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Fabio Belli Presidenti

Romeo Anconetani, il presidente vulcanico che inventò il mestiere di procuratore

di Fabio Belli

Quel corpulento signore che si era avvicinato al campo per dare un’occhiata all’allenamento della Fiorentina, non dava proprio l’impressione di sapere il fatto suo. Un po’ trasandato, un po’ troppo rumoroso e chiacchierone, con quella voce un po’ roca e un po’ stridula allo stesso tempo. Eppure, indicando quel centrocampista magrolino appena arrivato a Firenze da Asti, sparò subito una sentenza che da quelle parti si ricordarono per molto tempo: “Quel ragazzino lì, se mangiasse più bistecche, sarebbe forte come Cruyff.”

anconetaniIn realtà in molti già lo conoscono, perché quel signore che non passa certo inosservato nell’aspetto e nei modi si chiama Romeo Anconetani, e si è praticamente inventato un mestiere: quello del  procuratore. Lo chiamano “mister cinque per cento“, perché grazie ad una licenza della Camera di Commercio si è messo a fare il mediatore, e si è scelto come clienti una categoria che allora, all’alba degli anni settanta, nessuno considerava più di tanto: i calciatori. Certo, per guadagnare, quando si è pionieri del proprio mestiere (vent’anni dopo li chiameranno appunto “procuratori“), bisogna avere talento da vendere, ma Anconetani fa affari dai tempi di Selmosson dalla Lazio alla Roma, cura già gli interessi del talento granata Claudio Sala, e tanto per dimostrarne una di più, il ragazzino bisognoso di manzo e muscoli di cui sopra era un certo Giancarlo Antognoni.

Certo, grandi idee, ma il personaggio-Anconetani c’era già tutto, e non finiva nelle micidiali intuizioni da talent-scout. La FIGC l’aveva già radiato da quasi vent’anni, all’epoca, perchè da dirigente aveva cercato di organizzare una combine in una partita tra Poggibonsi e Pontassieve. Ma dalla Toscana non si era mai allontanato, e dopo anni da manager riuscì a tornare dirigente in quella che divenne la sua creatura per definizione, quella per la quale viene oggi ricordato: il Pisa.

Certo, per farsi chiamare “presidente” dovette aspettare l’amnistia del 1982, dopo la vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Ma a quell’epoca il Pisa l’aveva già portato in Serie A, ed era già cominciata la sua leggenda fatta di ritiri, sfuriate memorabili a giornalisti e giocatori, che riempiva di regali ma castigava al primo sgarro, esponendoli a inarrivabili “cazziatoni” anche in pubblico. Era un mago a comprare e rivendere, portando in Italia gente come Kieft, Berggreen, Simeone e Chamot. Maestro nella lungimiranza, lo era meno nel gestire il quotidiano: il suo Pisa si prese presto l’appellativo di “squadra ascensore“, le retrocessioni dalla A alla B furono numerose, ma altrettanto lo furono le salvezze epiche e le risalite dalla cadetteria. La sua vittima preferita furono però gli allenatori: ne licenziò ventidue, per dire che Zamparini e Cellino ai giorni nostri non si sono inventati nulla. Così come non si erano inventati nulla i presidenti che avevano compreso l’importanza dell’esposizione mediatica: lui stesso si ritagliò uno spazio settimanale fisso in televisione, “Parliamo con Romeo” su un’emittente chiamata 50 Canale, per fare a modo suo il punto della situazione e avere sempre l’ultima parola sulle questioni più spinose.

Dove non arrivavano gli esoneri, provava a compensare col sale, sparso copiosamente sul campo dell'”Arena Garibaldi” per evitare il costante incubo della retrocessione, e quello verificatosi più raramente della mancata promozione. Al crepuscolo della sua presidenza, il sogno di aver scovato l’ultimo talento, Lamberto Piovanelli, in procinto di giocarsi una chance come centravanti della Nazionale, si spezzò in un piovoso pomeriggio all’Olimpico di Roma: gamba fratturata tra le urla contro la Lazio, e addio Piovanelli e Serie A. Lasciato il Pisa, spese gli ultimi anni collaborando con Genoa e Milan, senza più sfuriate ma concentrandosi sulla cosa che meglio gli riusciva: individuare nuovi talenti, magari bisognosi sul momento di qualche bistecca in più, ma sulla cui classe si poteva scommettere ad occhi chiusi.

 

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Calciatori Fabio Belli

Branco: tre punizioni nella storia

di Fabio BELLI

Claudio Ibrahim Vaz Leal: un nome che i ragazzini appassionati di calcio leggono per la prima volta all’interno dell’album delle figurine Panini dedicato alla stagione 1986/87. Scritto in piccolo, ad indicare la vera identità di un nuovo talento brasiliano importato da una provinciale, il Brescia, che mancherà in quell’annata la salvezza in Serie A nonostante i gol di un bomber generoso, Tullio Gritti. E, come per molti talenti brasiliani, il nome “d’arte” di quel calciatore è breve e d’impatto: Branco. Quando arriva a Brescia, Branco ha ventidue anni ed è ancora acerbo per una ribalta come quella italiana che, in quegli anni, si afferma come la più rilevante a livello mondiale. Resta in Lombardia due anni, compreso uno in Serie B, poi viene ingaggiato dal Porto dove esplode il suo talento.

brancoSchierato inizialmente come interno di centrocampo, Branco in realtà eccelle come terzino sinistro, sfruttando un buon dinamismo e, soprattutto, un piede capace di calibrare lanci e cross perfetti. Soprattutto ai tempi del Porto emerge un suo particolare talento: quello sui calci di punizione. Branco è infatti in possesso di un tiro micidiale, potentissimo, forse il più violento della sua generazione. A questa potenza si abbina negli anni un affinarsi della tecnica: Branco colpisce il pallone sulla valvola applicando un effetto particolarissimo. La maggior parte degli specialisti imprime l’effetto a rientrare per aggirare la barriera e centrare l’incrocio dei pali, Branco tira staffilate centrali che si allargano verso l’estremità della porta, ed il portiere avversario vede sfuggire il pallone verso il quale è proteso in tuffo.

Questo talento si rivela nel Porto e nella nazionale brasiliana: ai Mondiali del 1990 in Italia, nel girone eliminatorio Murdo MacLeod, centrocampista della Scozia e del Borussia Dortmund, finisce in ospedale con un trauma cranico dopo essere stato colpito da una pallonata scagliata da Branco su punizione. Il malcapitato MacLeod era in barriera. L’Italia è però un conto aperto per Branco, considerando che i Mondiali finiscono nel peggiore dei modi per il Brasile, eliminato negli ottavi di finale dall’Argentina. Alla fine della competizione iridata si concretizza il trasferimento in un Genoa ambizioso, ricco di giocatori di qualità. Sono gli anni d’oro del calcio genovese, nella stagione del ritorno di Branco in Italia la Sampdoria vincerà lo scudetto ed il Genoa, quarto, si qualificherà per la prima volta nella sua storia in Coppa UEFA. Gioiello nella stagione dei grifoni, la micidiale punizione con la quale Branco regala il derby d’andata ai rossoblu contro i cugini futuri Campioni d’Italia. Una vittoria che sarà celebrata dai tifosi della Gradinata Nord con l’invio di una cartolina di Natale che raffigura la prodezza del centrale brasiliano.

La cavalcata in Coppa UEFA dell’anno successivo si rivelerà memorabile per il Genoa che sarà la prima squadra italiana capace di vincere ad Anfield, nella tana del Liverpool. Prima dell’impresa, i rossoblu avevano già ipotecato la qualificazione in semifinale nella gara d’andata. Il gol del fondamentale due a zero è a firma di Branco: una punizione da distanza incredibile, un capolavoro di potenza col pallone che disegna l’effetto sopra citato, caratteristico dei suoi calci piazzati. Marassi piange di gioia di fronte ad una delle più gloriose pagine della storia del Genoa.

