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Allenatori Fabio Belli

Ezio Glerean, “l’uomo in più” di Paolo Sorrentino

di Fabio Belli

Alla sua idea di calcio si è ispirato anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino per la sua opera prima, “L’uomo in più“. Il protagonista Antonio Pisapia, interpretato da Andrea Renzi, ex calciatore che rifiuta di truccare partite e fatica a reinserirsi nel mondo del calcio da allenatore, prova ad esportare la sua idea di football avveniristico, con gli attaccanti che si muovono a rombo, tre punte più un trequartista, per i triangoli ed i fraseggi, e tre mediani che fanno muro a centrocampo. “Si possono vincere le partite, così“, spiega senza che nessuno lo ascolti. Finzione dalle radici ben piantate nella realtà: la vicenda umana del protagonista, che nel film incrocia i suoi destini con l’omonimo cantante interpretato da Toni Servillo, si ispira a quella di Agostino Di Bartolomei. Ma anche i riferimenti calcistici vengono dalla realtà visto che lo schema dell'”uomo in più” porta la firma di un allenatore-gentiluomo nato a San Michele al Tagliamento, Ezio Glerean.

Glerean è arrivato alle soglie del grande calcio, ma non è riuscito a sfondare come forse la sua capacità di insegnare calcio avrebbe meritato. La sua strada, nel momento di massimo splendore, si è incrociata con quella di Maurizio Zamparini, il vulcanico presidente che ha saputo lanciare alla ribalta tanti allenatori quanti ne ha allo stesso tempo bruciati. Troppo garbato nei modi e nello stile, Glerean, per resistere ai ritmi del presidente mangiallenatori che lo incrociò nel momento più confuso della sua gestione, quello del “trasloco” da Venezia a Palermo, dove dopo un precampionato travagliato Glerean, nel 2002, riuscì a durare solo una giornata. A Palermo c’è chi ha fatto di peggio con tecnici come Pioli esonerati addirittura prima dell’inizio del campionato ma quella in Sicilia resta forse la grande occasione perduta del tecnico veneto in una squadra che, al di là delle bizarrie di Zamparini, arriverà in quegli anni alle soglie della Champions League.

All’alba del 2000 gli appassionati di calcio ed in particolare di tattica si stavano passando una voce: quello di Glerean poteva diventare un modello di gioco completamente nuovo, alla stregua del 4-4-2 sacchiano o del 4-3-3 zemaniano. Complice la moglie olandese ed alcuni viaggi ad Amsterdam Ezio era passato spesso dalle parti del campo d’allenamento dell’Ajax ed aveva studiato un’idea di gioco, nata a Sandonà e perfezionata al Cittadella, assolutamente inedita per il calcio italiano. Era nato il 3-3-4, interpretazione estrema della zona che come detto aveva portato il piccolo Sandonà tra i professionisti ed il Cittadella per la prima volta in Serie B, con la piccola squadra in provincia di Padova capace di sbaragliare concorrenza anche più attrezzata nei play off, prima dalla C/2 alla C/1 e poi dalla C/1 alla B.

Le peculiarità di questo modulo sono state illustrate a grandi linee nel film: serve una difesa a tre con centrali bravi nel gioco aereo e nell’uno contro uno, tre mediani capaci di avere cuore e polmoni per correre a tutto campo e recuperare palloni, e soprattutto quattro attaccanti capaci di produrre un pressing continuo sul portatore di palla avversario, per non mandare in sofferenza gli altri reparti, e di dialogare fra loro con rapidi scambi di palla. Una ricetta avveniristica che ha dimostrato di funzionare nelle categorie inferiori, ma per Glerean è mancato il grande salto, l’allenatore-galantuomo che (caso più unico che raro nel calcio di oggi) non ha neanche un procuratore, non ha mai trovato il suo “uomo in più”, ovvero un presidente deciso a scommettere su di lui a grandi livelli, forse complice la lenta fine della rivoluzione della zona, iniziata oltre venti anni prima del miracolo-Sandonà e del 3-3-4, che ne resta ancora l’espressione più estrema, affascinante ed al momento ancora non del tutto esplorata. Oggi Glerean allena a Marostica, tra i dilettanti: la sua passione per cercare nuove formule e trovare un uomo in più in un calcio che sembra aver ormai già detto tutto non si è ancora spenta.

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Calciatori Gian Luca Mignogna

Il 6 giugno 1982 Vincenzo D’Amico salvò la Lazio dal baratro

di Gian Luca MIGNOGNA

Correva l’estate 1980, quando la Lazio fu ingiustamente ed inopinatamente sbattuta in Serie B dalla CAF, nell’ambito del primo processo sportivo sul calcioscommesse. Inopinatamente, perché in primo grado la società biancazzurra era stata prosciolta dalle accuse della Procura Federale. Ingiustamente, perché a livello sportivo non fu riscontrato alcun coinvolgimento diretto del Presidente Umberto Lenzini e/o di altri dirigenti societari ed a livello penale nel successivo processo risultarono tutti assolti con formula piena.

Fu un duro colpo per la prima squadra della capitale. Retrocessa sotto la scure della giustizia sportiva, con tutto il suo bagaglio di nobiltà. A soltanto sei anni di distanza dalla conquista del titolo di Campione d’Italia e con l’aggravante della squalifica dei gioielli di famiglia, Giordano e Manfredonia, su cui tutto l’ambiente contava per rinverdire in fretta i fasti del recente passato.

L’ambiente rimase totalmente sotto shock, soltanto chi visse quei momenti sa quel che provarono i veri laziali. La società non si perse d’animo, tuttavia, il Sor Umberto passò la mano al fratello Aldo ed intorno ad Alberto Bigon fu costruita una squadra in grado di risalire subito in Serie A. Nel 1980/81 la Lazio disputò un grande campionato, ma l’immediata promozione s’infranse alla penultima giornata su un maledettissimo palo centrato da Stefano Chiodi su rigore, al suo primo errore dal dischetto, in un Lazio-Vicenza che lasciò l’Olimpico letteralmente basito. Ma al peggio, si sa, non c’è mai fine.

Nella stagione successiva la Lazio si presentò ai nastri di partenza con rinnovate ambizioni di massima serie. Sotto la guida tecnica di Ilario Castagner, confermato nonostante la delusione della stagione precedente, e capitanata da un grande Vincenzo D’Amico, rientrato alla base dopo un anno di prestito al Torino, La Lazio cominciò il suo secondo anno di purgatorio cadetto in maniera abbastanza convincente e positiva. Cali di concentrazione, prestazioni indicibili ed uno spogliatoio perennemente in contrasto, però, allontanarono ben presto i biancazzurri dai sogni di gloria.

Fu così che pur partita con propositi ambiziosi, la Lazio si ritrovò suo malgrado invischiata nelle zone basse della classifica ed a dover lottare addirittura per non retrocedere. Tutto questo senza che società, squadra e tifoseria quasi se ne accorgessero. Noblesse oblige. Tutto l’universo biancazzurro visse quei momenti senza la giusta contezza e la dovuta consapevolezza. La mente era rivolta in parte al passato, alla sconcertante retrocessione subita “a tavolino” due anni prima ed alla cocente mancata promozione della stagione precedente. In parte al futuro, perché il campionato in corso frustrò ben presto ogni ambizione di Serie A e allora tutti cominciarono già a pensare alla rivalsa da prendersi l’anno successivo. Eppure c’era una competizione in corso e la classifica si faceva sempre più preoccupante. Per destare l’ambiente serviva una forte scossa, poi arrivata con l’esonero del pur bravo Castagner e l’affidamento della prima squadra a Roberto Clagluna, che frattanto stava ottenendo ottimi risultati con le giovanili.

