Il calcio universale dell’URSS di Valerij Lobanovski

di Fabio Belli

Dai tempi della mitica Olanda del ’74 fino alla rivoluzione sacchiana, il gioco a zona ha provato in più fasi a fornire nuovi modi per leggere il gioco del calcio. Un’epoca non sempre approfondita a dovere, nella prima metà degli anni ’80, è quella segnata dalla nazionale sovietica allenata da Valerij Lobanovski, il “colonnello” al quale hanno dedicato anche una statua, a Kiev. Una nazionale, l’ultima grande URSS prima dello scioglimento del colosso sovietico, che ha provato a rivisitare gli schemi classici del football attingendo a quello straordinario laboratorio che è stata la Dinamo Kiev allenata proprio da Lobanovski, prima dell’approdo in nazionale.

Lobanovski rimase alla guida della Dinamo anche quando fu chiamato per far ottenere alla selezione sovietica quegli allori che non era mai riuscita a conquistare in ambito internazionale, fatta eccezione per il titolo europeo del 1960, quando la rassegna continentale era ancora agli albori. La Dinamo nel 1975 era stata la prima formazione dell’URSS a conquistare un trofeo in Europa, la Coppa delle Coppe vinta in finale contro gli ungheresi del Ferencvaros. Quindi nella stessa competizione arrivò il bis nel 1986 contro l’Atletico Madrid, proprio alla vigilia del mondiale messicano che doveva consacrare l’URSS di Lobanovski agli occhi del mondo intero.

Quella squadra era stata costruita per vincere: un mix di una generazione d’oro di talenti russi ed ucraini, perfettamente amalgamati insieme dagli schemi del “colonnello”. Solo per citarne alcuni: il portiere Rinat Dasaev, strepitoso tra i pali, che per alcuni stava facendo rivivere il mito di Lev Jašin. Il talento cristallino di Oleh Blochin, Pallone d’Oro 1975, nel pieno della maturità. La potenza dirompente di Oleh Protasov, che si contendeva secondo molti il titolo di miglior centravanti europeo assieme all’allora astro nascente dell’Ajax, Marco Van Basten. E poi la velocità di Hennadij Lytovčenko, e l’imprevedibilità di Oleksandr Zavarov, che per molti incarnava il prototipo del fantasista moderno.

Per questa squadra Lobanovski aveva studiato una rivisitazione del calcio totale, nel vero senso della parola. Una zona a tutto campo libera dalla schiavitù dei ruoli, che permetteva sortite offensive ai difensori ed efficaci ripiegamenti anche per gli uomini d’attacco. Un moto perpetuo che rese l’URSS la migliore formazione della prima fase del Mondiale 1986, forse la più seria candidata al titolo, anche più della Germania Ovest, dell’Argentina a detta di molti troppo dipendente da Maradona e della Francia, spumeggiante e guidata da Platini, ma troppo incostante negli appuntamenti che contavano.

La doccia fredda arrivò negli ottavi di finale, in una partita di strepitosa bellezza contro il Belgio, ma viziata da un arbitraggio che penalizzò in maniera scandalosa i sovietici, che si videro convalidati a sfavore due gol in clamoroso fuorigioco. La polemica fu grande, ma le prodezze di Maradona fecero dimenticare in fretta quello che l’URSS aveva saputo proporre. Quella squadra, ancora al pieno della potenza, sfiorò la gloria agli Europei del 1988, eliminando l’Italia in semifinale ma cadendo a Monaco di Baviera nel match per il titolo contro la favolosa Olanda di Gullit, Rijkaard e Van Basten, che segnò in quella sfida a Dasaev il gol più bello della sua carriera. Il canto del cigno arrivò con i Mondiali del 1990: l’utopia di Lobanovski e quella dell’URSS si spensero quasi contemporaneamente, ma il “colonnello” trovò nuova gloria ancora con la Dinamo Kiev, lanciando alla fine degli anni ’90 l’ultimo fenomeno della sua carriera: Andrij Ševčenko.