Nel 1993 Branco torna in Brasile, tra Gremio e Corinthians, per preparare al meglio il Mondiale americano del 1994. E dopo la delusione del 1990, per il Brasile arriverà un titolo atteso 24 anni, dai tempi di Pelè. Tappa decisiva per la conquista del Mondiale, la vittoria nei quarti di finale contro l’Olanda: i tulipani rimontano due gol alla squadra di Romario e Bebeto, ma devono arrendersi al gol del 3-2. Firmato, neanche a dirlo, da una bomba di Branco che manda in delirio il Paese. Degna consacrazione per un campione abituato a chiudere in attivo i conti in sospeso.

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Calciatori Fabio Belli

Germano: l’amore proibito del nuovo Garrincha nell’Italia degli anni Sessanta

di Fabio BELLI

Estate del 1962: il boom economico in Italia sta iniziando a scaldare i motori, nel Paese si respira un’aria più fresca, nuova, forse anche un po’ ingenua. A neanche venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il paese non è ancora molto più ricco, ma ha ripreso a sperare e, soprattutto, a sognare. Il calcio è un importantissimo veicolo di divertimento e aggregazione ma, nell’era della vertiginosa crescita industriale, sono le grandi del Nord a comandare. La Nazionale agli ultimi Mondiali in Cile ha subito lo scandaloso arbitraggio dell’inglese Aston contro i padroni di casa. Una vergogna, ma nel calcio in cui gli echi della comunicazione, soprattutto da oltreoceano, arrivano ancora distorti, sono cose che capitano anche con una certa frequenza.

germano1La stella indiscussa di Cile 1962 doveva essere Pelè ma gli infortuni non hanno permesso alla Perla Nera di essere protagonista. Al suo posto, il Brasile ha celebrato Amarildo per la conquista del suo secondo titolo mondiale. Ma il fascino dei calciatori esotici, pieni di talento ed estro, diversi da quelli che in Italia praticano il catenaccio sistematico, comincia a farsi largo tra i tifosi e in un campionato come la Serie A che comincia a potersi permettere l’ingaggio di calciatori esteri. Così il primo club a cavalcare la suggestione del Brasile di Pelè è il Milan del patron Rizzoli, che porta in Italia Josè Germano de Sales, sgusciante ala piena di guizzi e dribbling tanto da essere paragonato a Manè Garrincha. Allora appena ventenne, Germano faceva parte dei preselezionati per Cile ’62, ma alla fine non ha partecipato alla spedizione.

Da Germano i tifosi del Milan si aspettano grandi cose e soprattutto volano con la fantasia immaginando giochi di prestigio palla al piede, dribbling a ripetizione su un fazzoletto di campo, gol pescati direttamente dal cilindro di un mago. Quello che non sanno è che, soprattutto all’epoca, l’adattamento di un calciatore brasiliano in una realtà estremamente ordinata, grigia e fredda come quella milanese è molto complicato. Ed iniziano a sentir parlare di un termine misterioso, “saudade“, che significa più di nostalgia: è voglia di respirare un’aria diversa da quella delle ciminiere milanesi, è voglia di sentirsi circondati da tutt’altro rispetto a quella che è la realtà che diventa una prigione dalle sbarre di malinconia dalla quale si può solo evadere.

Germano comincia bene, gioca e segna in Coppa dei Campioni contro l’Union Luxembourg e in campionato contro il Venezia. Ma il suo stile svagato e la svogliatezza negli allenamenti non piacciono al Paròn Nereo Rocco che in quella stagione porterà per la prima volta la Coppa dei Campioni in Italia. Il suo Milan, a caccia dell’obiettivo più grande, dev’essere una macchina perfettamente oliata e Germano a novembre viene spedito al Genoa dove colleziona presenze ad intermittenza (solo dodici in campionato), qualche intemperanza e la frattura della mandibola, riportata in un incidente stradale una volta tornato a Milano a fine stagione.

Nel capoluogo lombardo l’aspirante Garrincha resterà altri due anni senza scendere mai più in campo fino al 1965, quando tornerà in Brasile al Palmeiras. Troppo, per una frattura della mandibola. Si scoprirà in seguito che i problemi di Germano a Milano erano puramente extracalcistici: il giocatore infatti iniziò una relazione clandestina con la figlia del potente Conte Agusta, l’industriale delle motociclette. La ragazza, per giunta allora minorenne, riempirà le cronache dei rotocalchi rosa per la sua fuga in Belgio, nel 1967, proprio per raggiungere Germano, che nel frattempo si era accasato allo Standard Liegi. Nascerà anche una figlia, Lulù. Troppo tutto insieme, per l’allora bigotta moralità italiana: e se di lì a poco i giocatori di colore conquisteranno grandi vette sportive (Jair nell’Inter, Nenè nel Cagliari), l’avvento di Germano ebbe l’effetto dirompente di un terremoto nel calcio italiano, che scoprì gloria, pazzie e miserie dei protagonisti del “futbol bailado”.

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Club Fabio Belli Football Mystery: la webserie

Football Mystery 2×01: 1915, lo Scudetto Spezzato tra Lazio e Genoa

di Fabio BELLI

Nella storia del calcio italiano anteguerra c’è uno Scudetto diviso: non parliamo del titolo del 1922, spartito tra Novese e Pro Vercelli a causa di una scissione federale. C’è un campionato mai terminato che ha assegnato uno Scudetto per il quale ufficialmente non esiste delibera. E’ tutto accaduto nel 1915, l’anno dello Scudetto Spezzato.

Nel maggio 1915 il calcio italiano si appresta a concludere l’ennesima stagione di un’epoca pionieristica. Le squadre del Nord a dominare, quelle del Centro-Sud a muovere i primi passi: la Federazione già da qualche anno ha stabilito come la squadra campione dell’Italia settentrionale, da tutti formalmente già considerata Campione d’Italia per manifesta superiorità, dovesse disputare una finalissima contro la squadra campione dell’Italia centro meridionale. Questo per dare più ampio respiro allo sviluppo a livello nazionale di uno sport come il football per il quale di intravedono enormi potenzialità e che non merita di restare confinato a livello locale.

Certo, la differenza tecnica tra Nord e Sud è enorme. La finale nazionale venne istituita nel 1913, e la regina del calcio centro-meridionale è senza dubbio la Lazio. Che perde però 6-0 la finalissima contro la Pro Vercelli nel 1913 e 7-1 in trasferta e 0-2 in casa la sfida di andata e ritorno contro il Casale nel 1914. Da Bologna in giù la Lazio è senza dubbio la squadra più forte. Marcello Consiglio e Fernando Saraceni sono giocatori moderni per l’epoca, e il coraggio di Angelo Zucchi e Augusto Faccani tiene la linea laziale sempre alta.

Ma contro i giganti del Nord si può fare poco: nel 1915 si giocano il titolo il Genoa già 6 volte Campione d’Italia, ma a secco dal 1904, l’Internazionale scudettata nel 1910 e il Torino che ha scalzato l’altra regina piemontese, la Pro Vercelli 5 volte titolata. Ma quello del 1915 è un campionato strano, perché venti di guerra spirano sempre più forti e il 24 maggio l’Italia entra a far parte del primo conflitto mondiale. Sottobraccio ai giovani il fucile si sostituisce al pallone e tra le squadre chiamate a dare un contributo più consistente alla Patria c’è proprio la Lazio, che in qualità di Polisportiva manda decine di atleti, non solo calcistici, al fronte.