Alla penultima giornata la situazione però si fece incredibilmente drammatica. Allo Stadio Olimpico si presentò il Varese, in piena lotta per la promozione. Mentre la Lazio, reduce da tre sconfitte consecutive, avrebbe dovuto assolutamente far propri match e punti per lasciarsi alle spalle la zona retrocessione. Dopo neanche un quarto d’ora, tuttavia, i varesotti si ritrovarono in vantaggio per 2-0. Per i biancazzurri d’improvviso il baratro della Serie C sembrò inevitabile. Fu a quel punto che un immenso Vincenzo D’Amico prese per mano la squadra, cominciò a lottare come un leone per la “sua” Lazio e da vera bandiera la condusse prima al pareggio e poi alla vittoria finale scacciaincubi.

Era il 6 giugno 1982. Quando oramai tutti sembravano rassegnati al peggio, salì in cattedra proprio lui, Vincenzo D’Amico, il Golden Boy della Banda ’74, che segnò una tripletta fenomenale, ribaltò una partita che sembrava segnata, assicurò la matematica salvezza alla Lazio e le consentì di gettare le basi per risorgere dalle ceneri in cui l’ingrato destino l’aveva gettata.

SERIE B 1981/82

ROMA, 6 GIUGNO 1982

37° TURNO: LAZIO-VARESE 3-2

MARCATORI: 6′ Turchetta, 14′ Bongiorni, 26′ D’Amico (R), 28′ D’Amico, 73′ D’Amico (R)

LAZIO: Moscatelli, Spinozzi, Chiarenza, Pochesci, Pighin, Sanguin, Vagheggi, Badiani, D’Amico, De Nadai, Surro (62′ Bigon).

ALLENATORE: Roberto Clagluna

VARESE: Rampulla, Vincenzi, Salvadè (78′ Palano), Strappa, Limido, Cerantola, Di Giovanni, Mauti (32′ Scaglia), Mastalli, Bongiorni, Turchetta.

ALLENATORE: Eugenio Fascetti

ARBITRO: Luigi Agnolin (Bassano del Grappa)

RISULTATI: Bari-Sambenedettese 0-0, Brescia-Cremonese 2-3, Catania-Cavese 4-1, LAZIO-VARESE 3-2, Lecce-Palermo 2-1, Pescara-Verona 0-0, Pistoiese-Pisa 0-0, Reggiana-Perugia 2-1, Sampdoria-Rimini 0-0, Spal-Foggia 0-1.

CLASSIFICA: Sampdoria e Verona 47; Pisa 46; Bari e Varese 44; Perugia 41; Palermo 40; Catania 38; LAZIO 37; Lecce, Reggiana, Sambenedettese 36; Cavese, Cremonese, Pistoiese 35; Foggia e Rimini 34; Brescia 30; Spal 28; Pescara 17.

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Club Enrico D'Amelio

La notte della Dea: Atalanta-Malines, dalla Serie B ad un passo dalla gloria europea

di Enrico D’AMELIO

Tutti gli appassionati di calcio italiani sanno che gli anni ’80 sono stati l’epoca d’oro del nostro football. Ogni tifoso, se chiude gli occhi e riavvolge il nastro della memoria, può rivedere di fronte a sé le stesse, gloriose immagini di allora. Il Milan degli olandesi, l’Inter tedesca dei record, il Napoli di Maradona o la Sampdoria di Vialli e Mancini. Squadre che hanno impresso il loro nome sui libri di storia, dopo aver trionfato a turno nelle più prestigiose competizioni europee. Campioni che, si dice, nascano una volta ogni 25 anni e che chissà quando si potranno mai rivedere. Tremerebbero i polsi (e non solo), se ci si dovesse confrontare con uno di questi squadroni e se la tua coppia d’attacco, invece di chiamarsi Van Basten-Gullit, rispondesse ai nomi di Cantarutti-Garlini e se le tue avversarie per un posto in paradiso non fossero gli squadroni sopra citati, ma la Lazio di Eugenio Fascetti o il Catanzaro di Vincenzo Guerini.

Invece, una volta ogni 25 anni, pressappoco, nasce una squadra che ha in sé qualcosa di magico, a prescindere dalla categoria e dal campionato che si trovi ad affrontare. Soltanto magica è l’aggettivo che potremmo affibbiare all’Atalanta della stagione 1987/88 e non potremmo trovarne altri, dal momento che la partecipazione alla Coppa delle Coppe era stata favorita dal Napoli di Ottavio Bianchi. Proprio quello del trio d’attacco Maradona-Giordano-Carnevale (Ma.Gi.Ca.), dopo la finale di Coppa Italia di qualche mese prima. Gli orobici, dopo una stagione deludente con Nedo Sonetti in panchina, sono precipitati nella serie cadetta, ma in città c’è grande entusiasmo per l’avventura europea che sta per iniziare con un allenatore che farà presto la storia di questo club: Emiliano Mondonico. Entusiasmante, ma non semplice, la stagione ormai imminente, visto che è sì affascinante giocare in Europa, ma l’obiettivo principale, per la società con uno dei migliori settori giovanili italiani, è quello del ritorno immediato nella massima serie.

Però, si sa, l’appetito vien mangiando, e dopo le non semplici qualificazioni contro i gallesi del Merthyr Tydfil ai Sedicesimi e i greci dell’Ofi agli ottavi, Stromberg e compagni si trovano tra le prime 8 del torneo a giocarsi un doppio e affascinante confronto contro i portoghesi dello Sporting Lisbona, già affrontato nella medesima competizione 24 anni prima. Parallelamente in campionato le cose vanno bene, anche se Catanzaro, Cremonese, Lecce e Lazio sono avversarie ostiche per il quarto posto utile a tornare in Serie A; fare una scelta tra le due competizioni, però, sarebbe un rischio troppo grande e un tradimento insopportabile per una tifoseria forse unica tra le provinciali.

Così, la terribile banda dei ragazzi di Mondonico, con tanto cuore e uno stadio memorabile, schianta l’avversaria portoghese per 2-0 nella gara d’andata, per poi controllare agevolmente la qualificazione al ritorno con un tranquillo 1-1. Tutto è perfetto. In quegli anni sembra che tutta Europa soffra le squadre italiane, a prescindere dai giocatori e dalle squadre che siano protagoniste. Piotti sembra Zoff, Osti e Pasciullo rappresentano una linea difensiva invalicabile, Bonacina corre per quattro a centrocampo, Daniele Fortunato in regia non ha rivali e Stromberg è il trascinatore svedese di una squadra che inizia a credere che il sogno possa davvero realizzarsi.

