una sola occasione. Il carattere non manca al “Flaco” e Zdenek Zeman viene colpito anche da questo aspetto durante la partita di Coppa Italia che contrappone il Pisa al Foggia, terminata per 2 a 2 il 2 Settembre del 1992. Il tecnico boemo è pronto ad accogliere Chamot a braccia aperte alla corte dei “Satanelli” pugliesi l’anno successivo.

La prima partita trasmessa in pay per view del calcio italiano è Lazio – Foggia del 29 Agosto del 1993. Chamot ritorna in serie A dopo due anni passati nel campionato cadetto. Il rendimento è costante, confermando tutte le sue qualità. La buona tecnica di base, una grande fisicità e forte temperamento, gli valgono anche la prima chiamata in Nazionale. Debutta nella “Selección” nella finale di andata dello spareggio per le qualificazioni ai Mondiali di USA 94, del 31 Ottobre 1993, Australia 1 Argentina 1. A 24 anni si trova a giocare tra i migliori del suo Paese, affianco al monumento del calcio mondiale Diego Armando Maradona.

Con Zeman si conferma stopper affidabile, capace di mettere fiducia alla retroguardia rossonera guidata dal portiere Franco Mancini. Ma anche al termine di questo campionato, Chamot viene espulso in due occasioni. Nel rocambolesco 5 a 4 subìto dal Piacenza, Josè non batte ciglio e abbandona il campo mestamente. Invece, nella sconfitta per 2 a 0 contro la Cremonese, è vittima di uno scambio di persona. Non è lui a commettere il fallo da rosso diretto, ma a nulla sono valse le proteste. Il Foggia alla fine rischia di qualificarsi per la Coppa UEFA, arrivando a pochi punti dall’impresa. Chamot colleziona 30 presenze e Zeman, che nel frattempo è diventato l’allenatore della Lazio per la stagione 94/95, chiede al Presidente Cragnotti di acquistare il roccioso difensore argentino.

Nell’estate del 1994, per la cifra di 5 miliardi di Lire, Josè Antonio Chamot è un giocatore laziale. A 25 anni è titolare nella squadra di Zeman, giocando al centro della retroguardia biancoceleste al fianco di Cravero, Bacci, Negro, Bergodi ed un giovanissimo Alessandro Nesta.

Anche quest’anno non è fortunato con i cartellini rossi, nella prima stagione a Roma, viene espulso 3 volte. La prima, ingiustamente, il 2 Ottobre 1994 durante un Fiorentina – Lazio 1 a 1, allontanato dal rettangolo verde reo di aver commesso un fallo da ultimo uomo. Oltre il danno, la beffa, uscendo dal campo viene colpito da una moneta da 500 lire che gli fa perdere sangue dalla testa. La seconda il 4 Dicembre 1994, in Cagliari – Lazio 1 a 1, questa volta giustamente per fallo da ultimo uomo (e calcio di rigore per la squadra sarda), la terza il 12 Febbraio 1995, in un Torino – Lazio 2 a 0.

Impiegato anche come terzino sinistro, Chamot spinge molto sulla fascia e crea numerosi pericoli. Uno di questi sblocca i quarti di finale di Coppa UEFA contro il Borussia Dortmund

Il primo gol arriva in un Lazio 4, Genoa 0 il giorno della festa del papà del 1995.

Dopo aver conquistato un eccellente secondo posto in campionato, raggiunte le semifinali di Coppa Italia e i quarti di Coppa UEFA, la stagione successiva lo vede ancora titolare fisso.

Nel 95/96 esordiscono i nomi e i numeri fissi sulle maglie da gioco, Chamot sceglie il numero 6, che è sempre stato il suo numero preferito. 32 presenze in Serie A (1 espulsione, sempre per fallo da ultimo uomo), 4 in Coppa Italia e 1 in Coppa UEFA. Terzo posto nella classifica finale, la Lazio di Zeman è una certezza ai vertici del calcio italiano.

Chamot intanto, inizia un percorso interiore che lo avvicina alla fede e a Dio: “Un giorno ero molto sopraffatto, stanco dei tanti viaggi, ho iniziato a guardare la televisione fino a quando ho trovato un canale cristiano e questo ha cambiato la mia vita perché ho imparato cos’è la Bibbia e chi è Gesù”. Racconta in un’intervista. “Quando si desidera avere denaro e poi ci si rende conto che il denaro non è tutto, cominci a sentire un grande vuoto. Dio ha riempito il mio cuore e cerco sempre di seguire la Sua parola”.