Il campionato però viene sospeso e riprenderà solo nel 1920, quando tanti protagonisti saranno caduti o feriti al fronte. Il titolo non è stato assegnato: la Lazio è prima nel centro-sud, il Genoa al centro-nord ma con lo scontro diretto contro il Torino da giocare: in caso di vittoria, sarebbero stati i granata ad andare in finale. C’è anche una finale meridionale da giocare tra le due squadre di Napoli. Un caos e infatti il titolo non viene assegnato, come sarebbe logico pensare. E a questo punto però che la storia si fa davvero misteriosa.

La sospensione bellica del campionato avvenne il 22 maggio 1915. Il 23 maggio il girone Nord avrebbe dovuto disputare le sue partite decisive, Genoa-Torino e il derby Milan-Inter. Ma quella domenica l’Italia dichiarò guerra all’impero Austro-Ungarico. Nel frattempo, la Lazio vinse il girone dell’Italia centrale battendo il Roman, che l’aveva sopravanzata nella fase regionale precedente, mentre non venne omologata la sfida del campionato meridionale tra Naples e Internazionale di Napoli.

Il campionato restò fermo 4 anni: il Consiglio Federale tornò a riunirsi nel 1919 e e la Federazione decise di attribuire il titolo al Genoa, ignorando i diritti delle formazioni centro-meridionali, nella fattispecie della Lazio, perché considerate non competitive. Normale pensarla così all’epoca, il problema è che l’assegnazione ai rossoblu fu di fatto convenzionale e mai ufficiale. Mai è stata trovata delibera dell’assegnazione del titolo 1915, né testimonianze della proclamazione dello Scudetto da parte della rivista sociale del Genoa, che alcuni individuano nel settembre 1921, né di una cerimonia di premiazione che sarebbe avvenuta nello scorso anno.

Per quasi 95 anni, dal 1921 al 2015, la storia è stata accettata acriticamente così come è stata tramandata. Il 25 maggio del 2015, in occasione del centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, il settimanale romano Nuovo Corriere Laziale rilanciò la questione. L’avvocato capitolino Gian Luca Mignogna, tifoso laziale, riuscì a lanciare una petizione in pochi mesi: i tifosi laziali risposero in massa con 35.000 sottoscrizioni e soprattutto venne ribaltata buona parte della storiografia ufficiale dedicata allo Scudetto del 1915.

La petizione e la rivendicazione di Mignogna chiede l’assegnazione ex aequo del titolo al Genoa, i cui diritti sono a 100 anni di distanza intoccabili, e alla Lazio che di fatto, unica ad aver terminato il proprio girone interzona, restava l’unica certa finalista di quell’edizione del campionato. La richiesta arriva fino alla FIGC: sotto la presidenza Tavecchio si arriva addirittura alla nomina di una commissione di saggi che evidenzia come la Lazio debba essere considerata campione d’Italia, ricongiungendo lo Scudetto spezzato. La FIGC attraversa però una crisi istituzionale che porta all’attuale presidenza Gravina e all’imminente nomina di una nuova commissione.

Ma come è potuto accadere che semplicemente, per 100 anni, uno Scudetto fosse assegnato per “presunzione di superiorità”, senza che nessuno si facesse domande? Lo Scudetto 1915 è stato in realtà al centro di controversie sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale: come si legge sulla pagina Wikipedia dedicata al campionato di Prima Divisione 1914/15, la decisione sull’assegnazione restò congelata a causa dei reclami di Inter e Torino, poi non presi in considerazione. Inoltre la presunta cerimonia di premiazione genoana avrebbe avuto luogo l’11 dicembre del 1921, durante la fase di risoluzione dello scisma, allora in corso, tra la FIGC e la Confederazione Calcistica Italiana (CCI), della quale faceva parte lo stesso Genoa: molti dei neocampioni rossoblù, in primis il terzino Claudio Casanova, non seppero mai della loro vittoria perché scomparsi in guerra. I presunti conflitti di interessi intercorrenti fra Carlo Montù (alla guida della Federazione nel 1919), Luigi Bozino (presidente prima federale e poi confederale negli anni 1921-1922), e i dirigenti genoani Edoardo Pasteur (vicepresidente FIGC e CCI sotto Montù e Bozino) e George Davidson (capo della Federazione Ciclistica Italiana) gettarono, comunque, un’ombra sull’intera vicenda che a oltre 100 anni di distanza, per intervento della FIGC, potrebbe ora arrivare a una risoluzione con una assegnazione postuma del titolo ex aequo a Genoa e Lazio.

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Calciatori Fabio Belli

Giuliano Taccola: una morte senza spiegazioni

di Fabio BELLI

La vicenda si svolge a metà degli anni Sessanta, con premesse apparentemente comuni a molte altre storie calcistiche. Nel 1966 Giuliano Taccola è un attaccante di 23 anni, classe 1943, possente nel fisico per gli standard dell’epoca ma soprattutto velocissimo. Corre i cento metri in 11 secondi netti e nel campionato di Serie C 1965/66 ha realizzato 13 gol con la maglia del Savona, che in quegli anni lancerà giocatori come Giuseppe Furino e Pierino Prati. Taccola è il primo a fare le valige: l’occhio lungo di Fulvio Bernardini lo porta in quota Roma, e l’attaccante nativo della provincia di Pisa veste la maglia giallorossa dopo un altro anno di svezzamento al Genoa.

Il 24 settembre del 1967 Taccola fa il suo esordio in Serie A nella partita che permetterà alla Roma di strappare un buon pari in casa dell’Inter. 10 gol nella prima stagione, buon bottino per gli attaccanti dell’epoca, poi altri 7 nella stagione 1968/69, quando il rendimento di Taccola ha un crollo verticale. Febbre, malesseri vari, improvvisamente il giocatore sembra non reggersi più in piedi, ma il tecnico della Roma, Helenio Herrera, non ne vuole sapere: ha bisogno di Taccola e continua a schierarlo, ma ogni allenamento sembra infliggergli un colpo in più.

Si sospetta un’infezione batterica e, a febbraio del 1969 Taccola viene operato per la rimozione delle tonsille. Un intervento di routine anche alla fine degli anni Sessanta, ma è a questo punto che il mistero sulla salute dell’attaccante si infittisce, visto che durante l’operazione il calciatore subirà numerose emorragie. Sembra che i vasi sanguigni non funzionino al meglio, l’operazione riesce ma Taccola ha perso molto sangue, ha bisogno di riposo assoluto.

E invece viene convinto a forzare, per rientrare in campo il prima possibile. Ad ogni allenamento corrisponde una perdita di peso e la febbre a fine giornata. Gli antibiotici che deve assumere dopo la tonsillectomia peggiorano considerevolmente la situazione: per riprendere forma, viene schierato tra le riserve della Roma in un match del campionato De Martino e sviene in campo: una settimana dopo però è in campo a Genova contro la Sampdoria, ma la sorte non gli dà tregua e si infortuna al malleolo.

Per 10 giorni Taccola si ferma, e il 15 marzo del 1969, prima della partita col Cagliari, Taccola sviene di nuovo nella rifinitura. A questo punto la Roma lo esclude dalla partita: dopo un nuovo attacco febbrile, il giorno dopo Taccola è in tribuna allo stadio Amsicora di Cagliari, e dopo la vittoria scende a festeggiare coi compagni negli spogliatoi. Poi inizia a tremare, sviene. I medici della Roma e della società sarda provano a rianimarlo, ormai privo di sensi sdraiato su un lettino, ma da quello spogliatoio Taccola uscirà solo da morto.