Purtroppo, però, non tutto va nel verso giusto, e una partita imperfetta in semifinale contro i belgi del Malines, poi vincitori della Coppa, dopo la finale con l’Ajax, risveglierà i nerazzurri da una splendida magia. La promozione in Serie A renderà comunque memorabile una stagione che a Bergamo ricordano ancora adesso. Con nostalgia mista a rabbia. Perché sarebbe giusto che ogni appassionato di calcio, oltre al Napoli di Maradona, al Milan di Sacchi, all’Inter di Matthaus e alla Sampdoria di Vialli e Mancini, ricordasse anche la magica Atalanta di Stromberg, Cantarutti, Garlini e Mondonico arrivata a un passo dal sogno.

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Calciatori Fabio Belli

Francesco Dell’Anno, una carriera vissuta con le scarpe slacciate

di Fabio BELLI

Quando nell’autunno del 1984 Juan Carlos Lorenzo fu chiamato al capezzale di una Lazio ormai in disarmo, il sergente di ferro argentino si scontrò subito con un calcio che non frequentava più da oltre 25 anni e che era cambiato enormemente, facendo diventare anacronistici i suoi metodi. Ma un vecchio lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio e passando in rassegna quella rosa così male assortita, tra un giudizio impietoso e l’altro, le uniche parole positive le riservò ad un giovane della Primavera aggregato al gruppo con altri Under 18. “Quel ragazzino è l’unico che può fare il calciatore in prospettiva, qui.” E visto come andò a finire quella stagione, si può dire che Lorenzo fece centro al primo colpo.

Il “ragazzino” si chiamava Francesco Dell’Anno, detto Ciccio, 17 anni anni appena compiuti in quel 1984 a tinte decisamente orwelliane per la Lazio. Non poté far nulla per evitare il naufragio biancoceleste che portò all’ultima retrocessione in ordine di tempo per il più antico sodalizio calcistico capitolino. Ma i lampi di pura classe che dispensò, a partire dall’esordio assoluto nella sfida vinta contro la Cremonese, riempirono di speranza i tifosi che pure si ostinavano a riempire l’Olimpico in quell’annata così sofferta. Quando all’ultima giornata di campionato, a discesa in cadetteria già consumata, con un gioco di gambe finta e controfinta mise a sedere addirittura Le Roi, Michel Platini, i supportes laziali pensarono che da quella rovinosa caduta stava pur nascendo una stella.

Ma fu il carattere a tradire il giovane Dell’Anno, come troppo spesso accade alle promesse prive di una guida salda dentro e fuori dal campo. Quando in quella stessa stagione un compagno di squadra più anziano lo sgridò pesantemente perché si presentò al campo di allenamento di Tor di Quinto in fuoriserie, un altro provò a prendere le difese del ragazzo che in fondo, con i suoi soldi, poteva fare quello che voleva. Il punto era un altro però, spiegò il più severo dei due: a 17 anni e senza patente non si può proprio guidare l’automobile, altro che fuoriserie! Ragazze, vita notturna, divertimenti vari fecero il resto, e della classe cristallina di Dell’Anno rimasero solo dei lampi abbaglianti e molto occasionali in Serie B tra Arezzo, Taranto e Udine.

Proprio con la maglia dell’Udinese però riconquistò la massima serie e, nella stagione 1992/93, a suon di prodezze regalò ai friulani una salvezza che mancava da 7 anni, dopo le due retrocessioni del 1987 e del 1990. Numeri di classe sopraffina per un calciatore che ormai, a quasi 26 anni, era additato come inaffidabile e quasi perduto. La sorpresa arrivò con l’offerta dell’Inter che, nell’anno dell’epocale passaggio di consegne tra Ernesto Pellegrini e Massimo Moratti, decise di puntare anche sul talento ribelle di Dell’Anno per costruire una squadra in grado di divertire i tifosi. E, pur con i suoi fisiologici alti e bassi, i colpi di genio di Ciccio deliziano San Siro, con l’Inter che, come a volersi mantenere in linea con la sua schizofrenia calcistica, nella stagione successiva trionfò in Europa in Coppa UEFA ma arrivò per la prima volta a sfiorare la Serie B in campionato. Gli ultimi scampoli importanti di carriera Dell’Anno li ha vissuti a Ravenna, in B, dove c’è chi giura di averlo visto giocare con le scarpe slacciate. Salutò la Romagna dopo aver collezionato il suo massimo bottino di gol con una sola squadra, 23, prima di chiudere la carriera alla Ternana.

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Alessandro Iacobelli Club

Napoli 2000/01: storia di un paradosso sportivo, la B prima di riveder le stelle

di Alessandro IACOBELLI

Precipitare nelle tenebre del calcio. Sì, a Napoli hanno visto anche questo. Parlarne oggi fa un certo effetto. A venti anni di distanza, all’ombra del Vesuvio, la voragine è davvero impressionante. L’era De Laurentiis ha portato la calda piazza partenopea nel gotha del pallone italiano con ottima vista sui grandi palcoscenici europei.
All’alba del millennio però la terra di San Gennaro ha visto l’inferno sportivo ad occhi aperti. Gestioni discutibili e scellerate all’insegna di un’esposizione debitoria milionaria. La stagione 2000-2001 doveva essere quella del rilancio ed invece si è rivelata la prima tappa di una morte ormai annunciata. L’annata del riscatto! Uno slogan che risuona dopo la cavalcata in B con il quarto posto e la risalita nella massima serie. Novellino in panchina e bomber Schwoch stella in attacco. Quarto posto, 63 punti e tanto entusiasmo. Il popolo azzurro ritrova dunque euforia e nuove apparenti certezze. In estate però gli equilibri dirigenziali mutano in rapida successione senza trovare un porto sicuro. Il ritorno di Corrado Ferlaino, dopo un breve interregno del tridente Gallo-Moxedano-Setten, dura solo qualche anno. All’orizzonte appare Gorgio Corbelli, dominatore delle televendite, che acquista per 100 miliardi il 50% delle quote societarie.
Chi sarà l’uomo del rilancio? Il tandem Corbelli-Ferlaino risponde al dilemma ingaggiando per la guida tecnica Zdenek Zeman. Campagna acquisti contesa tra due fuochi al timone. Fior di quattrini per una miriade confusionaria di acquisti. Meteore del calibro di Rabiu Afolabi, Abdelilah Saber, Claudio Husain e Damir Stojak. Quiroga e Vidigal provenienti dallo Sporting Lisbona. Per la regia si punta su Pecchia dalla Juventus. Dall’Inter, a parametro zero, giunge Moriero. Per la fascia sinistra fari accesi sul giovane Jankulovski. In avanti Sesa a supporto dei confermati Nicola Amoruso, Stellone e il brevilineo Bellucci. Mancini e Coppola si scambiano il testimone tra i pali.

Si parte il 30 settembre. Un “San Paolo” gremito e bollente di passione accoglie la Juventus. Stellone illude. Del Piero e Kovacevic ristabiliscono il pronostico della vigilia. Zemanlandia non decolla, anzi affonda. Due punti in sei partite. Il Bologna maramaldeggia sul prato azzurro con un 5-1 catastrofico. Coppola e la retroguardia fanno acqua da tutte le parti. A Perugia si materializza l’ultima malinconica tappa della gestione boema.