Nel 1996 partecipa come fuori età alle Olimpiadi di Atlanta, Chamot gioca da titolare in tutte le partite che lo vedono protagonista fino alla fine. L‘Argentina però perde 3 a 2 la finale contro la Nigeria con un contestatissimo gol al 90° minuto.

La stagione 1996/97 vede numerosi cambiamenti nell’undici titolare della Lazio: via, tra gli altri, Winter, Di Matteo e Boksic; dentro Protti, Okon e Fish. La concorrenza è alta, anche perché è esploso definitivamente il talento del romano e lazialissimo Nesta. Nonostante tutto, Josè riesce a conquistare per il terzo anno consecutivo i gradi di titolare, prima con Zeman in panchina, poi con Zoff. È una colonna della difesa, che a 27 anni è nel pieno della sua carriera. 34 presenze complessive (29 in Serie A, 2 in Coppa Italia, 3 in Coppa UEFA condite da un gol),

Nel 97/98 arriva Sven Goran Eriksson, in difesa la Lazio acquista Giuseppe Pancaro dal Cagliari e l’esperto Giovanni Lopez dal Vicenza. Chamot ha qualche problema fisico all’inizio della stagione, ed il tecnico svedese pian piano preferisce dar fiducia alla coppia di centrali Nesta-Negro, con Favalli terzino sinistro (capitano) e Pancaro terzino destro.

A fine anno con sole 11 presenze in campionato lascia la Lazio e l’Italia, alzando al cielo la Coppa Italia, destinazione Madrid.

All’Atletico torna a giocare con maggiore continuità e dopo solo una stagione e mezza, nel gennaio del 2000 a quasi 31 anni viene acquistato dal Milan esordendo da titolare il 27 Gennaio contro l’Inter in Coppa Italia. A Milano, sponda rossonera, riabbraccia il suo ex compagno Alessandro Nesta, raccoglie 51 presenze totali, vincendo una Coppa Italia nel 2003 e, soprattutto, la Champions League 2003.

Dopo una sola presenza con gli spagnoli del Leganes nella stagione 2003/04, torna in Argentina nel Rorsario Central. Nel 2006 a 37 anni si ritira proprio nel club dove la sua lunga carriera è iniziata.

Nel 2009 inizia la carriera da allenatore, come secondo, per passare per una sola stagione al River Plate dell’ex compagno laziale Matias Almeyda nel 2011 e tornare poi, nel 2017 al Rosario per esordire come allenatore della prima squadra.

Oggi Josè Antonio Chamot è il tecnico del squadra paraguaiana del Libertad, continua a vivere il calcio con passione, grinta e coraggio.

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Club Fabio Belli

Lazio-Bayern Monaco del 1974: Chinaglia contro Muller in una Coppa dei Campioni mai disputata

di Fabio Belli

Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico da una parte. Maier, Hanser, Rohr, Schwarzenbeck, Beckenbauer, Kappelmann, Hadewicz, Durnberger, Muller, Hoeness e Wunder dall’altra. La prima è una formazione ben conosciuta dai tifosi della Lazio, quella dello storico primo scudetto del ’74. Il secondo è un gruppo entrato a pieno diritto nella leggenda del calcio, quello che ha sdoganato il calcio tedesco di club ai massimi livelli a livello internazionale. Ovvero, il Bayern Monaco per tre volte Campione d’Europa tra il ’74 ed il ’76. Si tratta solo di un’amichevole, giocata all’Olimpico di fronte ad oltre 50.000 spettatori, ma il match assumerà una valenza simbolica importantissima, perché sarà l’unica passerella europea di un certo spessore da parte della “Banda del ’74”.

Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki - Vincenzo Cerracchio)
Wilson e Beckenbauer ad inizio partita (fonte LazioWiki – Vincenzo Cerracchio)

La partita si disputa di martedì il 17 settembre del 1974, una data scelta non a caso, perché il giorno dopo la Lazio, fresca del trionfo in campionato del 12 maggio, avrebbe dovuto esordire nella massima competizione continentale. Per giocare la prima sfida in Coppa dei Campioni la Lazio dovrà invece attendere altri 25 anni, quando il torneo si è già trasformato in Champions League, nella sua prima sfavillante edizione a 32 squadre. Questo perché i biancocelesti pagarono salatissimi gli incidenti dell’anno prima in Coppa UEFA, nel match di ritorno dei sedicesimi di finale contro l’Ipswich Town. Una situazione che portò alla squalifica dalle Coppe Europee la Lazio, che contava però sull’intercessione di Artemio Franchi, all’epoca potentissimo dirigente calcistico italiano e soprattutto presidente dell’UEFA, per vedersi rivolto un atto di clemenza, e poter essere presente all’appuntamento con la storia.

Probabilmente è stata però proprio la politica a chiudere l’ultimo portone tra la Lazio e l’Europa: la squadra di Maestrelli era vista come una magnifica meteora, e al momento degli incidenti contro l’Ipswich, nell’autunno del 1973, in pochi in Italia pensavano che l’exploit della stagione precedente, con lo scudetto perduto per il gol di Damiani a Napoli a 2 minuti dalla fine del campionato, avrebbe potuto essere ripetuto. L’assenza di una formazione italiana nella Coppa dei Campioni 1974/75 era vista come un danno di immagine anche dai vertici federali, che non si adoperarono da subito sul caso Lazio-Ipswich, proprio perché pensavano che al massimo i biancocelesti sarebbero stati assenti dalla Coppa UEFA dell’anno successivo.

E invece, verso l’aprile del 1974 fu chiaro che il miracolo sfiorato l’anno precedente, si sarebbe compiuto: un’ingerenza pesante di Franchi a quel punto sarebbe stata vista come ad uso e consumo della federazione italiana, e il tempo giocò semplicemente a sfavore di Chinaglia e compagni. Quell’amichevole del settembre ’74 fu dunque solo un flash di quello che poteva essere e non è stato. All’epoca la leggenda del Bayern era appena iniziata, con la conquista della prima Coppa dei Campioni dei bavaresi nell’incredibile finale di Bruxelles contro l’Atletico Madrid, e con il titolo Mondiale nella finale, disputata proprio a Monaco, contro l’Olanda di Crujyff. Proprio il modello al quale era accostata la Lazio di Maestrelli, capace di portare in Italia dinamismo, squadra corta, diagonali degli esterni difensivi e particolarità fino a quel momento sconosciute alla tattica della Serie A.

Quella squadra, ansiosa di confrontarsi contro formazioni come il Leeds di Bremner e Lorimer (poi finalista in quell’edizione proprio contro il Bayern), il Barcellona di Crujyff, il Borussia Monchengladbach di Gunter Netzer e con lo stesso Bayern, dovette accontentarsi di quella passerella con Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Schwarzenbeck, l’uomo che aveva strappato con il suo gol nel recupero dei supplementari la Coppa all’Atletico Madrid garantendo la ripetizione del match al Bayern, portò in vantaggio i tedeschi, ma la Lazio rispose nel finale con Franzoni, attaccante di riserva ricordato soprattutto per un suo gol nel derby d’andata nella stagione dello scudetto. Rimase un flash, un rimpianto, forse la conferma della consapevolezza di potersi giocare qualcosa di importante al gran ballo delle Grandi d’Europa: ma l’invito, alla fine, non arrivò mai per quella squadra pazza e meravigliosa.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiale 06: #Spagnacanazo #Spagna #Cahill #DiegoCosta #Dromedario #Cile #MareaRoja

di Fabio Belli

Australia – Olanda 2-3

E' di Cahill il gol più bello dei Mondiali. Finora.
E’ di Cahill il gol più bello dei Mondiali. Finora.

34. Gioca in America, ha 34 anni ed è un attaccante. Tim Cahill è forse un po’ fuori tempo per finire nei nostri consigli per gli acquisti. Ma il gol più bello dei Mondiali finora è suo: gran botta al volo, traversa e pallone alle spalle di Cilessen. Non è servito all’Australia, ma questo attaccante dei New York Red Bulls già contro il Cile era stato una vera spina nel fianco, prendendole praticamente tutte di testa ed andando in gol. La sua carriera in Europa l’ha già spesa, peraltro per otto stagioni e con ottimo profitto, con l’Everton. E anche se il Mondiale dei “Socceroos” è durato appena cinque giorni tra la prima partita e la seconda, la coppia Cahill-Leckie sarà ricordata a lungo dai tifosi.