Da quel momento in poi, attorno alla vicenda calerà un gran silenzio, a partire da quello di Herrera che non voleva clamore attorno alla vicenda, anche molti giocatori seppero solo dopo, in aeroporto, quanto accaduto. In questi 50 anni di ipotesi sulla morte di Taccola ne sono state fatte molte: l’autopsia indicherà un arresto cardio-circolatorio, senza ulteriori particolari. La ricostruzione più plausibile, per quanto ufficiosa e mai confermata, parlerà di un’endocardite, una rara infezione batterica al cuore, aggravata dall’operazione subita e dai continui tentativi di recupero, che in molti temevano fossero alimentati da strane iniezioni. La morte di Taccola è stata spesso accostata a quella di altri calciatori, come Bruno Beatrice, Carlo Tagnin, Mauro Bicicli e Ferdinando Miniussi, scomparsi prematuramente e accostati a pratiche legate al doping che pare fossero molto diffuse nel calcio di decenni fa. Voci sinistre mai confermate ma insistenti nel corso degli anni.

Tre le testimonianze chiave riguardo i tragici fatti dell’Amsicora. Marzia Nannipieri, rimasta vedova di Taccola a 24 anni con due figli piccoli, da 50 anni prova a far luce sulla vicenda. E raccontò: La società fece di tutto per recuperarlo più in fretta possibile, anche perché stava valutando un’offerta della Fiorentina. A Giuliano quelle voci che lo volevano a Firenze non piacevano, lui stava bene a Roma. Dopo l’operazione alle tonsille ci dissero che prima andava ripulita l’infezione. Perciò continuava ad avere disturbi e la temperatura saliva subito come metteva piede in campo. Non ho mai smesso di pensare, di arrovellarmi su quanto accadde quella domenica, a tutta quella robaccia che gli davano per farlo giocare”

Augusto Frongia, medico sociale del Cagliari che si ritrovò di fronte Taccola praticamente già privo di vita nello spogliatoio, testimoniò: “Il problema non furono le cure fatte, ma quelle non fatte. Certo, anch’io ho sentito dire che lo dopavano per farlo giocare. Anche se così fosse non ci sarebbe un nesso con la sua morte. Posso confermare che la mattina della partita Herrera portò anche Taccola sulla spiaggia del Poetto per la rifinitura pre partita. A fine allenamento il Mago si rese conto che il calciatore non ce la faceva più e accettò di mandarlo in tribuna. Secondo testimonianze affidabili, il ragazzo avrebbe seguito tutta la partita tremando come una foglia. Continuava a ripetere: ‘Non mi credono, ma io sto morendo. Sto morendo e non mi credono.”

Infine Francesco “Ciccio” Cordova, calciatore della Roma che seguì da vicino la vicenda del suo compagno di squadra: “Taccola non stava bene ma il mister lo voleva in campo a tutti i costi, gli serviva. Così adottò il ricatto: la divisione dei premi partita secondo chi giocava. Taccola aveva fatto grossi investimenti in quel periodo, aveva bisogno di denaro e Herrera lo sapeva bene: ‘Niente partita? Niente dinero’ gli diceva sempre. Il medico della Roma lottò fino all’ultimo per tenere Taccola a riposo. Ma nemmeno l’intervento del presidente Marchini cambiò le cose, quando al povero Giuliano saliva la febbre, gli faceva fare certe punture e lo risbatteva in campo.”

Durante Spal-Roma di poche settimane fa, i tifosi giallorossi hanno ricordato Giuliano Taccola a 50 anni dalla sua scomparsa: è tornata anche a farsi sentire sui giornali la voce della moglie Marzia, che ha atteso mezzo secolo senza avere mai il conforto della verità.

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Club Enrico D'Amelio

Scudetto 1915: la leggenda di Genoa e Lazio per un tricolore di cento anni fa

di Enrico D’AMELIO

Come quando ci aggrappiamo ai ricordi per esorcizzare un grigio presente, c’è una romantica matassa da dirimere affiorata in questi giorni, venuta da un passato affascinante e antico. E’ notizia recente il possibile riconoscimento alla Lazio dello Scudetto 1914/15. Un campionato assegnato al Genoa anni dopo, a causa dell’interruzione delle competizioni sportive per via del primo conflitto mondiale. Di fatto, un torneo interrotto in fretta e furia, con un titolo rimasto vacante per quattro lunghi anni, senza che le squadre in testa nei gironi del Nord e del Centro potessero contenderselo in uno scontro diretto. Non spetta a chi scrive dare giudizi di merito sulla questione. Se fosse giusto o meno premiare una squadra piuttosto che un’altra, o più sensato assegnarlo ex aequo, ipotesi maggiormente accreditata che circola nelle ultime ore. Ad ognuno il suo. Questo blog ha sempre guardato all’aspetto sentimentale del calcio, a ciò che esula dai freddi calcoli statistici, alla ricerca della storia che c’è sullo sfondo e non a ciò che appare in superficie nell’immediato.

Il primo campionato a girone unico, che ricalca il modello della Serie A attuale, viene disputato nella stagione 1929/30, anche se un calcio più internazionale nasce nel secondo dopoguerra. Precisamente nel 1955, quando si gioca la prima edizione della Coppa dei Campioni, vinta dagli spagnoli del Real Madrid. Quando ancora tutto ciò era in embrione, l’Italia calcistica riproponeva lo stesso modello dello stile di vita di allora. Il cosiddetto triangolo industriale, che comprendeva e comprende le città di Milano, Torino e Genova, dominava anche sul rettangolo verde. L’antica repubblica marinara viveva la sua ‘Belle Epoque’ grazie all’incessante attività portuale, e alle tante industrie presenti nell’entroterra ligure. Vita vissuta intrecciata al calcio, con la costruzione dei primi transatlantici, usati dagli emigranti genovesi nei viaggi verso il Sud America. Lì, precisamente in Argentina, venne costruito un quartiere destinato ancora oggi a far parlare di sé in ambito calcistico: la ‘Boca’. La squadra di calcio che lo rappresenta, il Boca Juniors, conserva a tutt’oggi la scritta ‘xeinezes’ – cioè genovesi – sul retro della maglia, a sancire un legame mai reciso con i navigatori italiani che hanno dato vita a questo mito. Per contestualizzare ancora meglio il periodo, va detto che il primo scudetto al di fuori di Lombardia, Piemonte e Liguria è stato quello vinto dal Bologna nella stagione 1928/29; per la prima volta al di fuori del nord, invece, si è dovuto attendere il 1942, quando è stata la Roma di Amadei a diventare Campione d’Italia.

Pur nelle diversità sancite dai pochi lustri trascorsi, Genoa e Lazio giungono a questo torneo – che non si chiamava Serie A, bensì Prima Categoria – con similitudini che si intrecciano. Il Genoa fondato da nobili inglesi, mentre la Lazio nasce come Polisportiva, e sceglie come colori il bianco e il celeste in onore della Grecia, la patria delle Olimpiadi. Ambedue, dunque, con cromosomi elitari nel DNA, e con un occhio rivolto all’estero del livello più elevato, pur mantenendo salde le origini genovesi e romane. Altro particolare poco evidenziato, la differenza di competitività delle due squadre negli anni tra il ’12 e il ’14. I rossoblu, anche se sei volte campioni d’Italia, non conquistano il tricolore dal 1904. La Lazio, nonostante non abbia mai vinto il trofeo, viene da due finali consecutive, anche se perse in modo netto contro Pro Vercelli e Casale. Come a lasciar intendere che sarebbe stato giusto lasciar decidere al campo, se non si fossero sovrapposti eventi ben più drammatici.