La società chiama Emiliano Mondonico per salvare il Titanic partenopeo. Un uomo buono, pacato e sagace come allenatore. Indubbie qualità che però non bastano per compiere il miracolo. Nel mercato invernale arriva il colpo Edmundo, asso brasiliano con piedi fantasmagorici ma testa rivolta a ludici pensieri. L’epilogo di Firenze è lo specchio di una immensa tristezza. Magoni e compagni archiviano il campionato al penultimo posto con 36 punti all’attivo.
Tre anni di limbo in B e poi l’addio. Corbelli viene arrestato per uno scandalo legato alle televendite, mentre Ferlaino cede il passo in luogo dell’albergatore Naldi. Nell’agosto del 2004 la settima sezione del Tribunale Civile del capoluogo campano annuncia il fallimento della Società Sportiva Calcio Napoli con quasi 80 milioni di debiti.
Il resto è storia contemporanea. Il Napoli Soccer fondato da De Laurentiis con Pier Paolo Marino Direttore Generale. Dalla C1 alla Serie A in quattro stagioni. A Posillipo c’è di nuovo il sole.

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Alessandro Iacobelli Club

Romanzo Granata: la storica promozione della Salernitana in Serie A

di Alessandro IACOBELLI

Il calcio, in terra campana, è qualcosa che si avvicina al culto religioso. L’amore per lo sport più bello del mondo coinvolge anche Salerno. La città che, nel Medioevo, fu capitale del principato Longobardo, mantiene un rapporto strettissimo con il rettangolo vede. La Salernitana è come una figlia per il genitore medio.

Il punto più alto nella storia del sodalizio granata coincide senza ombra di dubbio con le due promozioni in Serie A distanti ben mezzo secolo. In principio fu la truppa guidata da Gipo Viani a varcare la soglia del paradiso nel 1948. L’artefice del bis, amato dalla folla, è invece Delio Rossi.

Sul golfo del Mar Tirreno, il tecnico nativo di Rimini è apprezzato e coccolato. Il suo ritorno, per la stagione 1997-1998, rianima il sangue caloroso della tifoseria. Nel 4-3-3 in salsa zemaniana i fuochi d’artificio non mancano. Tosto, Breda, Artistico e il giovane prodigio Marco Di Vaio sono interpreti adatti per l’attuazione di una mentalità offensiva. Adesso sognare si può.

Si comincia il 31 agosto allo stadio ‘Arechi’ contro il Verona. L’esordio con successo all’inglese è un dolce antipasto. Due pareggi consecutivi in trasferta, con Treviso e Chievo Verona, non destabilizzano le certezze. Alla quarta giornata i granata servono il poker ai danni della Reggiana. Di Vaio (doppietta), Ricchetti e capitan Breda annichiliscono gli avversari.

Il mese di ottobre si rivela strepitoso. In sequenza patiscono Perugia, Castel di Sangro e Pescara. Preziosissimo il pari strappato in quel di Cagliari. Fredda e concreta la squadra campana nella vittoria di misura sul Ravenna ad opera di Giacomo Tedesco. La trasferta di Ancona si trasforma in una giostra impazzita del gol. Termina 3-3. Doppio svantaggio rimontato dagli acuti di Marco Di Vaio. Nuova fuga locale frantumata da Artistico sul filo di lana.

Alle soglie del Natale i ragazzi di mister Rossi fanno visita al Venezia per lo scontro diretto al vertice della graduatoria. Di Vaio (doppietta) e Greco fanno la voce grossa. La Salernitana mette la freccia e balza in testa. La prima sconfitta giunge il 18 gennaio 1998 a Foggia, ma la solidità dell’ambiente trova conferma negli applausi dei sostenitori nel post-gara. Il girone di andata va in archivio con un pareggio casalingo contro la Fidelis Andria. Balli e soci condividono la vetta della classifica con il Venezia di Walter Novellino.

Il tragitto di ritorno è una meraviglia. Al ‘Bentegodi’ il Verona soccombe ancora per 2-0. La matricola Treviso viene umiliata con quattro colpi. Il pirotecnico scivolone con il Chievo Verona non preoccupa. Il 22 febbraio il blitz di misura sulla Reggiana spinge il contingente granata all’apoteosi. Al ‘Curi’ con il Perugia Di Cesare equilibra i conti quasi allo scadere. Ricchetti regola la pratica Castel di Sangro. Di Vaio, una settimana dopo, sbaglia un penalty a Pescara. Il pareggio è comunque salutare. L’incornata di Tosto dona la supremazia nei confronti della concorrente diretta, ovvero il Cagliari.

Le ultime pagine del romanzo granata sono liete e spensierate. La rete di Di Vaio si oppone alle pretese del Genoa. Il giorno della storia è arrivato: domenica 10 maggio 1998. Lo stadio ‘Arechi’ luccica con gli spalti presi d’assalto. Il match è di cartello contro il Venezia. La terribile frana che in quei giorni mette in ginocchio le popolazioni di Sarno ed altri paesi limitrofi, ordina sobrietà nel tripudio. Culmina 0-0 l’incontro. La sfilata del delirio collettivo può compiersi. La Salernitana è in Serie A. Mister Delio Rossi ed il Presidente Aniello Aliberti sono gli artefici del capolavoro. Una società decorata dalla ciliegina sulla torta; il Direttore Generale Pietro Mennea. Una città stupenda con il calcio nelle vene si gode il sogno diventato realtà.

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Calciatori Enrico D'Amelio

Totò Di Natale, ovvero: dei treni da prendere e di quelli da lasciar passare

di Enrico D’Amelio

Il quartiere 219 di Pomigliano d’Arco è un luogo che opprime gli adulti e fa sognare i bambini. Padri impegnati dalla mattina alla sera a lavorare in uno dei poli industriali più famosi del Mezzogiorno, e figli che corrono dietro a un pallone nella speranza di un futuro lontano da umiliazioni e incertezze, da stenti e rassegnazione. Come per i fiori che sbocciano in primavera, però, anche il talento degli uomini, per formarsi ed emergere, ha bisogno del suo habitat naturale. Se alla Napoli di fine anni ’80 si sostituisce la tranquilla provincia toscana, un ragazzo cresciuto sotto il mito di Maradona può sbocciare ugualmente, ma probabilmente più in là nel tempo. Perché la luce del fiore che sembrava prodigio può essersi temporaneamente offuscata. In quel quartiere nasce Antonio Di Natale. Lì inizia a giocare a calcio, lì comincia la sua storia.