Da qualunque parte la si guardi, l'Olanda è sempre uno spettacolo...
Da qualunque parte la si guardi, l’Olanda è sempre uno spettacolo… (Scarlett Hope)

35. “L’AZ Alkmaar non rinuncerà al suo gioco offensivo che gli ha permesso di arrivare all’ultima giornata in testa alla classifica.” Parola di Louis Van Gaal, che dopo le disavventure tra Barcellona e Nazionale (primo giro), si era rimesso in gioco nel piccolo club che stava, a suo di gol e risultati pazzi, mettendo le mani dopo anni sull’Eredivisie, interrompendo lo storico dominio della triade Ajax-PSV-Feyenoord. Ovviamente, l’AZ perse quella partita subendo due gol in contropiede, e il titolo: ma il nostro è un vincente, e Van Gaal riportò il titolo ad Alkmaar, nel suo nuovo laboratorio, nel 2009, rilanciandosi a livello internazionale. Questo per dire che l’Olanda è già a otto gol segnati e tre subiti in due partite, e questa Nazionale Orange sembra altrettanto pazza e spregiudicata rispetto a quell’AZ. Nel calcio di solito vince chi subisce meno, non chi picchia di più. Nel frattempo, i motivi per simpatizzare per un’Olanda così spumeggiante, non mancano dentro e fuori il campo…

Spagna – Cile 0-2

Chissà se uno dei Diego Costa ce l'ha con l'altro...
Chissà se uno dei Diego Costa ce l’ha con l’altro…

36. “Maracanazo” è una parola spagnola, non portoghese. Nonostante si riferisca alla celeberrima disfatta del ’50, il Mondiale perso in casa dal Brasile contro l’Uruguay. Un segno del destino, la scelta di quella parola, traslata oggi alla fine di un ciclo che da tre grandi competizioni (Europeo+Mondiale+Europeo) prevedeva un solo vincitore. Lo “Spagnacanazo” si è consumato proprio al Maracanà, al cospetto di un super-Cile, ma i Campioni del Mondo sono apparsi logori, stremati da una stagione di club che aveva visto le formazioni iberiche dominare in lungo e in largo. A nulla è servito l’innesto di Diego Costa: trapianto rigettato, e il dietrofront dalla Selecao alle Furie Rosse che tanto aveva fatto infuriare la Torcida, si è ritorto contro il bomber ora al Chelsea ed ex Atletico Madrid.

La "Marea Roja" irrompe in sala stampa
La “Marea Roja” irrompe in sala stampa

37. Non si giocava un Mondiale in Sudamerica da Argentina 1978. Una vera anomalia considerando la popolarità del football a quelle latitudini, ma la rinuncia della Colombia del 1986 e l’irruzione sulla scena di Africa ed Asia ha dilatato i tempi. Ora, finalmente, si stanno vedendo tifosi provenienti da tutta l’America Latina, con un calore di cui in parte si era perduta la memoria. E se i messicani hanno tenuto testa ai brasiliani, e i colombiani hanno già dato spettacolo, la “Marea Roja” cilena si è superata nel giorno dello “Spagnacanazo”. Una valanga di entusiasmo che ha raggiunto picchi da leggenda al momento dell’inno cantato a squarciagola sulle tribune del Maracanà, ed ha debordato con il trenino degli “hinchas” cileni in sala stampa, in una invasione di campo imprevedibile per l’organizzazione brasiliana.

Il dromedario Ahmed non sembra avere lo stesso fiuto di polipi e galline.
Il dromedario Ahmed non sembra avere lo stesso fiuto di polipi e galline.