Questo è quanto accaduto prima di un campionato mai terminato. Poi c’è stata la guerra, anni dopo le prime rimostranze di Torino e Inter, con il tecnico granata Vittorio Pozzo convinto che la sua squadra avrebbe potuto superare la compagine rossoblu, dopo averla sconfitta 6-1 nella gara di andata, e vincere il girone del Nord Italia. In attesa che la Federazione di oggi si pronunci sulle richieste della Lazio, quella di allora ha assegnato, anni dopo e in via definitiva nel 1921, lo scudetto al Genoa. Forse perché considerata la squadra più forte, e naturale vincitrice del torneo. Ci sarà tempo, nel caso fosse riconosciuto questo successo alla società romana, per celebrarla come merita. Ora, tra le varie opinioni contrastanti, possiamo andare a scavare nel passato che riemerge, e rendere omaggio a distanza di un secolo al Genoa Campione d’Italia 1915. Quando una squadra italiana non solo era rappresentata da giocatori nati in Italia, ma, molto spesso, da abitanti di quella città. Se andiamo a rileggere le cronache dell’epoca, scopriamo che la vittoria esterna più ampia in tutta la storia della Serie A è avvenuta proprio in quella stagione, ad opera del Genoa (0-16) sul campo dei piemontesi dell’Acqui. Oppure, che ai rossoblu venne squalificato Marassi per aver tesserato i vercellesi Berardo e Mattea, e furono costretti a giocare alcune partite in casa allo ‘Stadium’ di Brignole. Altro aneddoto non da poco, il temine ‘mister’, con cui si identifica abitualmente nel calcio l’allenatore, è dovuto a come i giocatori si rivolgevano al tecnico di allora del Genoa, l’inglese William Garbutt. Situazioni impensabili, se viste con gli occhi di oggi.

I genoani vennero premiati al Restaurant Francia l’11 dicembre del 1921, ma alcuni dei neocampioni non conobbero mai il brivido della gloria, perché scomparsi anni prima in guerra. Tra le tante storie all’interno della storia, due su tutte pongono in secondo piano ciò che può essere impresso o meno su un almanacco a distanza di un secolo. Quella di Claudio Casanova, terzino destro di Cornigliano, classe 1895. Giovane promessa del calcio italiano, e morto a Genova durante il conflitto, a 20 anni appena compiuti. E quella di Adolfo Gnecco, anch’egli genovese, ma morto a Zagorje, paese nei pressi del Monte Santo, in Slovenia, sul fronte orientale italiano. Luoghi in cui, per pochi km di terreno, a tanti giovani ragazzi è stato tolto un futuro da scrivere. Dove il silenzio di terre gentili attutisce il rumore del calcio di oggi. Sempre più simile a un volgare spettacolo, piuttosto che a uno sport in grado di veicolare emozioni.

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Andrea Rapino Calciatori

Ricciuti, il capitano della grande Virtus Lanciano che non sfondò nell’Inter

di Andrea Rapino (articolo tratto da www.lanciano24.it)

Quando la Virtus Lanciano sta ancora muovendo i primi passi, c’è già un lancianese che tentava di mettersi in mostra sui palcoscenici migliori del calcio italiano: Lino Ricciuti, nato nel 1905 nel quartiere di Santa Maria Maggiore ed emigrato 15enne a Milano con la famiglia, che nei primi anni ’20 si forma nell’Inter.

Con i nerazzurri esordisce nella massima serie, sei anni prima della creazione della A a girone unico, e perciò l’ala sinistra frentana è probabilmente il primo abruzzese a mettere piede nella massima categoria del football italiano, seppur senza troppa fortuna.

Ricciuti infatti con l’Inter gioca una sola partita in campionato, quando viene schierato a Marassi nell’aprile del 1924, contro il Genoa che di lì a poco sarebbe diventato campione d’Italia: finisce 5-1 per la corazzata rossoblù. Per il resto, Ricciuti a Milano colleziona solo partite con la squadra riserve nell’Inter e apparizioni in tornei minori.

Ala poco prestante fisicamente, seppur dotato di buona tecnica, velocità e senso del gol, il giovane lancianese ha poco spazio in una squadra che è sì ancora lontana dalla sua epoca d’oro, ma schiera comunque atleti di primo piano, come il sette volte capitano della nazionale azzurra Cevenini III o il futuro campione del mondo Armando Castellazzi. Al tempo inoltre non esistono le sostituzioni, e non è facile ritagliarsi spazio.

L’avventura di Ricciuti all’Inter finisce nel 1927: si svincola e torna a Lanciano, dove la Virtus, club nel quale il fratello gemello Dino riveste il ruolo di portiere, si prepara a spiccare il volo. E proprio in Abruzzo Ricciuti è finalmente profeta in patria: subito capitano, guida i rossoneri alla vittoria del campionato regionale nel 1928, ed è uno dei trascinatore della squadra che, nelle due stagioni successive, si afferma come la prima della regione.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (seconda parte)

di Fabio Belli

La finale del Prater del 1933 segna un periodo di massimo splendore per la Coppa dell’Europa Centrale. La competizione viene vista come un vero e proprio campionato d’Europa per club, e dal 1935 al 1938 le analogie con la Champions League di oggi aumenteranno. La formula si allarga a 16 squadre (addirittura 20 nel 1936) e partecipano non solo le squadre campioni nazionali, ma anche le migliori piazzate dei campionati d’Italia, Austria, Svizzera, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia e nel 1937, anno di massima espansione del torneo, Romania. Il calcio italiano di pari passo vive un boom di popolarità con l’esplosione definitiva segnata dalla disputa in casa, con annessa vittoria, del Mondiale del 1934. La Juventus domina la scena nazionale, con 5 scudetti consecutivi (primato che sarà eguagliato in seguito solo dal Grande Torino) tra il 1931 e il 1935.

La Juventus del quinquennio d'oro
La Juventus del quinquennio d’oro

Ma la Coppa dell’Europa Centrale sembra profeticamente anticipare quello che sarà lo squilibrio tra i successi nazionali e quelli continentali della Vecchia Signora nella sua storia. La Juventus non supererà mai la semifinale della competizione: accadrà anche nel 1934 e nel 1935, con i bianconeri che in patria dominano, ma si vedono sbarrata la strada della semifinale da Admira e Sparta Praga, poi vincitrice nel 1935.

La "prima" europea del Napoli
La “prima” europea del Napoli

In queste edizioni e in quelle del 1936 e del 1938 l’Italia presenta quattro formazioni ai nastri di partenza. Nel 1934 e nel 1935 l’Ambrosiana Inter si ferma sempre agli ottavi, così come il Napoli (all’unica apparizione) e la Roma. All’esordio dei partenopei nel 1934, si aggiunge quello della Fiorentina nel 1935, che si arrenderà proprio allo Sparta Praga nei quarti dopo aver eliminato l’Ujpest. L’edizione che passa alla storia è quella del 1934 per l’Italia, perché sarà l’unica volta in cui una squadra trionferà in finale.

Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934
Quadro celebrativo del Bologna campione nel 1934

L’onore spetta al Bologna, che dopo la vittorie “d’ufficio” del 1932, fa il bis sul campo in un tiratissimo doppio confronto con l’Admira di Vienna. L’andata si gioca al Prater, con 50.000 austriaci che si esaltano per la clamorosa rimonta dei padroni di casa. Spivach e Reguzzoni portano i rossoblu sul 2-0, ma nel secondo tempo Stoiber, Vogl e Schall ribaltano clamorosamente il risultato. Il ritorno si gioca a quattro giorni di distanza, il 9 settembre del 1934 allo stadio del Littoriale, che poi diventerà il Renato Dall’Ara, dove il Bologna si è trasferito dopo aver lasciato il leggendario “Sterlino”, casa dei felsinei dal 1913 al 1927. E nascerà una leggenda: il 5-1 con cui gli emiliani conquistano la coppa (con tripletta di Reguzzoni) è il primo atto ufficiale della squadra “Che Tremare il Mondo Fa”, Campione d’Italia nel 1936, nel 1937, nel 1939 e nel 1941.