Notato dal talent-scout Lorenzo D’Amato alla Scuola Calcio San Nicola a Castello di Cisterna, lascia la terra d’origine nel 1990, a soli 13 anni, per trasferirsi ad Empoli. Dal gioco al professionismo, con la storia che diventa viaggio. Il treno della vita, che si dice passi una sola volta, viene preso, anche se non a cuor leggero. A 500 km da casa iniziano le nostalgie e le profonde crisi interiori, figlie della lontananza da papà Salvatore e mamma Giovanna, ma soprattutto dai quattro fratelli (il più piccolo chiamato affettuosamente ‘Masaniello’) e dalla sorella Anna. Nonostante la classe superiore a quella dei coetanei, Totò vorrebbe mollar tutto e fare ritorno a casa, per vivere una vita forse più difficile, ma certamente più normale, almeno per un adolescente. Viene convinto dal ‘fratello maggiore’ Vincenzo Montella (uno dei partenopei trasferitisi in Toscana, come Nicola Caccia e Francesco Lodi) a stringere i denti e ad andare avanti. Così succede che il viaggio prosegue, anche se con qualche sosta di rito, come tutti quelli da compiere nel nostro paese. Nessun esordio precoce in Serie A, ma due anni a fare esperienza tra la provincia di Bologna (Iperzola) e Viareggio, prima del ritorno a Empoli nel 1999, ad ormai 22 anni. Tre stagioni in Serie B, con la prima annata in doppia cifra (16 gol nel 2001/02) che coincide con la promozione nella massima serie. Il debutto nel grande calcio arriva a 25 anni. Un po’ tardi per chi poteva già essere su altri palcoscenici, ma a fare la differenza a certi livelli non sono solo i mezzi tecnici, ma quelli interiori. Una vita da atleta irreprensibile e il matrimonio con Ilenia, oltre ad una fisiologica maturazione anagrafica, consentono una conferma anche nella categoria maggiore, con 13 marcature e l’esordio nella Nazionale allenata da Giovanni Trapattoni, in un’amichevole contro la Turchia.

A 27 anni il treno riparte e porta ancor più lontano, questa volta nel luogo della maturità e della definitiva consacrazione: Udine. Nulla di più agli antipodi per uno nato nell’hinterland napoletano, ma un posto forse freddo e discreto nel modo giusto per non far implodere un fiore dal cuore troppo caldo. La prima parentesi, con Luciano Spalletti in panchina, è memorabile a livello di squadra, con la qualificazione ai preliminari di Champions League (prima volta per la società bianconera), ma meno per quel che riguarda l’impatto personale, costellato da 7 segnature in 33 presenze. Diventano 8 i gol nella stagione successiva, fino a una doppia cifra raggiunta con stabilità per tre campionati consecutivi (11, 17 e 12). I compagni di squadra cambiano, come nella politica della famiglia Pozzo, ma Totò diventa sempre più un punto di riferimento, tanto che arrivano la maglia numero 10 e la fascia di Capitano. E’ nel 2009/10, a 32 anni, quando un calciatore ha già dato il meglio del suo repertorio, che il fiore sboccia del tutto, con 29 gol in 35 presenze, e le prime attenzioni dei club più importanti del nostro calcio (Juventus e Milan su tutti) a metterne in dubbio il futuro in Friuli. Un’altra scelta da fare, a distanza di quasi 20 anni, questa volta a livello professionale: essere una Bandiera della società friulana, o giocarsi le proprie carte in un top club, con una carriera sicuramente più breve, e anche più marginale? Un attento esame interiore spinge verso la scelta meno ambiziosa, ma probabilmente più saggia, se guardata a posteriori. Il Capitano diventa il giocatore più prolifico di sempre in maglia bianconera, oltre che quello con più gettoni di presenza in tutte le competizioni. Non più Zico, dunque, protagonista di due fugaci stagioni a Udine nella metà degli anni ’80, ma Di Natale al primo posto nell’immaginario collettivo friulano, con il recente sorpasso su Roberto Baggio nella classifica dei cannonieri di tutti i tempi della Serie A.

Il viaggio parallelo, quello con la maglia azzurra, è fatto di alcune soddisfazioni, ma non perdona i troppi ritardi accumulati. Più tranquillo e a proprio agio nelle gare di qualificazione, che non nella pressione del Grande Evento. Non convocato per il Mondiale del 2006, dove invece si laurea Campione del Mondo il compagno di squadra Vincenzo Iaquinta, e protagonista di una Nazionale scarica dal trionfo precedente, con le magre figure agli Europei del 2008 e al Mondiale in Sudafrica del 2010. Il vuoto lasciato dagli addii di Totti e Del Piero non viene colmato, un po’ per un carattere non allenato ai grandissimi palcoscenici, un po’ per un movimento calcistico che ha oramai perso la generazione migliore. Nel primo biennio di Prandelli, però, passa l’ennesimo treno da prendere al volo, con l’orgoglio ferito italiano che tenta il canto del cigno agli Europei del 2012 in Ucraina. Un gol a Casillas nella prima gara del girone ai pluricampioni spagnoli dà l’illusione di un finale diverso, con un trofeo finalmente da poter conquistare. Sempre contro gli iberici, però, arriva la delusione della medaglia d’argento con un sonoro 4-0 in finale, e l’ultima presenza con la seconda maglia più amata di sempre.

L’ultima parte della storia è tutta da scrivere, e quella del viaggio ancora da percorrere. Un inizio, un tragitto, una fine. Tanta strada battuta, per ritornare, come spesso capita ad ogni ‘Eroe’, al punto di partenza. Forse proprio lì, al 219 di Pomigliano d’Arco, ad osservare altri bambini che giocano, vincono e perdono, ancora nel mito immortale di Diego. Oppure, più probabilmente, nella quiete friulana. Nella speranza che i ragazzi di quella terra abbiano acquisito un esempio da raggiungere e un idolo da emulare. Non con la maglia di Juventus, Milan o Inter, ma, finalmente, con quella dell’Udinese. Questa sarà la definitiva consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Sui treni presi al momento giusto, e su quelli che è stato saggio lasciar passare.

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Calciatori Marco Piccinelli

Re Giorgio Corona e gli altri decani del calcio professionistico

di Marco Piccinelli

(tratto dalla Gazzetta del Lazio di venerdì 6 febbraio 2015)

In Lega Pro, nel girone della Lupa Roma, sono presenti i giallorossi del Messina, annaspando tra playout e salvezza.
La stagione non è certo facile e il girone unico non aiuta le squadre che si sono lasciate da poco alle spalle l’ultimo scoglio del dilettantismo italiano: la Lupa Roma, dopo un avvio costellato di vittorie e pareggi contro squadre ben più blasonate, si trova ora a metà della classifica seguita a un poco confortante +2 dal Messina.
Perché dovrebbe interessare una squadra siciliana al lettore di un periodico che è rintracciabile nelle edicole di Roma e del Lazio e che, non a caso, si chiama ‘La Gazzetta del Lazio’?
Perché in realtà parlare del Messina è un pretesto per scrivere di uno dei simboli della rinascita della squadra, dopo essere piombata dalla massima serie alla Serie D: si tratta di Giorgio Corona.
Attaccante, soprannominato ‘Re Giorgio’, non si è fatto molto benvolere – a dirla tutta – dal pubblico romano: nella sua lunga carriera, ancora in corso, ha vestito la maglia della Juve Stabia e il gol del 2 a 0 contro l’Atletico Roma – precisamente all’88’ – ha bruciato per non poco tempo sulla pelle dei tifosi capitolini, sebbene di lì a poco la compagine bianco blu sarebbe fallita e avrebbe cessato di esistere.
Tuttavia, Giorgio Corona ha una notevole carriera alle spalle, anche se qualcuno potrebbe obiettare che non ha mai vestito la maglia della Nazionale, né si è mai distinto per un così alto numero di reti in serie A (solo sette e con la maglia del Catania).