38. Abbiamo già citato il Polpo Paul, che nel 2010 aveva pronosticato tutto il pronosticabile in Sudafrica, e della gallina colombiana che ne emula le gesta. Ma non tutti gli animali sono così precisi: il dromedario Ahmed si sta guadagnando una sinistra fama a suon di pronostici sbagliati. La Spagna ne ha pagato le conseguenze, e su Twitter in molti hanno anticipato la previsione del dromedario come fatale per la squadra di Del Bosque. Curiosamente, per la terza volta negli ultimi quattro Mondiali la squadra Campione in carica esce di scena al primo turno. La Francia nel 2002 e l’Italia nel 2010 erano però state eliminate nella terza ed ultima partita del girone eliminatorio. Dal fischio d’inizio di Spagna-Olanda a quello di Spagna-Cile, il Mondiale delle Furie Rosse è durato due partite e meno di 98 ore: un record difficilmente battibile, soprattutto sui presupposti con cui Iniesta e compagni erano sbarcati in Brasile.

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#Contromondiali Fabio Belli

#Contromondiali01: #Nishimura, #HupHolland, #MartinsIndi, #DiegoCosta, #Leckie, #MareaRoja

di Fabio Belli

Curiosità, notizie, il meglio e il peggio di Brasile2014 fino al 13 luglio.

Brasile – Croazia 3-1

L'ironia sull'arbitro Nishimura ha scatenato la Rete
L’ironia sull’arbitro Nishimura ha scatenato la Rete

1. Il fattore campo rappresenta una preoccupazione di tutti gli avversari della Selecao. L’arbitraggio del giapponese Nishimura (che pure era uno dei papabili per la finalissima, e sognava di ripercorrere le orme di Langenus nel 1930 e

Aumentano i dubbi su un Brasile potenzialmente favorito
Aumentano i dubbi su un Brasile potenzialmente favorito

di Elizondo nel 2006, che arbitrarono sia il match inaugurale che la finale) ha scatenato l’ironia della rete.

Messico – Camerun 1-0

2. Da cinque edizioni consecutive il “tricolor” si guadagna l’accesso agli ottavi di finale. Raramente ha sofferto così per qualificarsi: ma il tecnico Herrera, già divenuto un personaggio, ha addirittura lanciato la

Il tecnico messicano Herrera, già personaggio "Mùndial"
Il tecnico messicano Herrera, già personaggio “Mùndial”

candidatura messicana per il trionfo nel Mondiale del Messico.

3. A decidere la sfida contro il Camerun (squadra in cui ogni giocatore sembra aver avuto degli screzi con Eto’o, che per sé ha preteso una suite con Jacuzi matrimoniale da

Spagna-Olanda allo stadio "De Kuip" del Feyenoord
Spagna-Olanda allo stadio “De Kuip” del Feyenoord

3000 euro al giorno di sovrapprezzo) è stato l’eroe dell’Olimpiade di Londra, Oribe Peralta, che è appena diventato il più pagato calciatore della storia del campionato messicano: 10 milioni di dollari per il suo passaggio dal Santos Laguna al Club America.

Spagna – Olanda 1-5

Bruno Martins Indi
Bruno Martins Indi

4. La più pesante sconfitta di una nazione detentrice del titolo mondiale: il più ampio divario di sempre in una ri-edizione della finale di quattro anni prima. L’Olanda ha fatto saltare tutti gli schemi, con la Spagna che tra il Mondiale 2010 e gli Europei 2008 e 2012, aveva complessivamente subito solo sei gol.

5. A Salvador de Baia il più fischiato in assoluto, non solo del match ma di tutto l’inizio del Mondiale, è stato Diego Costa: il pubblico brasiliano non ha digerito il rifiuto del centravanti ex Atletico Madrid, ora al Chelsea, di far parte della Selecao per giocare nelle furie rosse. A fine partita si sarà pentito?

6. Il personaggio che ha

Sintesi essenziale del primo grande match di Brasile2014
Sintesi essenziale del primo grande match di Brasile2014

attirato maggiormente l’attenzione nella rinnovata Olanda di Louis Van Gaal è stato il 22enne difensore del Feyenoord Bruno Martins Indi. Portoghese di nascita ed olandese d’adozione, ha mostrato tutto il suo carattere soprattutto quando l’arbitro italiano Rizzoli, utilizzando il nuovo spray per segnalare righe provvisorie per la barriera sui calci di punizione, gli ha sporcato le scarpe, provocandone l’ira a dir poco funesta.

Cile – Australia 3-1

A fine partita Diego Costa avrà richiamato Felipe Scolari?
A fine partita Diego Costa avrà richiamato Felipe Scolari?