Meazza capocannoniere d'Europa
Meazza capocannoniere d’Europa

Nel 1936 (unica edizione a ben 20 squadre) la prima europea del Torino si risolve in un ko agli ottavi contro l’Ujpest dopo aver superato nel turno preliminare gli svizzeri del FC Bern. Subito fuori anche il Bologna, mentre la Roma, alla sua terza e ultima partecipazione, uscirà ai quarti contro lo Sparta Praga. I ceki supereranno anche l’Ambrosiana Inter in semifinale, nell’anno in cui Giuseppe Meazza si laureerà capocannoniere d’Europa con 10 gol. La vittoria finale andrà però per la seconda volta all’Austria Vienna.

Per rivedere una squadra italiana in finale bisognerà attendere l’anno successivo. Le partecipanti scendono di nuovo a 16, ma le nazioni partecipanti sono 7: massimo storico, con la popolarità del torneo che sfiora quelle delle attuali coppe europee. Cade subito il Bologna negli ottavi, avanza ai quarti il Genoa, iscritto in quanto vincitore della Coppa Italia, ma nei quarti di finale il Ministro degli Interni di Mussolini rifiuta di ospitare l’Admira a Genova, dopo l’andata terminata 2-2, per le proteste anti-italiane avvenute a margine della partita di andata. Come avvenne nel 1932, doppia squalifica: a beneficiarne allora fu il Bologna proclamato campione, stavolta fu la Lazio a ritrovarsi qualificata direttamente alla finalissima.

Polemiche dopo la partita d'andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937
Polemiche dopo la partita d’andata tra Ferencvaros e Lazio nel 1937

La squadra costruita dall’ingegner Eugenio Gualdi aveva conteso lo scudetto al Bologna la stagione precedente: Silvio Piola è il fiore all’occhiello di una formazione fortissima, la cui caratura internazionale viene confermata dalle vittorie contro Hungaria FC (che poi divenne MTK Budapest, la squadra del grande Hidegkuti) e Grasshopper. Di fronte però c’è un’altra squadra-mito degli anni ’30: il Ferencvaros di Gyorgy Sarosi, che a fine carriera conterà 351 gol in 382 apparizioni in maglia biancoverde, oltre a 42 centri in 62 gettoni in nazionale. L’Europa attende la sfida Piola contro Sarosi, e così sarà. Nell’andata a Budapest, il 12 settembre 1937, l’ungherese ruba la scena con una tripletta. Piola va a segno, ma finisce 4-2 per il Ferencvaros. La prima finale europea di club a Roma richiama comunque allo Stadio Nazionale molto pubblico, circa 20.000 spettatori nonostante il tempo inclemente, il 24 settembre del 1937. La Lazio subito in vantaggio con Costa, si vede gelata da una doppietta di Sarosi, anche se il pubblico si inferocisce per il rigore del momentaneo 1-1. L’impresa sembra impossibile, ma mezz’ora dopo la Lazio conduce 4-2! Sale in cattedra Piola con una magnifica doppietta, poi segna Camolese al 35′. 2′ dopo però Geza Toldi rimette la sfida in vantaggio per i magiari.

La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese
La finale Lazio-Ferencvaros celebrata dalla stampa ungherese

Si gioca sotto una pioggia battente: la Lazio sente vicina la realizzazione di un’impresa, ma il terreno pesante favorisce il calcio atletico degli ungheresi: nella ripresa vanno a segno Lazar e di nuovo Sarosi negli ultimi 20′, Piola sbaglia un calcio di rigore e il pubblico romano applaude uno spettacolo che si era visto solo con i Mondiali. Nelle stagioni successive, i venti di guerra iniziano a minare la regolarità del calcio. L’edizione del 1938 è l’ultimo vero Campionato d’Europa per club d’altri tempi: lo vince per la prima volta lo Slavia Praga in finale col Ferencvaros. Il Milan, alla prima partecipazione, esce agli ottavi, l’Inter ai quarti, ma in semifinale ci sono due italiane. La Juventus cade ancora in semifinale, un vero tabù, contro il Ferencvaros, il Genoa crolla a Praga (0-4) contro lo Slavia, dopo che il 4-2 dell’andata aveva fatto soffiare vento di finale per i rossoblu.

La finale dell’anno successivo, tutta ungherese tra Ujpest e Ferencvaros, non si disputerà: il settembre del 1939 significa guerra per la storia dell’Europa. La Coppa va in soffitta, tornerà in varie salse come Mitropa Cup, ma senza il seguito dell’epoca: negli anni ’80 la declassazione a coppa europea dei campioni di Serie B ne segnerà il declino, fino allo stop definitivo all’alba degli anni 90. Ma i ricordi degli anni ’30 restano indelebile, per quella che è stata l’unica vera vetrina internazionale per i campioni dell’epoca.

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Club Fabio Belli

Storia della Coppa dell’Europa Centrale, la “nonna” della Champions League (prima parte)

di Fabio Belli

Il calcio europeo ha vissuto uno sviluppo di ampio respiro una volta placatisi definitivamente i venti di guerra. L’UEFA nasce nel 1954 per iniziativa italo-belga-francese e, a cent’anni dai primi passi mossi in Inghilterra, rende realtà i sogni di tutti i pionieri del football del novecento: creare competizioni che rappresentino un metro di misura tra i club a livello internazionale. Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa UEFA animeranno i sogni di decine di milioni di sportivi continentali per decenni, fino alle attuali trasformazioni in Champions League ed Europa League.

La Coppa dell'Europa Centrale
La Coppa dell’Europa Centrale

Quando però negli anni ’30 un nuovo ordine mondiale sembrava andare prefigurandosi, poi sconvolto dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale diretta conseguenza dell’ascesa del nazifascismo, si era lavorato per mettere a confronto realtà di club di paesi diversi: la Coppa della Mittel-Europa, proprio lei, la Mitropa Cup, è stata la prima vera competizione europea per club. All’epoca era più facile vederla chiamata sui giornali col suo nome di “Coppa dell’Europa Centrale”, che col senno di poi le dava il sapore di una Champions League d’antan.

Troppo instabile la penisola iberica, troppo disorganizzate (nel football) Francia e Germania, troppo altera l’Inghilterra: il resto d’Europa si sentiva però pronta al confronto, e non bisogna credere che fosse una discriminante negative. All’epoca le squadre di club austriache e ceke avevano ben altra forza rispetto alle realtà emergenti nei paesi attualmente leader del calcio mondiale. Chi trionfava nella Mitropa poteva ben dirsi Campione d’Europa: di una sola parte di essa, certo, ma quella che più contava, all’epoca, a livello di club, ovviamente escluse le leggende inglesi.

L’evoluzione del torneo va di pari passo con quello che poteva essere e non è stato, all’epoca, del Vecchio Continente. Inizio in sordina dal 1927 al 1933 con un torneo, per quanto prestigioso, ad 8 squadre, poi il boom con le 5 edizioni a 16 e 20 squadre che possono essere considerate la versione embrionale di quella che vent’anni dopo sarà la Coppa dei Campioni. Poi l’improvviso declino, con la finale del 1939 mai disputata a causa dell’invasione della Polonia: in Europa non sarà tempo di pallone per un bel po’.

Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa
Lo Sparta Praga primo vincitore della Coppa

L’Italia è assente dalle prime due edizioni vinte da Sparta Praga e Ferencvaros: ceki e ungheresi hanno la meglio in entrambe le occasioni in finale sul Rapid Vienna. La riforma dei campionati vede l’Italia presentare, in attesa del girone unico, due rappresentanti uscite da un girone di spareggi nel 1929. Sono Genoa e Juventus le prime squadre a misurarsi in campo europeo a livello di club: entrambe escono subito ai quarti di finale, con gli ungheresi dell’Ujpest che alzeranno il trofeo ai danni dello Slavia Praga.

Nel 1930, di nuovo fuori ai quarti il Genoa, è l’Inter la prima squadra a passare un turno in Europa. Per domare i campioni uscenti dell’Ujpest serviranno 4 partite. Vittoria 4-2 a Milano, sconfitta con lo stesso pareggio in Ungheria, poi spareggio in parità (1-1) e alla fine vittoria di quella che nel frattempo è già diventata Ambrosiana. In semifinale sarà lo Sparta Praga ad estromettere i nerazzurri, ma a conquistare la Coppa, dopo due finali perse, sarà il Rapid Vienna.

Resoconto d'epoca della sfida tra Roma e First Vienna
Resoconto d’epoca della sfida tra Roma e First Vienna

L’anno successivo farà registrare la migliore performance della Roma, semifinalista battuta dai futuri campioni del First Vienna dopo aver piegato lo Slavia Praga nei quarti, fatali invece alla Juventus che non riuscirà nemmeno nel 1932 ad arrivare in finale. I bianconeri saranno però diretti responsabili del primo trionfo europeo italiano, quello del Bologna. I bianconeri infatti termineranno in una rissa furibonda la semifinale contro lo Slavia Praga: entrambe le squadre saranno squalificate e i felsinei, vincenti sul First Vienna, saranno proclamati campioni d’ufficio.

L'Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l'Inter
L’Austria Vienna, campione nel 1933 in finale contro l’Inter

Nonostante la vittoria del Bologna, dunque la prima squadra italiana a giocare la finale della competizione sarà l’Inter nel 1933: Juventus ancora fuori in semifinale, sarà l’Austria Vienna a vedersela con l’Ambrosiana. A Milano il 3 settembre del 1933 un micidiale uno-due di Levratto e Meazza permette ai nerazzurri di prendere il largo, ma un gol di Viertl nel finale suona come un sinistro presagio. Cinque giorni dopo una tripletta della leggenda del calcio austriaco, Matthias Sindelar, manda in delirio i 58.000 del Prater di Vienna, e nega all’Inter la possibilità di alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale.

(continua…)

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Allenatori Andrea Rapino

William Thomas Garbutt: dalla gloria col Genoa ai lupi d’Orsogna… rigorosamente in incognito

di Andrea Rapino

Onore e gloria in lungo e in largo per la Penisola, dagli scudetti del Genoa ai primi campionati competitivi di Roma e Napoli: tanta fama non è bastata a William Thomas Garbutt per guadagnarsi due righe di cronaca regionale quando nel 1943 si è ritrovato ad allenare la squadra di Orsogna, un paesino abruzzese che per la prima volta appariva in un torneo ufficiale. Sono i tempi del secondo conflitto mondiale e l’Inghilterra, terra d’origine dell’allenatore che ha fatto grande il Grifone e ha rivoluzionato il football di casa nostra, è un cittadino qualsiasi di una nazione in guerra con l’Italia. Non passa però inosservato quando, fallito il tentativo di passare la frontiera, viene mandato al confino a Orsogna.

Anche in un posto lontano dai clamori dello sport di massa, il trainer inglese dimostra subito di non poter stare lontano dal pallone. Garbutt deve andare a firmare tre volte al giorno alla caserma dei carabinieri e, tra una firma e l’altra, pipa alla mano, fa sempre un salto al campo sportivo.

Nel comune che all’epoca contava circa settemila abitanti gli appassionati di football non si fanno sfuggire l’occasione: dopo anni di amichevoli, competizioni estive e qualche campionato Ulic, viene fondato il club intitolato al letterato orsognese Vincenzo Simeoni. L’imprenditore locale Paolo Attardo finanzia la squadra e soddisfa tutte le richieste di mister Garbutt, ingaggiando alcuni tra i giocatori più quotati della zona, che hanno già fatto esperienza in divisione regionale e in Serie C.

Garbutt dirige gli allenamenti dei “lupetti”, come gli orsognesi ribattezzano la squadra, impartisce lezioni di football ai più giovani e prepara la formazione per la domenica. Però non compare mai, né nelle foto di squadra né sulle cronache che i corrispondenti dal paese cominciano a inviare regolarmente ai giornali che hanno un’edizione abruzzese. Frequenta l’osteria, si intrattiene in strada con i paesani, ha rapporti cordiali finanche con le autorità del posto: eppure ufficialmente non esiste. Non può neanche andare in panchina né tantomeno seguire la squadra in trasferta.


In ogni caso è il direttore d’orchestra di un undici decisamente competitivo, sebbene neofita. In teoria la Simeoni Orsogna dovrebbe essere la cenerentola del torneo, perché ai nastri di partenza ci sono Lanciano e Teramo che hanno appena rinunciato alla Serie C per motivi economici; Giulianova e Ortona che hanno vinto la divisione abruzzese negli anni precedenti; ci sono le squadre riserve di Chieti e Pescara; l’undici di Pratola Peligna che era affiliato alla Figc già nel 1925. La Simeoni di Garbutt lotta fino alla fine per il primo posto testa a testa con la squadra di Lanciano, allenato dall’ex portiere del Milan Dario Compiani. Lo scontro diretto che si gioca a Orsogna viene ricordato come un combattutissimo 0-0. La parte del piccolo Davide spetta ovviamente alla Simeoni, che finalmente gioca alla pari contro la squadra del centro di riferimento del comprensorio, che vanta una tradizione calcistica oramai ventennale. Tutto il paese accorre al campo sportivo, gremito anche di lancianesi. Di spettacolo se ne vede poco, ma di botte parecchie. Secondo qualcuno addirittura gli ultimi minuti non si giocano a causa di un’invasione di campo: un lancianese ingaggiato dalla Simeoni viene accusato di essersi venduto la partita, e ne nasce un parapiglia che coinvolge atleti e tifosi di entrambe le formazioni.

E mentre infuria la rissa che conclude la partita che può decidere il campionato, mister Garbutt, dopo anni sotto le luci della ribalta dei migliori palcoscenici dello sport italiano, resta dietro dietro le quinte a sbirciare una zuffa di paese su un polveroso campo dove è in ballo il primato regionale. L’avventura di Garbutt in Abruzzo si conclude di lì a poco, con lo sfollamento dell’ottobre 1943. A permettergli di sfuggire ai rastrellamenti dei nazisti è proprio Attardo, il presidente della Simeoni, che gli affida i documenti intestati ai propri genitori, con i quali il trainer inglese raggiunge l’Italia settentrionale. Passata la tempesta del conflitto, Garbutt torna a guidare il Genoa in Serie A, restando comunque lontano dai fasti dell’Anteguerra: con la Simeoni finita seconda, al tecnico inglese era sfuggito l’ultimo primo posto della carriera.

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Club Fabio Belli

Dundee, il derby dei vicini di casa

di Fabio Belli

Nella mappa infinita dei derby del mondo, quello di Dundee, nonostante una storia ultracentenaria, viene spesso snobbato. Eppure, la sfida tra il Dundee Football Club, fondato nel 1893, ed il Dundee United, costituito sedici anni dopo nel 1909, racchiude in sé una quantità di particolarità assolutamente considerevole.