E’ vero: non ha mai alzato Coppe del Mondo né analoghi trofei per club ma i suoi gol sono più importanti sono quelli segnati negli ultimi anni con la maglia del Messina e, dunque, non in Serie A.
Dopo essere tornato al Taranto, concluso il periodo di prestito alla Juve Stabia, decide di rescindere il contratto coi pugliesi e di andare a giocare nella squadra peloritana.
 Corona torna a militare nel Messina nel periodo peggiore e dopo dodici anni che non indossava quella divisa: i giallorossi sono stati appena scaraventati in Serie D con quattro punti di penalizzazione, ma a ‘Re Giorgio’ non importa molto e, anzi, si carica la squadra sulle spalle traghettandola fino ai playoff.
 Nella stagione 2011/2012 il Messina verrà fermato alle fasi eliminatorie dei playoff e alla squadra siciliana sarebbe successivamente toccata un’altra stagione in serie D, così come stava analogamente succedendo al Venezia, fermata dal 3 a 2 contro il Sandonà Jesolo nella seconda stagione in D nel girone C degli arancioneroverdi. 
L’attaccante, nella stagione di ritorno al Messina e alla serie D, disputerà 34 presenze e collezionando 16 centri.

L’anno dopo sarà quello dello scontro con ‘l’altro Messina’ (il ‘Città di Messina’) tra le cui fila militava anche quel Saraniti che ora veste la casacca della Viterbese Castrense: nella stagione 2012/2013 le presenze saranno 33 e i gol 17. L’anno è quello buono e il Messina compie il grande balzo approdando, nuovamente, al professionismo. Facilmente si sarebbe potuto pensare come le strade di Re Giorgio e quelle del Messina fossero destinate a separarsi. Neanche per sogno: a 39 anni gioca per altre 34 partite e mette a segno 11 gol.
Finita? Nient’affatto: nella stagione attuale, a quarant’anni, l’attaccante palermitano ha fatto gol per 7 volte in venti presenze. E il campionato non è ancora terminato.

Questa storia può, senza dubbio, far tornare alla mente qualche altro calciatore che ha appeso gli scarpini al chiodo solo una volta arrivato agli ‘–anta’: Hubner, Vierchowod, Zoff, Oliveira sono solo alcuni esempi.
Dino Zoff, arrivato ai quarant’anni, indossava ancora la maglia della Nazionale mentre Vierchowod contribuiva alle due salvezze del Piacenza tra il 1997 e il 1999; dall’altra parte Hubner, dopo aver militato in Brescia e Piacenza, torna in C1 nel Mantova di Poggi per poi concludere la carriera a 44 anni a Cavenago d’Adda (Prima Categoria bresciana).
C’è, poi, Luis Airton Barroso Oliveira, il brasiliano naturalizzato belga che, dopo aver vestito le maglie di Cagliari e Fiorentina in Serie A, gioca con il Foggia, con il Catania e infine con Venezia e Lucchese.
Lulù, così come lo chiamavano i tifosi della Fiorentina, torna per due anni in Sardegna con la neo promossa Nuorese e finisce la carriera vestendo i colori del Muravera di cui, ora, è allenatore.

Un percorso analogo, infine, l’ha intrapreso Marco Ballotta, il quale è volutamente posto alla fine di questo scritto, perché la sua carriera, a poco più di cinquant’anni, è ancora ‘in fieri’ e fa da contraltare a quella di ‘Re Giorgio’: dopo aver abbandonato la Lazio nel 2008 (43 anni, età in cui stabilisce il primato di calciatore più anziano ad aver mai disputato una partita di Champions League) disputerà un intero campionato come centravanti al Calcara Samoggia centrando 24 reti in 37 presenze. Ma non è tutto, anzi, è solo l’inizio: dopo aver rescisso il contratto con i biancocelesti è iniziata, se è consentito a chi scrive, la seconda vita di Ballotta in cui non c’è soltanto la difesa dei pali della propria squadra, ma anche la messa a segno di gol, posizionandosi in ruoli che lo vedono nella trequarti di campo.
Nel 2011, dopo due stagioni con il Calcara Samoggia, approda al San Cesario, dividendosi fra porta e attacco, così come tornerà a fare tra 2012 e 2014 – nuovamente – al Calcara. Sembra finita e Ballotta decide di assumersi l’incarico da dirigente del settore giovanile della neopromossa Castelvetro (Eccellenza Emiliana) ma vuole tornare fra i pali e ora è il primo portiere, a cinquant’anni e dieci mesi, della compagine modenese.

 

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Calciatori Fabio Belli

Antonio Elia Acerbis: quando il silenzio (era) d’oro

di Fabio Belli

Quanti problemi irrisolti affogano in un mare di inutili parole, direbbe chi si intende di versi e versacci. Antonio Elia Acerbis, portatore d’acqua del calcio anni ’80 dalle invidiabili doti di spinta, forse potenzialmente capace di una carriera anche superiore a quella poi effettivamente vissuta, la pensava proprio così. Impossibile da immaginare oggi, in un calcio in cui la logorrea è il principale difetto di tanti artisti dell’arte pedatoria.

Eppure Acerbis era solito presentarsi in conferenza stampa ad inizio stagione, all’arrivo in un nuovo club. Chiacchierata scolastica, in cui il nostro snocciolava dati più che altro statistici, spigolabili ad una buona osservazione dall’album Panini. Dopodiché, salutava con deferenza e se ne andava per non ripresentarsi più davanti ai microfoni. “Quello che dovevate sapere di me lo sapete, d’ora in poi non parlerò più.”

Schermata 2014-02-25 alle 00.07.08Quando nel 1986 Eugenio Fascetti lo volle a Roma nella pazza Lazio del -9, le sue parole destavano un certo scalpore. Non c’è piazza che vive di chiacchiere più di quella romana, e la Lazio anche se in B non faceva eccezione in quegli anni, anzi le turbolente vicissitudini del club in quegli anni ne facevano un bersaglio perfetto per il microscopio dei giornalisti. Acerbis decise di sottrarsi non solo a quel gioco al massacro, ma a ogni gioco in generale. La stressante piazza capitolina, gonfia di radio, tv private e riviste specializzate, oltre ai canonici canali di comunicazione, inizialmente non la prese bene, ma questo non impedì al soldatino Acerbis di diventare uno degli eroi del -9, evitando alla squadra dell’allora presidente Gianmarco Calleri la discesa in C, e come probabile conseguenza, il fallimento. In seguito, arrivarono la promozione in A e la prima vera stagione nel massimo campionato di Acerbis, bagnata dalla salvezza.

Idolo dei tifosi non tanto per la tecnica quanto per il suo temperamento, durante un derby, venne acclamato dalla Curva Nord per una sfida all’ok corral col capitano giallorosso Giannini. Il numero dieci della Roma si ritrovò a battibeccare con un altro dieci, dotato non di altrettanti piedi nobili, ma di grinta da vendere. Un faccia a faccia che contribuì alla sua popolarità, ma non gli fece tornare la voglia di chiacchierare con la stampa. Perché il nostro non parlasse, è presto detto: nelle precedenti esperienze a Varese e Bari, si ritrovò sbattuto in prima pagina con dichiarazioni mai rilasciate. Capitava, allora più di ora, ma il carattere particolare del giocatore lo vide inscenare di conseguenza un silenzio stampa solitario e ininterrotto.