7. Mondiale in Sudamerica significa anche nuovi colori sugli spalti. La “Marea Roja” che ha affollato lo stadio di Culabà per sostenere Sanchez e compagni si è mostrata degna del calore dei tifosi di casa nel match inaugurale a San Paolo.

8. Consigli per gli

La "Marea Roja" ha esaltato il Cile
La “Marea Roja” ha esaltato il Cile

acquisti: Mathew Leckie, classe ’91, gioca nella Zweite Bundesliga nell’Ingolstadt. La sua velocità ha letteralmente impressionato, pur di fronte ai brevilinei cileni. Classe ’91, vedremo se sarà uno dei nomi caldi del mercato estivo, o se sarà uno di quei giocatori che la storia del Mondiali ci ha abituato a veder ballare una sola estate.

 

 

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Calciatori Fabio Belli

Paulo Futre, talento cristallino e ginocchia fragili

di Fabio Belli

Di talenti inespressi, per sfortuna, scelleratezza o quant’altro, la storia del calcio è piena. Alcuni però sono ricordati più di altri, magari anche per aver lasciato un segno forte anche fuori dal rettangolo di gioco. Gli ‘altri’ invece escono di scena così come erano entrati, in punta di piedi, e ogni tanto nella mente degli appassionati riaffiora un flash, che fa rendere conto di quanto sia sottile il confine tra gli altari e la polvere.

futrePaulo Futre ne è un esempio lampante: ai Mondiali messicani del 1986 arriva con le credenziali di miglior talento portoghese degli ultimi venti anni. Non per niente, la Nazionale lusitana si ripresenta alla rassegna iridata esattamente a venti anni di distanza dal terzo posto ottenuto in Inghilterra dalla generazione di fenomeni che aveva in Eusebio la sua punta di diamante. La scuola portoghese sta di nuovo crescendo all’epoca, come dimostrato dalla semifinale raggiunta agli Europei del 1984. L’avventura in Messico finirà male, con una clamorosa eliminazione al primo turno per una squadra che, pur ricca di talenti, come spesso accade al Portogallo pecca in concretezza.

Futre ha però qualcosa in più: tipico numero dieci d’attacco, segna e fa segnare con la maglia del Porto. A soli ventuno anni si laurea Campione d’Europa, nella leggendaria finale del “tacco di Allah”, titolare al fianco di Madjer e Juary nella sfida vinta contro il Bayern Monaco. Futre non segna, ma le sue magie lo svelano all’Europa intera. L’Atletico Madrid se lo accaparra, in Spagna resterà per sei stagioni, più del previsto, perché un talento come il suo pareva destinato ai palcoscenici massimi, sin da subito. Il tallone d’Achille di Futre è un fisico che non garantisce una piena autonomia. Si infortuna spesso, e alle sublimi doti da rifinitore, non riesce ad abbinare medie realizzative convincenti.

Nel frattempo, la Nazionale del Portogallo vive una nuova involuzione che lo porta a mancare gli appuntamenti del Mondiale del 1990 e degli Europei del 1988 e del 1992. Ogni anni si parla di un suo possibile passaggio alle big della Liga come Barca e Real, ma non se ne fa mai nulla. Nel 1993 allora Futre si risolve di accettare le sirene italiane. La Reggiana neopromossa in Serie A lo presenta come il regalo per i tifosi del “Mirabello“. Sembra un grande passo indietro, ma negli anni Novanta il calcio italiano è imbattibile per qualità, visibilità e ovviamente anche per i salari. La Reggiana può essere l’occasione giusta per attirare l’attenzione delle grandi italiane, abituate a dominare nelle competizioni continentali, di quel periodo.

L’esordio è folgorante: Futre va subito a segno e dispensa magie nella sfida contro la Cremonese. Ma il destino ha piani crudeli, da subito, per la sua avventura italiana. A pochi minuti dalla fine del match, uno scontro con il difensore grigiorosso Pedroni gli costa la rottura del tendine rotuleo. E’ l’inizio di un calvario che lo vedrà restare fermo quasi due anni. Nel campionato 1993/94 quella resterà la sua unica presenza in Serie A, ne aggiungerà dodici l’anno successivo, senza evitare una malinconica retrocessione per gli emiliani.