Dundee è la quarta città della Scozia: dopo Glasgow, Edimburgo e Aberdeen, e nella stagione in corso è l’unico centro che può vantare un derby nella Scottish Premier League, con i Rangers ancora impegnati nella loro scalata post-fallimento, per tornare a disputare l’Old Firm contro il Celtic, e le formazioni della capitale rovinare a braccetto in First Division l’anno scorso. Ma le due squadre locali sono anche le uniche a poter vantare una particolarità assoluta a livello internazionale: gli stadi delle due squadre sorgono ai rispettivi estremi della stessa via (sono ad Avellaneda, in Argentina, Racing e Independiente sono vicini “di stadio” in questo modo).

Dens Park (per il Dundee Fc) e Tannadice Park (per il Dundee United) sono praticamente l’uno di fianco all’altro in linea d’aria. In tempi recenti è capitato che le due squadre giocassero in contemporanea (soprattutto quando il Dundee Fc era impegnato in First Division) e che le rispettive tifoserie si lanciassero qualche coro a poche centinaia di metri di distanza, soprattutto quando i rispettivi tabelloni luminosi portavano divertenti notizie sul risultato dell'”altra”.

D’altra parte va sottolineato come la rivalità tra i due club sia un po’ anomala per gli standard della Gran Bretagna, e soprattutto della Scozia, dove la divisione calcistica delle tifoserie si rispecchia anche il quella politica e religiosa (vedi l’Old Firm, ma anche la sfida tra Hearts e Hibs a Edimburgo). Quella tra i due club di Dundee nasce e finisce nel calcio, e non ci sono motivazioni di gruppo, e neanche di quartiere (essendo appunto i due stadi dislocati nello stesso identico punto della città), e dunque capita che nelle famiglie di Dundee al sabato ci si divida: padre e figlio minore a Tannadice, zio e figlio maggiore al Dens, tanto per dirne una.

Una rivalità che non ha nulla a che vedere con quella di Glasgow, dunque, e che in Italia può essere accostata a quella tra Genoa e Sampdoria. Sul piano sportivo, solitamente a Dens Park la fanno da padrone la nostalgia e l’orgoglio di essere nati quasi vent’anni prima dei rivali, oltre alla rievocazione del titolo (unico nella storia del club) del 1963, al quale fece seguito anche il raggiungimento della finale di Coppa dei Campioni. A Tannadice Park invece, oltre a vantare una presenza molto più costante in Premier League degli ultimi venti anni, possono vivere di ricordi più recenti, con l’epoca d’oro che risale agli anni 80: Jim McLean in panchina, il titolo del 1983, le vittorie nelle coppe nazionali e la finale di Coppa dei Campioni sfiorata nel celebre doppio confronto contro la Roma nel 1984. Ora resta l’orgoglio di rappresentare l’unico derby di Scozia ai massimi livelli: con passione e orgoglio per i propri colori, ma senza mai scordare le regole del buon vicinato.

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Allenatori Enrico D'Amelio

Franco Scoglio, un Professore in panchina

di Enrico D’Amelio

Uomo di mare, Professore e profeta del suo triste destino. Questo e tanto altro nella vita di Franco Scoglio, un po’ genio, un po’ pazzo, con una laurea in pedagogia messa nel cassetto per coltivare una passione ancor più grande e di una vita: quella della panchina. Nato a Lipari nel 1941, ha vissuto due carriere parallele da allenatore, fatte di innamoramenti, delusioni cocenti e ritorni di fiamma, nelle due città che più ha amato: Messina e Genova. 30 anni di carriera conditi da ben 8 esoneri e una dimissione, ma anche da imprese ai limiti dell’impossibile arrivate sui campi terrosi del profondo sud. Gentiluomo, Ronzulli, Papaleo, Rosaclerio, Geria, Polizzo, Babuscia, Arigò, Scignano, Sorace, Chiappetta era l’undici iniziale con cui condusse la Gioiese, nel lontano 1981/82, alla vittoria del campionato Interregionale, con un dominio del torneo dalla prima all’ultima giornata, che valse un ritorno in Serie C che mancava alla società calabrese dal 1948.

Non memorabili le prime due esperienze alla guida del Messina, con un sesto posto in C/1 e un esonero in C/2 nel corso degli anni ‘70. Al terzo tentativo, però, il Professore riuscì a scrivere la storia. L’anno era il 1984, la società giallorossa era stata appena rilevata da Salvatore Massimino e in rosa c’erano giocatori del calibro di Schillaci, Napoli e Catalano. Il primo anno arrivò il terzo posto, a soli 3 punti dalle vincitrici Catanzaro e Palermo. L’anno dopo, invece, nessuno poté fermare il cammino del Messina: trionfo con 45 punti e accesso al campionato di Serie B 1986/87. Altri due anni alla guida dei siciliani, per poi, dopo 17 anni vissuti tra Calabria e Sicilia, approdare in un’altra città di mare, questa volta lontano da casa: Genova.

Mai come allora, però, Franco Scoglio una casa la trovò davvero. “Morirò parlando del Genoa”, disse in un’intervista rilasciata negli anni ’90, a testimoniare quanto fosse indissolubile il suo legame con la città che l’aveva adottato. Mai, come a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, la Genova calcistica poté assurgere al ruolo di ‘Superba’, con i rossoblu condotti in A nel 1989 dal Professore e la Sampdoria a primeggiare in Italia e in Europa. Due anni indimenticabili sulla panchina della società più antica d’Italia, per poi tornare 3 anni dopo, nel 1993, con il tempo che sembrava essersi interrotto e un vero e sfortunato capitano, Gianluca Signorini, pronto a ricongiungersi col suo mentore. Lo stesso capitano che assieme ai suoi compagni aveva scritto forse la pagina più bella di storia del Genoa, andando ad espugnare Anfield nel 1992 in una gara di Coppa UEFA. Triste la fine del secondo passaggio in Liguria, con la retrocessione in Serie B nel 1995, dopo uno spareggio perso ai rigori contro il Padova. Poi, nel 2001, dopo un’esperienza di tre anni alla guida della nazionale tunisina, il ritorno. Tante le aspettative riposte in lui dalla sua gente, ma, questa volta, l’incantesimo sembra essersi rotto. Il Professore è oramai stanco e si congeda da Marassi dopo soli 4 mesi, regalando però ai suoi tifosi l’emozione più grande: battere la Sampdoria per 1-0 nel derby d’andata, con una commovente corsa sotto la Gradinata Nord a fine gara che sa di commiato. Quella notte, dopo anni di bocconi amari, la Genova rossoblu riesce a sentirsi padrona di una città che negli ultimi anni era stata troppo colorata di blucerchiato.

Lui, 4 anni dopo, morì d’infarto come aveva profetizzato, mentre litigava per il suo Genoa con il presidente Preziosi in diretta televisiva. Così aveva predetto e così è stato il suo destino. In panchina e nella vita, sempre il Genoa a scandire i titoli di coda di un uomo speciale, e, proprio per questo, geniale. Che ha avuto il merito, in trent’anni di carriera, di non fa capire a nessuno se si divertisse a prendere tutti in giro, dissacrando un mondo che si prende troppo sul serio, o che credesse davvero ad alcune frasi paradossali che amava ripetere: “Il Presidente non esiste, la società non esiste e la squadra non esiste: esistono solo tifoseria e tecnico”. Una volta in trent’anni, nella sua ultima ribalta, s’è avverato anche questo. Con i giocatori della Sampdoria che abbandonavano il campo con mestizia e con il popolo rossoblu intero a rendere omaggio al suo Profeta. Anche per questo, grazie, e buon viaggio, Professore.

“Sono un diverso perché non frequento il gregge; il sistema ti porta all’alienazione”.