Nacquero leggende e prese in giro, riviste laziali immaginavano fantasiosi racconti che lo vedevano, afono, riacquistare magicamente la voce sciogliendosi in lacrime dopo il ritorno della Lazio alla vittoria nel derby del 1989. Altri sfottevano, scrivendo di masse disperate e smarrite perché “Acerbis non voleva parlare.” Lui, ragazzo schivo, non capiva il perché di tanta confusione, finché al terzo anno di Lazio comprese probabilmente che a Roma tutto era amplificato all’ennesima potenza, e se ne fece una ragione. Dopo l’ultima esperienza in A al Verona, sempre con Fascetti, le leggende metropolitane lo volevano in esilio volontario e dorato alle Seychelles, a gestire un’autoconcessionaria.

Personaggio fuori dagli schemi, per raccontare Acerbis è poi necessaria un’appendice. Visto che alle Seychelles c’era andato solo in vacanza, con il legame con le isole giustificato dalle origini della moglie. In realtà, è rimasto nella natìa Milano a giocare tra i dilettanti fino al tramonto del secolo scorso. E venne fuori da una lunga intervista al quotidiano “Libero” che gli era tornata di botto la voglia di parlare. E giù aneddoti su Prytz, che a Verona regalava soldi come caramelle all’allegro mantra, in italiano con accento nordico, “cazzo frega a me!”. E su Fascetti, ovviamente, che dal ritiro telefonava a casa sua a Milano per controllarlo, e lui rispondeva come niente fosse, beccandosi gli insulti del focoso Eugenio. Stai a vedere che il silente portatore d’acqua aveva nascosti i geni sregolati del calcio champagne: magari lo racconterà lui stesso. Sempre se ne avrà voglia.

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Calciatori Fabio Belli

Paolo Rossi: il destino di essere “Hombre del Partido”

di Fabio Belli

Cosa si prova quando al termine di una salita impossibile, sfinente, infinita, il corridore o il ciclista sentono ridursi la resistenza dei pedali, vedono la discesa e capiscono di avercela fatta? E’ un cerchio che si chiude, un destino che si compie, una vittoria che si registra negli annali di una vita. In quel torrido pomeriggio di luglio del 1982, Paolo Rossi non sa ancora di essere diventato “Pablito“. Tutta la Nazionale azzurra è ancora inferocita dalle critiche subite, dopo una prima fase disastrosa: quando però, dopo aver domato la Polonia grazie ad una sua doppietta, Rossi alza gli occhi al cielo, e vede il tabellone luminoso del Camp Nou di Barcellona che lo proclama “El Hombre del Partido“, capisce che il coronamento di una carriera è arrivato prima ancora della finalissima contro la Germania Ovest. Che pure sarà sbloccata da un suo gol, giusto viatico per l’ormai inevitabile trionfo.

1982 World Cup Final. Madrid, Spain. 11th July, 1982. Italy 3 v West Germany 1. Italy's Paolo Rossi celebrates after scoring the opening goal in the World Cup Final.“El Hombre del Partido” Pablito lo è già diventato dopo la pazzesca tripletta a quello che ancora da moltissimi amanti del calcio viene considerato il più forte Brasile di tutti i tempi, senza nulla togliere alle altre cinque squadre che resero i verdeoro pentacampioni. Ma Zico, Falcao, Socrates, Eder, Cerezo, Junior, solo per citare i più celebri, facevano spavento. Eppure si inchinarono di fronte a quello scricciolo che sapeva sempre prima dove sarebbe andato a finire il pallone, e che prima di quel match, nel quale ai brasiliani pure sarebbe bastato un pari per raggiungere la semifinale, non aveva praticamente toccato palla.

Quello che Zico e compagni non sapevano è che Rossi la sua leggenda l’aveva già costruita passando indenne ad un un numero impressionante di disavventure. Non tutti sanno che uno dei migliori opportunisti d’area di ogni tempo del calcio italiano, a diciassette anni era in realtà un prospetto dalla tecnica finissima, pronto a raccogliere alla fine degli anni settanta l’eredità della tradizione delle grandi ali destre italiane, tramandata in quegli anni da Franco Causio e Claudio Sala. Una tecnica sopraffina ed una velocità palla al piede impressionanti, spezzatesi però nel settore giovanile della Juventus a causa di tre operazioni al menisco.

Rossi finisce al Vicenza, in molti sono pronti a scommettere che la sua carriera non decollerà più, ma la svolta arriva dall’intuizione di Giovan Battista Fabbri, l’artefice di quello che sarà conosciuto come il Real Vicenza. Gibì si trova una gatta da pelare quando Sandro Vitali, centravanti biancorosso nel 1977, lascia basiti tutti scappando di notte dal ritiro di Rovereto, ormai a fine carriera e allergico alla disciplina della preparazione estiva. Fabbri sposta Rossi a centro area, a raccogliere tutti i palloni che può, ed il Vicenza domina il campionato di Serie B, con 21 gol di Rossi che si ripete nella stagione 1977/78, capocannoniere in un massimo campionato che vedrà il club veneto ottenere, con il secondo posto finale, il suo miglior piazzamento di sempre.

Per Rossi si spalancano le porte del Mundial argentino del 1978, ma non quelle del ritorno alla Juventus, che sembrava ormai prossimo. Alle buste, il presidente del Vicenza Farina lo riscatta per 2 miliardi, 612 milioni e 510 mila lire, una cifra record per l’epoca che lascia tutti sbalorditi, e che non serve ai biancorossi per evitare la retrocessione dopo il campionato dei miracoli. Rossi passa al Perugia, quindi resta invischiato nello scandalo del calcioscommesse. Assieme a quelli di Giordano e Manfredonia, il suo è il nome più noto, sfumano gli Europei in Italia del 1980, in molti tornano a parlare di carriera finita.

Ma i progetti del destino a volte sono imperscrutabili. Scontata la squalifica, Rossi passa davvero alla Juventus, ma sembra l’ombra di sé stesso. Come Fabbri dopo gli infortuni di gioventù, è un allenatore a credere in lui e nella sua precaria condizione fisica. Enzo Bearzot lo porta comunque in Spagna, insiste su Rossi titolare anche dopo le prime prestazioni sconcertanti, e poi finalmente i gol: 3 al Brasile, 2 alla Polonia, 1 alla Germania, e mani sul Mondiale, 44 anni dopo l’ultimo trionfo azzurro. Ma Rossi, divenuto “Pablito” a furor di popolo, e a Natale del 1982 Pallone d’Oro per acclamazione, questo lo sapeva già a Barcellona, quando la scritta lampeggiante del Camp Nou aveva segnato la fine delle eterne montagne russe della sua carriera.