In quelle stagioni il Milan di Berlusconi fa collezione di talenti, e tra Baggio e Savicevic, anche Futre viene aggiunto alla sbalorditiva parata che la squadra rossonera fa sfilare a San Siro. Ma il ginocchio ormai è andato: ironia della sorte, in maglia rossonera in campionato Futre scenderà in campo solo una volta, proprio contro la Cremonese, la squadra che ha segnato lo spartiacque della sua carriera. E’ la partita dello scudetto 1995/96, il quarto in cinque anni per il Milan di Fabio Capello. Futre concluderà la carriera appena due anni dopo in Giappone, a soli trentadue anni, e con sole 43 presenze negli ultimi 5 campionati da professionista. Resterà così uno dei più grandi talenti inespressi del football mondiale di tutti i tempi.

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Club Fabio Belli

Belenenses, i piccoli giganti di Lisbona

di Fabio Belli

Lisbona è città di calcio, e soprattutto ha la storia dalla sua parte. Sin dai tempi dei pionieri sulle rive del Tago si respira football, anche se i maestri lusitani hanno faticato ad imporsi nel mondo, spesso schiavi di uno stile di gioco individualista e poco concreto. Non per niente l’uomo della svolta, Eusebio, è arrivato dall’Africa a fare grandi il Benfica ed il Portogallo. Le Aquile vivono un derby infinito con lo Sporting, ma c’è un’altra realtà cittadina che, pur non potendo vantare il seguito delle big, ha saputo farsi onore per decenni, e soprattutto ai tempi in cui il calcio muoveva i primi passi non solo in Portogallo, ma in tutta l’Europa.

belenensesStiamo parlando del Belenenses, considerata la terza squadra di Lisbona per numero di titoli conquistati e di tifosi, ma che fino all’alba degli anni cinquanta non sfigurava al fianco di Benfica e Sporting. Verrebbe da pensare al caso di Lisbona come a quello di Madrid, dove al fianco di Real e Atletico, realtà di caratura internazionale, combatte coraggiosamente il Rayo Vallecano, spesso nella massima serie, ma quasi mai in grado di essere competitivo per obiettivi che vadano oltre la salvezza. Ma il Belenenses può essere accomunato al Rayo solamente da un particolare: essere l’espressione di un quartiere della capitale, nella fattispecie quello di Santa Maria de Belém. Una località che fino agli anni trenta era una municipalità distinta da Lisbona, e che poi è diventata quartiere periferico, dove nei bar, nei negozi e sui balconi spesso spuntano le bandiere biancoblu del Belenenses, orgoglio di una comunità.

Le analogie però finiscono qui, visto che come detto il Belenenses prima della Seconda Guerra Mondiale ha conquistato per tre volte il titolo portoghese, che all’epoca era assegnato con gare ad eliminazione diretta con la formula della Coppa, tant’è che il trofeo assegnato, la Taca do Portugal, era lo stesso. Nel 1946 è arrivata però anche la vittoria del campionato a girone unico, e fino al 2001 il Belenenses era stato l’unico club fuori dal circuito delle tre grandi portoghesi (Benfica, Porto, Sporting) ad essersi aggiudicato il titolo. Cinquantacinque anni dopo, fu il Boavista di Oporto a rompere il tabù. Anche lo stadio non è decisamente quello di una piccola realtà: il Belenenses gioca nello splendido Estadio do Restelo, completamente rimesso a nuovo ed attualmente impianto gioiello capace di ospitare circa trentamila spettatori, mentre nel passato, in un derby contro il Benfica, arrivò a contenere addirittura sessantamila tifosi.

Numeri di grande sostanza, che fanno parte però di un passato glorioso del quale il presente spesso non è stato all’altezza. Basti pensare che dopo anni senza mai retrocedere (dopo le già citate tre grandi, il Belenenses è la squadra col maggior numero di presenze nel massimo campionato portoghese) il Belenenses spesso è stato protagonista della Liga de Honra, la seconda serie lusitana, dalla quale è risalito proprio nella scorsa stagione. Il grande rimpianto dei tifosi resta il titolo del ’73, perso all’ultima giornata proprio a causa di una sconfitta in un derby contro il Benfica. Una piccola vendetta a Belém se la sono presa domenica scorsa, costringendo al pari all’Estadio Da Luz le Aquile,, vestendo i panni della neopromossa terribile. Al momento può bastare, in attesa di ritrovare la gloria perduta.