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Andrea Rapino Club Presidenti

Ezio Angelucci, il presidente che incoraggiava i calciatori citando Dante

di Andrea Rapino

Potrebbe essere definito un Rozzi o un Anconetani delle serie minori: dieci anni fa Lanciano, che oggi guida a sorpresa la classifica della serie B, perdeva il suo storico presidente, Ezio Angelucci. Classe 1933, Angelucci fu a capo del club per circa dieci anni, prima dal 1983 al 1987 e poi dal 1997 al 2003. Legò il suo nome a ben quattro campionati vinti, dallo storico spareggio per la C2 contro il Chieti nel 1986, fino al ritorno nella terza serie nazionale nel 2001, a distanza di 53 anni dall’ultima apparizione dei rossoneri in Serie C.

galleryIn bacheca Angelucci mise anche una Coppa Italia regionale nel 1998 e lo scudetto dilettanti nella stagione seguente. Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, a risaltare furono soprattutto i messaggi di cordoglio che arrivarono dalle tifoserie solitamente nemiche di quella lancianese, che nei forum abitualmente frequentati dagli ultras scalzarono le minacce e le offese. Striscioni vennero esposti in diverse curve: i supporters della Sambenedettese ad esempio si presentarono al “Biondi” con un «Ieri il calcio vero di Angelucci, oggi i loschi affari di Gaucci». Fu un personaggio unanimemente stimato, insomma, legato a un pallone fatto di passione e di attaccamento al territorio. Il suo sogno era bissare il “miracolo Castel di Sangro” in Abruzzo: ci andò vicino con i play off per la B conquistati nel 2001-2002.

La competenza per le questioni strettamente tecniche non gli faceva difetto: Ezio Angelucci era uno che di calcio ne capiva, seguiva la squadra in casa e in trasferta, osservava attentamente allenamenti e amichevoli estive. Gli piaceva rievocare come da giovane amasse cimentarsi tra i pali, e spesso scherzava sugli occhiali che gli avevano impedito di giocare nella Lazio, squadra per la quale simpatizzava negli anni in cui aveva vissuto a Roma. Ironia della sorte, tra tante scelte impeccabili, scivolò proprio su un portiere che volle fortemente in prima persona! Nell’estate del 2002 visionò alcuni filmati del compianto Alejandro Gustavo Mulet, estremo difensore argentino ex Banfield, che nel 2006 sarà stroncato a soli 37 anni su un campo di calcio da un infarto. Angelucci era convinto che Mulet fosse l’uomo giusto per ritentare la corsa verso i play off, ma il guardameta infilò l’annata storta. Presto l’allenatore Fabrizio Castori cominciò a preferirgli Gabriele Paoletti, in quel periodo diventato famoso suo malgrado perché nel “gioco” delle plusvalenze la Roma lo aveva valutato 22 milioni di euro.

Oltre che uomo di calcio e imprenditore, Ezio Angelucci fu anche uomo di cultura non indifferente, grande appassionato di letteratura e di pittura. Luca Leone, capitano dei successi dell’Angelucci bis e oggi direttore sportivo della Virtus Lanciano, in un’intervista del febbraio 2012 al settimanale Lancianosport, raccontò di quando «una volta venne nello spogliatoio dopo una sconfitta e dopo un po’ si mise a parlare della Divina Commedia. Voleva spronarci, stava parlando del coraggio che serve per vincere: e lo faceva citando Dante».

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Andrea Rapino Calciatori

Lucas Correa: per un giorno, l’ultimo erede di Maradona in Nazionale

di Andrea Rapino

Quello che oggi è un qualsiasi buon giocatore di serie C con i capelli rasati a zero, e per i tifosi della Lazio resta uno dei più anonimi numeri 5 della storia del club, per l’Argentina ha rischiato di diventare un numero 10 storico: il caso ha infatti voluto che Lucas Alberto Correa Belmonte, nel 2012-2013 centrocampista del Bassano Virtus (Seconda Divisione), stesse giocando un Mondiale Under 17 con il numero di Maradona, proprio nei giorni in cui la federazione argentina chiese alla Fifa di non assegnarla più a nessun giocatore in nessuna competizione.

Per Correa, in quel momento protagonista di un discreto Mondiale a Trinidad e Tobago, fu un lampo di celebrità: fu bersagliato dalla domanda di rito su cosa si provasse nell’essere l’ultimodiez” nella storia del fútbol argentino, come racconta il portale sudamericano En una baldosa. Alla fine la Fifa però rigettò la proposta della federazione albiceleste, e quel torneo ai Caraibi il giovane Lucas lo ricorderà per una gol al Burkina Faso nel girone eliminatorio e per aver giocato in squadra con Carlos Tévez e Maxi López.

correaDopo l’esperienza iridata, Correa tornò nel club dove era cresciuto, il Rosario Central, quello che ha lanciato il capocannoniere del Mondiale del ‘78 Kempes e lo storico portiere del Boca Roberto Abbondanzieri. La celebrità gli fruttò anche un presunto interessamento del Barcellona, ma dopo una manciata di apparizioni nella massima serie argentina, attraversò l’Oceano per ritrovarsi nella settima serie italiana: nel 2004-2005 è la stella del Penne, club abruzzese con discreta tradizione a livello regionale; insieme a una nutrita pattuglia di italoargentini, Correa trascina la squadra al ritorno in serie D dopo dieci anni.

L’allora ventenne Lucas si guadagna così le attenzioni delle società abruzzesi di serie C, e nel 2005-2006 passa in C1: lo prende il Lanciano allenato da Francesco Monaco, storico capitano della Lucchese che esordisce tra i professionisti in panchina. Correa inizialmente paga lo scotto del salto di categoria, ma contribuisce alla salvezza di una formazione combattiva e infarcita di giovani di belle speranze (tra questi Salvatore Bocchetti, oggi allo Spartak Mosca).

Il 2006-2007 potrebbe essere l’anno del grande salto. Correa come allenatore ha ritrovato Andrea Camplone, ex terzino del Pescara di Galeone che lo aveva lanciato a Penne, che ne esalta le doti tecniche nel suo 4-3-3. Insomma, si è adattato alla categoria ed è diventato un top player della C1. Per questo su Lucas mettono gli occhi il Cagliari, il Chievo e la Lazio. Pare che alla fine Claudio Lotito abbia concordato direttamente l’acquisto con Paolo Di Stanislao, romano d’origini abruzzesi che aveva da poco rilevato il Lanciano (e presto lo avrebbe portato al fallimento). Nonostante entri in lista con la maglia numero 5, il biancoceleste però Correa lo vede poco o nulla: a parte ritiri estivi e qualche amichevole, per giocare deve riscendere in club della fascia medio alta della terza serie nazionale: Lucchese, Gallipoli, Pro Patria, Taranto e Ravenna. Quando nel 2011 affronta l’ultimo ritiro con la Lazio, ha racimolato solo un play off (perso col Padova) a Busto Arsizio, dove 12 gol con la squadra allenata da Franco Lerda restano il suo record stagionale.

Nel 2011 gioca in B col Varese, che tra l’altro arriva gli spareggi per la A, ma è il canto del cigno: dopo l’esordio tra i cadetti riscende in Lega pro, prima con l’Avellino e poi con il Bassano Virtus, dove retrocede e gioca anche in Seconda Divisione, e l’anno scorso comunque mette a segno una decina di reti. Così, dopo una dozzina di anni di serie C ad alti livelli, per l’ultimo aspirante pibe de oro l’unico campionato vinto in Italia resta quello di Eccellenza abruzzese.