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Allenatori Fabio Belli Nazionali

Il calcio universale dell’URSS di Valerij Lobanovski

di Fabio Belli

Dai tempi della mitica Olanda del ’74 fino alla rivoluzione sacchiana, il gioco a zona ha provato in più fasi a fornire nuovi modi per leggere il gioco del calcio. Un’epoca non sempre approfondita a dovere, nella prima metà degli anni ’80, è quella segnata dalla nazionale sovietica allenata da Valerij Lobanovski, il “colonnello” al quale hanno dedicato anche una statua, a Kiev. Una nazionale, l’ultima grande URSS prima dello scioglimento del colosso sovietico, che ha provato a rivisitare gli schemi classici del football attingendo a quello straordinario laboratorio che è stata la Dinamo Kiev allenata proprio da Lobanovski, prima dell’approdo in nazionale.

Lobanovski rimase alla guida della Dinamo anche quando fu chiamato per far ottenere alla selezione sovietica quegli allori che non era mai riuscita a conquistare in ambito internazionale, fatta eccezione per il titolo europeo del 1960, quando la rassegna continentale era ancora agli albori. La Dinamo nel 1975 era stata la prima formazione dell’URSS a conquistare un trofeo in Europa, la Coppa delle Coppe vinta in finale contro gli ungheresi del Ferencvaros. Quindi nella stessa competizione arrivò il bis nel 1986 contro l’Atletico Madrid, proprio alla vigilia del mondiale messicano che doveva consacrare l’URSS di Lobanovski agli occhi del mondo intero.

Quella squadra era stata costruita per vincere: un mix di una generazione d’oro di talenti russi ed ucraini, perfettamente amalgamati insieme dagli schemi del “colonnello”. Solo per citarne alcuni: il portiere Rinat Dasaev, strepitoso tra i pali, che per alcuni stava facendo rivivere il mito di Lev Jašin. Il talento cristallino di Oleh Blochin, Pallone d’Oro 1975, nel pieno della maturità. La potenza dirompente di Oleh Protasov, che si contendeva secondo molti il titolo di miglior centravanti europeo assieme all’allora astro nascente dell’Ajax, Marco Van Basten. E poi la velocità di Hennadij Lytovčenko, e l’imprevedibilità di Oleksandr Zavarov, che per molti incarnava il prototipo del fantasista moderno.

Per questa squadra Lobanovski aveva studiato una rivisitazione del calcio totale, nel vero senso della parola. Una zona a tutto campo libera dalla schiavitù dei ruoli, che permetteva sortite offensive ai difensori ed efficaci ripiegamenti anche per gli uomini d’attacco. Un moto perpetuo che rese l’URSS la migliore formazione della prima fase del Mondiale 1986, forse la più seria candidata al titolo, anche più della Germania Ovest, dell’Argentina a detta di molti troppo dipendente da Maradona e della Francia, spumeggiante e guidata da Platini, ma troppo incostante negli appuntamenti che contavano.

La doccia fredda arrivò negli ottavi di finale, in una partita di strepitosa bellezza contro il Belgio, ma viziata da un arbitraggio che penalizzò in maniera scandalosa i sovietici, che si videro convalidati a sfavore due gol in clamoroso fuorigioco. La polemica fu grande, ma le prodezze di Maradona fecero dimenticare in fretta quello che l’URSS aveva saputo proporre. Quella squadra, ancora al pieno della potenza, sfiorò la gloria agli Europei del 1988, eliminando l’Italia in semifinale ma cadendo a Monaco di Baviera nel match per il titolo contro la favolosa Olanda di Gullit, Rijkaard e Van Basten, che segnò in quella sfida a Dasaev il gol più bello della sua carriera. Il canto del cigno arrivò con i Mondiali del 1990: l’utopia di Lobanovski e quella dell’URSS si spensero quasi contemporaneamente, ma il “colonnello” trovò nuova gloria ancora con la Dinamo Kiev, lanciando alla fine degli anni ’90 l’ultimo fenomeno della sua carriera: Andrij Ševčenko.